Quello che Marx non vide
La critica al progetto scientifico marxiano nell’analisi post-althusseriana di Gianfranco La Grassa
Incipit al lavoro di Dan Kolog
Il lavoro di Dan Kolog è un chiaro riassunto della critica lagrassiana al marxismo. La Grassa, dopo anni di imbrigliamento strutturalista, sostiene che uno degli errori cardine di Marx sta nel aver categorizzato le classi in detentori dei mezzi di produzione, ovvero i capitalisti, e tutti gli altri che devono per vivere vendere la loro forza lavoro, i lavoratori; e di aver creduto che queste due classi si sarebbero andate uniformando. Ma nella società attuale è evidente che questa netta divisione non esiste e che alti dirigenti, managers, nonostante salariati, siano a tutti gli effetti capitalisti. Ci sono anche società multinazionali con capitale sociale così sfaccettato che il capitalista non si può più ricondurre ai pochi stereotipati padroni. Diluendo quindi il concetto di lavoratori salariati e di imprenditori viene meno, secondo La Grassa, il collante che giustificherebbe la coscienza di classe e di conseguente la Lotta di classe, vero e proprio cardine del marxismo.
Ma La Grassa in questo è un cronista più che altro. Nonostante i lavoratori non si sarebbero dovuti identificare come classe la Lotta di classe la hanno combattuta e persa! Si ricordi altresì che i classici partiti socialdemocratici della seconda internazionale avevano un rapporto diretto tra membri attivi e lavoratori. Così che Engels, che tutto era tranne che uno sprovveduto, addirittura fu spinto a credere che la enorme SPD avrebbe democraticamente soppiantato il regime guglielmino proprio dal punto di vista numerico. Questo perché una maggioranza parlamentare sarebbe equivalsa ad una maggioranza effettiva di lavoratori attivisti. Tra le due guerre avvennero due fatti, il forte indebolimento dei partiti socialdemocratici, ovvero la frattura con i comunisti e la discrepanza tra numero di membri e numero di elettori! Da questo punto in poi La Grassa può effettivamente salire in cattedra.
La Grassa però tende a non considerare nelle sue conclusioni post-strutturaliste che la produzione industriale si è spostata massicciamente fuori dalle economie, cosiddette, sviluppate, per qualche verso la classe media si è proletarizzata, ovvero impoverita e la classe operaia imborghesita. Intanto la ricchezza si è concentrata sempre più in meno mani. Allo stesso momento i partitoni nazionalcomunisti del secondo dopoguerra sono stati dei grandi contenitori del revisionismo più becero. I pochi anacronistici e “insignificanti” intellettuali ma coerenti come l’acciaio, alla Bordiga, facevano notare queste storture sicuramente non accettabili prima degli anni 30 del 900, ma per i filosofi “giusti” di Marx questi non erano che mummie vissute troppo a lungo.
Poi il carrozzone del comunismo sovietico è crollato, ma del resto i nostri filosofi dissero poi comodamente che era uno zombie da quando Chruščëv aveva sparato a zero sul padre della patria del socialismo reale. Molte cose sono accadute dalla fine del 56 all'89. Nelle economie mature la de-industrializzazione generava una tipologia di lavoratori sempre più specializzata in quanto la semplice manodopera veniva spostata altrove e la globalizzazione del lavoro faceva crollare il potere contrattuale. Finalmente dopo l'89, i lavoratori perdevano su due fronti: quello ideologico, di un socialismo reale, e quello economico, di un potere contrattuale non più vincolato trai confini nazionali. La globalizzazione non aveva prodotto un movimento lavoratore internazionale, ma aveva prodotto la frammentazione dei lavoratori e la crescita dell’esercito di riserva, ovvero dei disoccupati su scala globale. E allora i “giusti” filosofi di Marx sono diventati i giustizieri di Marx.
Oggi le merci continuano a non prodursi da sole e anche se chi le produce non si riconosce o addirittura non è una classe compatta ciò non toglie che quando la loro maggioranza è in una posizione di sofferenza e in una posizione di conflitto questo sarà conflitto sociale. Avendo buttato via Marx e il concetto di Lotta di classe questa guerra sociale sarà cosa? Guerra civile? Sarà guerra civile fine a se stessa e pronta a correre e ricorrere ciclicamente, non vi sarà che calcolo strategico non sarà che coercizione. Ma non era poi quello che i socialisti volevano combattere? Poveri loro...
Per il socialista del XIX secolo come per quello del del XXI secolo la società va rivoluzionata e questo deve avvenire per il bene della collettività. Per il socialista di oggi il marxismo di Marx è un punto cardine di aggregazione il quale può permettere di lavorare collettivamente su un piano rivoluzionario. Marx non va visto come un profeta e questo noi socialisti lo sappiamo. Marx presuppone un dopo Marx. Paul Mattick senior, sulla scia di Engels, sosteneva che il marxismo sarebbe stato superato solo con l’avvento del comunismo. In qualche modo ciò è vero anche oggi. La crisi del marxismo alla fine del XIX secolo ci insegna che il pensiero positivo non può arenarsi in schemi invariati, le peculiarità del XX secolo ci hanno insegnato che la storia prende un suo corso a volte inaspettato e tali accadimenti devono essere capiti e inglobati nel pensiero positivo stesso. Credere fedelmente in una dottrina monolitica ci renderebbe tanto puri quanto insignificanti anche se talvolta giusti tra i gusti. Sylos Labini parlava già di classi sociali più dinamicamente intrecciate del semplice schema marxista proletari contro borghesi, parlava di moti convettivi. Come per la genesi del valore così anche il concetto di classe è infinitamente più complesso degli schemi esemplificativi posti da Marx nella metà del XIX secolo, ciò non toglie che in Marx, pur semplificando l’oggetto a contendere, c’è una chiave imprescindibile per noi socialisti del XXI secolo e questa è l’inadeguatezza del sistema capitalista e la necessità di sovvertirlo.
Quindi, no! Buttare via il concetto rivoluzionario di Marx perché aspetti dell’analisi marxiana sono troppo schematici non è la soluzione. Marx nel XXI secolo non deve essere un profeta come il suo Capitale non deve essere la Bibbia. Senza i Rousseau e i Marx la critica positiva sarebbe anni luce indietro. Adattamento del pensiero socialista alle condizioni e conoscenze attuali non è annientamento del passato, ma è comprensione di esso, conosce è superare.
Cesco
Introduzione: La Grassa tra Marx e Althusser
Iniziamo questo breve articolo divulgativo con alcuni cenni biografici relativi all’autore di cui vogliamo parlare, Gianfranco La Grassa (vedi Fig.), che nasce a Conegliano (in provincia di Treviso) nel 1935. Terminati gli studi superiori, La Grassa lavora nell’industria enologica per alcuni anni; successivamente, stimolato da una corrispondenza con il noto economista marxista Antonio Pesenti, va a studiare a Parma nella facoltà di Economia e Commercio, dove si laurea con una tesi sulla modellistica dello sviluppo e sui problemi del dualismo economico. Diviene prima assistente e poi docente di Economia Politica nelle università di Pisa e di Ca’ Foscari a Venezia, insegnando fino al pensionamento avvenuto nel 1996. Nei primi anni degli studi universitari frequenta anche alcuni corsi di specializzazione, fra i quali quello presso la prestigiosa SVIMEZ (Associazione per lo SViluppo dell’Industria nel MEZzogiorno) relativo ai problemi della crescita economica. Nel 1970-71 è a Parigi alla École Pratique des Hautes Études dove segue le lezioni dell’economista marxista Charles Bettelheim, in particolare i suoi corsi su “Calcolo economico e forme di proprietà”, entrando così in sintonia con scuola marxista althusseriana. Da allora in poi si reca a Parigi quasi annualmente e approfondisce i suoi temi di ricerca seguendo per lungo tempo tale scuola. Dal 1953 al 1963 è assai vicino al Partito Comunista Italiano, ma poi se ne distacca per forti dissensi teorici e politici, soprattutto concernenti il cosiddetto “socialismo reale” e il dissidio URSS-Cina. In seguito, si muove sempre nella galassia politica alla sinistra del PCI, rimanendo per un certo tempo su posizioni marxiste-leniniste prossime al maoismo. Nonostante il riflusso degli anni ‘80 e il crollo dell’URSS nel 1991, La Grassa resta essenzialmente legato a una visione del mondo di schietta derivazione marxista post-althusseriana, anche se dopo il ‘96 1 accentua progressivamente il processo di decostruzione e di parziale ricostruzione delle categorie fondamentali del marxismo. Con il 2005 2 La Grassa, ormai settantenne ma ancora lucidissimo, compie un altro passo nel suo lungo percorso di ricostruzione di una teoria scientifica della società, mettendo in discussione questa volta non solo le interpretazioni postume di Marx, ma lo stesso pensiero originale marxiano. Tale excursus critico arriva a compimento nel 2020 con l’importante saggio “Da Marx in poi. Ripensiamo nuovi possibili percorsi” 3, da cui abbiamo tratto la gran parte delle brevi note che seguono. Della pars construens successiva 4 invece non parleremo, sia perché ancora in fieri sia per una scelta di concisione narrativa. D’altro canto, lo stesso La Grassa, oramai quasi novantenne benché estremamente attivo, ammette candidamente che non avrà più né le forze né il tempo per poter portare a termine la sua opera di ricostruzione teorica, affidata attualmente a un ben più giovane collaboratore, il politologo Gianni Petrosillo 5.
Tuttavia, prima di esporre i punti principali delle critiche lagrassiane a Marx e al marxismo, sarà necessaria una rapida presentazione di ciò che fu il “marxismo strutturalista” entro il cui perimetro prese le mosse la riflessione del nostro autore e della sua collega Maria Turchetto. Come può facilmente suggerire il nome stesso, il marxismo strutturalista (talvolta chiamato anche “marxismo althusseriano”) è un approccio alla filosofia marxista basato sul metodo dello strutturalismo, associato principalmente al lavoro del filosofo francese Louis Althusser e dei suoi studenti. È stato molto influente in Francia negli anni Sessanta e Settanta, e negli anni Settanta ha influenzato anche filosofi, politologi e sociologi al di fuori della Francia. Altri sostenitori del marxismo strutturalista furono il sociologo Nicos Poulantzas e l’antropologo Maurice Godelier. Però vari studenti di Althusser (per esempio Jacques Rancière) ruppero con il marxismo strutturalista alla fine degli anni Sessanta e agli inizi degli anni Settanta, spesso in concomitanza con il ‘68 francese, assai più in sintonia con la Scuola di Francoforte o con l’operaismo. In contrasto con altre forme di marxismo, Althusser sottolineava che questa dottrina era una scienza che esaminava le strutture oggettive ritenendo che il marxismo storicista e fenomenologico, che si basava sulle prime opere di Marx, fosse intrappolato in una “ideologia prescientifica”. Verso la metà degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, vari teorici marxisti presero a sviluppare descrizioni marxiste-strutturaliste dello Stato, del diritto e della criminologia. Il marxismo strutturalista contesta la visione strumentale secondo cui lo Stato può essere visto come il diretto servitore della classe capitalista dominante. Mentre la concezione strumentale sostiene che le istituzioni dello Stato sono sotto il controllo diretto dei membri della classe capitalista che occupano posizioni di potere statale, quella strutturalista difende l’idea secondo cui le istituzioni statali devono funzionare in modo da garantire la vitalità del capitalismo più in generale. In altre parole, le istituzioni statali devono far riprodurre la società capitalista nel suo complesso. Il dibattito tra marxisti strutturalisti e marxisti strumentali è stato caratterizzato dal celebre “confronto Miliband-Poulantzas” 6 ossia tra lo “strumentalista” Ralph Miliband e lo “strutturalista” Nicos Poulantzas. Gli strutturalisti ritengono che lo Stato in un modo di produzione capitalistico assuma una forma specificamente capitalistica, non perché particolari individui occupino posizioni di potere, ma perché lo Stato riproduce la logica della struttura capitalistica nelle sue istituzioni economiche, giuridiche e politiche. Quindi, da una prospettiva strutturalista si potrebbe sostenere che le istituzioni statali (comprese quelle legali) funzionino nell’interesse a lungo termine del capitale e del capitalismo, piuttosto che nell’interesse a breve termine dei membri della classe capitalista. Pertanto, lo Stato e le sue istituzioni possono avere un certo qual grado di indipendenza dalle élite della classe dominante capitalista. In altre parole, si può riassumere la questione affermando che il marxismo strutturalista sostiene che lo Stato funzioni per servire gli interessi a lungo termine della borghesia. Basandosi sulle opere di Friedrich Engels, i marxisti strutturalisti sostengono che lo Stato è un meccanismo per regolare il conflitto di classe, l’inconciliabile tensione tra proletariato e borghesia. Regolando questi antagonismi, piuttosto che cercando di eliminarli, cosa che generalmente si pensa essere impossibile senza una rivoluzione, lo Stato serve a stabilizzare il sistema capitalista nel suo complesso e a preservarne l’esistenza. Gli strutturalisti distinguono così tra interessi a lungo e a breve termine della classe capitalista per descrivere la necessità dello Stato nel sistema capitalistico. Gli interessi a breve termine della borghesia comprendono le politiche che influiscono sull’accumulazione del capitale nell’immediato futuro, come, per esempio, le agevolazioni fiscali, la riduzione dei salari minimi, i sussidi statali alle imprese ecc. I borghesi più “illuminati” sostengono però che quando lo Stato non favorisce gli interessi a breve termine della classe borghese, sta agendo per conto dei suoi interessi futuri. Di conseguenza, quando lo Stato sembra agire a favore del proletariato piuttosto che della borghesia (aumentando, per esempio, il salario minimo, ampliando i diritti del lavoro ecc.) sta in effetti servendo gli interessi del capitalismo, soddisfacendo le richieste dei lavoratori solo quanto basta per prevenire una serie di rivolte che potrebbe minacciare il sistema nel suo complesso.
Però più che da Poulantzas e dalla sua teoria dello Stato, La Grassa venne influenzato da Althusser, prima indirettamente tramite Bettelheim, e poi direttamente. Il pensiero althusseriano è assai complesso (essendo dotato di un suo proprio vocabolario) e attraversa varie fasi, per cui il lettore ci perdonerà se il resto di questa sezione introduttiva gli potrà sembrare alquanto schematico e sbrigativo 7, saltando per esempio la “teoria della costituzione del soggetto” e tutta la fase più recente del “materialismo aleatorio”. Althusser sostiene in vari suoi scritti [8,9] che il pensiero di Marx sia stato fondamentalmente frainteso e sottovalutato. Condanna aspramente varie interpretazioni e letture dell’opera di Marx (per esempio, quella storicista, quella idealista o quella economicista) perché non comprendono come, con la sua “scienza della storia”, ossia il materialismo storico, Marx abbia voluto costruire una visione rivoluzionaria del cambiamento sociale. Althusser ritiene che questi errori derivino dall’idea che l’intera opera di Marx possa essere compresa come una totalità intrinsecamente coerente. Al contrario, il pensiero di Marx conterrebbe piuttosto una radicale cesura, una “rottura epistemologica” (coupure). Sebbene le opere del giovane Marx siano legate alle categorie della filosofia tedesca e dell’economia politica classica, “L’ideologia tedesca” (scritta nel 1845 8) compierebbe un improvviso e inedito distacco. Questa rottura rappresenterebbe un passaggio dell’opera di Marx verso una “problematica” fondamentalmente diversa (cioè un distinto insieme di proposizioni e di domande centrali) e verso un diverso quadro teorico. Althusser ritiene infatti che lo stesso Marx non abbia compreso appieno il significato della propria opera e sia stato in grado di esprimerlo solo in modo obliquo, provvisorio e non sistematico. Tale cambiamento può essere rivelato solo da un’attenta e sensibile “lettura sintomatica” 9 dei testi marxiani. Il progetto althusseriano è quindi quello di aiutare i lettori a cogliere fino in fondo l’originalità e la potenza della straordinaria teoria di Marx, prestando attenzione tanto a ciò che non è detto quanto a ciò che è citato esplicitamente. Althusser ritiene che Marx abbia scoperto un nuovo “continente di conoscenza”, la Storia, analogo ai contributi di Talete alla matematica, di Euclide alla geometria o di Galileo alla fisica, in quanto la struttura della sua teoria è diversa da qualsiasi cosa proposta dai suoi predecessori, anche prossimi. Si ritiene che l’opera di Marx sia fondamentalmente incompatibile con i suoi predecessori perché è costruita su un’epistemologia innovativa che rifiuta la vecchia distinzione tra soggetto e oggetto. In opposizione a ciò che lui chiama “empirismo”, Althusser sostiene che la filosofia di Marx, ossia il materialismo dialettico, contrapponga alla teoria della conoscenza come “visione delle cose”, una teoria della conoscenza come “produzione dei fatti”. Secondo la classica visione “empirista”, infatti, il soggetto conoscente entra in contatto con un oggetto reale e ne svela l’essenza attraverso l’astrazione. Partendo dal presupposto che il pensiero abbia un legame diretto con la realtà, ossia una visione non mediata di un oggetto “reale”, l’empirista ritiene, seguendo Aristotele e la Scolastica, che la verità della conoscenza risieda nella corrispondenza del pensiero di un soggetto a un oggetto esterno al pensiero stesso. Al contrario, Althusser sostiene di trovare nascosta nell’opera di Marx una visione della conoscenza definita, in modo un po’ ossimorico, come “pratica teoretica”. Per Althusser, la “pratica teoretica” si svolge interamente nell’ambito del pensiero, elaborando “oggetti teorici” e non entrando mai in contatto diretto con l’oggetto reale che si intende conoscere. La conoscenza non si scopre, ma si produce attraverso tre “generalità”: 1) la “materia prima” delle idee, delle astrazioni e dei fatti prescientifici; 2) un quadro concettuale (ovvero una “problematica”) che si applica a questi; 3) il prodotto finito di un’entità teorica trasformata: la conoscenza concreta. In questa visione, la validità della conoscenza non risiede quindi nella sua corrispondenza a qualcosa di esterno a se stessa. Il materialismo storico di Marx è dunque una scienza con i suoi metodi di prova interni. Non è quindi governato da interessi sociali, di classe, ideologici o politici, ed è ben distinto dalle sovrastrutture. Oltre alla sua epistemologia unica e particolare, la teoria di Marx si basa su concetti, come forze produttive e rapporti di produzione, che non hanno riscontro nell’economia politica classica. Anche quando vengono adottati termini esistenti, ad esempio la “teoria del plusvalore”, la quale combina i concetti di rendita, di profitto e di interesse provenienti da David Ricardo, il loro significato e la loro relazione con gli altri concetti della teoria sono assai diversi. Tuttavia, l’aspetto più fondamentale della “rottura epistemologica” di Marx è il rifiuto dell’homo oeconomicus, ovvero dell’idea sostenuta dagli economisti classici che i bisogni degli individui possano essere trattati come un fatto, un dato indipendente dall’organizzazione economica. Per gli economisti classici, i bisogni individuali possono ben servire come premessa per una teoria che spieghi il carattere di un determinato modo di produzione e come punto di partenza indipendente per una teoria della società. Mentre l’economia politica classica spiega i sistemi economici come risposta ai bisogni individuali, l’analisi di Marx rende conto di una gamma più ampia di fenomeni sociali in termini di parti che interagiscono all’interno di una totalità strutturata. Di conseguenza, il primo libro del “Capitale” 10 di Marx ha un potere esplicativo maggiore rispetto all’economia politica, perché fornisce sia un modello di economia sia una descrizione della struttura e dello sviluppo dell’intera società. Secondo Althusser, Marx non si limiterebbe a sostenere che i bisogni umani siano in gran parte creati dall’ambiente sociale e quindi varino con il tempo e il luogo, piuttosto, egli abbandonerebbe l’idea stessa che possa esistere una teoria su come sono gli uomini che sia precedente a una qualche teoria su come essi siano diventati tali11. Sebbene Althusser insista spesso sull’esistenza della rottura epistemologica marxiana, in seguito affermerà che il suo verificarsi intorno al 1845 non è nettamente definito, poiché anche nel primo libro de “Il Capitale”, sulla scorta della nota tesi di Lucio Colletti 12, si trovano cospicue tracce di umanesimo, di storicismo e di hegelismo. Sostiene invece che solo la “Critica del programma di Gotha” 13 e alcune glosse marginali a un libro di Adolph Wagner 14 siano completamente scevre dall’ideologia umanistica. In linea con ciò, Althusser sostituisce nel 1976 la sua precedente definizione della filosofia di Marx come “teoria della pratica teoretica” con una nuova nozione di “politica nel campo della Storia” e di “lotta di classe nella teoria”, considerando la “rottura epistemologica” più come un processo che come un evento chiaramente definito, ossia il prodotto di una lotta incessante contro l’ideologia. Da ciò consegue che la distinzione tra ideologia e scienza non più sia assicurata una volta per tutte dalla “rottura epistemologica del 1845”.
A causa della convinzione di Marx che l’individuo sia un prodotto della società, Althusser sostiene che è inutile cercare di costruire una teoria sociale scientifica su una concezione preliminare dell’individuo umano. L’oggetto di osservazione non sono quindi i singoli elementi umani, ma piuttosto la “struttura”. A suo avviso, Marx non spiega la società facendo appello alle caratteristiche delle singole persone: le loro credenze, i loro desideri, le loro preferenze e i loro giudizi. Piuttosto, Marx definisce la società come un insieme di “pratiche” fisse. Gli individui non sono attori che fanno la propria storia, ma sono invece i “portatori” (Träger) di queste “pratiche”. Althusser utilizza questa analisi per difendere il materialismo storico di Marx dall’accusa di aver rozzamente posto una base (il livello economico) e una sovrastruttura (politica e culturale) “che si erge su di essa”, e di aver poi cercato di spiegare tutti gli aspetti della sovrastruttura facendo appello alle caratteristiche della base economica. Ma sarebbe un errore attribuire questa visione determinista ed economicista a Marx. Così come Althusser critica l’idea che una teoria sociale possa essere fondata su una concezione storica dei bisogni umani, allo stesso modo rifiuta l’idea che la pratica economica possa essere usata isolatamente per spiegare altri aspetti della società. Althusser ritiene che la base e la sovrastruttura siano interdipendenti, anche se si attiene alla classica concezione materialista marxista della determinazione da parte della base “in ultima istanza” (benché con qualche estensione e revisione). Il vantaggio delle “pratiche” rispetto agli individui umani come punto di partenza sta nel fatto che, sebbene ogni “pratica” sia solo una parte di una complessa totalità sociale, una “pratica” è una totalità a sé stante, in quanto consiste in un gran numero di parti di diverso tipo. Per esempio, la “pratica economica” include le materie prime, i mezzi di produzione, i singoli lavoratori ecc. Althusser concepisce quindi la società come un insieme interconnesso di queste totalità: “pratica economica”, “pratica politico-giuridica” e “pratica ideologico-culturale” ecc. Sebbene ogni “pratica” abbia un certo grado di autonomia relativa, insieme costituiscono un tutt’uno complesso e strutturato, detto con Lenin “formazione economico-sociale”. A suo avviso, tutte le “pratiche” dipendono l’una dall’altra. Ad esempio, tra i rapporti di produzione delle società capitalistiche vi sono l’acquisto e la vendita di forza-lavoro da parte, rispettivamente, dei capitalisti e dei lavoratori. Queste relazioni fanno parte della “pratica economica”, ma possono esistere solo nel contesto di un sistema giuridico che stabilisce gli agenti individuali come acquirenti e venditori. Inoltre, l’ordinamento capitalistico deve essere mantenuto con mezzi politici e ideologici. Da ciò si evince che gli aspetti della “pratica economica” dipendono dalla sovrastruttura e viceversa. Per il filosofo francese questo è il momento della riproduzione capitalistica e costituisce un ruolo importante della sovrastruttura.
Un’analisi concepita in termini di “pratiche” interdipendenti aiuta a concepire l’organizzazione della società, ma permette anche di comprendere il cambiamento sociale e fornisce quindi una teoria della Storia. Althusser spiega la riproduzione dei rapporti produttivi facendo riferimento ad aspetti della “pratica ideologica e politica” e, viceversa, l’emergere di nuovi rapporti di produzione può a suo parere essere spiegato con il fallimento di questi meccanismi. La teoria di Marx sembrerebbe presupporre un sistema in cui uno squilibrio tra due parti possa portare ad aggiustamenti compensativi ad altri livelli o, talvolta, a una grande riorganizzazione dell’intera totalità. Per sviluppare questa idea, Althusser si affida ai concetti di “contraddizione” e “non-contraddizione”, che, egli sostiene, siano illuminati dalla loro relazione con una totalità strutturata complessa. Le pratiche sono contraddittorie quando “stridono” l’una con l’altra e non-contraddittorie quando si sostengono a vicenda. Althusser elabora questi concetti facendo riferimento all’analisi di Lenin della Rivoluzione russa del 1917. Lenin sosteneva che, nonostante il malcontento diffuso in tutta l’Europa all’inizio del XX secolo, la Russia era il Paese in cui si era verificata la rivoluzione perché conteneva tutte le contraddizioni possibili all’interno di un singolo Stato. Nelle sue parole, essa era “l’anello più debole di una catena di Stati imperialisti” 15. Egli spiegò la rivoluzione in relazione a due tipi di circostanze: in primo luogo, l’esistenza in Russia di uno sfruttamento su larga scala nelle città, nei distretti minerari ecc., una disparità tra l’industrializzazione urbana e le condizioni arcaiche nelle campagne, nonché una mancanza di unità nella classe dirigente; in secondo luogo, una politica estera che faceva il gioco dei rivoluzionari, come nel caso delle élite che erano state esiliate dallo zar e che erano diventate socialiste e intellettualmente sofisticate. Per Althusser, questo esempio confermerebbe la sua idea secondo cui la spiegazione di Marx del cambiamento sociale è ben più complessa del risultato di una singola contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione, come sostenuto da molti marxisti ortodossi. Le differenze tra gli eventi in Russia e in Europa occidentale evidenziano che una contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione può essere necessaria, ma non sufficiente, per condurre alla rivoluzione. Le circostanze che hanno prodotto la rivoluzione in Russia erano tra loro eterogenee e quindi non possono essere viste come aspetti di un’unica grande contraddizione. Ognuna di esse era una contraddizione all’interno di una particolare totalità sociale. Da ciò Althusser conclude che il concetto di contraddizione in Marx è inseparabile dal concetto di totalità sociale strutturata in modo complesso. Per sottolineare che i cambiamenti nelle strutture sociali sono legati a numerose contraddizioni, Althusser descrive questi cambiamenti come “sovradeterminati”, usando un termine preso dalla psicanalisi di Sigmund Freud. Questa interpretazione permette di render conto del modo in cui molte circostanze diverse possano giocare un ruolo nel corso degli eventi e di come queste circostanze possano combinarsi per produrre cambiamenti sociali inaspettati ossia “rotture”. Tuttavia, Althusser non intende dire che gli eventi che determinano i cambiamenti sociali abbiano tutti lo stesso status causale. Pur essendo una parte di una totalità complessa, la “pratica economica” è una “struttura in posizione dominante”: gioca un ruolo importante nel determinare le relazioni tra le altre sfere, e ha maggiormente effetto su di esse di quanto queste ultime non ne abbiano su di essa stessa. L’aspetto più importante della società (per esempio, quello religioso nelle formazioni feudali e quello economico nelle formazioni capitalistiche) è chiamato “istanza dominante”, ed è a sua volta determinato “in ultima istanza” dall’economia. Per Althusser, la “pratica economica” di una società determina quale altra formazione sociale domini tale società nel suo complesso. La comprensione di Althusser della contraddizione nei termini di un nuovo tipo di dialettica tenta di liberare il marxismo dall’influenza e dalle vestigia della dialettica idealista hegeliana ed è parte integrante della posizione generale althusseriana schiettamente antiumanistica. Nella sua lettura, la comprensione marxista della totalità sociale non deve quindi essere confusa con quella hegeliana. Laddove Hegel vede le diverse caratteristiche di ogni epoca storica, l’arte, la politica, la religione ecc., come espressioni di un’unica essenza, Althusser ritiene che ogni formazione sociale sia “decentrata”, cioè che non possa essere ridotta o semplificata a un unico punto centrale.
Critica al concetto marxiano di “classe lavoratrice”
La Grassa, dopo aver speso una lunga parte della sua vita intellettuale a combattere varie versioni del marxismo diffusesi nel XX secolo 16, facendosi forte della lettura strutturalista althusseriana, comincia intorno all’inizio del XXI secolo a “fare i conti” con Marx stesso. La prima mossa che compie è quella di soppesare e vagliare il campo d’azione intellettuale del pensatore di Treviri, negando che sia oggigiorno rilevante come filosofo e come economista puro. Come filosofo non sarebbe sistematico, avrebbe eluso gli argomenti più importanti della filosofia (ontologia, epistemologia, filosofia della mente, etica, estetica ecc. 17), arrivando a non esplicitare mai nemmeno il suo modo di intendere alcuni termini fondamentali come “materia”, “materialismo”, “contraddizione”, “dialettica” ecc. Come economista puro, nonostante alcuni brillanti perfezionamenti della teoria di Ricardo 18 circa la rendita, il profitto e le crisi cicliche, Marx non riuscirebbe veramente a fuoriuscire dalla concezione classica dell’economia politica, da un lato mancando completamente la novità della rivoluzione marginalista che proprio nel 1870 vedeva la luce, e dall’altro invischiandosi in una serie di pseudo-problemi quali la celebre “trasformazione dei valori in prezzi”, l’ambiguo “schema di riproduzione allargata” e la fantomatica “caduta tendenziale del saggio di profitto”. La cosa non deve meravigliare più di tanto il lettore benché La Grassa abbia dedicato allo studio di Marx una grandissima parte dei suoi sforzi. Anzi, sotto un certo punto di vista, ciò è perfettamente conseguente all’impostazione strutturalista succitata, una volta portata alle estreme conseguenze. Althusser stesso sostiene infatti che Marx è il Galileo di una nuova scienza, che supera le mere sociologia, politologia e Storia, integrandole tra loro e forgiando così una dottrina sociale nuova finalmente obiettiva e non ideologica. È del tutto evidente che in questa visione la filosofia arretri in secondo piano divenendo essenzialmente irrilevante, così come non è importante conoscere le opinioni filosofiche di Newton, Lavoisier, Darwin o Einstein per apprezzarne l’opera. Ma anche l’economia politica pura diventa un’impresa alquanto secondaria, al più un modello empiricamente utile nel breve termine, in quanto contestata alla radice nei suoi postulati iniziali (per esempio, quello dell’homo oeconomicus, individualista, edonista e utilitarista) così pesantemente viziati dall’ideologia. La Grassa riconosce quindi l’enorme merito di Marx nella fondazione delle scienze storico-sociali, ma non per questo è disposto a idolatrarlo e a trasformarlo in un profeta infallibile, anche perché come scienziato Marx ebbe a disposizione un “laboratorio sociale” tutto sommato assai angusto, ossia quello dell’Inghilterra moderna dall’inizio della Rivoluzione industriale fino, approssimativamente, al 1867, l’anno di pubblicazione del primo libro de “Il Capitale” 19, il punto più elevato di tutta la produzione scientifica marxiana secondo il nostro economista trevigiano.
Il primo punto di attacco è proprio il concetto marxiano di “classe lavoratrice” che La Grassa riconduce alla sua radice scientifica sfrondandolo di tutti i connotati pauperistici (i “poveri” contro i “ricchi”, i “molti” contro i “pochi”) o sociologici (gli operai industriali, le “tute blu”, i subordinati ecc.) i quali poco o nulla hanno a che vedere con il modello marxiano. Per Marx la classe lavoratrice è sempre e soltanto quella che produce senza possedere i mezzi di produzione e che, in quanto tale, fronteggia necessariamente la classe capitalista, proprietaria per l’appunto della totalità dei mezzi di produzione. Il rapporto tra le due classi è giuridicamente (ma solo giuridicamente…) un rapporto tra liberi ed eguali, in quanto retto, differentemente dallo schiavismo e dal feudalesimo, dalla libera volontà di entrambe le parti, le quali pattuiscono che, a fronte di un salario sufficiente (nel contesto sociale dato) alla sopravvivenza e alla riproduzione fisica dei lavoratori, l’intero prodotto verrà ceduto ai capitalisti. Da tale definizione non può che conseguire quanto Marx, in modo a prima vista sorprendente, precisa nel III libro de “Il Capitale” (sez. V, cap. 27):
«In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero» (sottolineatura nostra) 20.
Ossia, Marx ci conferma che la classe lavoratrice è assolutamente trasversale al processo produttivo stesso e alle eventuali differenze salariali e di tenore di vita delle varie figure professionali in esso coinvolte, siano esse rappresentative di dirigenti, di funzionari, di impiegati, di tecnici, di operai oppure di semplici apprendisti. Per questo motivo l’autore del III libro de “Il Capitale” appare così interessato alle nascenti società per azioni: pensa infatti a una lenta ma irreversibile trasformazione dei capitalisti in una classe ormai lontana dal mondo della produzione reale, fatta di parassiti “tagliatori di cedole di dividendi” o, tutt’al più, di banchieri ed altri “maghi” della speculazione borsistica e finanziaria. Figure certamente autentiche, concretizzatesi soprattutto nella seconda metà del XIX secolo, ma chiaramente non rappresentative dell’intera classe capitalista che, almeno in determinati settori, continua a esprimere un buon numero di imprenditori innovatori di tipo “schumpeteriano”. D’altronde Marx non fa mistero della sua visione del futuro del capitalismo, quando ipotizza la formazione di una classe di produttori, disciplinata, compatta e granitica dietro i suoi “direttori d’orchestra” (gli ingegneri direttori della produzione), quindi in grado di espropriare in modo rapido la supposta classe dei capitalisti “parassiti” nel corso della rivoluzione sociale. Scriverà infatti nel libro I de “Il Capitale” (cap. 24, par. 7):
«(…). Con la costante diminuzione del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce anche il peso della miseria, dell'oppressione, dell'asservimento, dell'abbrutimento e dello sfruttamento. Ma cresce anche l’insofferenza di una classe operaia in costante aumento e che è formata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalista. Il monopolio del capitale diventa un ostacolo e una costrizione per il processo produttivo che si è sviluppato assieme al monopolio stesso e subordinato ad esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro capitalista. E questo viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalista. Gli espropriatori vengono espropriati». (sottolineature nostre) 21.
Purtroppo, come vedremo in maggior dettaglio nel prossimo capitolo, l’evoluzione stessa del capitalismo mostrerà il carattere intrinsecamente illusorio dell’idea marxiana di una classe di produttori compatta “dal dirigente fino all’ultimo giornaliero”: i dirigenti e i quadri medio-alti del mondo della produzione, benché anch’essi stipendiati, faranno sempre e inevitabilmente causa comune con la proprietà capitalista. Il cupo sospetto dell’anarchico Michail A. Bakunin, che accusava nel 1872 Marx ed Engels 22 di preparare un “socialismo di Stato gestito da ingegneri”, si rivelò un’illusione: vuoi per l’estrazione sociale, vuoi per lo stile di vita, la saldatura tra la pletora degli “strumentisti” e i pochi “direttori d’orchestra” non avvenne mai.
Secondo La Grassa questo punto delicatissimo lo intuirono in qualche modo solo Lenin, specie durante la NEP, e Mao Zedong nel suo saggio intitolato “Delle contraddizioni tra il popolo” (1957) 23, ma non ebbero il coraggio di criticare apertamente Marx che, nel frattempo, era stato coperto da un’aura d’infallibilità para-religiosa e sicuramente non scientifica. Soprattutto il leader bolscevico almeno in due occasioni si scontrò duramente con l’insufficienza della concezione marxiana della classe lavoratrice e, di conseguenza, del concetto di rivoluzione sociale. In primo luogo, nel 1902, quando nel “Che fare?” 24 Lenin postula la necessità di un partito d’avanguardia in cui la coscienza rivoluzionaria provenga dall’esterno rispetto alla classe lavoratrice, ossia dagli intellettuali rivoluzionari comunisti d’estrazione borghese, cosa largamente ignota a Marx ed Engels. Secondariamente quando, nel periodo 1918-1923, parla diverse volte (e con amarezza) degli “specialisti borghesi” (dirigenti e quadri industriali), importanti fonti di conoscenza e insegnamento, ma anche potenziali sabotatori, comunque da attrarre nell’orbita della Russia sovietica mediante la promessa di lauti guadagni.
A questo punto uno scienziato sociale intellettualmente onesto, suggerisce tra le righe La Grassa, si troverebbe davanti a un bivio dove le due strade alternative sono entrambe accidentate e irte di difficolta: o si rinuncia all’idea che il modello marxiano del modo di produzione capitalista basato sull’antagonismo delle due classi sociali sia una descrizione corretta e completa, cercando magari d’integrarlo e di arricchirlo con altri approcci sociologici complementari (per esempio, presi da Max Weber o da Émile Durkheim, come fece Anthony Giddens nel 1971 25); oppure si prosegue con il modello marxiano ma si rinuncia apertis verbis a postulare il carattere intrinsecamente rivoluzionario della classe lavoratrice, la quale nella sua missione storicamente progressiva dovrebbe essere necessariamente sostituita, nel solco di un certo comunismo del XX secolo, da un’alleanza strategica tra lavoratori a basso reddito, coltivatori diretti, piccola borghesia e, soprattutto, ceto intellettuale rivoluzionario di varia estrazione. Qui non saremmo lontani dal “blocco delle quattro classi” di maoista memoria ma, comunque, già molto distanti dal perimetro scientifico del pensiero marxiano. Per tale motivo, almeno in questa sede, non andremo oltre.
Un solo capitalismo o vari capitalismi?
Il problema del modello marxiano sottolineato nella precedente sezione e legato a una visione alquanto idealizzata ed eccessivamente ottimista della classe lavoratrice, viene, secondo La Grassa, a saldarsi a un’altra grave lacuna dell’analisi di Marx, forse ancora più seria della precedente: l’incapacità del modello di adattarsi alla periodizzazione del capitalismo o forse, più correttamente, dei capitalismi. Naturalmente nessuno può seriamente imputare a Marx, che, come si è già detto, aveva come suo “laboratorio sociale” l’Inghilterra della metà del XIX secolo con un capitalismo ancora di tipo essenzialmente “manchesteriano” 26, l’incapacità di predire l’esatta evoluzione del capitalismo mondiale nei centocinquant’anni successivi. Come vedremo non è questo il punto. La questione è un’altra: qual è la valenza esplicativa del modello marxiano, basato sul concetto centrale di classe capitalista quale detentrice esclusiva dei mezzi di produzione, una volta applicato alle due principali forme successive a quella manchesteriana: il capitalismo cosiddetto oligopolista (approssimativamente dal 1870 al 1945) e quello manageriale (dal 1945 ai giorni d’oggi)?
La risposta non va cercata tanto in Marx, che nel periodo dal 1870 alla sua morte nel 1883 scrive abbastanza poco di economia 27, quanto piuttosto nei lavori principali della successiva “scuola economica marxista”, soprattutto in quelli di Rosa Luxemburg 28, Rudolf Hilferding 29, Vladimir I. Lenin 30 e Nikolaj I. Bucharin 31. In maniera diversa e con prospettive non sempre compatibili tra loro, questi autori cercarono di applicare in maniera abbastanza “ortodossa” le categorie del modello marxiano alla nuova realtà capitalistica oligopolistica, con qualche aggiustamento, ma senza cedere alle facili lusinghe del radicale revisionismo bernsteiniano. In particolare, la Luxemburg indaga i legami tra grande capitale, militarismo imperialista e spinte coloniali, mentre Hilferding evidenzia, almeno per il mondo mitteleuropeo, la nascita del cosiddetto “capitale finanziario”, ossia della saldatura tra capitale bancario e capitale industriale, con il primo dominante sul secondo. Bucharin invece legge la Grande Guerra come l’effetto della competizione sul piano internazionale dei giganteschi oligopoli, protetti dai loro Stati di riferimento, per l’accesso ai mercati e alle materie prime, mentre Lenin compie una sintesi magistrale di tutte le tematiche precedenti arrivando a concepire l’imperialismo come una nuova e superiore fase del modo di produzione capitalistico oramai affermatosi al livello planetario. Benché non manca un certo numero di prese di distanza da “Il Capitale” (specie per ciò che concerne la variazione del tasso di profitto e l’andamento delle crisi cicliche), gli studi economici a cui abbiamo fatto riferimento restano essenzialmente fedeli alla visione marxiana, in quanto assegnano alla proprietà dei mezzi di produzione il ruolo centrale nel processo di accumulazione capitalistica, pur evidenziando che altri fattori (per esempio, l’accesso alle materie prime strategiche e gli sbocchi su mercati esteri “protetti”) cominciano a svolgere un ruolo di primaria importanza. Tale visione rimase più o meno quella ufficiale del movimento operaio (sia “socialista” che “comunista”) almeno fino alla metà degli anni ’50, quando, soprattutto dopo la pubblicazione del “Monopoly Capital” 32 di Paul Baran e Paul Sweezy, i marxisti scoprirono la realtà del capitalismo oligopolistico anglosassone e la sua essenziale irriducibilità agli schemi hilferdinghiani basati sulla subordinazione, tipicamente franco-tedesca, della grande industria al mondo bancario e assicurativo. A questo punto comincia a prender corpo l’espressione un po’ vaga di “neocapitalismo”, tradotta subito nell’ambito del linguaggio marxista ortodosso come “capitalismo monopolista di Stato” 33, in modo tale da sottolineare da un lato il crescente interventismo dello Stato nell’economia dei paesi occidentali, ma dall’altro anche la totale subordinazione dell’apparato statale agli interessi strategici dei grandi gruppi monopolistici, sia nazionali sia appartenenti alle imprese multinazionali con sedi in Paesi dominanti (USA, Gran Bretagna, Francia ecc.). Si può ben vedere che a questo livello non siamo molto lontani dalla concezione leniniana dell’imperialismo nonostante una distanza di quasi mezzo secolo. In realtà alla gran parte dei marxisti del secondo dopoguerra era sfuggita completamente la seconda trasformazione capitalistica, quella dalla fase oligopolista alla fase manageriale. Iniziata un po’ in sordina negli Stati Uniti nel periodo appena precedente alla Grande Crisi del ’29, essa si propaga in maniera abbastanza rapida nell’Europa Occidentale e in Giappone durante la fase della ricostruzione postbellica, per poi dilagare in tutto il mondo con la globalizzazione degli anni ’90 del XX secolo. La Grassa sostiene che, se si eccettua l’ex-trotzkista James Burnham con la sua “Managerial Revolution” 34del 1941, il marxismo teorico è quasi completamente fuori sintonia rispetto a questa seconda trasformazione. Anzi, anche nello stesso Burnham, che aveva subito certamente l’influenza del marxista libertario Bruno Rizzi 35, la confusione tra la “rivoluzione manageriale” nel capitalismo maturo e il “collettivismo burocratico” nei paesi arretrati del cosiddetto “socialismo reale” è notevole, e ciò gli impedisce di portare a compimento la sua pur interessante analisi.
Ma in cosa consisterebbe la “rivoluzione manageriale” del capitalismo e perché essa segnerebbe, almeno secondo La Grassa, una grave débâcle del modello marxiano di società capitalista? Si tratta in buona sostanza del divorzio tra proprietà e gestione nelle imprese di grandi dimensioni, dove la prima, rappresentata da un consiglio di amministrazione formato dai capitalisti più significativi, delega ad amministratori (detti appunto “delegati”) l’effettiva attività imprenditoriale, remunerandoli annualmente in base ai risultati economici ottenuti. Tale separazione comporta una serie di differenze molto marcate rispetto non solo al capitalismo manchesteriano, ma anche a quello oligopolista. Da un lato i manager, anche se talora vengono cooptati tra i veri e propri capitalisti (per esempio mediante il sistema delle “stock option”), sono in realtà il più delle volte “funzionari del capitale” stipendiati, distanti eredi di quegli ingegneri che Marx immaginava come possibili “direttori d’orchestra” della classe operaia rivoluzionaria. Nulla di più lontano: i manager moderni sono fieri avversari dei lavoratori, forse ancora più dei detentori dei pacchetti azionari, in quanto le loro laute prebende sono spesso funzione delle effettive capacità di comprimere i salari e di eliminare la manodopera ritenuta temporaneamente in eccesso. Secondariamente, il divorzio tra proprietà e gestione rende la prima sempre meno cruciale nel meccanismo di funzionamento del capitalismo contemporaneo: nascono addirittura le agguerrite “public company” (come, per esempio, la celeberrima Alphabet Inc. di “Google”) in cui la proprietà azionaria è diffusa capillarmente al livello sociale e non presenta quindi cospicui “nòccioli proprietari”, ma non per questo tale azienda risulta meno “capitalistica” di altre dall’assetto più tradizionale. Appare dunque evidente che la grande enfasi marxiana sulla classe dominante proprietaria dei mezzi di produzione non sia più completamente giustificata e, soprattutto, non aiuti più molto a comprendere l’evoluzione del capitalismo contemporaneo. Ma in ultimo vi è un aspetto del capitalismo manageriale che è ancora più sconcertante dei precedenti: se il capitalismo manchesteriano era tutto fondato sull’introduzione di nuovi macchinari atti a moltiplicare la produttività del lavoro salariato, mentre quello oligopolistico affiancava alle innovazioni tecnologiche l’aspetto bancario e finanziario, nonché il momento politico dell’accesso preferenziale alle materie prime e ai mercati di vendita protetti, il capitalismo manageriale porta a una vera e propria saldatura dell’ambito strutturale economico con quello delle sovrastrutture politico-militari (partiti politici, apparati burocratici statali, forze armate ecc.) e ideologico-culturali (mezzi di comunicazione, maître à penser produttori di ideologie ecc.). Il tutto in modo così capillare da rendere quasi impossibile la distinzione, così fondamentale nel pensiero marxiano, tra la base economica strutturale e le sovrastrutture politiche, giuridiche, culturali e ideologiche. Questo ovviamente non deve far pensare in alcun modo a un “super-imperialismo” pacificato di kautskiana memoria 36. All’opposto, lo scontro tra i vari conglomerati capitalisti continua e addirittura si esacerba: se nell’epoca manchesteriana è la concorrenza basata sui prezzi a farla da padrona e in quella degli oligopoli sono l’accesso al credito e la proiezione politico-militare garante di sbocchi e materie prime le armi principali della contesa, ora si è giunti a un vero e proprio conflitto strategico globale senza esclusione di colpi, dove la produzione di beni e servizi, gli sviluppi scientifico-tecnologici, le azioni politiche e militari nonché la fabbricazione di ideologie si intersecano sia sul piano squisitamente nazionale che su quello mondiale. Su quest’ultimo la complessa dialettica tra Paesi dominanti, sub-dominanti e dominati riscrive la grammatica del concetto di imperialismo della tradizione leninista, riverberandosi ovviamente anche sui rapporti tra le classi dirigenti dei vari Paesi in questione. In questa sede non possiamo ovviamente dilungarci sulla nuova categoria lagrassiana del “conflitto strategico”, limitandoci a suggerire al lettore interessato lo studio dei vari libri del nostro autore successivi al 2005 37,38.
4) Al di là della lotta di classe
La dettagliata analisi del nuovo “conflitto strategico” operata da La Grassa conduce il nostro autore a riallacciarsi a una sua vecchia polemica che lo aveva visto contrapposto negli anni ’60 del XX secolo alle tesi dell’operaismo italiano. Secondo questa corrente del marxismo 39, che a parere degli althusseriani italiani (La Grassa, Turchetto e Illuminati) riduce il pensiero di Marx a poco più di un commento del celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse 40, la lotta di classe tra lavoratori e capitalisti è centrale non solo dal punto di vista sociale, ma anche da quello dell’innovazione tecnologica. Specie secondo Raniero Panzieri è principalmente il perenne e mai sopito conflitto tra le due classi a spingere gli imprenditori a introdurre ogni sorta di misura “labour saving” allo scopo di neutralizzare, o comunque di inibire, il vantaggio strategico dei lavoratori in tale conflitto. In questo modo gli operaisti vedevano proprio la lotta di classe alla base delle principali innovazioni tecnologiche (meccanizzazione, motorizzazione, elettrificazione ecc.) e organizzative (taylorismo, fordismo ecc.) del capitalismo 41. La Grassa, sulla scorta di ampie citazioni dei libri I 42 e III 43 de “Il Capitale”, confuta (o comunque indebolisce fortemente) le argomentazioni di Panzieri, mostrando come secondo lo stesso Marx è la lotta tra i capitalisti per l’ottenimento dei cosiddetti “extraprofitti” a spingere all’introduzione delle innovazioni tecnologiche. Infatti, supponendo per un certo periodo che un determinato bene abbia un prezzo fisso, allora chi riesce a produrre tale bene con un contenuto di valore-lavoro minore della media, si accaparra una fetta di profitto in eccesso rispetto a quanto gli spetterebbe in base al tasso medio di profitto r. Tale meccanismo, che a lungo andare secondo Marx è responsabile della caduta del tasso medio di profitto, è spiegato in modo divulgativo ma completo nella Ref. 44. Ora, in un quadro del genere il ruolo del proletariato e della lotta di classe non è nullo, poiché serve ad opporsi alla crescita del saggio di plusvalore m (cosa che, se non contrastata, compenserebbe la tendenza di r a diminuire), ma, come si può ben vedere, non è affatto centrale.
La Grassa tende progressivamente a generalizzare tale approccio, indicando come, passando da una fase del capitalismo alla successiva, la lotta tra capitalisti cambi forma, (abbandonando per esempio la mera concorrenza basata sui soli prezzi di produzione), ma non diminuisca d’intensità e, soprattutto, rimanga sempre il motore principale di tutte le trasformazioni sociali. Nell’ultima fase del capitalismo, quella manageriale di cui si è detto sopra, tale lotta appare nella forma del “conflitto strategico” globale, dove il combattimento avviene senza esclusione di colpi e si gioca contemporaneamente sul piano economico-finanziario, su quello politico-militare e perfino su quello ideologico-culturale 45. Ancora più che nei casi precedenti, qui non è possibile non constatare il ruolo periferico, ancorché reale, dell’antagonismo tra lavoratori e capitalisti all’interno dell’attuale conflitto strategico.
A questo punto, dopo una pluriennale riflessione, La Grassa è pronto a compiere il passo decisivo, il vero e proprio “attraversamento del Rubicone” per un marxista: la rinuncia all’idea che la lotta di classe sia l’unico (o comunque il principale) motore del divenire storico dell’uomo. Tale idea, che Marx esprime insieme ad Engels con una chiarezza adamantina nel “Manifesto del Partito Comunista” (cap. I) 46, non necessita in effetti di alcuna spiegazione:
«La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato» (sottolineatura nostra).
Se si eccettua la fase remota del cosiddetto “comunismo primitivo” (che a parere di La Grassa non è certo neppure che sia davvero mai esistito), per Marx ed Engels oltre l’ipotesi materialista, in effetti già avanzata dal positivismo francese (cfr. per esempio i lavori di Auguste Compte e Hyppolite Taine), è la dinamica delle classi sociali la chiave per la comprensione dell’evoluzione storico-sociale umana. Anche quando non appare chiaramente alla superficie, è essa la vera forza motrice delle trasformazioni, degli accordi e dei conflitti tra i vari raggruppamenti umani, anche di quelli apparentemente lontanissimi dalle classi sociali, come i gruppi etnici, le confessioni religiose, le compagini statali ecc. Per il nostro pensatore trevigiano tale tesi è oggigiorno insostenibile: Marx avrebbe selezionato alcuni periodi ad hoc del modo di produzione antico (per esempio, la storia della Roma tardo-repubblicana), di quello feudale (gli scontri tra nobili, magnati e artigiani nei comuni italiani e fiamminghi del XIII e XVI secolo) e di quello capitalistico (i sommovimenti operai nella Gran Bretagna del Cartismo), dove effettivamente la lotta tra le classi fu condotta a livelli di elevata intensità, e ne avrebbe indebitamente generalizzato i risultati all’intera durata millenaria dei successivi modi di produzione occidentali (antico, feudale e capitalistico). In realtà secondo La Grassa non è in generale possibile isolare una singola causa del divenire storico-sociale e, al fianco certamente della lotta di classe, i conflitti etnico-religiosi non possono mai essere ridotti a semplici epifenomeni, ma devono mantenere la loro sfera di autonomia andando a comporre, come suggerito più di un secolo fa da Max Weber e da Vilfredo Pareto, un quadro complesso e integrato che dia davvero ragione dei fenomeni storici, politici e sociali del progresso umano senza scorciatoie. Marx, avrebbe quindi il merito imperituro di aver sviscerato, praticamente primo fra tutti (insieme al meno noto Constantin Pecqueur), l’importanza del conflitto tra le classi sociali, ma non avrebbe di certo dimostrato in modo inconfutabile il suo ruolo di assoluto predominio rispetto ad altre possibili cause delle dinamiche sociali.
5) Conclusioni molto provvisorie
Non è semplice scrivere conclusioni minimamente sensate al termine di questa esposizione divulgativa, inevitabilmente incompleta e veloce, delle critiche di La Grassa al paradigma scientifico marxiano. Ovviamente si tratta di questioni della massima importanza, sia teorica (si pensi solo alla rilevanza di Marx nello sviluppo delle scienze sociali, dell’analisi storica e della politologia), sia pratica; anche perché La Grassa non è certo un esponente di quei “nouveaux philosophes” degli anni ‘80 per i quali una superficiale quanto supponente critica a Marx e al marxismo unita a un’adesione quasi di maniera al pensiero neoliberale costituivano un vero e proprio segno distintivo. All’opposto, si tratta di un intellettuale che ha dedicato tutta la sua vita allo studio, alla comprensione e alla spiegazione di Marx e del marxismo, e che quindi non dispensa critiche a cuor leggero, ma al contrario, pone problemi di una densità teorica tale (paragonabili nel quadro italiano forse solo a quelli posti da Luci Colletti alla fine degli anni ‘70 47) da lasciar basito nel 2012 anche un filosofo marxista acuto e tutt’altro che ottusamente “ortodosso” come Costanzo Preve, che pure con La Grassa aveva collaborato per vari anni 48. Per Preve il sostanziale abbandono del marxismo da parte di La Grassa è la conclusione, ovvia anche se sofferta, della lettura althusseriana di Marx portata alle sue estreme conseguenze: un marxismo senza filosofia critica e dialettica, ridotto a sola scienza sociale e politica, non può non esser risucchiato, lentamente ma inesorabilmente, nel solco della sociologia e della politologia tradizionali. Non commenteremo queste affermazioni che presuppongono una competenza filosofica sinceramente fuori dalla nostra portata, ma che ci pare ripropongano mutatis mutandis l’interrogativo su Marx “più critico o più scienziato” già ben espresso dal filosofo fenomenologo Pier Aldo Rovatti nel lontano 1973 49.
Quello con cui mi preme concludere è, ben più modestamente, è un accorato (e forse ingenuo) appello a “non gettare via il bambino socialista con l’acqua, ipoteticamente sporca, marxista”. Il rischio è più che palpabile soprattutto se il marxismo, ormai considerato logoro e consunto, dovrà essere irrobustito con vigorose cure ricostituenti basate sui contributi di Durkheim, Pareto, Weber, Schumpeter, Polanyi, Sraffa ecc. Infatti, come non ricordare il pessimismo di Pareto, teorico della ineludibile circolazione delle élites, o il conservatorismo liberale di Schumpeter, che identifica inevitabilmente socialismo e statalismo o, addirittura, il lucido fatalismo di Weber con le sue inquietanti metafore sociali. In particolare, abbiamo in mente quella che il sociologo tedesco definì la “gabbia d’acciaio”, riferita alle costrizioni provenienti dall’economia capitalistica e dalla burocrazia, le quali nella sfera pubblica ci obbligano a osservare regole, norme e convenzioni che rendono la nostra società ben più “repressiva” rispetto a quelle premoderne, caratterizzata come è dall’alienazione derivante dal lavoro e da una pletora di malattie psicologiche indotte dalla inibizione di pulsioni e di istinti. Dunque, almeno per Weber, saremmo tutti quanti intrappolati in una “gabbia d’acciaio” impalpabile, ma praticamente impossibile da scardinare.
In conclusione, alla luce di questo rischio obiettivamente neo-conservatore non possiamo non ricordare come il socialismo sia nato e si sia sviluppato ben prima di Marx ed Engels; abbia tratto indubbiamente un enorme beneficio dall’opera di questi due geniali pensatori del XIX secolo che (preceduti parzialmente dai soli Proudhon e Pecqueur) lo avvicinarono al mondo dell’economia, della sociologia e della critica storica; ma sicuramente sopravviverà al superamento e all’inevitabile oblio del marxismo. Parafrasando il titolo di un’antologia di scritti 50 del socialista libertario italiano Francesco Saverio Merlino, fiero ma leale avversario del marxismo e dei marxisti, ricordiamo al lettore che ci sarà sempre avanti a noi, almeno finché durerà il capitalismo, uno spazio sconfinato per “il socialismo senza Marx”!
Dan Kolog
Bibliografia Minima
1 G. La Grassa, “Lezioni sul capitalismo” (Bologna, CLUEB, 1996).
2 G. La Grassa, “Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin”, (Roma, Manifestolibri, 2005).
3 G. La Grassa, “Da Marx in poi. Ripensiamo nuovi possibili percorsi” (Milano, Mimesis, 2020).
4 cfr., per esempio, G. La Grassa, “Un nuovo percorso teorico” (Chieti, Solfanelli, 2023).
5 cfr., per esempio, G. La Grassa e G. Petrosillo, “Per una forza nuova” (Chieti, Solfanelli, 2021).
6 C. W. Barrow, “Toward a Critical Theory of States: The Poulantzas-Miliband Debate After Globalization” [Albany (NY), State Univ. of New York Press, 2016].
7 cfr. la voce “Louis Althusser” di Wikipedia in lingua inglese da cui prendiamo ispirazione per quanto scritto nella seconda parte della nostra sezione introduttiva.
8 K. Marx e F. Engels, “L’ideologia tedesca” (Roma, Ed. Riuniti, 1967).
9 cfr., per esempio, L. Althusser ed É. Balibar, “Leggere il Capitale” (Milano, Feltrinelli, 1968).
10 K. Marx, “Il Capitale – Libro I” (Roma, Ed. Riuniti, 1970).
11 L. Althusser, “Per Marx” (Roma, Ed. Riuniti, 1973).
12 L. Colletti, “Il marxismo e Hegel” (Bari, Laterza, 1969).
13 K. Marx, “Critica al programma di Gotha” (Roma, Ed. Riuniti, 1976).
14 K. Marx, “Scritti inediti di economia politica”, (Roma, Ed. Riuniti, 1963).
15 V. I. Lenin, “La catena non è più forte del suo anello più debole”, Pravda, No. 67, 9 giugno (v. c. 27 maggio), 1917.
16 per esempio, il marxismo positivista di Engels, Kautsky e Plechanov, quello neokantiano di Bauer, Adler e Renner, nonché quello neohegeliano di Gramsci, Lukacs e Korsch, la Scuola di Francoforte di Adorno e Marcuse, l’umanesimo marxista di Garaudy e Bloch e, soprattutto, l’operaismo italiano di Panzieri, Tronti e Negri, la sua vera e propria “bestia nera”, accusata di aver ridotto il pensiero di Marx a sole poche pagine dei “Grundrisse”.
17 La prima esposizione sistematica della cosiddetta “filosofia marxista”, il celebre “Antidühring” (1876-78), è infatti esclusiva opera di Engels.
18A. Brewer, “A Minor Post-Ricardian? Marx as an Economist”, History of Political Economy, vol. 27, n. 1, pages 111-145 (1995).
19 K. Marx, “Il Capitale – Libro I” (Roma, Ed. Riuniti, 1970).
20 K. Marx, “Il Capitale – Libro III” (Roma, Ed. Riuniti, 1968).
21 K. Marx, “Il Capitale – Libro I” (Roma, Ed. Riuniti, 1970).
22 M. Bakunin, “Opere complete - Vol. 8. L' Impero knut-germanico e la rivoluzione sociale (1870-1871)” (Trieste, Ed. Anarchismo, 2009).
23 Mao Tze-tung, “Delle contraddizioni tra il popolo” (Torino, Einaudi, 1957).
24 V. I. Lenin, “Che fare?” (Roma, Ed. Riuniti, 1974).
25 A. Giddens, “Capitalismo e teoria sociale. Marx, Durkheim e Max Weber” (Milano, Il Saggiatore, 1984).
26 Per una breve presentazione del passaggio dalla fase capitalista manchesteriana a quella degli oligopoli, invitiamo alla lettura del seguente articolo divulgativo ospitato su sito di “Adattamento Socialista”: https://adattamentosocialista.blogspot.com/2023/01/manchester-addio-la-scuola-economica.html
27 K. Marx, “Scritti inediti di economia politica”, (Roma, Ed. Riuniti, 1963).
28 R. Luxemburg, “L’accumulazione del capitale” (Torino, Einaudi, 1968).
29 R. Hilferding, “Il capitale finanziario” (Milano, Feltrinelli, 1960).
30 V. I. Lenin, “L’imperialismo” (Roma, Ed. Riuniti, 1970).
31 N. I. Bucharin, “L’economia mondiale e l’imperialismo” (Roma, Samonà e Savelli, 1966).
32 P. Baran e P. Sweezy, “Il Capitale Monopolistico” (Torino, Einaudi, 1968).
33 Autori Vari, “Trattato Marxista di Economia Politica, vol. II - Il capitalismo monopolistico di Stato” (Roma, Ed. Riuniti, 1973). Si tratta di un’opera collettiva di vari economisti marxisti legati al Partito Comunista Francese e tradotta in italiano. Rappresenta molto bene la visione del marxismo nell’ultima fase del movimento comunista filosovietico.
34 J. Burnham, “La Rivoluzione Manageriale” (Torino, Bollati Boringhieri, 1992).
35 B. Rizzi, “La burocratizzazione del mondo” (Milano, Ed. Colibrì, 2019).
36 K. Kautsky, “Der Imperialismus” in Die Neue Zeit, n. 32, vol. 2, pp. 908–922 (1914).
37 Vedi note 1-5.
38 G. La Grassa, “Dal marxismo al conflitto strategico” (Brescia, Ed. Undici, 2022).
39 Per una facile introduzione alle tematiche dell’operaismo italiano rimandiamo il lettore al seguente articolo ospitato su sito di “Adattamento Socialista”: https://adattamentosocialista.blogspot.com/2022/06/loperaismo-italiano-da-teoria-sociale.html
40 K. Marx, “Grundrisse - Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica” [Sesto San Giovanni (MI), Ed. Pgreco, 2011].
41 R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico (Torino, Einaudi, 1976).
42 K. Marx, “Il Capitale – Libro I” (Roma, Ed. Riuniti, 1970).
43 K. Marx, “Il Capitale – Libro III” (Roma, Ed. Riuniti, 1968).
44 cfr. l’articolo divulgativo pubblicato su “Adattamento Socialista” il 28 aprile 2021: https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/04/la-caduta-tendenziale-del-tasso-di.html
45 Un’agile esposizione divulgativa del passaggio dalle categorie del marxismo a quelle del “conflitto strategico” si trova in G. La Grassa, “Dal marxismo al conflitto strategico” (Brescia, Ed. Undici, 2022).
46 K. Marx e F. Engels, “Manifesto del partito comunista” (Roma, Ed. Riuniti, 1977).
47 L. Colletti, “Tra marxismo e no”, (Roma-Bari, Laterza, 1979).
48 cfr., per esempio, G. La Grassa e C. Preve, “La fine di una teoria. Il collasso del marxismo storico del Novecento” (Milano, Ed. Unicopli, 2003).
49 P. A. Rovatti, “Critica e scientificità in Marx: per una lettura fenomenologica di Marx e una critica del marxismo di Althusser” (Milano, Feltrinelli, 1973).
50 F. S. Merlino, “Il socialismo senza Marx. Studi e polemiche per una revisione della dottrina socialista (1897-1939)”, a cura di A. Venturini (Firenze, Firenzelibri, 1974).
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