Le premesse economiche della transizione dal capitalismo al socialismo: Stato, mercato o qualcosa di diverso? - PARTE II -
6) Un’alternativa moderna al lavoro salariato:
la Labour Management Firm di Ward e Vaněk
Nella sezione precedente abbiamo cercato di convincere il lettore che una seria politica economica di transizione dal capitalismo al socialismo (inteso qui nella sua fase inferiore, ovvero con un accesso non completamente libero ad alcuni beni di consumo) non potrà non confrontarsi con il problema del lavoro salariato, insieme, ovviamente, all’annosa questione della proprietà e dell’allocazione dei beni capitali. Abbiamo altresì asserito che un approccio molto drastico sarà necessario, ossia l’abolizione della possibilità per qualsivoglia agente economico privato (escludendo quindi ciò che resterà della Pubblica Amministrazione in un tale regime transitorio) di assumere lavoratori salariati in qualsiasi forma. È però anche il caso di ricordare che la sola abolizione del lavoro salariato, come vedremo più avanti per le cosiddette imprese WMF (worker management firms), non sarà di per sé sufficiente a innescare una transizione al socialismo.
Naturalmente, di primo acchito, la richiesta di abolire la possibilità di assumere lavoratori potrebbe sembrare una pura e semplice boutade. Certo, si sa che nel mondo sussistono ancora svariati milioni di lavoratori autonomi (retaggio, da un certo punto di vista, di modi di produzione preesistenti) quali, per esempio, i coltivatori diretti, gli artigiani, i piccoli commercianti al dettaglio ecc. Esistono poi anche i liberi professionisti che offrono servizi e consulenze particolari di elevata qualità, come i medici, gli ingegneri, gli avvocati, i commercialisti, i notai ecc. Ovviamente non a questi due gruppi di lavoratori autonomi stiamo pensando quando parliamo dell’eliminazione completa dei salariati dalle catene produttive globali del capitalismo avanzato. Intendiamo, invece, parlare del lavoro cooperativo, o meglio, come vedremo tra poco, di un certo tipo d’impresa cooperativa, la cosiddetta LMF (labour management firm). Prima però sarà necessario fare un po’ di chiarezza sui termini che, anche in questo caso, possono risultare piuttosto ingarbugliati e confusi, tant’è che l’uomo della strada stenta spesso a distinguere parole connesse, ma comunque differenti, come “cooperativismo”, “mutualismo” e “autogestione”.
Il primo termine, ovvero “cooperativismo”, può esser definito come il movimento che auspica la pratica e lo sviluppo della cooperazione economica e sociale, specialmente mediante il sorgere di imprese cooperative, le quali sono società creata da persone che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali attraverso imprese di proprietà comune controllate democraticamente. Come si vede, si tratta di un concetto molto generale e piuttosto antico che rimonta addirittura agli inizi del XIX secolo, quando in Gran Bretagna nacquero le prime cooperative di consumo. Esse avevano un fine prettamente mutualistico, ovvero quello di permettere ai soci l’acquisto di beni e servizi a condizioni migliori di ciò che il singolo poteva trovare individualmente sul mercato. Questo avveniva utilizzando, per esempio, il semplice meccanismo dell’economia di scala: il prezzo unitario diminuisce al crescere della quantità acquistata. Presto si passò anche alle cooperative di produzione dove il fine mutualistico ebbe una notevole espansione, arrivando a ottenere la continuità di occupazione e la vendita dei propri prodotti (o dei propri servizi) alle migliori condizioni reperibili sul mercato.
L’utilizzo che abbiamo appena fatto dell’aggettivo “mutualistico”, ossia la capacità di fornire direttamente ai soci beni, servizi od occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci stessi otterrebbero individualmente sul mercato, non deve però indurre a frettolose generalizzazioni. Infatti, il termine “mutualismo” 1 non ha nelle scienze umane un significato analogo a quello della biologia, dove esso è sinonimo di simbiosi, ma, al contrario, assume una forte connotazione politica. Dicesi “mutualismo” (o “socialismo mutualista”) quella teoria economica e quella scuola di pensiero libertaria, inizialmente concepita da Pierre-Joseph Proudhon, che auspica una società egualitaria in cui i prezzi delle merci disponibili su un libero mercato, corrispondano essenzialmente alle quantità di lavoro necessarie per l'ottenimento di tali merci. Il mutualismo è dunque una scuola di pensiero che sostiene sì il libero mercato, ma anche l'usufrutto, cioè norme giuridiche ben precise sull'occupazione e sull'uso della proprietà privata. Un'implementazione di questo sistema prevederebbe inoltre la creazione di una Banca di Mutuo Credito che presterebbe denaro ai produttori associati con un tasso d’interesse minimo, appena sufficiente a coprire i costi amministrativi di tale banca. Il mutualismo è quindi una dottrina affine, ma differente, dal cooperativismo, nella misura in cui il primo è assai più radicale e più politico, mirando esplicitamente a una forma di socialismo, mentre il secondo si limita a migliorare alcuni aspetti economici dell’organizzazione del lavoro già nell’ambito dell’attuale economia capitalista di mercato. Naturalmente il socialismo mutualista presuppone che tutte le attività produttive vengano svolte nella nuova società in modo prettamente cooperativo.
In ultimo, va brevemente spiegato il termine “autogestione” o, più precisamente, “autogestione dei lavoratori”. Esso implica che alcune (o, al limite, tutte) le decisioni relative alla gestione di una certa impresa economica vengano prese, o comunque convalidate, dal basso, ovvero dall’assemblea di tutti i lavoratori attivi in tale impresa. Qui la confusione con il cooperativismo è in genere enorme perché di norma le imprese cooperative introducono alcune forme, più o meno intense, di autogestione. In realtà, il concetto di “cooperativa” è giuridico-formale, mentre quello di “autogestione” è pratico-funzionale. Una cooperativa potrebbe reclutare un manager esterno per un certo periodo e delegare a lui tutte le decisioni aziendali relative alla conduzione dell’impresa, rinunciando così all’autogestione. Oppure, all’opposto, come accadde in Iugoslavia, è possibile introdurre elementi autogestionari in imprese di proprietà pubblica, ovvero non-cooperative. Il concetto socialdemocratico di Mitbestimmung (“cogestione”) ambirebbe addirittura fare la medesima operazione nelle imprese private al di sopra una certa taglia. Ovviamente, in un’azienda cooperativa l’autogestione (o almeno un certo livello di autogestione) verrà percepita dai soci come una soluzione scontata e indiscutibile, mentre nell’ambito pubblico (e ancora di più in quello privato) avrà per forza di cose l’aspetto di una rivendicazione o di una concessione.
Tornando alle imprese cooperative, è a questo punto importante introdurre il concetto di Labour Management Firm (LMF) dovuto principalmente a Benjamin Ward 2 e Jaroslav Vaněk 3 (per non citare i contributi, pure rilevanti, di Evsey D. Domar, di James E. Meade e di Gregory K. Dow 4), perché, come vedremo più avanti, esso potrebbe essere davvero lo strumento principale per l’abolizione del lavoro salariato nel quadro di una transizione dal capitalismo al socialismo. Vaněk propone una fondamentale distinzione per ciò che concerne le cooperative di lavoro 5, tra quelle finanziate dall'interno, le worker management firm, e quelle finanziate dall'esterno, le labour management firm, se analizzate in termini del cosiddetto “capitale di rischio”, ossia di quella porzione del capitale di un’impresa apportata a titolo di “capitale proprio” dai soci dell’impresa cooperativa stessa.
Le WMF accumulano capitale tramite il trattenimento degli eventuali utili conseguiti e, in questo modo, un patrimonio netto si genera nel corso del tempo mediante un processo di autofinanziamento. Ciò presuppone che i lavoratori conferiscano solo ed esclusivamente il proprio lavoro, mentre non sottoscrivano alcuna quota sociale. Il residuo non viene completamente erogato a favore dei propri dipendenti sotto forma di salari immediati, ma viene destinato ad accrescere il patrimonio netto dell'impresa cooperativa. Nella WMF potremmo però avere eventualmente una forma di salario differito, quando il lavoratore cesserà la sua prestazione di servizio e avrà diritto a una liquidazione “pro-quota” degli utili trattenuti storicamente, ossia in proporzione alla parte di tali utili dei quali egli ha concorso alla formazione. In questo senso il lavoratore riceve nel corso della propria attività lavorativa un reddito complessivo di natura mista: da un lato il salario e dall'altro la remunerazione connessa alla quota di patrimonio netto accumulato per effetto della mancata distribuzione di utili a suo favore. È la forma d’impresa cooperativa più largamente diffusa nel mondo occidentale contemporaneo.
Le LMF, invece, attingono, per quanto riguarda i capitali di rischio, oltre che dall'autofinanziamento (già visto per le WMF) anche da finanziamenti esterni. Le LMF erogano due redditi in modo separato: il reddito da lavoro per i dipendenti e quello da capitale per i sottoscrittori delle quote sociali. La sottoscrizione di tali quote può essere riconducibile ai finanziatori privati oppure a quelli pubblici. Vi possono essere quindi tre diverse categorie di LMF:
LMF con capitale sociale riconducibile unicamente ai soci-lavoratori;
LMF con capitale sociale riconducibile unicamente a soggetti capitalisti privati;
LMF con capitale sociale riconducibile unicamente a soggetti pubblici (ad esempio, lo Stato o gli Enti Locali),
ma sono poi possibili situazioni ibride tra queste categorie di cooperative, ossia imprese che hanno nella loro base sociale, per esempio, sia i lavoratori, sia lo Stato, sia i capitalisti privati. In tutte queste tipologie di imprese cooperative di lavoro, il potere di decisione e di gestione spetta sempre ai lavoratori, a prescindere dal fatto che ricoprano lo status di soci, oppure no. La teoria economica sviluppata da Vaněk suggerisce una gerarchia della sottocapitalizzazione 6, a parità di investimenti realizzati, che prevede il seguente ordine:
WMF;
LMF con soli soci-lavoratori;
LMF con soci pubblici e/o capitalisti privati,
ossia, la cooperativa di lavoro più sottocapitalizzata (cioè quella che avrà un minore apporto di capitale di rischio in rapporto al capitale complessivamente investito) è la WMF, perché si basa sul solo trattenimento degli utili e non ha altre fonti dove attingere per alimentare il proprio capitale di rischio. Al contrario, le LMF potranno effettuare maggiori investimenti rispetto alle WMF. Nell'ambito delle LMF però, le LMF con soli soci-lavoratori saranno più sottocapitalizzate delle altre due tipologie di LMF. Questo fatto avviene perché nelle cooperative di lavoro il socio-lavoratore conferisce principalmente lavoro piuttosto che capitale; quindi, in una cooperativa di lavoro finanziata esclusivamente da soci-lavoratori la quota sociale sottoscritta da ciascuno di essi sarà relativamente modesta rispetto al capitale complessivo da investire. Le LMF con soci pubblici oppure con investitori capitalisti potranno contare, in generale, sulla stabilità del capitale sociale sottoscritto anche in caso di una eventuale riduzione del numero dei lavoratori (per esempio, a seguito di una crisi). Nell’attuale sistema capitalistico le specifiche regolamentazioni nazionali possono influenzare il livello di sottocapitalizzazione strutturale delle cooperative di lavoro. Ciò significa che i processi storici di trattenimento degli utili all'interno della cooperativa (generando riserve indivisibili), possono determinare livelli di patrimonio netto particolarmente rilevanti in rapporto al capitale sociale sottoscritto. Ma queste riserve indivisibili di norma non potranno andare a beneficio dei soci della cooperativa nel caso di un suo scioglimento. Ora, questa regolamentazione rischia di generare un incentivo nella cooperativa di lavoro (specialmente se è una WMF o una LMF con soli soci-lavoratori) a erogare eccessivi compensi immediati per il lavoro. Nelle LMF con soci pubblici tale rischio permane, ma è più sottile, in quanto i conferimenti per determinati investimenti avvengono da parte dello Stato, ma spettano ai soci le decisioni sullo svolgimento dell'attività produttiva. Nel caso di investimenti in tecnologia con il relativo acquisto di macchinari da parte dello Stato, il comportamento dei lavoratori potrebbe essere quello ammortizzare le tecnologie in bilancio al minimo, in modo da riscontrare un utile maggiore, che venga distribuito ai lavoratori tramite il cosiddetto “ristorno”, una specifica forma d’integrazione della retribuzione per i lavoratori. In questa logica si potrebbero ritrovare a iper-sfruttare i macchinari, minimizzando però la loro quota di ammortamento, con la conseguenza che i macchinari verrebbero usurati per il troppo utilizzo. In tale caso l'azienda avrebbe distribuito utili che avrebbero dovuto essere inferiori essendo accompagnati da aliquote di ammortamento maggiori. Il modo con cui si potrebbe evitare un eccessivo ristorno è stato formulato da vari economisti studiosi di cooperative, ma, essendo una questione molto tecnica, non potremo occuparcene qui dato il carattere divulgativo del presente saggio. Concludiamo invece questa sezione specificando che, per ciò che concerne il socialismo, né la WFM né la LMF con soli soci-lavoratori saranno considerate a causa dei detti problemi di sottocapitalizzazione. Si parlerà, quindi, solo delle LMF con una vasta percentuale di investimenti pubblici e/o privati e di come diffonderle nella società. Ma prima di passare a questo argomento sarà opportuno far chiarezza su un punto molto controverso: quanto è vero che il socialismo scientifico marxista sia stato (e sia ancora) ostile all’idea di una produzione cooperativa generalizzata?
7) La
critica marxista al cooperativismo e il suo valore attuale
È opinione comune tra i marxisti cosiddetti “scolastici” 7 che il socialismo scientifico debba guardare al cooperativismo in modo piuttosto supercilioso con un misto d’indifferenza e di condanna. Più precisamente si snocciola sovente la seguente “giaculatoria” laica di facile memorizzazione: il marxismo sarebbe estremamente ostile al socialismo mutualista, benignamente indifferente alle imprese cooperative, viste tuttalpiù come strumenti didattici per imparare a fare a meno degli imprenditori, ma molto favorevole all’autogestione operaia nel quadro di aziende di rigorosa proprietà pubblica. In questa sezione vorremmo mostrare al lettore che le cose sono un po’ più complicate di così e che un dirigente bolscevico quale Lenin, noto per la sua fama di rigido accentratore, sorprendentemente al termine della sua attività politica scrisse uno dei più begli elogi della cooperazione in chiave marxista. Tuttavia, dobbiamo anche ammettere che diversi intellettuali marxisti di valore, tutt’altro che “scolastici”, hanno avallato in tutto o in parte la detta ostilità nei confronti delle cooperative di lavoro: Kautsky, Labriola, Turati, Mondolfo, Sweezy, Althusser, Holloway ecc.
L’origine di tutto questo contrasto è quasi certamente situata nella dura polemica di Marx contro Proudhon e la sua idea di socialismo mutualistico, iniziata con “Miseria della filosofia. Risposta alla ‘Filosofia della miseria’ di Proudhon” 8, opera pubblicata in francese nel 1847 a Parigi e a Bruxelles. Essa è perfettamente sunteggiata nel seguente passaggio critico contro il socialismo piccolo-borghese contenuto nel “Manifesto del partito comunista” 9 e pubblicato l’anno successivo:
«Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l'esistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese. Come esempio citeremo la Philosophie de la misère del Proudhon.
I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale fatta eccezione degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo dove essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semi-sistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa s'è fatto.
Una seconda forma di socialismo meno sistematica e più pratica cercava di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l'uno o l'altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali della esistenza, cioè dei rapporti economici. Ma questo socialismo non intende affatto, con il termine di cambiamento delle condizioni materiali dell'esistenza, l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.
Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica. “Libero commercio!” nell'interesse della classe operaia; “dazi protettivi!” nell'interesse della classe operaia; “celle carcerarie!” nell'interesse della classe operaia. Questa è l'ultima parola, l'unica detta seriamente, del socialismo borghese. Il loro socialismo consiste appunto nell'affermazione che i borghesi sono borghesi -nell'interesse della classe operaia» 10.
Ma perché i giovani Marx ed Engels erano così ostili alle idee proudhoniane di un sistema socialista basato su cooperative di lavoro inizialmente finanziate a bassissimo interesse da una Banca del Popolo e di Mutuo Credito? La spiegazione potrebbe avere molte sfaccettature, come ad esempio il totale pacifismo di Proudhon, ma, come nota Bruno Jossa nel suo eccellente articolo del 2009 11, l’ipotesi più probabile è quella relativa alla percezione che a metà dell’800 si aveva delle cooperative di lavoro. Tale percezione è espressa in modo adamantino da un quasi contemporaneo di Engels, l’economista francese Léon Walras (1834-1910), che nel suo lavoro del 1865 intitolato “Les associations populaires” ne definisce l’essenza come il tentativo di realizzare “l’assunzione dei lavoratori alla proprietà del capitale mediante il risparmio”, dove lo scopo è appunto quello di creare un capitale d’impresa “che appartenga a tutti i soci in modo invisibile” e il mezzo è invece “un prelevamento regolare e persistente operato sul salario”. È quindi quasi ovvio che Marx parlasse nel III libro de “Il Capitale” 12 delle imprese cooperative in termini di un “auto-capitalismo” (ossia, di operai “capitalisti di se stessi”) per cui, tutto sommato, non valesse la pena di battersi:
«Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi [il corsivo è nostro], cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro. Queste fabbriche cooperative dimostrano come, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione. Senza il sistema di fabbrica, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e così pure senza il sistema creditizio, che nasce dallo stesso modo di produzione, non si potrebbe sviluppare la fabbrica cooperativa. Il sistema creditizio, come forma la base principale per la graduale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale. Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con la unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo».
Ora, abbiamo visto nella sezione precedente che la teoria economica successiva ai lavori di Ward del 1958 ha evidenziato chiaramente la profonda differenza tra cooperative WMF e LMF, dove, nelle seconde, i lavoratori non sono proprietari di alcun capitale (che è preso in prestito) e quindi possono esser certo considerati come i “capitalisti di se stessi”. Ma come sottolinea Jossa ci sono diversi altri motivi per spiegare la freddezza (se non l’ostilità) di certa parte del marxismo nei confronti delle cooperative. Alcuni non ci sembrano molto gravi, come ad esempio il fatto che la teoria microeconomica usata da Ward e Vaněk sia essenzialmente di tipo marginalista, cosa che, dopo gli importanti lavori degli economisti marxisti Oskar Lange e Viktor V. Novožilov 13, non dovrebbe essere più un tabù, essendo il carattere ideologico e ascientifico del marginalismo neoclassico situato soprattutto nel suo disinvolto uso macroeconomico e apologetico del capitalismo. Altri ci appaiono invece sbagliati e viziati da un certo residuo idealista, come gli argomenti basati sull’opposizione altruismo-egoismo, per i quali il fatto che nelle LMF i soci-lavoratori si sforzino di produrre in vista di un ricavo abbondante, e non solo per soddisfare i bisogni sociali, è visto come un fatto scandaloso e inaccettabile. Tali autori, principalmente il filosofo lukacsiano Istvàn Mèszàros, il sociologo John Holloway e l’economista Axel Kocillof, sembrano dimenticare che l’”uomo nuovo” socialista non potrà nascere bell’e pronto, ma dovrà essere plasmato, una generazione dopo l’altra, nel corso della transizione dal capitalismo al socialismo. Del resto, tale opinione circa un socialismo essenzialmente etico fu condivisa in passato proprio da diversi autori non-marxisti (o ex-marxisti) come la fabiana Martha Beatrice Webb, il ricardiano Johann Karl Rodbertus e il revisionista Eduard Bernstein. Quindi un sano e moderato egoismo emulativo da parte dei lavoratori, una volta incanalato in un sistema virtuoso e senza il dominio dei capitalisti come quello delle LMF, potrà essere un utilissimo meccanismo per portare avanti tale transizione. E in questo quadro, pure il fatto che le LMF, almeno in teoria, potrebbero agire anche nel quadro di un sistema ancora a maggioranza capitalistico, non significa nulla, dato che una tale opposizione a una concezione gradualista e non-rivoluzionaria del socialismo si potrebbe ugualmente applicare alle imprese interamente di proprietà pubblica, come abbiamo visto nella parte I di questo scritto. In questo senso aveva essenzialmente ragione Lenin quando nel suo articolo “Sulla cooperazione” 14 del gennaio 1923, a un anno dalla morte, scriveva:
«Spiego il mio pensiero. In che cosa consiste l'irrealtà dei piani dei vecchi cooperatori, a partire da Robert Owen? Nell'aver sognato la trasformazione pacifica della società contemporanea mediante il socialismo, senza tener conto di una questione cardinale, come quella della lotta di classe, della conquista del potere politico da parte della classe operaia, dell'abbattimento del dominio della classe sfruttatrice. E perciò abbiamo ragione nel considerare questo socialismo "cooperativo" come del tutto fantastico, romantico e persino banale nel suo sogno di trasformare mediante la semplice organizzazione cooperativa della popolazione i nemici di classe in collaboratori di classe e la lotta di classe in pace di classe (cosiddetta pace civile) È indubbio che, dal punto di vista del compito fondamentale d'oggigiorno, noi avevamo ragione, poiché, senza la lotta di classe per il potere politico nello Stato, non si può realizzare il socialismo. Ma guardate come le cose sono mutate, ora che il potere dello Stato è nelle mani della classe operaia, che il potere politico degli sfruttatori è abbattuto e che tutti i mezzi di produzione (esclusi quelli che lo Stato operaio lascia volontariamente per un certo tempo e a certe condizioni di concessione agli sfruttatori) si trovano nelle mani della classe operaia. Ora abbiamo il diritto di dire che il semplice sviluppo della cooperazione s'identifica per noi (salvo la "piccola" riserva sopra indicata) con lo sviluppo del socialismo [la sottolineatura è nostra]. Contemporaneamente siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno subito un cambiamento radicale. Questo cambiamento radicale consiste nell'aver dapprima posto il centro di gravità, e dovevamo porlo, sulla lotta politica, sulla rivoluzione, sulla conquista del potere, ecc. Ora invece il centro di gravità si sposta fino al punto di trasferirsi al pacifico lavoro organizzativo "culturale". Sono pronto a dire che per noi il centro di gravità si trasporta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall'obbligo di lottare per la nostra posizione su scala internazionale. Ma se lasciamo questo da parte e ci limitiamo ai rapporti economici interni, allora oggi il centro di gravità del nostro lavoro si porta veramente sul lavoro culturale».
In altre parole, il cooperativismo non è in sé né più né meno “gradualista” della pura e semplice nazionalizzazione delle imprese. Dipende solo dal contesto politico in cui esso si sviluppa. Anzi, se ciò avviene nell’ambito dell’egemonia della classe lavoratrice, allora, come vedremo meglio nella prossima sezione, le cooperative LMF si comporteranno molto meglio delle aziende pubbliche in quanto risolveranno in maniera automatica la contraddizione fondamentale del capitalismo, ossia quella tra capitale e lavoro. È appena il caso di sottolineare come questa citazione di Lenin non implichi in alcun modo da parte nostra l’accettazione dei metodi bolscevichi per la conquista e il mantenimento del potere politico ad opera di un partito, essenzialmente minoritario, che si percepiva però come la vera e unica avanguardia della classe lavoratrice.
Resta tuttavia un’ultima obiezione, dovuta a vari marxisti, assai seria e importante, alla diffusione generalizzata delle cooperative di lavoro, le quali sono state interamente concepite sì per essere imprese democratiche, ma anche per lavorare nel quadro di un libero mercato. Anzi, come ha sottolineato più di un autore 15, il “mercato socialista” potrebbe essere veramente un mercato concorrenziale, affine a quello vagheggiato dai marginalisti, molto più di quanto non lo sia il mercato capitalista attuale, data l’inesistenza di monopoli e di oligopoli sotto il socialismo. Ma, come ricordato nella parte I di questo scritto, la sopravvivenza del mercato nel periodo di transizione e nella fase inferiore del socialismo è un argomento fortemente controverso 16 con un complesso ventaglio di posizioni anche tra gli economisti marxisti di punta del periodo attuale. In realtà, non sono quindi le cooperative il vero obiettivo polemico degli anti-mercatisti, ma il mercato stesso, visto come un momento essenzialmente anarchico e caotico, contraddittorio quindi con le istanze altamente ordinatrici necessarie alla moderna produzione. In altre parole, chi reputa il “socialismo di mercato” un ossimoro estende al futuro mercato dell’epoca socialista le medesime caratteristiche di quello attuale e capitalistico, il quale, come sosteneva Marx, riassume in sé la terza grande contraddizione del sistema: ordine nella produzione e anarchia nella distribuzione. Ora, questo passaggio logico non è affatto ovvio e diversi autori, come per esempio Amartya Sen, lo hanno contestato ritenendolo basato proprio su quella scorretta identificazione tra capitalismo e mercato che tanto piace agli apologeti del capitalismo senza vincoli. In effetti non potremo portare a compimento l’importante discussione sui pro e i contra del “socialismo di mercato” in questo breve articolo, dato il suo carattere divulgativo e stringato, ma forniremo rapidamente alcuni spunti di riflessione a favore della tesi “compatibilista”. Va ricordato anche che chi non accettasse la compatibilità tra mercato e società di transizione al socialismo potrebbe terminare la lettura del presente lavoro a questo punto, in quanto le due sezioni successive la daranno per totalmente acquisita.
In primis è opportuno notare che il cosiddetto “socialismo di mercato” nulla ha a che vedere con il capitalismo di Stato e, men che mai, con l’economia capitalista mista pubblico-privata, in quanto non vi sono né mercati del lavoro, né mercati dei capitali, ma solo dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il lavoro avviene esclusivamente su base cooperativa e il capitale è gestito largamente da banche pubbliche che lo prestano alle imprese cooperative a un tasso d’interesse non speculativo, ritenuto congruo per finanziare quel che resta della Pubblica Amministrazione e del cosiddetto welfare state. I mercati dei beni di consumo e dei mezzi di produzione sono invece fondamentali perché, mentre il primo permette al lavoratore-consumatore un’effettiva libertà di scelta, il secondo rappresenta un modo per spingere le imprese cooperative a migliorare costantemente le tecniche di produzione mediante un oculato investimento in impianti e macchinari più moderni.
Secondariamente, la contrapposizione tra la pianificazione pubblica e l’“anarchia” mercatistica va vista oggigiorno come un concetto essenzialmente datato, in quanto molti studi hanno stabilito 17 la possibile integrazione tra i due approcci di politica economica. Anzi, date le enormi difficoltà riscontrate nell’arte della pianificazione economica nei paesi del “socialismo reale” (menzionate nella parte I di questo lavoro), possiamo ben dire che sembra ormai vero l’opposto: un’efficiente pianificazione dell’economia non potrà non avvalersi di meccanismi di mercato il quale, sebbene non vada idolatrato come nel caso della Scuola Economica Austriaca, resta però uno strumento importantissimo di libertà, sia individuale (consumatore) sia collettiva (aziende cooperative venditrici o acquirenti di beni e servizi). E come tale deve essere difeso e tutelato in qualsiasi società che ambisca dirigersi verso un futuro che sarà socialista e democratico al contempo. Certo resta aperta la problematica del supposto legame tra il mercato e crisi cicliche dell’economia: di questo faremo rapidamente menzione nelle conclusioni.
8) Come avverrà la transizione al socialismo mediante le cooperative di produzione?
Una volta definita l’impresa cooperativa democratica di tipo LMF (cfr. sez. 6) e risposto alle critiche marxiste più importanti relative a un sistema generalizzato di socialismo di mercato che si basi su tali cooperative (cfr. sez. 7), siamo pronti ad affrontare l’ultimo argomento di questa breve panoramica, ovvero il modo in cui potrebbe esser avviato un processo transitivo di questo genere. Anche in questo caso ci avvarremo di un importante articolo di Bruno Jossa 18, che cercheremo di sintetizzare e semplificare nelle poche righe seguenti, il cui tema specifico è: qual è la via per la transizione al socialismo, per chi vede il superamento del capitalismo possibile mediante un sistema di imprese cooperative di produzione democraticamente autogestite?
Secondo Jossa, ben tre sono le diverse vie maestre che possono, almeno in teoria, esser percorse per stabilire un sistema di cooperative LMF.
La prima di tali vie, che possiamo definire in qualche modo “gradualista” oppure “socialdemocratica”, si basa sulla ferma convinzione che l’impresa cooperativa autogestita vada considerata come una azienda di qualità nettamente superiore rispetto alle altre, in quanto essa produce nella società le cosiddette “esternalità positive” 19. Ciò è evidente, almeno dal punto di vista della collettività, poiché una LMF presenta grossi vantaggi rispetto un’equivalente impresa capitalistica privata (o anche pubblica), primo fra tutti il fatto che la democrazia economica da essa realizzata corrobora e rende più efficace la democrazia politica, in quanto indebolisce le lobby eliminando il potere ricattatorio dei capitalisti. Se quindi l’impresa cooperativa LMF è un vantaggio, sia per chi vi lavora, che ottiene un maggiore benessere, sia per la società tutta, la prima e la più gradualista delle vie da seguire per favorire la transizione generalizzata a un nuovo modo di produzione è semplicemente quella di concedere alle LMF larghi benefici legali, sia fiscali che creditizi, in proporzione ai benefici che esse arrecano (e arrecheranno) alla collettività.
La seconda via da percorrere nel processo di transizione è quella che definiremo “sindacalista rivoluzionaria”, la quale si sforza di trasformare in cooperative democratiche le aziende divenute oramai ingestibili da parte dei capitalisti a causa di vasti movimenti di protesta operaia e di occupazione generalizzata delle fabbriche. In Italia, oltre la ben nota “Occupazione delle fabbriche” del 1920 di cui Antonio Gramsci ha molto scritto, una situazione simile, ma meno conosciuta, avvenne negli anni ’70 del XX secolo a seguito del cosiddetto “Autunno Caldo” del 1969. In questa occasione varie imprese in gravi difficoltà furono rilevate dai dipendenti e poi gestite in forma cooperativa. Più precisamente tra il 1974 e il 1978 ben cento imprese private in crisi, principalmente nel settore manifatturiero, furono trasformate in cooperative dopo un’occupazione. Ciò è talmente stupefacente che vi è persino chi, pur non essendo per nulla attratto da una prospettiva socialista, ha osservato come una delle funzioni sociali delle cooperative sia proprio quella di permettere la ripresa di aziende ritenute oramai sulla via del fallimento (dette in gergo “decotte”). Questa prospettiva “sindacalista rivoluzionaria” di transizione da capitalismo a socialismo si riannoda, forse non inaspettatamente per quanto detto nella parte I di questo lavoro, all’analisi fatta dall’operaismo italiano. Ad esempio, Mario Tronti scriveva in “La fabbrica e la società” del 1962 20 parole quasi memorabili:
«Al livello più alto dello sviluppo capitalistico, il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della produzione, cioè tutta la società vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società. È su questa base che la macchina dello Stato politico tende sempre più a identificarsi con la figura del capitalista collettivo, sempre più diventa proprietà del modo capitalistico di produzione e quindi funzione del capitalista. (…) – per cui secondo l’autore – (…) a questo punto non è più soltanto possibile, ma diventa storicamente necessario piantare la lotta generale contro il sistema sociale dentro il rapporto sociale di produzione, mettere in crisi la società borghese dall’interno della produzione capitalistica. (…) – ossia secondo Tronti – Si tratta di fondare la rottura dello Stato dentro la società, la dissoluzione della società dentro il processo di produzione, il rovesciamento del rapporto di produzione dentro il rapporto sociale di fabbrica. La macchina dello Stato borghese va spezzata oggi dentro la fabbrica capitalistica» [il corsivo è nell’originale].
A sette anni dall’uscita di tale articolo queste aspirazioni operaiste si declinarono in modo essenzialmente consiliare, incarnandosi in un contropotere operaio basato sul coordinamento nazionale dei comitati spontanei di fabbrica nati nel periodo dell’Autunno Caldo. Ma le idee di autogestione e di controllo operaio s’infransero ben presto e per varie ragioni, una delle quali fu, a nostro parere, la limitata consapevolezza delle potenzialità delle imprese cooperative democratiche.
La terza via per realizzare il nuovo ordine sociale è quella “socialista rivoluzionaria”, ossia una decisione sovrana del Parlamento (o di un’analoga assemblea legislativa) che trasformi istantaneamente le azioni di tutte le imprese esistenti in obbligazioni di pari valore, proibendo al contempo, a parte casi specifici relativi alla Pubblica Amministrazione, l’assunzione di qualsivoglia lavoratore salariato. Con una tale decretazione il Parlamento toglierebbe legalmente ogni potere decisionale ai capitalisti (trasformati pacificamente in inutili rentiers) e tutte le società diverrebbero imprese cooperative autogestite dai lavoratori di tipo LMF. Per far ciò occorrerebbe naturalmente che una schiacciante maggioranza parlamentare fosse socialista o, comunque, favorevole al socialismo.
Delle tre vie presentate a noi socialisti sembra preferibile e maggiormente praticabile la terza che è essenzialmente in linea con la lunga e prestigiosa tradizione del marxismo democratico della Seconda Internazionale, del socialismo massimalista italiano, dell’impossibilismo anglosassone e dell’ala sinistra dell’austromarxismo. Eppure, nei frangenti di una situazione obiettivamente rivoluzionaria, anche una marxista “ortodossa” come Rosa Luxemburg prese in considerazione la seconda via, ossia quella consiliare dal “basso”, quando scrisse nel gennaio del 191921:
«Compagni, è un immenso campo che dobbiamo arare. Dobbiamo prepararci dal basso a dare ai consigli degli operai e dei soldati una tale potenza che, se il governo Ebert-Scheidemann o un altro simile viene rovesciato, questo sia soltanto l'atto conclusivo. La conquista del potere non si realizza tutta d'un colpo ma progressivamente, incuneandosi nello Stato borghese fino a occuparne tutte le posizioni e a difenderle con le unghie e con i denti. E la stessa lotta economica, secondo la concezione mia e dei compagni di partito a me più vicini, dev'essere condotta mediante i consigli operai. Anche la direzione delle lotte economiche da avviare su strade sempre più ampie dev'essere nelle mani dei consigli operai [la sottolineatura è nostra]. I consigli operai devono avere tutto il potere nello Stato. Nel prossimo futuro dobbiamo lavorare in questa direzione con il risultato che, ponendoci tale compito, dobbiamo far conto anche su un colossale inasprimento della lotta a brevissima scadenza. Perché, compagni, dobbiamo lottare passo a passo, corpo a corpo, in ogni Stato, in ogni città, in ogni villaggio, in ogni comune, per trasferire ai consigli degli operai e dei soldati tutti gli strumenti del potere statale che devono essere pezzo a pezzo strappati alla borghesia».
Abbiamo individuato nelle righe precedenti, seguendo Jossa 22, tre modi in cui la transizione al socialismo mediante cooperative LMF si potrebbe realizzare, almeno da un punto di vista teorico, in modo relativamente incruento, il primo dei quali sarebbe addirittura di natura riformista e gradualista. Dobbiamo ora soffermarci a discutere se una transizione graduale sia possibile non dal punto di vista politico, ma da quello della moderna teoria economica. Per esempio, il celebre economista marxista Paul Sweezy, nonostante il suo professo leninismo, nel 1976 sostenne che una rapida eliminazione del capitalismo non sia possibile perché la transizione al socialismo comporterà una gigantesca trasformazione sociale che si estenderà per un’intera epoca storica, paragonabile forse a quella che segnò la transizione dalla società nomade a quella agricola. Ovviamente Sweezy, che, come si è visto, era fortemente ostile alle cooperative, pensava a un’economia statale centralmente pianificata, ma si trovava comunque in disaccordo con altri autori marxisti, come Charles Bettelheim, i quali credevano che una transizione al socialismo non potesse essere graduale, perché la pianificazione centralizzata richiedeva di essere introdotta in tutto il sistema economico in modo essenzialmente simultaneo. Per noi, però, il problema va posto in termini diversi, perché sono solo i marxisti “ortodossi” che parlando di transizione al socialismo pensano subito all’abolizione del mercato. Ma se si crede invece a un socialismo di mercato basato sulle cooperative LMF, come si modifica la situazione? I problemi in questo caso sono quelli relativi agli investimenti e ai movimenti di capitale, ossia se la transizione al socialismo fosse graduale e se, ad esempio, il modello scelto da un governo riformista fosse quello che lascia libere le piccole imprese di organizzarsi come preferiscono, ma spinge medie e grandi imprese affinché queste si organizzino in forma cooperativa, allora gli imprenditori legati alla forma capitalistica dell’impresa privata potrebbero non investire nel Paese, non finanziare nuove imprese cooperative, trasferendosi all’estero con i loro capitali. In tal caso, non nascendo nuove imprese LMF, l’economia nazionale non si svilupperebbe con la dovuta celerità. Ancora più grave è poi il problema dei movimenti di capitale monetario. Durante una fase graduale di transizione, infatti, i capitali tenderebbero probabilmente a fuggire all’estero e le imprese esistenti potrebbero essere addirittura svendute, proprio per ricavare capitale liquido da esportare. Queste difficoltà sono certamente esistenti nel caso di transizione graduale ma in qualche misura potrebbero presentarsi anche se la transizione fosse rapida e, in ultima analisi, derivano dalle note difficoltà di realizzare il cosiddetto “socialismo in un solo Paese”, su cui l’Opposizione di Sinistra russa degli anni ’20 e ’30 ha versato fiumi d’inchiostro 23 in polemica con Stalin e Bucharin. Tuttavia, oggi, anche alla luce della moderna economia politica, non vi è ragione, almeno teorica, di credere che il problema del “socialismo in un solo Paese” sia insuperabile: i movimenti di capitale potrebbero essere controllati, ma il vero problema sarebbe comunque quello di non rendere troppo appetibili le fughe di capitali all’estero. Ciò potrebbe avvenire se il capitale privato venisse retribuito in modo tale da togliere la convenienza a esportare i capitali fuori dal Paese. La stessa cosa per i manager: essi continuerebbero a svolgere la loro attività nel Paese, non più alle dipendenze dei capitalisti, ma a quelle dei lavoratori e, nel caso di un mercato ben funzionante, si potrebbero facilmente evitare le loro fughe all’estero. Almeno questa è l’opinione di un celebre economista socialista francese, teorico del socialismo di mercato, Tony Andréani 24, che difende a spada tratta il “socialismo in un solo Paese” in chiara polemica coi trotzkisti:
«Un’altra concezione utopica è quella che consiste nel credere che la rivoluzione o sarà mondiale o non ci sarà. E c’è chi spiega così tutte le sconfitte dei socialismi storici. Un tal punto di vista è contrario a tutte le lezioni della Storia. Nessun sistema di produzione è apparso armato dalla testa ai piedi».
In effetti, anche in questo caso, le obiezioni delle Sinistra Comunista internazionale, secondo cui il socialismo non può essere realizzato in un solo Paese, si riferiscono esclusivamente alla transizione al socialismo mediante pianificazione statale centralizzata, ma non al socialismo di mercato fondato sulle imprese cooperative democratiche. D’altro canto, già i socialisti democratici degli anni ’20, come ad esempio Otto Bauer, scrivevano in polemica con il “comunismo di guerra” dei bolscevichi che: «(…) la socializzazione non deve interrompere le relazioni economiche internazionali» 25.
9) Conclusioni
Mentre nella prima parte di questo articolo abbiamo analizzato i motivi del fallimento dei tentativi finora compiuti per una transizione dal capitalismo al socialismo basati sulle nazionalizzazioni e sulla pianificazione (pars destruens), in questa seconda parte abbiamo abbozzato una pars construens per tale transizione, da effettuarsi mediante un sistema di mercato fondato sulle cooperative di lavoro di tipo LMF. Parafrasando Marx, non possiamo ancora affermare di aver fornito dettagliate “ricette per l’osteria dell’Avvenire”, ma per lo meno possiamo vantarci di aver appreso “i rudimenti dell’arte culinaria”, ovvero quello che si può preparare per il futuro e quello che invece andrebbe assolutamente evitato. Lasciamo infatti il lettore curioso di tutti i minuziosi dettagli relativi al funzionamento del nostro modello di transizione al socialismo ai numerosi volumi di Jossa 26, che sviscera con le armi della teoria economica praticamente tutti gli aspetti rilevanti di un tale sistema: cosa succederebbe se una LMF fallisse? E se invece divenisse troppo prospera? Ci sarà un numero massimo di lavoratori per ogni singola cooperativa? Come gestire gli eventuali fenomeni inflattivi? E che dire delle crisi economiche cicliche: ci saranno ancora? E così via. Certo agli economisti accademici, anche a quelli illuminati e di formazione marxista come Jossa, non si possono chiedere opinioni politiche pratiche oltre un certo segno. Non sapremo quindi dai loro lunghi lavori se la via “gradualista” al socialismo sia davvero politicamente praticabile, oltre che ammissibile secondo i dettami della moderna scienza economica. E lo stesso si applica alla complessa problematica del “socialismo in un solo Paese”. Ma tant’è. E, come dicevano i latini, valga sempre il motto “Sutor, ne ultra crepidam!”.
Prima di concludere, però, abbiamo l’onestà intellettuale di sollevare un problema importante al quale, fino ad ora, né Vaněk, né Meade 27, né Dow, né Jossa hanno saputo dare una risposta definitiva e convincente: il passaggio dalla fase inferiore del socialismo a quella superiore. Ovvero, nella nostra ottica, il passaggio da un’economia di mercato basata su gran numero d’imprese cooperative (positivamente armonizzate da una Pubblica Amministrazione snella, trasparente e democratica) a un sistema economico fondato sul libero accesso di tutte le persone a beni e servizi, nonché sul lavoro umano fornito in modo esclusivamente volontario. La questione ha in effetti un duplice aspetto: teorico-filosofico e logistico-pratico. In primo luogo, chi si richiama almeno in qualche modo al marxismo concepisce il divenire sociale come, in buona sostanza, il portato dell’antagonismo tra le classi. Orbene, in una società socialista di mercato, almeno in quella che abbiamo descritto in queste ultime sezioni, non esisterebbero conflitti di classe, ma soltanto una sana concorrenza tra le varie imprese cooperative gestite dai lavoratori. Sicuramente rimarrebbe un piccolo gruppo di lavoratori salariati della Pubblica Amministrazione, ma questo nucleo potrebbe essere organizzato mediante un sistema di rotazioni in modo tale da non configurarlo come ceto sociale permanente e separato dagli altri lavoratori. Un discorso in qualche modo analogo si potrebbe applicare anche ai manager e agli altri liberi professionisti i quali, comunque, non avrebbero la capacità di porsi come classe sociale egemone, in quanto del tutto privi del potere economico degli attuali capitalisti. Secondariamente, non sembrerebbe tecnicamente agevole immaginare i meccanismi di passaggio dalla nostra versione di socialismo di mercato (corredato dal perdurare della Pubblica Amministrazione e della moneta) a una società pienamente comunista nel senso marxiano del termine. Certo, una strategia possibile per annullare questa difficoltà sarebbe quella, seguita per esempio da Jossa 28, di liquidare il comunismo avanzato come l’ultimo residuo utopistico nel pensiero di Marx e di Engels:
«Ciò che va, comunque, messo in luce è che, se il passaggio al socialismo è un’idea ancor oggi centrale del pensiero marxista, sono in pochi attualmente a credere che, dopo il socialismo, ci sarà il comunismo come Marx lo intendeva».
Personalmente pensiamo invece che l’orizzonte comunista, anche se di certo non dietro l’angolo come credono ingenuamente tutti i negatori della fase transitoria, sia un elemento programmatico irrinunciabile del socialismo scientifico che, presto o tardi, dopo l’inizio della transizione da capitalismo a socialismo, tornerà prepotentemente sull’agenda. Si tratterà soltanto di rimuovere una serie di potenti blocchi intellettuali e di re-impadronirsi degli strumenti concettuali che in modo dettagliatissimo Ernest Mandel 29 aveva approntato quando codificò il lento passaggio dalla fase inferiore alla fase superiore del comunismo. Tale meccanismo economico andrebbe però modificato immaginando una fase inferiore non più basata sulla proprietà pubblica delle imprese e sulla pianificazione centralizzata, ma su un sistema generalizzato di cooperative LMF. Saremo all’altezza di questo compito?
DANKOLOG
1 Salvatore Cannavò, Mutualismo: ritorno al futuro per la sinistra (Edizioni Alegre, Roma, 2018).
2 Benjamin Ward, “The Firm in Illyria: Market Syndicalism”, The American Economic Review vol. 48, no. 4 (Sep. 1958), ps. 566-589.
3 Jaroslav Vaněk, General Theory of Labor-managed Market Economies [Cornell University Press, Ithaca (NY), 1970].
4 Gregory K. Dow, “The labor-managed firm, Jaroslav Vanek and me”, Journal of Participation and Employee Ownership vol. 3, no. 2/3 (Nov. 2020) pp. 123-134.
5 Le “cooperative di lavoro” sono quelle società cooperative che hanno lo scopo, naturalmente mutualistico, di ricercare e garantire ai propri soci un’occupazione e occasioni di lavoro migliori, sia in termini qualitativi che economici, rispetto a quelle offerte dal mercato (cioè la tutela del posto di lavoro e della sua qualità, l’aumento del salario ecc.). La prestazione lavorativa dei soci è, quindi, l’attività principale che caratterizza una tale società cooperativa
6 La “sottocapitalizzazione” è la condizione per cui una determinata azienda cooperativa si trova con un patrimonio netto insufficiente per portare avanti la sua specifica produzione di beni (o servizi) e per raggiungere i suoi obiettivi aziendali. Si noti che il patrimonio netto, talora definito con l’espressione “mezzi propri”, comprende sia il capitale proprio (in inglese equity), composto dalle risorse dei soci, sia il debito finanziario. Di conseguenza, è chiaro come una equity scarsa possa essere connessa con l’incapacità di ripagare i debiti. In tale contesto la situazione non può che peggiorare, in quanto il tasso d’interesse del debito continuerà a crescere e, parallelamente, diminuirà la capacità di produrre reddito. Per i soci è dunque fondamentale assicurarsi una capitalizzazione atta a mantenere un buon equilibrio finanziario, che è necessario per non impoverire il valore della cooperativa. Per questo motivo essi tenderanno a immettere capitale fresco quando necessario
7 Per “marxismo scolastico” intendiamo quello formatosi principalmente sulla produzione di opuscoli popolari da parte di Karl Marx (“Il manifesto del partito comunista”, “Salario, prezzo e profitto”, “Lavoro salariato e capitale”), di Friedrich Engels (“Il socialismo dall’utopia alla scienza”, “L’origine della famiglia”), di Karl Kautsky (“La lotta di classe: il programma di Erfurt”), di Rosa Luxemburg (“Riforma sociale o rivoluzione”), di Vladimir I. Lenin (“L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”), di Nikolaj I. Bucharin ed Evgenij A. Preobraženskij (“L’ABC del comunismo”), di Iosif V. Stalin (“Principi del leninismo”), oppure di Lev D. Trockij (“Il programma di transizione”). Senza nulla togliere al carattere brillante di alcuni di questi testi divulgativi, non possiamo non notare come essi abbiamo, forse involontariamente, contribuito ad alimentare una visione acritica e para-religiosa del marxismo, particolarmente arroccata su posizioni di rigido statalismo e del tutto ostile alle tematiche di questo articolo.
8 Karl Marx, Miseria della filosofia (Ed. Riuniti, Roma, 1973).
9 Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (Ed. Riuniti, Roma, 1971).
10Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista (Ed. Riuniti, Roma, 1971).
11 Bruno Jossa, “La critica dei marxisti alle cooperative”, Rivista italiana degli economisti fascicolo 3, pagine 513-541, anno 2009.
12 Karl Marx, Il Capitale, libro III (Ed. Riuniti, Roma, 1970).
13 per un’esposizione succinta vedasi per esempio: Klaus Hagendorf, “Victor Valentinovich Novozhilov: a Marxian mathematical economist; in honour of the 120th anniversary of his birth”, World review of political economy vol. 3, pages 203-217 (2012).
14 Vladimir I. Lenin, “Sulla Cooperazione”, Pravda nn.115 e 116 del 26 e 27 maggio 1923 [ https://www.marxists.org/italiano/lenin/1923/1/sullacooperazione.htm ].
15 per esempio, si può vedere: Oskar Lange, “Sulla teoria economica del socialismo”, in M. Dobb, O. Lange e A. Lerner, Teoria economica ed economia socialista (Summa Uno, Milano, 1972).
16 David Schweickart, Bertell Ollman, Hillel Ticktin, and James Lawler, Market Socialism: The Debate Among Socialists, (Routledge, London, 1998).
17F. Marzano, “Complementarietà di piano e mercato” in G. Schiavone (a cura di), La democrazia diretta. Un progetto politico per la società di giustizia (Ed. Dedalo, Bari, 199
18 Bruno Jossa, “Sulla transizione dal capitalismo all’autogestione”, Moneta e Credito vol. 63, n. 250, pp. 119-155 (2010).
19 Le esternalità positive si hanno ogni qualvolta i soggetti beneficiari di impatti positivi prodotti da un altro soggetto non gli corrispondono un prezzo pari ai benefici ricevuti (ad esempio, un agricoltore che coltivando migliora il paesaggio agricolo per la sua comunità).
20 Mario Tronti, “La fabbrica e la società”, in Quaderni Rossi n. 2 del 19 febbraio 1962.
21 Rosa Luxemburg, Discorso sul Programma della KPD, Berlino, 30 dicembre 1918 – 1° gennaio 1919 [ https://www.marxists.org/italiano/luxembur/1919/1/discorso.htm ].
22 Bruno Jossa, “Sulla transizione dal capitalismo all’autogestione”, Moneta e Credito vol. 63, n. 250, pp. 119-155 (2010).
23Bucharin, Stalin, Trotskij, Zinovjev, La Rivoluzione permanente e il socialismo in un paese solo (Editori Riuniti, Roma, 1970).
24 Tony Andréani, Le socialisme est (a) venir, t. 1. L’inventaire (Éditions Syllepse, Paris, 2001).
25 Otto Bauer, Bolschewismus oder Sozialdemokratie? (Verlag der Wiener Volksbuchhandlung, Wien, 1920).
26 si veda, per esempio, Bruno Jossa, Socialismo e democrazia (Booksprint, Romagnano al Monte, 2019) e le referenze ad altri volumi dello stesso autore in contenute nella bibliografia.
27 James Meade, Agathotopia (Feltrinelli, Milano, 1989).
28 Bruno Jossa, “Sulla transizione dal capitalismo all’autogestione”, Moneta e Credito vol. 63, n. 250, pp. 119-155 (2010).
29 Ernest Mandel, Trattato di Economia Marxista, vol. II (Samonà e Savelli, Roma, 1965).
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