Manchester, addio! La scuola economica marxista e il lungo corso del capitalismo post-manchesteriano
Introduzione: che cos’è il capitalismo “manchesteriano”?
Sembra che sia stato Ferdinand Lassalle, uno dei pionieri della socialdemocrazia tedesca, il primo a usare l’aggettivo “manchesteriano” per indicare quell’insieme di idee e di valori che caratterizzarono il capitalismo britannico nella sua fase di formazione, la quale viene normalmente collocata tra il 1760 e il 1830. Il termine, rilanciato soprattutto dallo storico liberale francese Élie Halévy all’inizio del XX secolo, è stato ampiamente contestato a causa di una sua presunta confusione tra libero-scambismo (assenza di dazi d’importazione) e laissez-faire (non interventismo dello Stato in economia). William Dyer Grampp[1] arriva addirittura a sostenere che non sarebbe neppure esistita una vera e propria ideologia economico-politica “manchesteriana” coerente. Ad ogni modo, come sovente accade, non sono i concetti più precisi e accurati quelli che si affermano nel mondo della cultura e, infatti, l’idea dell’esistenza di una fase “manchesteriana” del capitalismo ha avuto una fortuna notevole spostandosi dal ristretto ambito della storia delle idee a quello, ben più vasto, della storia economica propriamente detta. Non è quindi strano che autori contemporanei piuttosto noti, come lo storico ed economista Giulio Sapelli, utilizzino l’espressione “capitalismo manchesteriano” per indicare un po’ enfaticamente il modo di produzione caratteristico della Prima Rivoluzione Industriale. Il filosofo della politica Nicola Massimo de Feo è poi ancora più esplicito quando scrive nel suo saggio “Nietzsche e il comunismo” (1984)[2] :
“(…). Questa fase, con la crisi del capitalismo «manchesteriano» e la fine del ciclo di lotte proletarie culminato nella Comune parigina, sviluppata negli anni Settanta ed Ottanta attraverso il modello bismarckiano di stato‑piano social‑assistenziale e militare repressivo, combinando il sistema delle assicurazioni sociali e le leggi antisocialiste – costruisce e realizza concretamente il sistema delle «controtendenze» capitalistiche alla caduta del saggio di profitto (intervento statale, progresso tecnico e scienza direttamente produttiva), descritte da Marx nel terzo libro del Capitale e riproposte, sia pure in forma diversa, negli anni ‘30 da Keynes, si pone come «forma stato» dei rapporti sociali, un sistema sociale e politico di apparati di reazione che prima e dopo lo stato‑piano keynesiano, dall’età bismarckiano‑gugliemina sino alla crisi attuale del keynesismo, in forma autoritaria e/o consensuale, si pone come fondamentale meccanismo capitalistico di regolazione‑controllo e di integrazione‑repressione della crescita politica autonoma del proletariato emergente” (sottolineatura nostra).
Si indica quindi in modo molto esplicito il passaggio del 1870-71 come il termine della fase “manchesteriana” e l’inizio di una nuova tipologia di capitalismo, ovvero quello della cosiddetta Seconda Rivoluzione Industriale o Rivoluzione Tecnologica (1870-1914).
Ma perché interessarci in questo breve articolo divulgativo a una questione apparentemente così erudita da essere appannaggio quasi esclusivo degli studiosi di storia economica e di filosofia della politica? Il motivo è molto semplice: tra le varie critiche accademiche rivolte alla teoria economica marxista vi è quella, e non è neppure la più malevola, che considera tale teoria come un ragionevole modello critico per il capitalismo “manchesteriano”, però completamente inadatto a descrivere le forme capitaliste successive (cfr., per esempio, il celebre articolo di Anthony Brewer, “A minor post-Ricardian: Marx as an economist”[3], dove Marx è visto come un tardo epigono di Ricardo, l’esponente di punta della scuola classica di economia politica). Prima di mostrare come la metodologia economica marxista, sebbene sia stata forgiata da Karl Marx nel periodo 1857-67[4], resti uno strumento valido per l’analisi critica delle forme capitalistiche successive, è però opportuno richiamare brevemente le caratteristiche specifiche del capitalismo “manchesteriano” o della Prima Rivoluzione Industriale. Dal punto di vista tecnologico esso coincide con quella che gli storici chiamano fase “paleotecnica” del capitalismo, ovvero l’avvento del carbone e del vapore, i quali sono applicati in modo particolarmente efficace all’industria tessile (con la meccanizzazione dei telai) e al trasporto marittimo e ferroviario. Ma ciò che ci interessa di più nel nostro discorso è la modalità degli investimenti e dell’organizzazione aziendale: ciò che Adam Smith appena intravide nella sua “La Ricchezza delle Nazioni” (1776), ma che si iniziò a palesare a David Ricardo (“Sui principi dell’economia politica e della tassazione”, 1817), per poi manifestarsi completamente a John Stuart Mill (“Principi di Economia Politica”, 1848) e a Karl Marx (“Il Capitale”, vol. I, 1867), era l’esistenza di una miriade di fabbriche di piccole e medie dimensioni, gestite direttamente dagli investitori e generalmente in forte competizione tra loro. In effetti le prime fasi del capitalismo furono caratterizzate da una concorrenza spietata, poiché ogni singolo capitalista cercava in tutti i modi di eliminare i suoi rivali e di impossessarsi del loro capitale comprandolo sottocosto a prezzi di fallimento. Qualcuno[5] ha perfino scritto in termini molto coloriti “che nella loro ricerca di espansione del profitto, i capitalisti si arrampicavano l'uno sul cadavere dell’altro per arrivare fino alla cima”. Accettando una forma assai più anodina di descrizione, possiamo dire che questa fase capitalista incarnasse in buona sostanza quello che, mezzo secolo più tardi, i manuali di microeconomia marginalista definirono, vagheggiandolo e rimpiangendolo, “un mercato in concorrenza perfetta”. Queste sono le sue caratteristiche teoriche principali che ritroviamo largamente nel capitalismo manchesteriano:
a) Le tipologie merceologiche dei beni prodotti sono relativamente poche e quindi le merci disponibili sono largamente omogenee tra loro. In altre parole, le unità di un certo tipo di bene, per esempio i panni di lana, sono più o meno tutte uguali tra loro.
b) Le aziende operano in genere in condizione di “informazione completa e simmetrica”, ossia tutti gli agenti economici (sia i produttori che i consumatori) possono facilmente disporre di buone informazioni in merito ai costi di produzione, ai prezzi, alle caratteristiche dei beni, alla loro disponibilità sul mercato ecc.
c) Le aziende che operano sul mercato hanno una dimensione così piccola da non poter influenzare in alcun modo i prezzi di vendita, che quindi sono subiti dall’esterno.
d) I consumatori hanno chiare le loro preferenze e le aziende conoscono le tecnologie messe a loro disposizione, le quali sono più o meno simili per tutte le imprese e non possono essere facilmente sostituite da un momento all’altro.
e) La chiusura di un’azienda avviene quando essa non è più in grado di coprire i costi variabili e quando il prezzo di vendita sul mercato del bene (da essa prodotto) è inferiore al costo variabile unitario dello stesso bene.
f) Massima libertà di entrata e uscita dal mercato. Quindi, praticamente, non vi è il vincolo dei cosiddetti “costi di transazione”. Sono inoltre garantiti i diritti di proprietà delle risorse disponibili, in modo tale da conferire agli agenti economici la responsabilità dell’impiego dei loro mezzi.
Ironicamente molti marginalisti (Walras, Pareto ecc.) verseranno fiumi d’inchiostro per dimostrare matematicamente la superiore efficienza di un tale tipo di mercato che, però, mentre essi scrivevano già non esisteva più da decenni. Infatti, durante questo processo di concorrenza spietata (o “perfetta”, a seconda dei punti di vista…), venivano inconsciamente già gettate le basi per una nuova fase del sistema capitalistico, quella in cui ci sarebbe stata la fuoriuscita dal modello “manchesteriano” e la graduale riduzione della competizione tra i produttori.
“La condizione della Classe Operaia in Inghilterra” scritta da Friedrich Engels nel 1844 è forse la descrizione più nota e più autentica della vita della classe lavoratrice nel cuore del capitalismo “manchesteriano”. Si noti che il giovane socialista Engels era il rampollo di una famiglia di ricchi industriali tessili tedeschi che operavano, tra l’altro, proprio a Manchester.
La nascita del cosiddetto “capitalismo monopolistico”
Durante il periodo manchesteriano la lotta tra i capitalisti di uno stesso settore iniziò più o meno ad armi pari considerando quanto visto nella sezione precedente riguardo alla cosiddetta “concorrenza perfetta”. Tuttavia, quando alcuni capitalisti cominciarono a guadagnare un leggero vantaggio sugli altri, il carattere della competizione prese a cambiare. Nel momento in cui un certo imprenditore, ad esempio, fu in grado di introdurre per qualche motivo nuovi macchinari e migliori tecnologie, questi riuscì ad aumentare la produttività dei suoi lavoratori, spingendo più in basso il livello del valore (nonché, un poco, anche del prezzo) delle sue merci e conquistando così una più ampia quota di mercato.
Come esempio pratico supponiamo che un capitalista fosse riuscito a introdurre nuovi macchinari capaci di fornire due bobine di tessuto all’ora invece di una sola. Prima, infatti, usava £50 per le materie prime, £30 per ammortizzare l’usura dei macchinari e £50 per i salari, in modo tale da produrre una bobina del valore di £200. Il plusvalore estratto era quindi di sole £70. Dopo divenne in grado di utilizzare £100 per le materie prime, £40 per ammortizzare l’usura dei macchinari (sicché si suppone che i nuovi telai fossero più costosi dei vecchi) e £50 per i salari, in modo tale da produrre due bobine di tessuto del valore complessivo di £400. Il plusvalore estratto divenne di £210 invece delle precedenti £70. Un modellino di questo tipo è già presente ne “Il Capitale” di Marx[6] ed è stato spiegato in dettaglio nel nostro precedente articolo divulgativo sulla “caduta tendenziale del tasso di profitto”[7]. Esso, a dispetto della sua semplicità estrema, già mette in evidenza due fatti molto importanti: l’imprenditore-capitalista (per il momento lasciamo uniti questi due aspetti che successivamente andranno tenuti ben distinti) sarà in grado di aumentare leggermente i salari orari in modo da prevenire il malcontento dei suoi lavoratori; inoltre potrà diminuire un poco il prezzo di vendita delle sue merci conservando però un ampio margine di profitto. In questo modo eliminerà una larga parte dei suoi concorrenti (ossia quelli ancora legati alle vecchie tecnologie) e acquisirà le loro quote di mercato. In aggiunta, la necessità di costosi investimenti tecnologici avrà anche l’effetto di proteggere in qualche modo il mercato della merce in questione dall’arrivo di nuovi imprenditori che vorrebbero prendere il posto di quelli andati in bancarotta. L’effetto combinato di questi tre fatti, i quali, pur essendo esistiti anche nell’epoca manchesteriana, si diffusero in modo capillare solo nel periodo della Rivoluzione Tecnologica (intorno al 1870), fu quello di metter la sordina alla concorrenza capitalista e di far sì che sopravvivesse un numero sempre minore di imprese, ma di dimensioni via via più vaste. Con il tempo tale processo di concentrazione si diffuse a tutti settori industriali già consolidati, più velocemente, ma è quasi superfluo sottolinearlo, in quelli con un’alta composizione organica di capitale (ossia, capitale costante diviso capitale variabile), come la produzione chimica e metallurgica, l’estrazione di idrocarburi, la costruzione di navi, di treni e, successivamente, anche di autoveicoli. Nel mondo economico una situazione di mercato caratterizzata da una concorrenza molto ridotta e da un numero ristretto di imprese in ogni determinato settore industriale è nota come “oligopolio”; ma purtroppo la parola “monopolio” si è imposta al vasto pubblico e quindi saremo costretti spesso a parlare di fase “monopolistica” del capitalismo[8].
Naturalmente la concentrazione capitalistica ebbe un grosso impatto anche sulla struttura delle imprese portando alla nascita delle cosiddette “società per azioni”, che si realizzarono ogni qual volta un certo numero di capitalisti decise di unificare il proprio capitale sotto un’unica gestione aziendale comune. Questa prassi fu importante perché ebbe l’effetto di far crescere molto velocemente le risorse disponibili alla società in questione, rendendo così possibili ampie forme di investimento e tassi di crescita del tutto inarrivabili per le piccole imprese, sbaragliando al contempo la concorrenza e conferendo agli azionisti superprofitti che i loro singoli capitali, se presi isolatamente, non avrebbero potuto in alcun modo procurar loro. Tali azionisti venivano pagati annualmente nella forma di “dividendi” sul profitto complessivo, proporzionalmente alle quote di capitale investito nelle “azioni” della società considerata. Anche in questo caso va ricordato che Marx ed Engels furono perfettamente consapevoli della nascita delle società per azioni[9] e, in modo del tutto corretto, ne previdero l’enorme importanza per il futuro del capitalismo. In effetti, invece di democratizzarlo, come vorrebbe una certa retorica liberal-progressista che da sempre vagheggia le forme dell’azionariato popolare diffuso delle cosiddette “public company”, la scuola marxista capì da subito che il meccanismo azionario aveva il fine esattamente opposto: concentrare in un numero sempre minore di mani il controllo (anche se non la proprietà giuridica) di quote di capitale via via crescenti. Il metodo, in effetti piuttosto semplice, è quello, ben noto, delle “scatole cinesi”: il controllo di una società per azioni può esser legalmente ottenuto con un pacchetto leggermente maggiore del 50% delle azioni emesse, anche se, in mancanza di altri forti azionisti, il 25%, o talora persino il 10%, sono sufficienti. Poiché le azioni societarie non debbono esser necessariamente possedute da persone fisiche, ma possono concorrere a formare il capitale di un’altra società, si comprende facilmente come un sistema a più livelli di società per azioni che ne controllano altre, se ben congegnato, permetta a un singolo capitalista di estendere il suo dominio al di là dei limiti del capitale legalmente detenuto, portando avanti ulteriormente il fenomeno della centralizzazione, a cui abbiamo già accennato, in direzione del tutto opposta a quella del capitalismo “popolare” delle “public company”.
Il prezzo da pagare per una tale forma di centralizzazione è però l’allontanamento dei capitalisti dalla sfera produttiva e da quella commerciale: la gestione pratica di una società per azioni deve esser necessariamente delegata a un gruppo specializzato di direttori esecutivi, di amministratori e di dirigenti, i quali sono tenuti a prendere giorno per giorno le decisioni necessarie, rispondendo ai rappresentanti degli azionisti soltanto durante le sedute periodiche del consiglio di amministrazione. Vale la pena aggiungere che i suddetti amministratori e dirigenti, non essendo necessariamente anche degli azionisti (benché a volte lo possano diventare mediante il noto meccanismo premiale delle “stock option”) non ottengono quote di plusvalore in virtù del capitale da loro investito e quindi stricto sensu non sono essi stessi capitalisti, ma, piuttosto dei “funzionari del capitale” che però, per forza di cose, condividono gli stessi valori e i medesimi obiettivi dei veri capitalisti.
D’altro canto, questa separazione tra capitalisti e amministratori rende il concetto marxista di opposizione inconciliabile tra capitale e lavoro ancora più palese di quanto accadesse nell’epoca manchesteriana, dove ai capitalisti-imprenditori bisognava obiettivamente riconoscere capacità gestionali e imprenditoriali spesso notevoli. Nelle moderne società per azioni non è più così da almeno un secolo e mezzo: il capitalista è remunerato tramite i dividendi solo in quanto possessore di un capitale immobilizzato in azioni e la sua abilità risiede esclusivamente nell’investire e disinvestire in modo oculato e preveggente tale capitale mediante la compravendita borsistica di titoli azionari presenti sul mercato. Il carattere essenzialmente improduttivo e parassitico di tale attività è così evidente da non meritare alcun ulteriore commento.
Ingenuamente si potrebbe pensare che la situazione oligopolistica che abbiamo appena descritto, con poche grandi società per azioni nei vari settori produttivi, sarebbe potuta evolvere (tramite quel che restava della concorrenza) verso un reale monopolio, caratterizzato da una singola mega-società per ogni settore e poi, addirittura, verso un’unica grande società per azioni capitalista in grado di controllare tutti i maggiori aspetti economici effettivamente presenti al livello nazionale. In realtà è ben noto che a cavallo tra XIX e XX secolo le cose andarono diversamente per volontà degli stessi oligopolisti: le enormi spese per gli investimenti tecnologici, sommate alle ingenti retribuzioni degli amministratori e dei dirigenti, nonché ai nuovi esborsi legati alle promozioni commerciali e alla nascente pubblicità, non permettevano di rischiare pericolose guerre inter-oligopoliste, potenzialmente distruttive e in grado di spingere i profitti a livelli non adeguati a ripagare i giganteschi capitali avanzati, soprattutto per ciò che concerneva i cosiddetti “costi fissi” delle imprese. Molto meglio abbandonare qualsiasi residuo di competizione e suddividersi il mercato formando i cosiddetti “cartelli”, che prevedevano il controllo dei prezzi e delle quote di mercato, o addirittura veri e propri trust, ovvero, coalizioni di imprese mediante le quali aziende similari (concentrazione orizzontale) o tra loro in rapporto di complementarità o strumentalità (concentrazione verticale), si alleavano in un complesso economico a direzione unitaria. Naturalmente è importante non idealizzare questo sistema di accordi e di alleanze, dato che si trattava generalmente di soluzioni temporanee e, per qualsiasi motivo, episodi di guerre commerciali e di varie forme d’ostilità potevano riemergere tra gli oligopolisti, distruggendo i vecchi equilibri per generarne, dopo un certo tempo, di nuovi. Tuttavia, il duplice effetto della “cartellizzazione” sui prezzi delle merci fu sostanzialmente quello di renderli non dettati in modo impersonale dal mercato e, mediamente, assai maggiori dei valori-lavoro in esse contenuti. Infatti, se nell’epoca manchesteriana i prezzi delle singole merci potevano sì differire dal loro valore-lavoro, ma globalmente, mediando sui vari settori produttivi, Marx fu in grado di stabilire la nota eguaglianza tra prezzi aggregati e valori-lavoro aggregati, nella fase monopolistica la situazione si fece ben più complessa. Vale la pena analizzarla, iniziando da un breve ripasso della teoria marxiana dei prezzi di vendita (o commerciali) contrapposti ai prezzi di produzione. In tale teoria[10], che confuta il mito accademico secondo cui la scuola economica marxista non riuscirebbe a includere nei suoi modelli nemmeno i semplici meccanismi della domanda e dell’offerta, si danno le due seguenti situazioni:
(1) Quando l'offerta di una merce (fissata al prezzo di produzione) è maggiore della domanda, possiamo dire che il prezzo di produzione della merce è "troppo alto", cioè è stata utilizzata troppa forza-lavoro per produrre tale merce. Questo perché il prezzo di produzione deriva direttamente dal valore-lavoro (mediante la ben nota trasformazione) una volta imposta l’equalizzazione del tasso di profitto. Poiché la domanda effettiva non è in grado (o non è disposta) ad assorbire questa offerta, una parte della forza-lavoro usata deve essere considerata come “socialmente non necessaria”. A sua volta, il prezzo di vendita di questa merce si realizzerà non al livello più alto, ovvero quello della forza-lavoro che effettivamente contiene, ma solo al livello di quella frazione della forza-lavoro che è socialmente necessaria. In altre parole, il prezzo effettivamente visibile nello scambio di questa merce sarà inferiore a quello che ci sarebbe stato se tale merce fosse stata davvero socialmente necessaria.
(2) Quando l’offerta della merce è inferiore alla sua domanda, ovviamente la situazione si rovescia. In questo caso è stata usata “troppo poca” forza-lavoro: il prezzo di vendita è temporaneamente superiore al prezzo di produzione e quindi, in ultima istanza, al valore-lavoro effettivamente contenuto in questa merce. Il profitto finale ottenuto da tale merce è dunque superiore al suo valore normale come sarebbe dettato dai processi produttivi utilizzati.
Orbene, in condizioni di “concorrenza perfetta”, nessuna singola impresa è in grado di esercitare una pressione sufficiente sull’offerta o sulla domanda di una merce per influenzarne il prezzo di vendita, il quale, in questo modo, tende a fluttuare spontaneamente attorno al prezzo di produzione. In condizioni di monopolio, tuttavia, tale influenza è possibile perché il meccanismo di equalizzazione del tasso di profitto (che abbiamo già discusso varie volte nei nostri precedenti articoli divulgativi sull’economia marxista) non è più garantito. Gli oligopolisti, in effetti, sono in grado di distorcere questo processo e ottenere “super-profitti”, ovvero profitti superiori a quanto il tasso medio di profitto genererebbe se fosse applicato ai capitali da essi investiti. I costi via via crescenti dei macchinari e della tecnologia necessari per entrare nel mercato dove operano le industrie oligopoliste tendono a limitare fortemente l'ingresso di nuovi capitali esterni, i quali sarebbero invece necessari per limitare i detti super-profitti. Allo stesso tempo, il cartello degli oligopolisti è già in azione per evitare la concorrenza che si esplicherebbe mediante la tipica svendita al ribasso in un’ipotetica “guerra di prezzi”[11]. Pertanto, gli oligopolisti sono liberi, almeno entro certi ambiti, di fissare i prezzi delle loro merci al di sopra del costo di produzione quasi quanto desiderano. Naturalmente ci sono limiti superiori ai prezzi che gli oligopolisti possono attribuire alle loro merci: sebbene la concorrenza all'interno del singolo settore sia praticamente esaurita, essi devono esser consapevoli della concorrenza tra i vari settori industriali, che invece è sempre possibile. Se, per esempio, il prezzo dell’acciaio è stato fissato in modo esageratamente elevato rispetto a quanto i potenziali acquirenti possono pagare, questi ultimi rinunceranno, almeno in parte, all'acciaio a vantaggio, per esempio, dell’alluminio o dei laminati plastici. Inoltre, vi è anche l’aspetto del commercio internazionale da considerare (benché di ciò parleremo diffusamente nella prossima sezione): se i prezzi di oligopolio sono fissati troppo in alto, alcuni oligopolisti esteri, che non sono membri del “cartello nazionale”, possono inserirsi e offrire i loro prodotti a prezzi convenienti (a volte, temporaneamente, persino sottocosto mediante il cosiddetto “dumping”) in modo da conquistare quote di mercato. È curioso che in questo caso gli oligopolisti nazionali parlerebbero abitualmente di “concorrenza sleale”¼
Il meccanismo di vendita di un cartello di oligopolisti, ossia il cosiddetto “fixed pricing”, che benché sia illegale in molti paesi viene comunque attuato mediante lo stratagemma del cosiddetto sistema del “price leader”[12], va osservato un po’ più da vicino perché rappresenta il caso più semplice ed eclatante di violazione dell’equalizzazione del saggio di profitto all’interno di uno stesso settore[13]. Si immaginino infatti alcune aziende (chiamiamole convenzionalmente A, B e C) unite in un cartello, le quali producano lo stesso tipo di merce, ma usando tecnologie non del tutto identiche tra loro. Come si è visto nel nostro precedente lavoro divulgativo sulla “caduta tendenziale del tasso di profitto” nell’economia marxista[14], nel caso di concorrenza perfetta l’effetto combinato del fatto che sul mercato merci identiche debbano avere necessariamente lo stesso prezzo unitario (legge di Jevons) e del fatto che l’industria con la tecnologia più avanzata (chiamiamola convenzionalmente A) produca la merce in questione con il contenuto di valore-lavoro minore, farà sì che A, una volta introdotte le sue migliorie tecnologiche rispetto a B e C, cercherà di vendere la merce quasi allo stesso prezzo di prima, ottenendo così extra-profitti (che B e C non avranno). Poi però il prezzo tenderà a scendere a causa della svalorizzazione media della merce e i profitti caleranno di conseguenza. A questo punto B e C andranno una dopo l’altra incontro al fallimento, mentre A riuscirà a sopravvivere, ma con un tasso di profitto finale minore di quello precedente all’introduzione delle sue migliorie tecnologiche. Quindi il fixed pricing si oppone proprio a questo effetto: bloccando il prezzo unitario della merce le migliorie tecnologiche genereranno extra-profitti per A, ma non permetteranno alla svalorizzazione di manifestarsi sul mercato, lasciando quindi le imprese più arretrate, B e C, in vita. È quasi superfluo domandarsi l’origine degli extra-profitti oligopolistici di A: essi sono sostenuti dai consumatori in quanto pagano un prezzo di vendita sempre più divergente dal reale valore-lavoro della merce in questione. Questo è quindi uno dei pochi punti dove le critiche dei marginalisti all’abbandono della concorrenza perfetta, tipica dei “tempi d’oro” del capitalismo manchesteriano, collimano in pieno con l’analisi marxista[15]. Concludiamo la sezione ricordando un’altra peculiarità: si tratta del fatto che nelle economie monopolistiche avanzate risulta essere uno svantaggio per un cartello reinvestire continuamente i suoi ingenti profitti nella produzione allargata del proprio settore industriale, poiché, come vedremo nelle prossime pagine, ciò aggrava il pericolo di sovrapproduzione e quindi di crisi, con la conseguente caduta dei profitti stessi. Invece, i grandi oligopoli sono costretti a diversificare i loro capitali e ad investire in ambiti che non sono affatto legati alla loro specializzazione originaria. Così osserviamo oggigiorno situazioni in cui, per esempio, aziende del tabacco possiedono grossisti di generi alimentari, società elettriche controllano reti televisive e grandi distributori hanno interessi persino in catene di librerie.
La grande industria siderurgica è forse il simbolo più efficace del capitalismo oligopolistico a cavallo tra XIX e XX secolo. Qui è rappresentata la fabbrica “Edgar Thomson Steel Works” del celebre magnate Andrew Carnegie, il “re dell’acciaio”, a Braddock (Pennsylvania, USA) nel 1891.
Commercio internazionale, imperialismo e colonialismo
Nella sezione precedente abbiamo riportato in modo molto succinto i processi che nel periodo 1871-1914 portarono, attraverso la seconda rivoluzione industriale, alla formazione del cosiddetto capitalismo monopolistico (in realtà oligopolistico) nei paesi più sviluppati del mondo occidentale. Abbiamo tralasciato volutamente alcuni aspetti importanti, come per esempio il ruolo delle banche, delle assicurazioni e della finanza (sulle quali la scuola marxista scrisse pagine illuminanti[16] già nel 1910) poiché tale ibridazione tra capitale industriale e capitale bancario fu rilevante nell’Europa Continentale, ma non particolarmente nel mondo anglosassone che, in effetti, continuava a dominare la scena mondiale con due “pesi massimi” del calibro dell’Impero Britannico e degli Stati Uniti d’America. Però quello che effettivamente rende il discorso fatto fino ad ora incompleto è la prospettiva eminentemente nazionale in cui abbiamo confinato la nostra rapida analisi. Va precisato che il commercio internazionale era sempre esistito, anche nel periodo preindustriale, ma bisogna notare che con la nascita del capitalismo manchesteriano, il Regno Unito prima, seguito poi in ordine da Francia, Belgio, Stati Uniti e Germania, iniziarono ad esportare i loro prodotti industriali in modo massiccio in tutto il mondo, importando di contro prodotti agricoli e materie prime. Fu l’età d’oro del “libero scambio”, che nel periodo 1850-1875 portò alla quasi scomparsa dei dazi doganali. La crisi del 1873 (che a fasi alterne si protrasse fino al 1896) condurrà invece a una completa modifica dei rapporti commerciali tra le nazioni proprio nel periodo d’inizio della seconda rivoluzione industriale. Sarà la fase della svolta protezionistica, che, esclusa la Gran Bretagna, caratterizzerà il mondo capitalista fino al 1914 con lo scoppio della Grande Guerra e la crisi del commercio estero. Ma sarà pure l’atto di nascita del secondo colonialismo europeo (detto così per distinguerlo dal primo, quello iberico del XVI secolo) anche noto come imperialismo coloniale, il quale viene fatto tradizionalmente iniziare con il congresso di Berlino del 1884 dedicato alla spartizione dell’Africa. Sul fenomeno del capitalismo imperialista il marxismo economico verserà da subito fiumi d’inchiostro[17],[18],[19],[20], per poi proseguire con una produzione praticamente sterminata che giungerà al secondo dopoguerra, al neocolonialismo, ai problemi del sottosviluppo e, infine, alla globalizzazione del nuovo millennio. Una produzione, ça va sans dire, non sempre mutuamente compatibile, anzi, spesso in disaccordo su punti non proprio trascurabili. Naturalmente non avremo alcuna possibilità di seguire, neppure in modo conciso, un tale lungo excursus[21] che contemplerebbe nomi celeberrimi negli anni ’60 e ’70 del XX secolo, quali, ad esempio, André Gunder Frank, Immanuel Wallerstein, Arghiri Emmanuel e Samir Amin. Ci limiteremo invece a fissare alcuni concetti fondamentali[22] per poter applicare correttamente le categorie marxiste alle relazioni economiche tra stati, soprattutto se caratterizzati da forti differenze nel loro livello rispettivo di sviluppo.
La ricerca del profitto spinse gli oligopolisti a estendere la portata dei loro affari anche all’estero. Le cosiddette “nazioni sottosviluppate” del periodo in questione (1871-1914), con la loro manodopera a basso costo e le loro fonti, quasi vergini, di materie prime a buon mercato, producevano un rendimento del capitale investito a un tasso medio molto più elevato di quello dei paesi occidentali. I capitalisti oligopolisti cercarono quindi di dominare queste fonti di superprofitti esportando prima le loro merci e poi i loro capitali in tali nazioni, dove la superiore produttività della tecnologia occidentale avrebbe presto dominato il mercato, rimpiazzando ed eliminando le piccole imprese precapitalistiche indigene. Gli oligopolisti stabilirono subito il controllo de facto sull’economia di molte nazioni straniere arretrate e procedettero ad alleggerirle di materie prime e di forza-lavoro, rimpatriando poi i profitti nel loro paese di origine. Attraverso il commercio con paesi economicamente sottosviluppati, gli oligopolisti occidentali furono in grado di realizzare enormi guadagni, ovvero, in un’ottica marxista, di accaparrare enormi quote di plusvalore. La grande redditività di questi rapporti commerciali era fondata sul fatto che le merci venivano scambiate approssimativamente secondo il valore-lavoro rappresentato dal tempo necessario per produrle, ma misurato a tutto vantaggio del capitalista occidentale, non del piccolo produttore indigeno. In una nazione economicamente sottosviluppata, data la mancanza di industrializzazione e di meccanizzazione della produzione, la quantità di lavoro astratto medio necessaria per fabbricare una certa quantità di merce era notevolmente maggiore di quella richiesta nell’ambito delle nazioni industrializzate. Il caso indiano è particolarmente noto a causa della lunga polemica gandhiana contro l’Impero britannico: un tessitore hindu impiegava varie ore (diciamo 5) per produrre con il suo fuso a mano 100 libbre di cotone filato. In Gran Bretagna, dove si utilizzavano macchinari avanzati, era necessaria solo un'ora per produrre le medesime 100 libbre. Quando i tessitori hindu vendevano il loro cotone alla Gran Bretagna, ricevevano quindi non le 5 ore di lavoro effettivamente spese, ma solo il corrispettivo di un'ora di lavoro socialmente necessario per la produzione delle 100 libre di cotone nell’industrializzata Gran Bretagna. Al contrario, l'abbigliamento confezionato, prodotto dai macchinari dell’oligopolista britannico poteva richiedere un'ora di lavoro socialmente necessario, mentre un sarto hindu con il suo approccio manuale poteva impiegare fino a 10 ore per realizzare lo stesso capo di abbigliamento. L'industriale britannico era in grado così di scambiare gli abiti con i consumatori hindu, non per l'ora di lavoro, che era stata effettivamente spesa, ma per qualcosa di leggermente minore delle 10 ore di valore-lavoro che sarebbero state socialmente necessarie dal punto di vista di un sarto hindu. Il rapporto economico tra l’oligopolista britannico e il produttore/consumatore hindu era dunque intrinsecamente asimmetrico e inevitabilmente destinato a un feroce sfruttamento. Un hindu era costretto dalle necessità a privarsi di merci per un valore-lavoro molto inferiore a quello che era stato effettivamente investito per produrle, mentre otteneva altre merci dall’oligopolista britannico per un valore molto superiore a quello che esse in effetti contenevano. In termini monetari, il quadro appena visto si sarebbe presentato così: il tessitore hindu produceva 100 libbre di cotone al prezzo di £25. L'industriale britannico, tuttavia, poteva produrre la stessa quantità di cotone al costo di sole £5. Pertanto, se l’hindu avesse voluto vendere il suo cotone sul mercato britannico, l’avrebbe dovuto fare a un prezzo competitivo, diciamo a poco meno di £5 anziché a £25 che era quanto la sua merce in effetti valeva. Allo stesso modo, se si assume che l’oligopolista britannico poteva produrre un capo di abbigliamento al costo di sole £5, ma un sarto hindu doveva utilizzare un equivalente di £50 per produrre lo stesso articolo, l'industriale poteva tranquillamente abbassare i suoi prezzi fino, diciamo, a £40 ed essere comunque estremamente competitivo rispetto al produttore indigeno. Il consumatore hindu pagava £40 per un capo di abbigliamento invece dei $5 che il monopolista avrebbe ottenuto per esso nel suo paese d’origine industrializzato, la Gran Bretagna. L’indigeno veniva così legalmente “truffato” nell'acquisto e nella vendita, divenendo una sorgente costante di superprofitti per l’oligopolista. La nazione sottosviluppata veniva sistematicamente prosciugata della sua ricchezza e questi sovraprofitti fluivano direttamente (e pacificamente) nelle casse dei capitalisti della nazione sviluppata.
Questo sistema di commercio asimmetrico costituì la premessa del cosiddetto “imperialismo economico” vero e proprio in cui, oltre alle merci, anche il capitale viene esportato dagli oligopolisti, in modo tale da utilizzare il basso costo della forza-lavoro e l’abbondanza di materie prime direttamente all’estero, per poi rimpatriare i superprofitti nella madrepatria. È interessante capire come l’imperialismo economico, un fenomeno eminentemente pacifico anche se totalmente basato sullo sfruttamento, sia sfociato rapidamente nel brutale colonialismo europeo o in forme appena un po’ più morbide di “semi-colonialismo” yankee: la classe mercantile indigena, che venne presto esclusa dal suo stesso mercato nazionale, provò a resistere a questa intrusione spingendo i governi nativi a contenere l’invadenza commerciale occidentale mediante barriere doganali, dazi e quote sulle importazioni. Gli oligopolisti s’ingegnarono di impedire queste reazioni, o finanziando un’occupazione coloniale diretta, oppure istallando governi amici dell’occidente e trasformando il paese sottosviluppato in questione in una sorta di “semi-colonia” economica (talvolta nella forma di un protettorato, come in Egitto), guidata da una classe dirigente che tutelava massimamente gli interessi degli oligopolisti stranieri. Tale fenomeno fu molto importante nell’Impero cinese, dove il ruolo economico di protezione degli interessi stranieri era svolto da una speciale (e odiatissima) classe di burocrati conosciuti con il nome portoghese di “comprador”. Per questo motivo gli stati-fantoccio creati dagli imperialisti in quegli anni sono chiamati oggi da molti storici stati-“comprador”. Essi riceveranno saltuariamente anche degli aiuti economici da parte del governo della nazione occidentale di riferimento, ma lungi dall’essere una qualsiasi forma di filantropia, essi serviranno o a scopi diplomatici oppure, più spesso, per legare strettamente tali paesi extra-europei al sistema bancario e finanziario occidentale.
È tuttavia impossibile comprendere in pieno il funzionamento del capitalismo monopolista e imperialista della fine del XIX secolo se non si introduce la presenza attiva dello Stato, che, a differenza del periodo manchesteriano, si guardava bene dallo svolgere esclusivamente il ruolo liberale di “Stato minimo”, ovvero quello limitato all’ordine pubblico, alla giustizia, alla difesa e all’emissione di moneta. L’importanza statale nell’ambito delle attività capitaliste svolte all’estero nacque o dalle occupazioni coloniali, o dall’esigenza di proteggere gli stati-comprador dalle mire degli oligopolisti rivali appartenenti ad altre nazioni, oppure per contrastare fazioni e gruppi sociali ostili all'interno della colonia o della semi-colonia in questione. In tali casi ci fu spesso il bisogno di usare la diplomazia internazionale oppure direttamente la forza militare dello Stato per difendere gli interessi degli oligopolisti nazionali, i quali, da soli, nonostante il loro enorme potere economico, normalmente non erano in grado di sbrigare in modo agevole queste incombenze, come aveva insegnato l’episodio della liquidazione della “Compagnia Britannica delle Indie Orientali” nel 1874. In effetti non è sbagliato pensare allo Stato nazionale, incarnato essenzialmente dal governo e dai suoi ministeri, come a una sorta di partner dei grandi capitalisti: se da un lato, almeno secondo molte delle legislazioni del periodo, vi doveva essere una certa ostilità tra loro, in quanto in virtù delle leggi antitrust, il governo era tenuto ad ostacolare i prezzi combinati e la formazione di cartelli, dall’altro appariva del tutto evidente che la politica e il grande capitale fossero il più delle volte in rapporti idilliaci. Controllando la grande editoria, finanziando generosamente i comitati elettorali e, soprattutto, riuscendo a piazzare ex-funzionari aziendali in alte posizioni governative, la relazione tra l’élite politica e l’élite economica nazionale divenne alla fine del XIX secolo sempre più stretta, non disdegnando nemmeno forme di collaborazione estremamente impopolari quali, per esempio, l’uso della forza militare per rompere gli scioperi, per reprimere i tentativi di organizzazione spontanea dei lavoratori o per minacciare fisicamente i sindacalisti più temerari.
Naturalmente è corretto ricordare che all’interno della simbiosi tra Stato e capitale monopolista furono presi anche alcuni provvedimenti pubblici unanimemente considerati nell'interesse dei lavoratori, ma che avevano anche il secondo fine di sostenere economicamente e socialmente gli oligopolisti. Programmi come l'assicurazione contro la disoccupazione, l'indennità per infortuni e malattia, l'abolizione del lavoro minorile o la giornata lavorativa di otto ore non furono attuati solo per filantropia o per aumentare la reputazione di questo o quell’uomo politico. Questi programmi (tutti etichettati inizialmente dagli oligopolisti come i prodromi di un pericoloso "socialismo") furono gradualmente imposti a un'élite imprenditoriale che si opponeva frequentemente a lotte e scioperi violenti, talora anche a vere e proprie ribellioni guidate dalle organizzazioni operaie. Non ci volle molto perché gli oligopolisti si rendessero conto che, se non avessero ceduto e fatto qualche concessione, i lavoratori avrebbero minacciato di prendere le armi con il rischio di avere una nuova Comune di Parigi da qualche parte in Europa o negli Stati Uniti. In altre situazioni lo Stato sostenne gli interessi capitalisti attraverso il controllo diretto di determinate società per azioni. Nella visione piccolo-borghese della politica di quegli anni, "socialismo" significava semplicemente la proprietà governativa di un’impresa. Era però ovvio a tutti, anche ai non-marxisti, che l’effettiva proprietà statale di alcune aziende nelle nazioni occidentali non era affatto "socialista", ma serviva solo a puntellare e a lubrificare l'ordine esistente, come notava acutamente Engels già nel 1878[23]. Le imprese più spesso poste sotto la proprietà e il controllo dei governi erano quelle legate alle reti di trasporto (treni, navi, porti ecc.) o alle pubbliche utilità (elettricità, acqua, gas, carburanti, telegrafi ecc.). Tutte queste attività erano vitali per la gran parte dei capitalisti, poiché, tra le altre cose, determinavano il modo in cui le merci da essi prodotte venivano immesse sul mercato. Se queste due tipologie di imprese fondamentali fossero state nelle mani di oligopolisti privati, ciò avrebbe rappresentato una potenziale minaccia per gli altri capitalisti. Per esempio, se le intere produzione e distribuzione elettriche fossero state possedute da un pugno di magnati, questi sarebbero stati in grado di limitare (o addirittura di bloccare) la fornitura energetica a qualsiasi altro imprenditore a loro ostile. Allo stesso modo, i proprietari privati di reti di trasporto potevano in pratica limitare fisicamente l'accesso di qualsiasi altro capitalista al mercato. Pertanto, gli oligopolisti che avessero controllato queste imprese-chiave avrebbero avuto un enorme potere di ricatto sull'intera struttura capitalistica: aumentando oculatamente i prezzi dei loro servizi avrebbero potuto mandare in rovina praticamente chiunque. La soluzione a tale potenziale minaccia trovata in questo frangente storico (e completamente diversa dalle tendenze attuali basate sul meccanismo delle “authority”) fu quella di porre tali imprese-chiave sotto il controllo diretto (e spesso anche la proprietà) dello Stato, che era sì svincolato dagli interessi particolari di qualsivoglia singolo capitalista, ma certo non dagli interessi del sistema capitalistico nazionale nel suo complesso. Da ciò nacque l’espressione, molto diffusa nel mondo marxista, di “capitalismo monopolista di Stato” per indicare la forma specifica assunta dal modo di produzione capitalista nei paesi occidentali avanzati almeno a partire dall’inizio del XX secolo.
In taluni casi lo Stato intervenne anche in un settore in crisi reputato importante per l'economia nazionale nel suo insieme. Se una grande azienda, per esempio nell’ambito delle costruzioni navali o degli armamenti, avesse vacillato, la crisi risultante si sarebbe espansa fino a comprendere molte altre società fortemente legate all'industria navale o degli armamenti, come quelle dell’acciaio, degli esplosivi, o dell’elettromeccanica. Queste ultime tre, a loro volta, avrebbero prodotto cali nelle industrie ad esse connesse, ma dette “secondarie” nei confronti di quelle delle costruzioni navali o degli armamenti, come l'estrazione dei minerali ferrosi, la chimica di base ecc. Pertanto, le ricadute di un singolo fallimento economico potevano (e a tutt’oggi ancora possono) avere un impatto quasi sull'intera economia nazionale, trascinando verso il fallimento molte altre realtà mediante il cosiddetto “effetto domino”. Una tale minaccia ai profitti di tutti gli oligopolisti venne, ancora una volta, affrontata attraverso l'intervento dello Stato. Per prevenire il fallimento di un importante conglomerato di aziende, il governo spesso utilizzò commesse, prestiti o sussidi per garantire che il settore rimanesse in qualche modo redditizio. In casi estremi, lo Stato stesso fu costretto ad assumere l'amministrazione dell'impresa per assicurarne la sopravvivenza. Quest’ultimo metodo, piuttosto raro prima del 1914, diverrà estremamente comune dopo la grande crisi del ’29 e si protrarrà quasi invariato fino ai giorni d’oggi, soprattutto per ciò che concerne il settore bancario e assicurativo.
Stampa satirica relativa alla divisione delle sfere di influenza in Cina tra le potenze imperialistiche di Gran Bretagna, Germania, Russia, Francia e Giappone intorno al 1898. Il comportamento predatorio degli occidentali nei confronti della antica civiltà cinese, a partire approssimativamente dalla prima guerra dell’oppio del 1839, fu davvero una delle pagine peggiori dell’espansione imperialista nel continente asiatico.
Le crisi all’epoca del capitale monopolistico
Il lungo e dettagliato studio di Karl Marx sul capitalismo manchesteriano lo aveva portato, principalmente nel III libro de “Il Capitale” e in “Teorie sul Plusvalore” (ma anche preliminarmente nei Grundrisse), a confrontarsi con un fenomeno tristemente noto ai suoi contemporanei: le crisi economiche ricorrenti del sistema capitalistico. Benché Marx, ispirandosi a Jean Charles de Sismondi e a John Stuart Mill, seguì varie tracce e non formulò mai un’unica teoria delle crisi capitalistiche, i suoi successori, a partire da Engels, cercarono di cristallizzare i suoi molteplici contributi sull’argomento formulando tre possibili spiegazioni, non necessariamente tra loro esclusive[24], sulle origini delle crisi: il disproporzionamento, la sovraproduzione (o sottoconsumo) e la contrazione del tasso di profitto (da non confondersi con la cosiddetta “caduta tendenziale del tasso di profitto” che sarebbe invece un fenomeno di lungo periodo e quindi non ciclico). Il disproporzionamento, termine adattato in maniera piuttosto infelice dalla chimica, indica la violazione, indotta dal carattere intrinsecamente anarchico e disordinato dell’economia capitalista, delle corrette proporzioni tra i vari settori industriali, necessarie secondo la teoria marxista per il procedere della cosiddetta “riproduzione allargata” (cfr. il saggio divulgativo che tratta di questi argomenti[25].
In parole semplici possiamo anche dire che “il disproporzionamento” è una condizione del processo casuale e senza piano della produzione capitalista. Il prezzo di vendita di una merce è condizionato dall’interazione tra la domanda e l’offerta, ma nel sistema capitalista ogni singolo produttore opera con una conoscenza insufficiente di ciascuno di questi due fattori. In assenza di un’economia pianificata, il capitalista è costretto a valutare nel miglior modo possibile la domanda della sua merce. Questa stima, tuttavia, è raramente accurata. E poiché ogni produttore fabbrica come entità isolata, il capitalista non ha modo di sapere quale sarà l'offerta totale di una merce, poiché non può conoscere le quantità di merci che saranno fabbricate dagli altri produttori. Il risultato è una costante fluttuazione dei prezzi di vendita, dal momento che i capitalisti creano costantemente "troppa" o "troppo poca" offerta per la domanda effettiva. Queste fluttuazioni sono pericolose per il capitalista, poiché le variazioni del prezzo di vendita influiscono direttamente sulla frazione di profitto che il capitalista è in grado di realizzare. Se i prezzi di vendita scendono troppo in basso, il capitalista non sarà in grado di realizzare alcun profitto e perderà una parte del suo capitale investito. La crisi di disproporzionamento deriva quindi da questa incapacità dei capitalisti di far corrispondere razionalmente l’offerta necessaria con la domanda data. A causa della ben nota “anarchia della produzione”, è una mera felice coincidenza quando l’offerta corrisponde alla domanda. La situazione normale è che i prezzi di vendita oscillino attorno al valore della merce (o meglio intorno al suo prezzo di produzione). Tuttavia, una volta raggiunta la fase del capitalismo monopolistico le industrie divennero dominate da grandi oligarchie e il carattere delle crisi economiche, almeno secondo alcuni teorici marxisti, sarebbe cambiato. Questa nuova forma di crisi venne battezzata con nome di “crisi di sovrapproduzione”, come si chiamerebbe il fenomeno se osservato dal punto di vista dei capitalisti venditori, ma anche con quello di “crisi di sottoconsumo” (naturalmente dal punto di vista dei lavoratori acquirenti). In effetti, la sovraproduzione è, già secondo Marx, il modo in cui si manifesta per eccellenza la crisi economica capitalista, ovvero con l’interruzione del processo di circolazione del capitale e la mancata realizzazione del profitto, causate dal permanere di merci invendute. Sembrerebbe però improbabile (ma il condizionale è d’obbligo perché non vi è completo consenso tra gli studiosi) che Marx o Engels considerassero la sovraproduzione come la causa prima delle crisi economiche. E benché l’argomento dell’“impossibilità del capitalismo per sovraproduzione” divenne estremamente popolare nel marxismo divulgativo dell’epoca della Seconda Internazionale[26], fu solo Rosa Luxemburg nel 1913[27] a cercare di fornire una solida base a queste idee di lontane origini sismondiane, sforzandosi di dimostrare l’impossibilità tout court della riproduzione allargata in assenza di mercati esterni precapitalistici. Infine, vi è l’ipotesi della contrazione del tasso di profitto come causa ipotetica delle crisi cicliche, divenuta la spiegazione abituale delle crisi economiche per la gran parte dei raggruppamenti “marxisti rivoluzionari”. Essa è spiegata in maniera semplice nell’articolo dell’aprile 1984 di Edgar Hardcastle per “World Socialist” intitolato “The economic crisis - the Marxian explanation” reperibile in rete[28].
Purtroppo il ricco dibattito sulle crisi cicliche capitalistiche in seno alla Seconda Internazionale (e in parte anche alla Terza, con Nikolaj Dmitrievič Kondrat’ev) prese una piega ideologica non sempre molto scientifica, in quanto, venendo in qualche modo mescolato alla questione dell’ipotetico “crollo” (o “crisi finale” o “crisi mortale”) del capitalismo, vide immediatamente schierati su fronti opposti i “massimalisti rivoluzionari” che normalmente pendevano verso il “crollismo”, e i “minimalisti riformisti” che invece enfatizzavano la mera ciclicità e quindi, in qualche modo, la prevedibilità e la controllabilità delle crisi economiche del capitalismo. Così se i primi opteranno in genere o per il “sottoconsumismo” (Rosa Luxemburg) o per “la contrazione del tasso di profitto” (Henryk Grossman), i secondi si faranno spesso paladini dell’ipotesi “disproporzionalista” (Michail Ivanovič Tugan-Baranovskij e Rudolf Hilferding). Ovviamente coesisteva con questi due fronti opposti una vasta gamma di sfumature intermedie comprendente autori marxisti risolutamente rivoluzionari, come Lenin, Pannekoek e gli “impossibilisti” britannici, ma fortemente avversi all’idea della “crisi mortale” del capitalismo. Il dibattito sulla questione fino circa alla seconda metà degli anni ’20 del XX secolo è riportato in gran dettaglio, ma non senza una certa dose di faziosità, nei primi capitoli del noto saggio di Grossman[29].
Tutti questi discorsi teorici sembrano però voler eludere una domanda quasi scontata: la trasformazione del capitalismo da “manchesteriano” a “monopolista” come modificò (se lo fece) il meccanismo delle crisi cicliche? La loro sopravvivenza è in effetti un fatto ben noto, anche se già Engels notava un certo aumento dell’intervallo temporale tra una crisi e la successiva. Non abbiamo ovviamente la possibilità di addentrarci nella complessa tematica dei cicli minori e maggiori dell’economia capitalistica mondiale, dove gli esperti riconoscono ben quattro dinamiche distinte basate su: i cicli di Kitchin (di 3-5 anni, causati dalle oscillazioni dell’offerta), quelli di Juglar (di 7-11 anni, connessi alla durata degli investimenti nel capitale fisso), le oscillazioni di Kuznetz (di 15-25 anni, legate agli investimenti infrastrutturali) e le onde K o di Kondrat’ev (di 45-60 anni, basate su grandi cambiamenti di paradigmi tecnologici). Per il nostro scopo ci è sufficiente ribadire l’idea che nel capitalismo monopolista le crisi cicliche permangono, sono più distanziate rispetto a quelle quinquennali del periodo 1825-1877 di cui scrive Engels[30], ma tendono ad esser più lunghe e più profonde. Per quello che concerne invece le cause prime alla base di tali cicli di sviluppo e crisi del capitalismo, la scuola marxista era (ed in genere è rimasta) piuttosto critica nei confronti delle spiegazioni accademiche delle quattro dinamiche appena citate. Essa resta però divisa ancora oggi nei tre approcci che abbiamo visto cristallizzarsi a cavallo tra ‘800 e ‘900: il disproporzionamento, il sottoconsumo e la contrazione del tasso di profitto. Autori con Paul Sweezy, già nel 1942, cercarono di fondere l’approccio luxemburghiano “sottoconsumista” con quello keynesiano legato all’idea dell’insufficienza della domanda aggregata come causa di allargamento e di persistenza delle crisi[31],[32], mentre altri economisti marxisti (Paul Mattick, Paul Mattick jr., Michael Roberts, Andrew Kliman ecc.) restarono (e restano) legati alla tradizionale spiegazione basata sulla riduzione del saggio di profitto causata dal momentaneo pieno impiego dei lavoratori e il conseguente rialzo dei salari. Curiosamente va notato che il modello endogeno di Richard M. Goodwin del 1967, benché fondato sulle categorie dell’economia accademica, riprenda molto dalle analisi marxiane sulle oscillazioni del tasso di profitto e tenti di matematizzarle mediante un modello del tipo “preda-predatore” basato sulle equazioni differenziali di Lotka-Volterra. In ultimo, vari economisti marxisti, come ad esempio Ernest Mandel, pur cercando una sintesi tra le teorie sottoconsumiste e quelle disproporzionaliste, rimasero essenzialmente legati a queste ultime, catturandosi gli strali di Paul Mattick, così come Michail Ivanovič Tugan-Baranovskij e Rudolf Hilferding, cinquant’anni prima, erano stati oggetto delle vivaci contestazioni di Henryk Grossman.
Immagini della crisi economica del 1873 negli Stati Uniti, nota anche come l’inizio della “lunga depressione”. Come nella recentissima crisi del 2008, tutto cominciò dal collasso del settore immobiliare, che poi si trasferì al settore finanziario e causò il crollo delle borse (iniziando da quella di S. Francisco, all’epoca molto rilevante).
Conclusioni
Terminata questa rapida presentazione delle caratteristiche specifiche del capitalismo monopolista (1871-1914) rispetto a quello manchesteriano (1760-1870) che lo precedette, è opportuno fare due brevissime precisazioni: (a) molte di tali caratteristiche furono in effetti acquisizioni più o meno definitive del capitalismo. Con ciò intendiamo dire che nonostante taluni storici dell’economia abbiano introdotto varie periodizzazioni successive nello sviluppo del capitalismo mondiale (per esempio, “la terza rivoluzione industriale” del secondo dopoguerra, la fase “postfordista”, la fase “globale” ecc.), ci sembra che la contrapposizione “manchesteriano/monopolista” sia di gran lunga la più efficace e la maggiormente condivisibile. (b) Non deve quindi stupire quanto abbiamo detto en passant nei paragrafi precedenti, ossia che per molti autori marxisti quello degli anni ’60-’70 del XX secolo è ancora, sostanzialmente, un “capitalismo monopolista” (magari con l’aggiunta della specificazione “di Stato”). Ovviamente l’epoca della globalizzazione era ancora di là da venire in quei frangenti. Se ne deduce che quando tali autori riaffermavano l’applicabilità della scienza economica marxista all’era degli oligopoli, essi non avevano in mente solo il quarantennio a cavallo tra XIX e XX secolo, ma un periodo ben più esteso che comprendeva in buona sostanza anche gli anni ad essi contemporanei. In altre parole, non si trattava solo di un’erudita discussione tra storici dell’economia, ma anche, per certi versi, la rivendicazione di una teoria economica che aspirava a farsi prassi politica. I più decisi nell’etichettare tutto il capitalismo del XX secolo come essenzialmente “monopolista” (magari “di Stato”, dopo la Grande Crisi del 1929) furono probabilmente gli autori della scuola sovietica di economia marxista, soprattutto Jakov A. Pevzner[33], mentre tale interpretazione è fortemente avversata dagli economisti di formazione laburista o socialdemocratica, come Geoffrey Ingham[34], i quali evidenziano invece gli elementi socio-economici nuovi, introdotti principalmente nel secondo dopoguerra (ma iniziati già negli anni ’30) attraverso il noto compromesso tra capitale e lavoro: welfare state, politiche keynesiane di sostegno alla domanda, nazionalizzazioni, controllo pubblico sulle maggiori banche ecc. Ovviamente a noi questo dibattito interessa poco, non perché non sia importante, ma perché ci condurrebbe completamente fuori traccia. Lo scopo dell’articolo era infatti quello di ribadire la totale adeguatezza delle principali categorie dell’economia marxista per comprendere le trasformazioni (talvolta davvero proteiformi) del modo di produzione capitalista nel corso della sua breve ma vivace esistenza. Un’adeguatezza che però non significa in alcun modo la ripetizione acritica di giaculatorie dogmatiche: vanamente si cercherebbero soluzioni pronte all’uso ne “Il Capitale” o nelle altre opere economiche di Marx ed Engels. E più il capitalismo muterà aspetto esteriore col tempo e meno gli esempi marxiani saranno fruibili come pagine di un libretto di istruzioni. Tutto all’opposto, dei due giganti del socialismo scientifico dovranno rimanere immutati solo: (i) l’onestà intellettuale a costo di essere aspri, sferzanti e dissacranti; (ii) il radicale naturalismo metodologico che confini qualsiasi appello a concetti-chiave ed idee-guida nel mondo della psiche umana piuttosto che in quello dei fatti concreti; (iii) il metodo dell’astrazione, che ci metta al riparo dal concedere troppa importanza a fenomeni esteriori e caduchi; (iv) il profondo ragionamento dialettico che respinga le facili spiegazioni mono-causali e gli improbabili automatismi meccanicistici; (v) la dinamica di collaborazione/scontro tra le classi sociali sempre intese in rapporto al loro ruolo nei processi di riproduzione della specie umana; (vi) la denuncia del carattere irriducibilmente storico, transeunte e ideologico delle sovrastrutture politiche, giuridiche, artistiche e culturali anche quando queste provino ad apparire come assolute, astoriche e immutabili; (vii) l’analisi dei fatti economici che abbia al centro il lavoro umano, opportunamente astratto e reso veramente “sostanza generale”, piuttosto che effimere categorie psicologiche come la preferenza, la soddisfazione, l’utilità o il rischio. Se questi sette canoni saranno rispettati allora avremo veramente a che fare con un’analisi marxista scientifica anche se, in qualche modo, essa si ponesse in contraddizione con parte di quanto sedimentato nella sterminata letteratura socialista degli ultimi due secoli.
Già avviati alla conclusione percepiamo però l’eco di una possibile quanto legittima obiezione: se il marxismo non dogmatico ha comunque un carattere scientifico, perché allora nella nostra pur breve disamina delle analisi del capitalismo post-manchesteriano abbiamo incontrato spessissimo autori “marxisti” o “neomarxisti” in difesa di un largo ventaglio di posizioni, non solo non perfettamente identiche, ma sovente addirittura in contraddizione tra loro? Si tratta di una domanda non facile che sicuramente potrebbe esser collegata con il concetto di “scientificità” per ciò che riguarda le discipline economiche, storiche e sociali, il quale, come sottolineava Max Weber più di un secolo fa[35], non può identificarsi in tutto e per tutto con quello relativo alle discipline fisiche, chimiche e naturali. Ma noi pensiamo che, almeno per ciò che riguarda il marxismo dopo il 1917, la causa principale di questa pluralità di posizioni sia da cercare altrove, ovvero nella grande spaccatura del movimento operaio e socialista, successiva alla Rivoluzione d’Ottobre, tra socialisti democratici e comunisti, seguita poi, nel corso del XX secolo, da una pletora di altre suddivisioni minori: comunisti dei consigli e leninisti, stalinisti e trotzkisti, maoisti e kruscioviani ecc. Orbene, è profondo convincimento di chi scrive che gran parte delle contraddizioni viste nell’ambito delle interpretazioni del capitalismo post-manchesteriano siano solo la proiezione di forti incompatibilità politiche tra gli autori citati. Caso emblematico è, a nostro parere, quello che vide il consiliarista Mattick opporsi al trotzkista Mandel in maniera oltremodo polemica relativamente alla natura delle crisi cicliche del capitalismo post-bellico[36] . Ma già negli anni ’20 era successo qualcosa di simile con la durissima critica del comunista Grossman ai socialdemocratici Kautsky e Bauer sulla questione del disproporzionamento nelle crisi capitaliste[37]. Forse, l’inevitabile prezzo da pagare per tutti gli “intellettuali organici” di gramsciana memoria… Auspichiamo però che un futuro movimento socialista, che finalmente si lasci alle spalle le innumerevoli beghe del XX secolo, abbia anche la forza di promuovere la ripresa della teoria marxista giungendo finalmente al massimo grado di compattezza e di coerenza compatibile con lo status epistemologico delle scienze economiche, storiche e sociali.
Uno dei momenti di maggiore contrasto tra comunisti e socialdemocratici fu senz’altro il periodo delle elezioni del novembre 1932 nella Germania di Weimar. La propaganda elettorale socialdemocratica addita i comunisti di Thälmann come un nemico mortale, inferiore solo ai monarchici conservatori di von Papen ed ai nazisti di Hitler. Ma già il 14 luglio del 1933, cioè meno di un anno dopo, tutti i partiti (eccettuato quello nazista) venivano sciolti e dichiarati illegali.
Dan Kolog
[1] William Dyer Grampp, The Manchester School of Economics (Stanford University Press, Stanford, 1960).
[2] Saggio contenuto in: Nicola Massimo de Feo, Ragione e Rivolta (Mimesis, Milano, 2004).
[3] Antony Brewer, A minor post-Ricardian: Marx as an economist, History of Political Economy, vol. 27, no. 1, pagine 111-145 (1995).
[4] Decennio-chiave che comprende i maggiori sforzi di Karl Marx per ciò che riguarda l’elaborazione della sua teoria critica dell’economia politica. Inizia nel 1857 con la stesura della “Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’”, proseguendo con gli inediti “Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica” (“Grundrisse”) per terminare dieci anni dopo con la pubblicazione del volume I de “Il Capitale”. Si noti come i manoscritti dei volumi II e III de “Il Capitale”, nonché dei “Saggi sul plusvalore”, sono spesso anteriori alla data di pubblicazione dello stesso volume I, rientrando quindi nel suddetto periodo 1857-67, collocato quasi al termine dell’esistenza del “capitalismo manchesteriano” in Europa.
[5] Vedasi il breve saggio di Lenny Flank, Contradictions of Capitalism (Red and Black Publishers, St. Petersburg, FL, 2007), a cui si ispirano varie parti del nostro articolo divulgativo
[6] Karl Marx, Il Capitale, libro III, parte III, cap. 13 (Editori Riuniti, Roma, 1968).
[7] Dan Kolog. LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO DI PROFITTO IN MARX E NELLA TEORIA ECONOMICA MARXISTA (UN’ESPOSIZIONE DIVULGATIVA). Adattamento Socialista, aprile 2021.
https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/04/la-caduta-tendenziale-del-tasso-di.html
[8] Paul Baran e Paul Sweezy, Il Capitale Monopolistico (Einaudi, Torino, 1970).
[9] Karl Marx, Il Capitale, libro III, parte V, cap. 27 (Editori Riuniti, Roma, 1968).
[10] Ernest Mandel, Trattato Marxista di Economia, vol. II, cap. 12 (Massari Editore, Bolsena (VT), 1997).
[11] Paul Baran e Paul Sweezy, Il Capitale Monopolistico (Einaudi, Torino, 1970).
[12] Il divieto di “fixed pricing” è una proibizione legata alle note leggi antitrust, in vigore negli USA a partire dal periodo 1890-1914 ed introdotte con lo scopo di mettere un freno alla formazione di veri e propri monopoli. Data questa proibizione, la maggior parte dei cartelli utilizzava invece il sistema del "price leader", in cui un membro del cartello, di solito il più forte, annunciava un aumento dei prezzi, a cui seguivano poco dopo aumenti simili da parte degli altri membri del cartello. In questo modo veniva mantenuta la finzione di "prezzi indipendenti ottenuti mediante il mercato" e si evitavano le fastidiose indagini della Commissione Antitrust.
[13] Ernest Mandel, Trattato Marxista di Economia, vol. II, cap. 12 (Massari Editore, Bolsena (VT), 1997).
[14] Dan Kolog. LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO DI PROFITTO IN MARX E NELLA TEORIA ECONOMICA MARXISTA (UN’ESPOSIZIONE DIVULGATIVA). Adattamento Socialista, aprile 2021.
https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/04/la-caduta-tendenziale-del-tasso-di.html
[15] Ernest Mandel, Trattato Marxista di Economia, vol. II, cap. 12 (Massari Editore, Bolsena (VT), 1997).
[16] Rudolf Hilferding, Il Capitale Finanziario (Mimesis Edizioni, Milano, 2011).
[17] Karl Kautsky, Socialism and Colonial Policy (Athol books, Belfast, 1975).
[18] Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale (Pgreco, Roma, 2021).
[19] Vladimir Ilʹič Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (Pgreco, Roma, 2014).
[20] Nikolaj Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo (Samona e Savelli, Roma, 1966).
[21] Antony Brewer, Marxist Theories of Imperialism, a critical survey (Routledge, New York & London, 1990).
[22] Ernest Mandel, Trattato Marxista di Economia, vol. II, cap. 13
(Massari Editore, Bolsena (VT), 1997).
[23] Friedrich Engels, Anti-Dühring (Editori Riuniti, Roma, 1971).
[24] Simon Clarke, Marx’s Theory of Crisis (Palgrave Macmillan, London, 1994).
[25] Dan Kolog. LA CADUTA TENDENZIALE DEL TASSO DI PROFITTO IN MARX E NELLA TEORIA ECONOMICA MARXISTA (UN’ESPOSIZIONE DIVULGATIVA). Adattamento Socialista, aprile 2021.
https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/04/la-caduta-tendenziale-del-tasso-di.html
[26] Veramente gustosa è la spiegazione della teoria della sovraproduzione, destinata a operai industriali, che il noto romanziere statunitense Jack London mette in bocca a un agitatore socialista nel suo piccolo capolavoro letterario “Il tallone di ferro” (1908).
[27] Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale (Pgreco, Roma, 2021).
[28] Edgar Hardcastle. “World Socialist” intitolato “The economic crisis - the Marxian explanation”.
https://www.marxists.org/archive/hardcastle/1984/economic_crisis.htm .
[29] Henryk Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista (Mimesis, Sesto S. Giovanni, 2009).
[30] Friedrich Engels, L’Evoluzione del Socialismo dall’Utopia alla Scienza (Editori Riuniti, Roma, 1971).
[31] Paul Baran e Paul Sweezy, Il Capitale Monopolistico (Einaudi, Torino, 1970).
[32] Paul Sweezy, Teoria dello Sviluppo Capitalistico (Einaudi, Torino,
1951). L’approccio di Sweezy ci pare interessante perché, pur essendo basato
sulla negazione della legge di Say (una delle poche idee in comune tra Marx e
Keynes), non assume la radicalità della Luxemburg nella negazione della
possibilità di riproduzione allargata capitalista senza l’intervento di mercati
esterni precapitalistici. Al contrario, Sweezy imputa il problema della sovraproduzione
principalmente alla fase monopolistica del capitalismo e alla conseguente
nascita degli extraprofitti, i quali, ogni qual volta vengono tesaurizzati e
non prontamente reinvestiti (per esempio, a causa di aspettative commerciali
momentaneamente non favorevoli legate una supposta carenza della domanda
solvibile) innescano meccanismi di ulteriore contrazione della domanda
aggregata e quindi gigantesche crisi mondiali di sovraproduzione. Più
recentemente, il concetto di “riciclo del surplus dei profitti” a livello
internazionale è stato il tema dell’interessante saggio di Yanis Varoufakis, Il
Minotauro Globale (Asterios Editore, Trieste, 2012), che però si iscrive più
nel solco dell’economia post-keynesiana che di quella neomarxista.
[33] Jakov Aleksandrovič Pevzner, State-monopoly Capitalism and the labour theory of value (Progress Publishers, Moscow, 1978).
[34] Geoffrey Ingham, Capitalismo (Einaudi, Torino, 2011).
[35] Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali (Einaudi, Torino, 1981).
[36] Paul Mattick, Critica dei neomarxisti (Dedalo, Bari, 1971).
[37] Henryk Grossman, Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista (Mimesis, Sesto S. Giovanni, 2009).
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