L’operaismo italiano: da teoria sociale a prassi politica nella stagione ’61 – ‘79
Introduzione
In un articolo dello scorso anno intitolato “Le ‘sette tesi sul controllo operaio’ di Raniero Panzieri e Lucio Libertini” abbiamo introdotto, anche se in modo piuttosto sommario, la figura di quell’importante intellettuale socialista che fu Raniero Panzieri, seguendone il percorso politico dalle sue prime esperienze nel PSI morandiano degli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, alle “Sette tesi sul controllo operaio” (1958), alla lotta contro la svolta a destra del governo Tambroni (1960), alla nascita della rivista marxista indipendente “Quaderni rossi” (1961) [1] fino ai famosi fatti di Piazza Statuto (1962). Panzieri moriva inaspettatamente e prematuramente nell’autunno del 1964, ma già da gennaio di quell’anno veniva ad esistere anche “Classe Operaia” [2], la rivista che è considerata da molti storici contemporanei come l’autentica culla del cosiddetto operaismo italiano (o, più semplicemente, operaismo), il quale, per inciso, sarà proprio l’argomento di questo articolo divulgativo. Nel 1966 venne pubblicato il volume “Operai e capitale” [3] che fu il manifesto teorico-politico del movimento operaista nella fase in cui tale movimento era ancora egemonizzato dalla figura carismatica di Mario Tronti [4]. Si tratta di un’opera che influenzò fortemente un’intera generazione di militanti, ossia quelli che nel triennio ’67-’69 si affacciarono per la prima volta sulla scena delle lotte sociali, sindacali e politiche in Italia. E anche se già nel 1967 la rivista “Classe Operaia” chiudeva, le concezioni operaiste che essa aveva contribuito a plasmare si sarebbero dimostrate molto più durature, almeno nel nostro Paese.
A questo punto è più che legittimo domandarsi cosa sia stato l’operaismo in quanto concezione politica della sinistra marxista, e quali effetti abbia avuto in quegli anni sul movimento operaio a cui, d’altra parte, il suo nome sembra richiamarsi in modo fin troppo esplicito. Le risposte a queste due questioni, come si è già in parte anticipato, si trovano proprio nell’atto di nascita dell’operaismo, risalente alla scissione del ’63-’64 avvenuta nella redazione dei “Quaderni rossi”, che cercheremo di esporre in modo molto succinto [5] e quanto più possibile lontano dalle paludate formulazioni accademiche dei vari filosofi della politica ancora infatuati della cosiddetta “Italian Theory”. D’altro canto, a chi scrive interessano molto di più le influenze delle idee-base dell’operaismo sui settori più radicalizzati del proletariato e del mondo studentesco, che non si esauriscono istantaneamente nel ’79, ma che, al contrario, condizionano ancora oggi un buon numero di collettivi politici (autodefinitisi sovente come “post-operaisti”), nonché diversi settori di quella che fu, almeno fino a una decina di anni fa, la galassia antagonista e “disobbediente”. E questo fatto potrebbe apparire abbastanza paradossale in quanto, per esempio, i cosiddetti “disobbedienti” (2001-2004) di norma negavano alla classe lavoratrice un ruolo attivo nei processi di trasformazione della società. Ma come vedremo, tale capovolgimento di giudizio era già largamente contenuto nell’evoluzione dell’operaismo nel corso degli anni ’70 e non deve quindi meravigliare più di tanto. Anzi, potrebbe essere forse spiegato con la presenza di una certa tara idealista nella concezione della classe lavoratrice da parte dei primi operaisti: quando poi la realtà concreta imponendosi demolì almeno parte di tali concezioni, non completamente obiettive, relative ai lavoratori industriali, allora si corse il rischio di volgersi di scatto nella direzione diametralmente opposta, negando così un ruolo attivo alla classe lavoratrice e persino la sua esistenza reale e oggettiva. E in effetti, alcuni elementi d’influenza (o forse, più correttamente, alcune parole d’ordine) dell’operaismo possono esser riscontrati anche in ambienti politici piuttosto lontani dai collettivi e dai settori “antagonisti”, come quelli della cosiddetta “sinistra radicale parlamentare”. Per esempio, in Rifondazione Comunista alla fine degli anni ’90, quando il suo segretario Fausto Bertinotti citava sovente le tesi del cosiddetto “capitalismo cognitivo” [6] e menzionava spesso il libro “Impero” di Hardt e Negri [7]. Né deve quindi sorprendere che, per esempio, nel gennaio del 2007 in un convegno organizzato dalla casa editrice romana DeriveApprodi e dedicato proprio al quarantesimo anniversario della pubblicazione di “Operai e capitale”, l’ospite di riguardo, Mario Tronti (sebbene fosse già allora un convinto sostenitore del neonato Partito Democratico), abbia concluso il dibattito con un lungo e complesso intervento [8] in cui, tra le altre cose, rivendicava addirittura in qualche modo l’attualità dell’operaismo:
“Lì c’è una cosa importante che ho sempre consigliato: l’operaismo è sì un punto di vista parziale, ma non è un punto di vista subalterno. Direi che è un punto di vista potenzialmente egemonico, se egemonia non fosse una parola debole. C’è una parola che a me piace di più: è un punto di vista potenzialmente dominante. Anche nei confronti del pensiero politico borghese, di quel grande pensiero che noi abbiamo riconosciuto nella sua grandezza, da Machiavelli, a Hobbes, a Weber, a Marx, l’atteggiamento era quello di conquistare territori di quel pensiero. Nell’introduzione si è definito “Operai e capitale” una macchina da guerra: sì, di fatto è una guerra teorica in cui tu cerchi di sottrarre territori all’avversario, invadi anche il suo campo e gli togli posizioni. Interpreti, per esempio, i grandi autori della politica moderna e li interpreti a tuo modo, li pieghi al tuo interesse. Questa è una espressione di forza, di forza teorica”.
L’eredità di Raniero Panzieri come precursore dell’operaismo
Torniamo rapidamente ai primi anni ‘60 e all’attività politica di Raniero Panzieri. Come già sappiamo, questo dirigente della sinistra socialista ebbe l’indubbio merito di criticare il movimento comunista del secondo dopoguerra da un punto di vista non banalmente socialdemocratico e riformista, anche se non riuscì a comprendere in modo chiaro la parabola del bolscevismo russo che condusse da Lenin a Kruščëv passando per Stalin. Rimase sempre molto legato, almeno esteriormente, all’artefice della Rivoluzione d’Ottobre, come d’altronde lo era stato il suo maestro di gioventù, Rodolfo Morandi, e un po’ tutto il socialismo massimalista italiano (con la parziale eccezione di Lelio Basso). In effetti, similmente a molti militanti e dirigenti della sinistra italiana, Panzieri subì il doppio trauma delle dichiarazioni di Kruščëv successive alla morte di Stalin e della repressione della rivolta ungherese del 1956 da parte dei carri armati sovietici. Come reazione, tentò di liberare la sinistra marxista italiana dalle sue incrostazioni staliniste [9], dando però una risposta soltanto parziale alla grave crisi attraversata dal movimento operaio nel corso degli anni ’50. Anche se non più attivo nel suo partito d’origine, Panzieri ad ogni modo non ruppe mai completamente con il PSI, forza politica a cui rimase iscritto fino all’autunno del ’64, data della morte, sebbene guardasse con molto interesse alla nascita del secondo PSIUP nel gennaio dello stesso anno. Infatti, il contesto politico italiano di quegli anni era già in rapidissimo cambiamento: come abbiamo detto, le forti mobilitazioni dei primi anni ’60 contro il governo Tambroni e le lotte sindacali spontanee che culmineranno con la rivolta di Piazza Statuto (1962) [10] avevano creato un ambiente nuovo ed effervescente, di vero riscatto del movimento operaio dopo il riflusso dei difficili anni ’50 e della destalinizzazione. Iniziava quindi quel lento circolo virtuoso della lotta di classe all’interno del periodo del cosiddetto “miracolo economico” che avrebbe condotto in pochi anni sia moti studenteschi del ’68 che all’ “autunno caldo” del ’69.
Sotto l’impulso proprio di Panzieri la redazione della nuova rivista marxista indipendente “Quaderni rossi” iniziava l’attività nell’autunno del ’61. Il terreno iniziale di lavoro del periodico fu la cosiddetta “inchiesta operaia”, focalizzata soprattutto sulle grandi fabbriche piemontesi. È proprio lì che nacque il concetto, tipicamente operaista, di “composizione di classe” [11] che in ultima analisi si proponeva di far derivare i comportamenti degli operai industriali dalla loro collocazione all’interno del processo produttivo, secondo un approccio che ai vecchi marxisti gramsciani appariva eccessivamente determinista da un lato e dall’altro finiva, sempre secondo loro, per far quasi a coincidere la struttura economica (il processo produttivo) con una sovrastruttura sociologica (la condizione operaia). La diatriba su tematica scoppierà con flagranza dopo la vera e propria svolta operaista successiva al ‘64, in quanto Panzieri, pur avendo ricevuto in precedenza forti critiche da vari intellettuali marxisti, non si spinse mai teoricamente oltre un certo segno, rimanendo sempre una figura di frontiera tra la vecchia tradizione del socialismo massimalista e le nuove concezioni operaiste vere e proprie. Infatti, come abbiamo cercato di spiegare nel nostro articolo su Panzieri dell’anno scorso, l’idea soggiacente alle sue “Sette tesi sul controllo operaio” (elaborate insieme a Lucio Libertini) era essenzialmente quella iniziare il processo di costruzione della società socialista basandola su una democrazia non solo formale e, soprattutto, sul controllo operaio; due posizioni queste che Panzieri non abbandonò mai fino al termine dei suoi giorni, ma che pur essendo in qualche modo precorritrici dell’operaismo non devono esser confuse con esso.
Fig. 1. Curiosa immagine di Raniero Panzieri, risalente ai primi anni ’60, mentre parla con un paio di operai durante la distribuzione di volantini davanti ai cancelli di una fabbrica nel torinese. In questo ambiente viene sviluppato l’importante concetto proto-operaista di “inchiesta operaia”.
Mario Tronti e la nascita dell’operaismo italiano
Il momento di rottura della rivista “Classe Operaia” (che usciva con il sottotitolo: “mensile politico degli operai in lotta”) con il marxismo “ortodosso” avvenne già nel primo numero, uscito l’11 gennaio 1964, quando Tronti iniziava l’articolo di apertura, intitolato provocatoriamente “Lenin in Inghilterra”, scrivendo che:
“Un’epoca nuova della lotta di classe sta per aprirsi. Gli operai l’hanno imposta ai capitalisti con la violenza oggettiva della loro forza di fabbrica organizzata. L’equilibrio del potere sembra solido; il rapporto delle forze è sfavorevole. Eppure, là dove più potente è il dominio
del capitale, più profonda si insinua la minaccia operaia. È facile non vedere. Bisogna guardare a lungo e nel profondo la situazione di classe della classe operaia. La società capitalistica ha le sue leggi di sviluppo: gli economisti le hanno inventate, i governanti le hanno applicate e gli operai le hanno subite. Ma le leggi di sviluppo della classe operaia, chi le scoprirà? Il capitale ha la sua storia e i suoi storici la scrivono. Ma la storia della classe operaia, chi la scriverà? Tante sono state le forme di dominio politico dello sfruttamento capitalista. Ma come si arriverà alla prossima forma di dittatura degli operai, organizzati in classe dominante? Bisogna lavorare con pazienza, nel vivo, dall’interno, su questo esplosivo materiale sociale. Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione. Non è una trovata retorica e non serve per riprendere fiducia. È vero: è urgente oggi scrollarsi di dosso quest’aria di sconfitta operaia che imbraca da decenni quello che è nato come l’unico movimento rivoluzionario, non solo della nostra epoca. Ma un’urgenza pratica non è mai sufficiente per sostenere una tesi scientifica: questa deve reggersi con le proprie gambe su un groviglio storico di fatti materiali. Allora tutti sono tenuti a sapere che almeno da quel giugno 1848, mille volte maledetto dai borghesi, gli operai sono saliti sulla scena e non l’hanno più abbandonata: hanno scelto volontariamente, volta a volta, di presentarsi in ruoli diversi, come attori, come suggeritori, come tecnici, come lavoratori, in attesa di scendere in platea ad aggredire gli spettatori. Come si presentano oggi, sulle scene moderne? (…)” [sottolineatura nostra].
Ma cosa significava per Tronti affermare che: “Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione”? Si tratta a ben vedere di un’estremizzazione delle corrette intuizioni di Panzieri [12] che vedeva un nesso molto forte tra le lotte operaie e l’evoluzione tecnica del capitalismo industriale orientato verso un uso intensivo delle macchine in quanto strumento di “risparmio del lavoro”. Ossia, sarebbe proprio la lotta di classe a fungere involontariamente da motore delle grandi trasformazioni capitaliste. Ma nell’ottica trontiana si va ben oltre Panzieri e si giunge a subordinare logicamente il capitale alla classe operaia, anzi, più rigorosamente alla “composizione di classe” (ossia quel trinomio tecnico, sociale e politico che caratterizza la classe). Ovvero non è più il capitale che investito dal capitalista genera la classe all’interno di un processo produttivo, ma all’opposto è la “composizione di classe” a dar ragione del capitale e del suo possessore, il capitalista. Tale visione ribaltata del rapporto marxista “ortodosso” tra capitale e classe, che però Tronti sosteneva essere l’unica vera interpretazione di Marx, sarà resa teoricamente più precisa nel saggio del ’66 intitolato “Marx, forza-lavoro, classe operaia” e contenuto nel succitato saggio “Operai e capitale”. È del tutto evidente come Tronti, che pure si presenta in questi anni come marxista “rigoroso” fin quasi all’acribia nei suoi celebri studi sul II libro de “Il Capitale”, sia debitore nei confronti di ben altre correnti di pensiero per ciò che concerne l’anteposizione del momento sociologico a quello economico, cioè della classe operaia al capitale che la genera nel suo processo di autovalorizzazione. Ad esempio, nei confronti di una certa lettura del celeberrimo sociologo Max Weber, d’ispirazione liberal-democratica e persino, incredibile dictu, di uno degli ideologi della “rivoluzione conservatrice” tedesca, Ernst Jünger, autore del famoso saggio “L’Operaio” apparso nel 1932.
Ma perché Tronti scrive immaginando di portare “Lenin in Inghilterra”? Ovvero perché pensa alla rottura rivoluzionaria nel punto alto e forte dello sviluppo capitalistico della fine del XIX secolo, lì dove la classe operaia era la più estesa e importante, come pensavano già Marx ed Engels? L’allusione al capovolgimento del caso russo, che per i bolscevichi rappresentava invece l’anello “debole” della catena imperialista, non potrebbe esser più esplicita. Infatti, Tronti legge la figura di Lenin come quella, in qualche modo, di un suo precursore in grado di correggere Marx stesso (o meglio, il suo supposto “economicismo”) anteponendo il momento politico a quello economico, ossia la teoria della rivoluzione alla teoria critica dell’economia politica. Ma non certo per eliminare quest’ultima, quanto per “politicizzarla”, specie per quello che concerne la dottrina del valore-lavoro, che Tronti subordina completamente a ciò che per lui è la vera scoperta di Marx circa la natura del lavoro: non il concetto di lavoro contenuto nella merce, bensì quello di classe operaia dentro e contro il capitale. La classe, elemento dinamico del capitale, causa prima dello sviluppo, produce il capitale come potenza economica, ma potrebbe rifiutarsi di farlo separandosi da sé stessa come categoria economica, ossia negandosi come forza produttiva e affermandosi invece come potenza politica. La conclusione trontiana di questo complesso ragionamento fu quindi la seguente: la classe operaia, sfruttata, oppressa e dominata, senza il possesso né dei mezzi di produzione, né dell’egemonia politica, culturale e ideologica, sarebbe in qualche modo in grado, almeno parzialmente, di determinare le scelte economiche del sistema già prima della conquista del potere (e non solo, ovviamente, dopo di questa) in quanto le scelte soggettive degli operai finiscono per essere svelate come la vera forza motrice della trasformazione sociale. Scrive infatti Tronti in “Operai e capitale” (nel capitolo “Lotta contro il lavoro!”):
“Nessun operaio è oggi disposto a riconoscere resistenza del lavoro fuori del capitale. Lavoro = sfruttamento: questo è il presupposto logico e al tempo stesso il risultato storico della civiltà capitalistica. Di qui non si può tornare indietro. L’operaio non sa che farsene della dignità del lavoratore. E l’orgoglio del produttore lo lascia tutto quanto al padrone. E solo il padrone c’è rimasto a fare l’elogio del lavoro. Nel movimento operaio purtroppo ancora sì, ma nella classe operaia no, non c’è più posto per l’ideologia. La classe operaia, oggi, ha solo da guardare se stessa per capire il capitale. Ha solo da combattere se stessa per distruggere il capitale. Deve riconoscersi come potenza politica. Deve negarsi come forza produttiva. (…)” [sottolineatura nostra].
Sembra quindi possibile saltare (o comunque porre in secondo piano) la necessità impellente di costruire un partito rivoluzionario, che viene almeno in parte offuscato dal primato della lotta all’interno della fabbrica, anche spontanea, su tutto il resto. Si concepisce dunque l’organizzazione come una sorta di coordinamento di collettivi operai, finendo con enfatizzare a dismisura il ruolo delle lotte operaie viste come di per se stesse risolutrici dei complessi e annosi problemi dei rapporti tra classe e partito.
Ma forse la migliore ricapitolazione di questa stagione iniziale dell’operaismo l’ha compiuta Sergio Bologna (anche lui prima nella redazione di “Quaderni rossi” e poi in quella di “Classe Operaia”) nel 2002 scrivendo la prefazione [13] al primo libro anglosassone sull’operaismo italiano [cfr. Steve Wright, Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, (Pluto Press, London, 2002)]:
“È il risultato della ricerca condotta per
una tesi di laurea e come tale è il primo lavoro che affronta una ricostruzione
storica del pensiero e della pratica militante dell’operaismo italiano secondo
i criteri di analisi critica delle fonti, con il necessario distacco dalle
vicende ma anche con una capacità di comprensione, che deriva da un forte
sentimento di partecipazione personale e di condivisione delle ragioni dei
movimenti rivoluzionari.
È il primo libro di storia sull’operaismo italiano, che interrompe la linea
memorialistico-autobiografica dei materiali finora disponibili e la diffusa
produzione di giudizi sommari e generalmente liquidatori. Dovendo scegliere un
filo conduttore attraverso questa singolare vicenda intellettuale e politica,
Wright ha optato per il concetto di “composizione di classe”, riconoscendone in
tal modo quel valore che una parte degli operaisti stessi ha avuto difficoltà a
riconoscergli, perché lo mettevano in secondo piano, come criterio di pura
ricerca empirica, rispetto alla “grande teoria politica” (sullo stato, sul
partito, sulla rivoluzione, sulla classe, sul “general intellect” e così via).
Giustamente Wright sottolinea che il concetto di “composizione di classe” ha uno stretto legame con l’approccio della “con-ricerca” ed ambedue rimandano ad un modo, caratteristico degli operaisti italiani, di instaurare una collaborazione tra intellettuali e operai o tra intellettuali e proletari in senso lato, fondata su delle ragioni diverse da quelle che hanno caratterizzato il rapporto tra partito e classe nella II, III e IV Internazionale. Gli operaisti italiani non hanno voluto essere “la guida” della classe, non hanno voluto essere ceto politico, non hanno voluto essere un “partitino”, vivendo fino in fondo la contraddizione tra chi esercita teoria politica ed al tempo stesso rifiuta i modelli organizzativi tradizionali. (…)” [sottolineatura nostra].
In estrema sintesi, possiamo dire che la linea di “Classe Operaia” espresse una palese volontà di superare, come preconizzato da Panzieri, la dicotomia tra socialdemocrazia riformista e leninismo partitista, ma fu incapace di risolvere, almeno secondo alcuni, il dilemma dell’organizzazione e quindi venne inevitabilmente portata a subire le suggestioni, mutatis mutandis, di uno spontaneismo operaio non troppo lontano dalle memorie anarco-sindacaliste e sorelliane del primo decennio del XX secolo. Un discorso complesso che riprenderemo nelle conclusioni.
Ora, prima di passare alla seconda fase dell’operaismo, caratterizzata da una nuova scissione, è però opportuno precisare un tema importante, ossia il senso del cosiddetto “ritorno a Marx” di Tronti, Negri e Asor Rosa. Sembra infatti curioso che da un lato le tesi di fondo di “Classe Operaia” riprendano alcune idee di Sorel, di Pelloutier, dei sindacalisti rivoluzionari italiani di prima della Grande Guerra, o addirittura dell’operaismo di fine XIX secolo, mentre dall’altro gli operaisti italiani si propongano di essere dei reali innovatori e, soprattutto, di comprendere ed interpretare Marx in modo più rigoroso di qualunque altra tendenza marxista del momento (Lukács, Althusser, la Scuola di Francoforte ecc.). In altre parole, come fu possibile mescolare un sospetto “revisionismo di sinistra” con un sofisticato “ritorno a Marx”? Ciò avvenne mediante la scoperta dei cosiddetti “Grundrisse” [14] e in particolare del noto “Frammento sulle macchine” [15] (pubblicato per la prima volta in Italia da Panzieri proprio nel n. 4 di “Quaderni rossi”), il quale diventò una sorta di “mantra” dell’operaismo per la comprensione del cosiddetto “lavoro astratto”. O addirittura, secondo i detrattori dell’operaismo, l’alfa e l’omega del marxismo, come scrive sarcasticamente (e forse ingiustamente) la filosofa e storica dell’economia Maria Turchetto [16]:
“Alcuni assunti di fondo, diventati nel tempo veri atteggiamenti mentali, l’uso di certi passi di Marx (l’arcinoto frammento sulle macchine dei ‘Grundrisse’, citazione ormai rituale), alcune “parole chiave” (‘general intellect’, composizione di classe, autonomia) funzionano ancora oggi come un forte dispositivo di riconoscimento. Dispositivo forse più linguistico che teorico, più evocativo che realmente propositivo, e che tuttavia serve da riferimento a vari spezzoni di quello che è stato il “movimento” (altra parola chiave) degli anni ’70”.
Ad esempio, si dibatté molto in campo operaista circa la seguente citazione marxiana [17], che appare realmente provocatoria se confrontata con i capitoli iniziali del libro I de “Il Capitale”, interamente dedicati alla teoria del valore-lavoro:
“La vera ricchezza si manifesta invece – ed è ciò che svela la grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso si limita a sorvegliare. […] In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua universale forza produttiva, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola lo sviluppo dell’individuo sociale, che appare come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui riposa la ricchezza odierna, appare una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande sorgente della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio [la misura] del valore d’uso” [sottolineatura nostra].
Non meraviglia quindi che a partire da questa ampia citazione del “Frammento sulle Macchine”, Tronti tenterà di usare proprio il Marx dei “Grundrisse” per superare la teoria marxiana del valore-lavoro, mentre Negri, qualche anno dopo, sosterrà addirittura di trovarsi davanti a una profezia di Marx circa l’avvento della società post-industriale, dove a creare ricchezza non è più il lavoro, ma la scienza e la tecnica, poiché il “general intellect” non risiederebbe più nelle fabbriche ma, in modo immanente, nella società stessa.
Ma cosa voleva dire esattamente Marx nel passo appena riportato? Non è per nulla facile rispondere perché i “Grundrisse” (più esattamente i “Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie” ossia i “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”) sono stati scritti precedentemente (1857-1858) alla stesura del libro I de “Il Capitale” (1867) e si trattava solo di appunti preparatori non pensati per la pubblicazione. Sono quasi contemporanei ad un altro noto saggio economico marxiano, “Per la critica dell'economia politica”, apparso nel 1859 e saldamente ancorato al concetto ricardiano di valore-lavoro. Ad ogni modo l’interpretazione di Tronti, ancorché suggestiva, sembra filologicamente non troppo probabile dato che nello stesso “Frammento delle macchine” [18] Marx polemizza in maniera postuma con l’economista e politico britannico James Maitland, VIII conte di Lauderdale, ribadendo chiaramente i capisaldi della teoria del valore:
“Il capitale fisso, nella sua determinazione come mezzo di produzione, la cui forma più adeguata è il macchinario, produce valore, cioè aumenta il valore del prodotto, solo sotto due aspetti: 1) in quanto ha valore, cioè è esso stesso prodotto del lavoro, una certa quantità di lavoro in forma oggettivata; 2) in quanto accresce il rapporto del lavoro eccedente al lavoro necessario, mettendo in grado il lavoro, grazie all’aumento della sua produttività, di creare una massa più grande di prodotti necessari al sostentamento della capacità di lavoro viva in un tempo più breve. È quindi una frase borghese assolutamente priva di senso quella che l'operaio divide [i vantaggi] col capitalista, perché questi, col capitale fisso (che è esso stesso, d'altronde, il prodotto del lavoro e nient’altro che lavoro altrui appropriato dal capitale), gli agevola il lavoro (che se mai, piuttosto, esso sottrae al lavoro, attraverso la macchina, ogni indipendenza e carattere attraente) o gli abbrevia il lavoro. Il capitale impiega la macchina, invece, solo nella misura in cui essa abilita l'operaio a lavorare per il capitale una parte maggiore del suo tempo, a rapportarsi ad una parte maggiore del suo tempo come a tempo che non gli appartiene, a lavorare più a lungo per un altro. È vero che, con questo processo, la quantità di lavoro necessario alla produzione di un determinato oggetto viene ridotta a un minimo, ma solo perché un massimo di lavoro venga valorizzato nel massimo di quegli oggetti. Il primo lato è importante, perché il capitale riduce qui - senza affatto proporselo - il lavoro umano (il dispendio di forza) ad un minimo. Ciò tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione. Da quanto si è detto appare l'assurdità della tesi di Lauderdale, che vuol fare del capitale fisso una fonte di valore autonoma e indipendente dal tempo di lavoro. Esso rappresenta una fonte di questo genere solo in quanto è esso stesso tempo di lavoro oggettivato e in quanto crea tempo di lavoro eccedente. Il macchinario stesso, per il suo impiego, presuppone, dal punto di vista storico - vedi sopra Ravenstone -, braccia in sovrabbondanza. Solo dove è presente una sovrabbondanza di forza-lavoro, si inserisce il macchinario per sostituire lavoro. Avviene solo nell'immaginazione degli economisti che il macchinario intervenga a soccorso dell'operaio singolo. Esso può operare solo con masse di operai, la cui concentrazione di fronte al capitale è, come abbiamo visto, uno dei presupposti storici del capitale stesso. Il macchinario non interviene per sostituire manodopera mancante, ma per ridurre una manodopera presente in massa alla misura necessaria. Solo dove la capacità lavorativa è presente in massa, interviene il macchinario. (Ritornare su questo punto) [sottolineatura nostra].
Resta quindi intatto il rebus sull’enigmatico brano dei “Grundrisse” che tanto diede da pensare a Tronti, Negri e Bologna. Parafrasando Negri potremmo quindi domandarci: “un Marx oltre Marx”?
Fig. 2. Operai metalmeccanici delle Officine Breda di Sesto S. Giovanni (MI) in sciopero negli anni ‘70. Proprio figure sociali di questo tipo furono al centro della prima elaborazione dell’operaismo italiano.
L’autonomia del momento politico e la seconda scissione dell’operaismo
Si è visto come un’accurata analisi filologica dei testi marxiani, sia per ciò che concerne i Grundrisse sia per quanto riguarda il Capitale, non giustifichi del tutto la sociologia “operaista” secondo cui la ribellione politica della classe proletaria porta direttamente al superamento del modo di produzione capitalista. E d’altra parte, nel giro di qualche anno, Tronti stesso estremizzò così fortemente le sue posizioni sulla questione da giungere a una concezione nota come la “autonomia del politico”, ossia l’uso “operaio” del capitale e del potere, in quanto per il nostro autore, in ultima analisi, la classe operaia consisteva essenzialmente in “potere” (o meglio, per usare il gergo trontiano, in “dominio”). Ma a questo punto gli stessi operaisti si resero conto che la loro posizione sulla “gestione operaia” del capitalismo non sarebbe differita poi molto dal vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. Riuscirono però ad evitare questa scomoda omologazione mediante la categoria della subalternità all’iniziativa del capitale, che la socialdemocrazia veniva accusata di subire, mentre l’operaismo rifiutava decisamente in nome del suo opposto, il protagonismo della classe:
“Dentro il lavoro deve nascere una nuova gerarchia, non di valori, ma di poteri, una diversa distribuzione della forza sul terreno della politica diretta” [19].
Si preferiva, semmai, parlare di una “nuova NEP”
(la Nuova Politica Economica introdotta da Lenin nel 1921), ossia di un’alleanza
dei produttori sotto l’egemonia proletaria, ovvero di una gestione
dell’economia capitalistica sotto la guida politica dei lavoratori, che avrebbe
utilizzato la macchina statale, ancora borghese, per vincere le arretratezze
della società italiana mediante una radicale riforma dello Stato conferendo
nuovo vigore allo sviluppo economico. Tronti passò quindi dalle posizioni della
metà degli anni ’60, secondo le quali la classe operaia era il vero soggetto
che, pure senza esserne del tutto conscio, muoveva i fili della società
capitalista e la cui lotta era l’unica attività capace di far progredire tale
società al di là delle mistificazioni dell’ideologia borghese, a quelle della
metà degli anni ’70, dove il protagonismo della classe veniva sussunto dalla
lotta per il potere compiuta dal partito di riferimento della classe, ossia il
Partito Comunista Italiano. La scoperta della “autonomia del politico” si
rivelò quindi come un processo di trasformazione culturale del gruppo dirigente
del PCI che aspirava a liberarsi dagli stretti vincoli del vecchio
marxismo-leninismo di osservanza sovietica senza per questo omologarsi in modo
completo alla socialdemocrazia europea ormai essenzialmente keynesiana. L’
“operaismo di destra” di Tronti e Asor Rosa divenne quindi, insieme
all’economia neoricardiana di Sraffa e Napoleoni, un elemento fondamentale della
caratterizzazione culturale di una certa ala del PCI, quella più vicina a
Pietro Ingrao che al segretario Enrico Berlinguer, dato che quest’ultimo
proprio in quel periodo cominciava a subire via via più fortemente le seduzioni
del cosiddetto “compromesso storico”. Tronti e Asor Rosa vennero quindi cooptati
in maniera sempre più organica all’interno dell’apparato culturale del partito
il quale, almeno per una volta, dimenticò rapidamente le numerose stoccate anti-PCI
sia di “Quaderni rossi” che di “Classe Operaia”; stoccate che
invece non furono mai perdonate a Panzieri, né in vita né dopo, poiché di
estrazione socialista e non comunista.
Naturalmente nel campo operaista ci fu anche chi continuò ancora per diversi
anni a mantenere il radicalismo degli inizi. Infatti, durante la breve
esperienza della rivista che seguì “Classe Operaia”, ovvero “Contropiano”
(1968 - 1971), la redazione operaista si divise in due linee sempre più incompatibili
tra loro, le quali nel 1977 saranno spettatrici persino di scontri fisici tra
le forze politiche che in qualche modo le incarneranno: rispettivamente, il PCI
e la galassia dell’Autonomia Operaia. Ma tornando a “Contropiano”
va comunque ricordato come pur avendo atteggiamenti opposti rispetto alla
proposta politica del PCI, il cosiddetto “operaismo di sinistra” di Negri,
caratterizzato dalla linea della “autonomia del sociale” contrapposta a quella
del “dell’autonomia del politico”, condivideva con Tronti un’idea di fondo
essenzialmente al di là del marxismo “ortodosso”, secondo la quale nel
neocapitalismo la legge del valore si estingue progressivamente perché i rapporti
politici sostituiscono i rapporti di produzione come i momenti della decisione,
del comando e del dominio: tutto diviene, in ultima analisi, politica!
L’ “autunno caldo” del 1969 e successiva crescita di movimenti di massa sempre più politicizzati forzarono gli intellettuali operaisti a fare i conti con la forma organizzativa e poi anche con la forma-partito che tanto scetticismo aveva in loro generato fin dai tempi dei “Quaderni rossi”. Ma se abbiamo visto che gli operaisti di destra scelsero di confluire (o, per alcuni, di tornare) nella corrente ingraiana del PCI, quelli di sinistra diedero vita alla formazione extra-parlamentare di Potere Operaio [20], definito da loro stessi in modo esplicito “il partito dell’insurrezione” (come citava il loro celebre inno “Stato e padrone, fate attenzione!” [21]) e connotato da una prassi molto aggressiva di perseguimento della ricomposizione dei conflitti sociali attorno alle parole d’ordine dell’operaismo radicale (per esempio, il “rifiuto del lavoro”), non disdegnando alla fine neppure forme di guerriglia urbana piuttosto violente. La crisi di Potere operaio del 1973, causata principalmente dai dissidi tra Toni Negri (Padova) e Franco Piperno (Roma), fu seguita dall’espulsione del primo, insieme a tutto il nucleo padovano del partito, anche se poi, dopo pochi mesi, la grande maggioranza dei militanti si ritroverà di nuovo insieme ad agire all’interno dell’area della cosiddetta Autonomia operaia [22]. Lì venne coltivata una fortissima, forse eccessiva, esaltazione delle lotte in quanto tali, soprattutto se organizzate secondo metodi e slogan molto peculiari (detti, appunto, “autonomi”), come, per esempio, “il rifiuto del lavoro” o “il salario come variabile indipendente”, trascurando tuttavia la problematica del superamento del capitalismo. In questo senso i due operaismi, sebbene nemici acerrimi, si mostrarono concordi: se l’operaismo di destra dissolveva tutto nella politica, emulando in qualche modo le tesi di Bernstein, per cui il problema-chiave diveniva quello che il PCI, il partito dei lavoratori, conquistasse il potere a qualsiasi prezzo (magari alleandosi con partiti borghesi come la Democrazia Cristiana e il Partito Repubblicano), l’operaismo di sinistra rinunciava a qualsiasi programmatica, immergendosi à la Sorel in quel “brodo di cultura” di violente lotte spontanee ad ogni livello (dall’università alla casa, al femminismo, alla lotta alla disoccupazione, all’anti-imperialismo, all’antifascismo, al contrasto alle brutalità poliziesche ecc.) che fu l’Autonomia Operaia del periodo ’73-’79. Gli anni ’80 poi, con la nascita del Pentapartito (il cui “preambolo” confinava in perpetuo il PCI all’opposizione) e il cosiddetto “riflusso delle lotte”, s’incaricarono però di mostrare come entrambe le opzioni fossero state essenzialmente e irrimediabilmente sconfitte.
Fig. 3. Copertina del n. 23 (maggio 1970) del settimanale “Potere Operaio” organo dell’omonima formazione politica della sinistra operaista. Il linguaggio tipicamente insurrezionalista e la celebre immagine di Lenin nei frangenti della Rivoluzione d’Ottobre sono indicativi del clima e dell’atmosfera di quei mesi immediatamente successivi all’Autunno Caldo.
L’evoluzione del pensiero di Toni Negri
Già nella prima fase del pensiero operaista, all’epoca di “Classe Operaia”, era presente un piccolo e non troppo precisato nucleo irrazionalista che esulava dai canoni del marxismo “ortodosso”, collocato com’era all’interno della definizione stessa di classe operaia fornita da Tronti [23]:
“Di fronte alla classe operaia sta adesso, senza possibilità di mediazione, tutta la società del capitale. Il rapporto è finalmente rovesciato: l’unica cosa che l’interesse generale non riesce a mediare, nel suo interno, è l’irriducibile parzialità dell’interesse operaio. Di qui, il richiamo borghese alla ragione sociale di contro alle richieste settoriali degli operai. Tra capitale e lavoro si vorrebbe stabilire lo stesso rapporto che esiste, a un certo livello, tra capitale sociale e capitalisti singoli: un rapporto, come dicono i funzionari, sempre «dialettico». Infatti, quando il lavoro complessivo accetta ragionevolmente di partecipare allo sviluppo generale, finisce per funzionare come una qualsiasi parte aliquota del capitale complessivo sociale. Per questa via non si arriva ad altro che ad uno sviluppo quanto più possibile razionalmente equilibrato di tutto il capitale. È a questo punto che la classe operaia deve invece coscientemente organizzarsi come elemento irrazionale dentro la specifica razionalità della produzione capitalistica. La crescente razionalizzazione del capitalismo moderno deve trovare un limite insormontabile nella crescente irragionevolezza degli operai organizzati, cioè nel rifiuto operaio all’integrazione politica dentro lo sviluppo economico del sistema. Così, la classe operaia diventa l’unica anarchia che il capitalismo non riesce socialmente a organizzare. Compito del movimento operaio è di organizzare scientificamente e gestire politicamente questa anarchia operaia dentro la produzione capitalistica. Sul modello della società organizzata dal capitale, il partito operaio stesso non può che essere organizzazione dell’anarchia, non più dentro, ma fuori del capitale, fuori cioè del suo sviluppo” [sottolineatura nostra].
Così il primo operaismo sul piano filosofico sembrava ricollegarsi in qualche modo anche a Nietzsche e questo non stupisce poi troppo, considerando le influenze della sociologia di Weber e dell’irrazionalismo di Sorel su Tronti e sui suoi collaboratori. Ma con il passare del tempo i legami ideali con il filosofo tedesco diventarono molto più robusti ed espliciti, in quanto sia Tronti che Cacciari svilupparono un progetto di ricerca [24] per porre in dialogo il Marx della loro lettura con il cosiddetto “pensiero della crisi” di ascendenza mitteleuropea e generalmente considerato “di destra”. In realtà gli operaisti pensavano così di scardinare il vecchio marxismo italiano di ascendenza labrioliana e gramsciana proprio mediante l’anti-umanesimo, l’irrazionalismo e l’antistoricismo del “pensiero della crisi”, in modo tale che questi concetti venissero considerati soprattutto come armi della prassi di lotta, ovvero come strumenti di quel “movimento che abolisce lo stato di cose presente”, ovvero del Comunismo. Ovviamente tutto il nuovo armamentario filosofico era anche pensato, come si è visto nel capitolo precedente, almeno dal punto di vista pratico, per integrare la tradizionale prospettiva marxista con il concetto teorico fondamentale secondo il quale i rapporti di produzione sono intesi, sociologicamente, come il prodotto di un’attività essenzialmente soggettiva della classe lavoratrice.
Ma se con Tronti si era rimasti comunque sul terreno della classe operaia industriale, con Negri e la sua “teoria dell’insubordinazione sociale” del 1973 le posizioni operaiste (almeno quelle di “sinistra”) compiono un altro passaggio cruciale: la forza centrale rivoluzionaria non è più identificata con l’operaio-massa piegato alla catena di montaggio (figura tanto mitizzata, per esempio, da Potere Operaio) quanto con il cosiddetto “operaio sociale”, parte di un proletariato giovanile urbano alquanto comune nell’Italia della metà degli anni ’70, spesso studente, disoccupato o sottoccupato, comunque precario, talora anche contiguo a settori di popolazione decisamente sottoproletaria, caratterizzati dalla tossicodipendenza, dalla microcriminalità o da altre forme di emarginazione materiale e culturale. Tale milieu è quello rivoluzionario per eccellenza secondo le elaborazioni dell’Autonomia Operaia. Parallelamente a questo spostamento del baricentro rivoluzionario dalla fabbrica al quartiere popolare metropolitano, Negri, che pure si professava sempre “comunista marxista”, si stava avvinando fortemente ai noti sociologi, antropologi e filosofi francesi del cosiddetto “post-strutturalismo” [25], come Foucault, Deleuze e Guattari, con i quali aveva in comune un forte interesse per Nietzsche mediato da Heidegger. D’altro canto, molti dei “post-strutturalisti”, impressionati dal movimento del ’68 francese, avevano assunto posizioni fortemente radicali, quasi anarchiche, sicché guardavano all’operaismo italiano con grande simpatia, nonostante il suo carattere inevitabilmente un po’ autarchico e provinciale nell’ottica transalpina. Il rischio della strategia di Negri era però insito nell’estrema volatilità delle posizioni politiche degli intellettuali post-strutturalisti, proprio perché non ancorate a un saldo impianto teorico scientifico. Paradigmatico è il caso di Foucault, che, aldilà dei suoi interessantissimi studi antropologici su ospedali e prigioni, riuscì in poco più di un ventennio a spostarsi in totale buonafede da posizioni rivoluzionarie a un sostanziale appoggio alle ideologie neoliberiste e monetariste negli anni ’80, passando persino per una breve fase ingenuamente filo-khomeinista.
In questo senso Negri, nonostante tutte le assurde traversie giudiziarie in Italia dovute al cosiddetto processo “7 aprile” e il successivo esilio in Francia [26], prosegue nel corso degli anni la sua elaborazione teorica ricostruendo la storia sociale del capitalismo mediante una successione di “figure egemoni”, ossia di soggetti emblematici della continua trasformazione della società, i quali mutano in ogni nuovo processo di ristrutturazione capitalistica. Ad esempio, il passaggio dall’operaio-massa all’operaio-sociale per Negri corrisponde alla grande ristrutturazione capitalista degli anni ’70, che viene interpretata come un processo capace di catalizzare la ricomposizione di classe e di suscitare una nuova “figura egemone” che estende a tutta la società la sua volontà antagonista. La stessa volontà che l’operaio-massa aveva avuto nell’Autunno Caldo del ’69. A questo punto va però precisato che Negri dà una lettura della crisi economica del ’73 (innescata dallo shock petrolifero) tutta basata sull’idea della caduta del saggio di profitto, per reagire alla quale il capitale sarebbe costretto a diffondere il processo di valorizzazione dalla sola industria all’intera società. Di conseguenza dalla fabbrica si sarebbe passati al territorio (per esempio, al quartiere popolare) e quindi dall’operaio-massa all’operaio-sociale. Lo scontro, così accuratamente teorizzato da Tronti in “Operai e Capitale”, tra la realtà della fabbrica e la società capitalistica nel suo complesso, viene ora ridisegnato da Negri come l’opposizione tra il “lavoro sociale” (ovvero l’attività precipua dell’operaio-sociale) e lo Stato, quest’ultimo inteso quindi come personificazione del capitalista collettivo. Dal comando dell’impresa, una volta eliminato il concetto di valore economico, si passa al puro e semplice rapporto di forza, al progetto soggettivo di un brutale dominio sulla classe. Il capitale, che non è più considerato marxianamente come valore che cerca di valorizzarsi ulteriormente mediante l’estorsione vampiresca di plusvalore, si manifesta ora come volontà di potenza, come autonomia del momento politico. Queste tesi sembrano nuove per il modo spregiudicato in cui vengono formulate da Negri e da Bologna, ma in realtà sono molto simili, sebbene estremizzate, alle posizioni classiche dell’operaismo di Panzieri e Tronti della metà degli anni ’60: ogni ristrutturazione, che è indotta principalmente dalle lotte operaie, corrisponde alla formazione di una nuova composizione tecnica media della forza-lavoro all’interno delle varie strutture produttive, la quale a sua volta determinerebbe una nuova configurazione politica. Ciò accade perché la compenetrazione tra struttura e sovrastrutture nell’analisi di Negri diviene totale e le sfere della produzione e della circolazione delle merci si saldano nella dimensione complessiva della “riproduzione capitalista”: “la critica dell’economia politica è immediatamente critica dell’amministrazione, della Costituzione, dello Stato” [27].
A partire dall’inizio degli anni ’80 Negri e Bologna proseguiranno ulteriormente con la loro ricerca di nuovi soggetti sociali rivoluzionari trovandoli di volta in volta nei dipendenti pubblici, nei lavoratori dei servizi, nel sottoproletariato urbano e così via, fino a sviluppare un vocabolario peculiare e caratteristico comprendente termini un po’ misteriosi per il vasto pubblico, quali “imprenditorialità comune”, “intellettuale massa”, “moltitudine”, “cognitariato” ecc., a cui faremo solo un rapidissimo cenno. Infatti, almeno dall’inizio del nuovo millennio, Negri, Bologna e altri post-operaisti sostengono che il tradizionale lavoro proletario taylorista e fordista sarebbe stato relegato in una posizione ormai marginale e prossima a sparire per via della crescente automazione. All’opposto, il sapere astratto sarebbe divenuto la principale risorsa produttiva e corrisponderebbe all’applicazione pratica, dopo un secolo e mezzo, del concetto marxiano di general intellect. Però, come si è visto, Marx, fedele alla teoria del valore, considerò nei Grundrisse il general intellect sempre come un capitale fisso, sebbene apparente nella forma di un know-how scientifico incarnato nel “sistema delle macchine” industriale. Al contrario, per i post-operaisti come Negri la separazione tra capitale costante (general intellect) e capitale variabile (forza-lavoro) è difatto scomparsa e quindi il proletario salariato, che era sorgente di lavoro vivo, diviene ora il depositario di competenze cognitive e non è più reificabile nel “sistema delle macchine”. Quindi esso non è nemmeno più semplice forza-lavoro sfruttata dal capitalista, ma forma la cosiddetta “imprenditorialità comune”, divenendo così un “intellettuale di massa”. Gli anelli più recenti di questa catena di figure sociali sarebbero i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” e i “lavoratori autonomi di seconda generazione”; dove i primi rappresenterebbero una nuova avanguardia posta all’acme della “contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione”, mentre i secondi agirebbero addirittura da pionieri di un esodo consapevole dalla condizione stessa di lavoratore dipendente. Tutto questo diverrebbe possibile grazie alla rivoluzione informatica che spingerà anche verso un nuovo modello di accumulazione caratterizzato dalla sempre maggiore flessibilità e smaterializzazione dei processi produttivi, dalla delocalizzazione delle imprese, dall’introduzione di sistemi aziendali non più piramidali o a matrice, ma costituiti in forma di rete. Negri e Bologna fanno spesso notare con una certa ironia come sussista un legame ideale tra queste tesi recentissime e le loro vecchie concezioni del ’73, proprio nel periodo del delicato passaggio da Potere Operaio all’Autonomia, ed inoltre ricordano come molti giovani imprenditori visionari della Silicon Valley statunitense, alla base della tanto celebrata rivoluzione informatica, venivano proprio da una militanza politica di estrema sinistra caratterizzata dalla cultura del rifiuto del lavoro salariato… in perfetta e non casuale sintonia con l’operaismo italiano!
Fig. 4. A sinistra: una tipica manifestazione di collettivi giovanili legati al movimento della “Autonomia Operaia” negli anni ’70. A destra: copertina del numero apparso il 29 novembre 1975 della rivista “Rosso”, uno dei punti di riferimento politico della galassia autonoma. Il tono non è molto diverso da quello di “Potere Operaio” di cinque anni prima (cfr. Fig. 3), anche se l’iniziale approccio leninista sembra ora definitivamente diluito in un discorso meno partitico e più spontaneista.
Conclusioni
È veramente un’impresa disperata tentare di scrivere le note conclusive di una cavalcata così rapida e inevitabilmente superficiale attraverso le complesse vicende teoriche del cosiddetto “operaismo italiano” e delle ancora più intricate implicazioni politiche e sociali di tale corrente. Abbiamo cercato di focalizzarci su tre grandi figure di intellettuali: Raniero Panzieri (il precursore), Mario Tronti (il maitre à penser) e Toni Negri (l’enfant terrible), benché il milieu intellettuale operaista fosse ricchissimo di personaggi d’indubbio spessore come Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Sergio Bologna, Franco Berardi (detto “Bifo”), per non dire poi delle maggiori figure di riferimento politiche di “Potere Operaio” e dell’ “Auotonomia Operaia” quali, per esempio, Oreste Scalzone, Franco Piperno e Lanfranco Pace.
Certo Panzieri e Negri, pur diversissimi in molti aspetti, sono stati in un certo senso più fedeli alla tradizione marxiana di unione tra teoria e prassi, pagando anche personalmente per tale scelta: il primo con l’emarginazione e la perdita del lavoro, il secondo, addirittura, con il carcere e l’esilio in Francia. Tronti invece fu più che altro una figura d’accademico (presso l’Università di Siena) e quando si accostò alla politica attiva lo fece sempre nel quadro istituzionale degli apparati del PCI. Eppure, fu proprio Tronti il vero “inventore” dell’operaismo, che Panzieri intravide soltanto, rimanendo nei fatti fedele al marxismo “ortodosso” così come lo aveva appreso nel PSI del secondo dopoguerra, alla scuola di quella grande figura, sfortunatamente piuttosto misconosciuta, che fu Rodolfo Morandi.
Ma l’invenzione di cui parliamo, ovvero l’innesto di elementi culturali mitteleuropei (presi in prestito da Max Weber, Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger ecc.) nel “corpo vivo” della dottrina marxista fu genio e follia al contempo. “Genio” perché permise un uso nuovo e spregiudicato delle categorie marxiste, adatto a un paese ormai largamente industriale, rimpiazzando forme piuttosto mummificate dalla cosiddetta “vulgata gramsciano-togliattiana”, ma senza mai piegarsi pedissequamente alle elaborazioni marxiste in voga in quegli anni, dovute principalmente a György Lukács, a Karl Korsch, a Louis Althusser, alla Scuola di Francoforte o alla New Left americana. “Follia” perché la pretesa di amputare il marxismo d’importanti porzioni della sua base di teoria economica, in quanto ritenute datate e indifendibili (come, per esempio, la questione del valore-lavoro) portò a privilegiarne in modo un po’ disarmonico gli aspetti sociologici (per esempio, la lotta di classe) o quelli politici (per esempio, la concezione marxista dello Stato). E naturalmente qui non ci si riferisce semplicemente a saggi critici o a dibattiti accademici: le idee dell’operaismo furono rapidamente assorbite dai numerosi giornali di agitazione e dai variegati movimenti della sinistra radicale che erano cresciuti in modo rapidissimo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 in un clima infuocato dalle lotte studentesche, sindacali e politiche. A distanza di circa settant’anni si produsse un fenomeno abbastanza simile alla cosiddetta “crisi del marxismo” del primo ‘900, che vide l’emergere di forti correnti “revisioniste” in seno al movimento operaio e socialista europeo: dal lato “destro”, chi riduceva la lotta per il socialismo alla mera azione politica dei partiti, inevitabilmente scivolava (come Tronti e Asor Rosa) verso un neo-riformismo appena imbellettato dagli slogan operaisti, seguendo il PCI eurocomunista sul vecchio sentiero di Bernstein e della socialdemocrazia tedesca espresso dal motto maurrasiano e nenniano di “la politique d’abord”. “Compromesso storico”, “solidarietà nazionale” e “governo pentapartito” si incaricheranno in breve di provare il carattere velleitario e quasi autolesionista di tale approccio che nel giro di pochi anni riuscirà a sperperare l’enorme consenso popolare verso il PCI derivato dalle dure lotte del periodo che stiamo analizzando.
Dal lato “sinistro” invece, nonostante le migliori intenzioni dei dirigenti di Potere Operaio (che pensavano sul serio di aver finalmente superato la vecchia dicotomia organizzativa che vedeva contrapposti il partitismo leninista e lo spontaneismo luxemburghiano), i risultati furono quelli di un anarco-sindacalismo “rivisitato”, ma nei fatti non troppo dissimile dalla prassi della vecchia Unione Sindacale Italiana (1912-1925) di Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Armando Borghi, tutta fiera dei suoi scioperi selvaggi, del suo linguaggio forcaiolo contro i padroni e lo Stato borghese, dei suoi confronti muscolari con le forze dell’ordine, della sua opposizione feroce ai sindacati dialoganti ecc. In altre parole, si sognava un improbabile Lenin nel cuore del capitalismo industriale italiano, ma in realtà si andava di nuovo, dopo sessant’anni e più, a calcare le orme dei vari “revisionisti di sinistra” quali Sorel e Pelloutier, o, almeno per quello che riguarda certe imprese non perfettamente legali, dei Durruti e degli Ascaso. Questo accostamento non è solo una fantasia di chi scrive, ma è ammesso dallo stesso Sergio Bologna, l’importante sociologo operaista che abbiamo già citato, che nel suo ottimo articolo “L’Operaismo Italiano” [28] scrive testualmente parole davvero sorprendenti:
“L’operaismo non apparteneva alla storia del comunismo, anche se nel suo sistema di pensiero si trovavano pesanti tracce di teoria politica elaborata nel corso della storia del comunismo. L’operaismo era troppo fortemente ancorato alla pratica anarcosindacalista per potersi trovare in sintonia con il comunismo. Pertanto, il «revisionismo» comunista non rappresentava un problema, non valeva nemmeno la pena confrontarvisi, né valeva la pena criticare le vecchie eresie comuniste. Trotzkismo, bordighismo appartenevano al passato, tanto quanto lo stalinismo” [sottolineatura nostra].
La cosa che però va notata è che gli operaisti di tutto il periodo qui analizzato, ossia dai primi “Quaderni rossi” (1961) di Panzieri almeno fino “A Marx oltre Marx” (1979) di Negri, non percepivano affatto il loro percorso come una scelta “revisionista” del marxismo, anzi, con uno studio dei tre libri de “Il Capitale”, dei “Grundrisse” e dei “Saggi sul Plusvalore” che rasentava quasi acribia, i nostri autori si posero lungamente come interpreti autentici (forse i più autentici) del pensiero di Marx al di là delle distorsioni (vere o presunte) della II e della III Internazionale. Come fu possibile un tale paradosso? La risposta non è facile, perché se da un lato Negri, muovendosi già da tempo verso le sensibilità filosofiche del post-strutturalismo francese, diverrà un “marxista critico” (o meglio un “post-marxista”) a partire dal 1979, l’intera fase dell’esistenza di Potere Operaio e sicuramente quella degli inizi del movimento dell’Autonomia non rientrano in questo cliché. Personalmente non siamo dell’idea, condivisa invece da vari commentatori di formazione leninista e trotzkista [29][5], che l’errore principale degli operaisti di sinistra sia stato quello, in analogia per certi versi con gli spartachisti tedeschi del 1918-19 [30], di non aver compreso l’importanza della organizzazione nonché della selezione di quadri e militanti. Crediamo che questo fu probabilmente vero (se come pare [31], Potere Operaio non conoscesse in alcune aree neppure il numero esatto dei propri militanti), ma non fu alla radice del paradosso del “revisionismo inconscio” dell’operaismo di sinistra. Siamo dell’opinione, invece, che tre furono le tare più gravi portate avanti da questa corrente nel corso degli anni, probabilmente già dai tempi di “Classe Operaia”. Le citiamo qui di seguito come chiusura del presente paragrafo intendendole anche come spunti di una futura discussione:
1) L’estrema debolezza della prospettiva internazionalista nell’analisi della lotta di classe. L’operaismo, sia trontiano che negriano, appare come un fenomeno essenzialmente ed eminentemente nazionale: il rimettere al centro dell’analisi e della discussione la fabbrica prima e il quartiere popolare poi, ebbe come effetto collaterale una certa chiusura nell’universo italiano con i suoi attori politici e sindacali, con i suoi contratti collettivi nazionali, le sue contraddizioni ataviche ecc. Quando Potere Operaio cominciò, per forza di cose, a trattare diffusamente la politica estera, tale imprinting iniziale emerse in modo alquanto evidente, fornendo una narrazione anti-imperialista e anti-occidentale piuttosto retorica e scontata, non molto più profonda di quella tipica del movimento studentesco del periodo, tutta tesa a celebrare in modo acritico la rivoluzione culturale cinese ostile all’URSS, la resistenza del Vietnam e, in generale, i movimenti anticolonialisti d’ispirazione (anche se blandamente) socialista e comunista. Sebbene si trattasse di un’espressione legata più a Lotta Continua che a Potere Operaio, si potrebbe cinicamente concludere, ma senza errare troppo, che la politica internazionale dell’operaismo di sinistra fosse largamente compendiabile nella nota canzone “L’Ora del Fucile” (1971) di Pino Masi [32]. Purtroppo, mancò all’operaismo l’apporto di marxisti dalle solide basi internazionaliste, come per esempio Lelio Basso, che avrebbero potuto fare sicuramente la differenza.
2) L’insufficiente approfondimento teorico dei meccanismi macroeconomici del neocapitalismo. Con questa critica non vogliamo minimamente insinuare che all’interno dell’operaismo italiano ’64-’78 non esistessero competenze economiche anche di alto livello, sia per quanto riguarda la comprensione dei testi marxiani classici sia per ciò che concerne i complessi meccanismi microeconomici di utilizzo della forza-lavoro da parte degli imprenditori. Vogliamo solo dire che difettò, sempre a causa dell’imprinting iniziale centrato principalmente sui luoghi produttivi nazionali, di una visione mondiale del capitalismo di taglio squisitamente macroeconomico, capace di comprendere in anticipo le radicali trasformazioni di cui gli anni ’70 erano già gravidi e che avrebbero dato origine alla rivoluzione neoliberista degli anni ’80, quella caratterizzata dalle tre “zioni”: globalizzazione, finanziarizzazione e privatizzazione. In effetti mancò nell’operaismo italiano una figura di economista marxista di alto livello, come in quegli anni potevano essere Paul Sweezy e Paul A. Baran negli USA, Ernest Mandel in Belgio, Andrew Glyn in Gran Bretagna, Charles Bettelheim in Francia ecc., e questa assenza si rifletté anche successivamente, in modo piuttosto evidente, all’interno di alcune analisi del post-operaismo di Negri e Bologna concernenti le metamorfosi del capitalismo italiano, dove tendenze locali imputabili alla incipiente delocalizzazione e alla parziale “desertificazione industriale” del paese [33] vennero assolutizzate e interpretate in modo forse un po’ troppo frettoloso come un epocale cambio di paradigma del capitalismo [34]. Anche in questo caso si potrebbe dire che il panorama italiano degli anni ‘70 vedeva figure di economisti marxisti di valore piuttosto “ortodossi” (ovvero non interessati, per esempio, agli arricchimenti sraffiani e keynesiani) come Gianfranco La Grassa, Vittorangelo Orati, ecc. che però non entrarono seriamente in dialogo con il milieu operaista.
3) La rinuncia a una esplicita progettualità post-capitalista e socialista. È noto che alcuni autori operaisti di sinistra, soprattutto nel periodo di liquidazione della forma partito e di creazione della galassia dell’Autonomia Operaia (’73-’79), cominciarono ad emanciparsi dall’interpretazione leninista di Marx, avvicinandosi così a sensibilità dichiaratamente “consiliariste” e vicine all’IWW nonché alle teorizzazioni di Paul Mattick e Cajo Brendel [35]. Eppure, dal “comunismo dei consigli” (che del “consiliarismo” fu il predecessore diretto) non derivò affatto lo spiccato interesse per lo studio dell’organizzazione di una futura società post-capitalista, così vivo negli scritti maturi di Anton Pannekoek [36] e, soprattutto, nei lavori collettivi dei Groepen van Internationale Communisten olandesi [37].
Da questo punto di vista gli operaisti di sinistra, anche nella loro fase “autonoma”, rimasero sempre appesi alle due rituali (ancorché largamente abusate) frasi di Marx [38] che da un secolo e mezzo fanno involontariamente da schermo alla pigrizia intellettuale di chi, pur dicendosi socialista o comunista, preferisce non porsi i problemi della transizione dal capitalismo alle varie fasi della nuova società senza classi, immaginando così di poterli scaltramente scaricare sulle generazioni che verranno. Anche in questo caso un’altra amara eredità della Terza Internazionale aveva prevalso: era la fede nel “taumaturgico talismano” della dittatura del proletariato, in grado quasi ex opere operato di risolvere ogni problema relativo all’edificazione del socialismo; mentre, all’opposto, tale democraticissima dittatura della classe più numerosa, se correttamente intesa, sarà solo la cornice politica in cui tutta la problematicità di detta transizione, quando e se sarà il momento, andrà affrontata. Ma qui, è ovvio, siamo già largamente al di fuori della nostra rapida discussione sulla grandezza e sui limiti dell’operaismo italiano.
Dan Kolog
[1] “Quaderni rossi” fu una rivista marxista italiana creata nel 1961 da Raniero Panzieri, Mario Tronti e alcuni giovani collaboratori, terminata nel 1965. Ne vennero pubblicati solo sei numeri, di cui l’ultimo dopo la morte di Panzieri, ma sono ancora oggi fondamentali per comprendere la genesi intellettuale della politica del successivo dodicennio ’68-’79. È anche molto importante ricordare che dal gruppo originario della redazione di “Quaderni rossi” uscirono nel 1963 Mario Tronti, Toni Negri ed altri per fondare dopo pochi mesi una nuova rivista marxista: “Classe Operaia”.
[2] “Classe Operaia” pubblicherà nove numeri nel 1964 (dei quali tre doppi), quattro numeri nel 1965, diradando poi gradualmente le sue pubblicazioni fino alla chiusura nel marzo del 1967. Oltre al direttore Mario Tronti, apparterranno alla redazione, tra gli altri, Toni Negri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari e Sergio Bologna.
[3] “Operai e capitale” di Mario Tronti (Einaudi, Torino, 1966) è riconosciuto da molti come il testo fondamentale della prima fase dell’operaismo italiano. Il volume non è in realtà un saggio unitario, ma piuttosto consiste in una raccolta di articoli scritti tra il 1964 e il 1966, alcuni dei quali apparsi anche su “Classe Operaia”.
[4] Mario Tronti è un filosofo della politica e un uomo politico italiano, nato a Roma nel 1931 e tuttora vivente. È considerato uno dei fondatori del cosiddetto “operaismo italiano” degli anni Sessanta, le cui idee fondanti si trovano esposte nel noto saggio “Operai e capitale” (1966). Tronti ha insegnato per vari decenni all’Università degli Studi di Siena i corsi di Filosofia morale prima e di Filosofia della Politica successivamente. Militante del Partito Comunista Italiano (benché spesso su posizioni critiche) fin dagli anni Cinquanta, si è dedicato in questa veste anche al giornalismo politico essendo tra i fondatori di note riviste marxiste quali: “Quaderni rossi”, “Classe Operaia”, di cui fu il direttore, e “Laboratorio politico”. È stato eletto al Senato nel 1992 nelle liste del Partito Democratico della Sinistra e poi ancora nel 2013 in quelle del Partito Democratico. Dal 2004 Tronti è il presidente della Fondazione Centro per la Riforma dello Stato e dell’Archivio Pietro Ingrao. Recentemente ha pubblicato i seguenti saggi: “Noi operaisti” (2009), “Per la critica del presente” (2013), “Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero” (2015), “II nano e il manichino. La teologia come lingua della politica” (2015) e “Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015” (2018).
[5] Per chi volesse ulteriormente approfondire la genesi dell’operaismo potremmo suggerire due lavori: Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, Roma, 2008) e G. Trotta e F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta da “Quaderni rossi” a “Classe Operaia” (DeriveApprodi, Roma, 2008). Invece, per un articolo aspramente critico dal taglio molto divulgativo e d’impostazione trotzkista, da cui abbiamo attinto le linee essenziali del nostro lavoro (ma non tutte le sue conclusioni), si può leggere: A. Giardiello, Operaismo. La disfatta di un’utopia letale, 2015 (https://www.marxismo.net/index.php/teoria-e-prassi/movimento-operaio-italiano/61-operaismo-la-disfatta-di-un-utopia-letale).
[6] Circa l’idea di “capitalismo cognitivo” possono esser utili: Y. Boutang, L’età del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione (Ombre Corte, Verona, 2002); C. Vercellone, Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca post-fordista (Manifestolibri, Roma, 2006); A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, Roma, 2007).
[7] M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (Rizzoli, Milano, 2002).
[9] Per un approfondimento della figura di Panzieri in connessione con la nascita della “nuova sinistra” in Italia raccomandiamo: Paolo Ferrero (a cura di), Panzieri, l’iniziatore dell’altra sinistra (Shake Edizioni, Milano, 2021).
[10] Mentre le vicende relative alla tentata svolta a destra del governo Tambroni e alle successive proteste iniziate dalla città di Genova il 30 giugno 1960, indignata per esser la sede del VI congresso del Movimento Sociale Italiano, sono note pressocché a tutti, i cosiddetti “fatti di Piazza Statuto” meritano un breve approfondimento, consigliando ai più interessati la lettura del testo di Dario Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto (Feltrinelli, Milano, 1979).
A Torino il 7 luglio 1962 la FIOM e la FIM (i sindacati dei metalmeccanici legati rispettivamente alla CGIL e alla CISL) proclamano uno sciopero di tutti i metalmeccanici torinesi a sostegno della lotta sindacale della FIAT iniziata a giugno. Lo sciopero riesce in pieno e all'esterno dello stabilimento di Mirafiori e di altre fabbriche avvengono violenti scontri dopo che i picchetti, bloccate le entrate, rovesciano diverse macchine e malmenano alcuni dirigenti senza che la polizia riesca controllare la situazione. Nel corso della mattinata si sparge la voce che la UIM (sindacato dei metalmeccanici legato alla UIL) e la SIDA, il sindacato padronale, hanno raggiunto un accordo separato con la direzione della FIAT. A causa di tale voce più di 6.000 operai, esasperati per la rottura del fronte sindacale, si riuniscono nel pomeriggio in piazza Statuto proprio di fronte alla sede della UIL. Per ben due giorni la piazza è teatro di una straordinaria serie di scontri tra i dimostranti e la polizia: i primi, armati di fionde, bastoni e catene, rompono vetrine e finestre, erigono rudimentali barricate e spingono più volte sui cordoni degli agenti; la seconda risponde caricando la folla con le jeep, inondando la piazza di gas lacrimogeni e colpendo alcuni dimostranti con i calci dei fucili. Gli scontri si protraggono fino a tarda sera, sia sabato 7 che lunedì 9 luglio 1962. Intervengono anche dei dirigenti del PCI e della CGIL (tra cui Pajetta e Garavini) cercando senza successo di convincere i manifestanti ad abbandonare la piazza. Un migliaio di dimostranti sono infine arrestati e molti di più vengono denunciati a piede libero: si tratta di giovani operai, principalmente di origine meridionale. Il PCI è stupefatto da una tale ondata di radicalismo che non riesce a controllare e per questo motivo il suo organo, L'Unità, definirà la rivolta come una serie di "tentativi teppistici e provocatori", e i manifestanti come "elementi incontrollati ed esasperati", "piccoli gruppi di irresponsabili", "giovani scalmanati" o, addirittura, "anarchici internazionalisti". A questo proposito è interessante la posizione di Quaderni rossi (con Panzieri, Tronti, Negri e Azor Rosa): giudicano gli scontri di piazza una "squallida degenerazione" di una manifestazione di protesta operaia, ma non bollano affatto, a differenza del PCI e della CGIL, i manifestanti come una banda di "provocatori e fascisti. La rivolta di piazza Statuto segna infatti per la prima volta in Italia l'emergere nella lotta di classe dell'operaio-massa, come si appurerà durante processo, dove due terzi degli imputati risulteranno essere giovani immigrati meridionali. A livello politico, la rivolta di piazza Statuto segna due fatti importanti per la nostra discussione: sia il distacco definitivo tra i Quaderni rossi da un lato, e la FIOM e il PCI dall’altro, sia una divergenza all'interno della redazione dei Quaderni rossi: da una parte Panzieri che preferisce continuare il lavoro di analisi e lo considera predominante rispetto al lavoro direttamente politico, dall'altra Tronti, Negri e Asor Rosa che vogliono arrivare immediatamente a nuove soluzioni politiche e organizzative. Questi ultimi daranno poco dopo vita alla rivista “Classe Operaia”.
[11] La cosiddetta “composizione di classe” è per “Quaderni rossi” una relazione materiale costituita secondo tre assi: il primo è l’organizzazione della forza-lavoro in “classe che lavora” (composizione tecnica); il secondo è l’organizzazione della classe all’interno della società di classe (composizione sociale); il terzo è l’autorganizzazione della classe in forza di lotta (composizione politica). Lungo tutti e tre questi assi, la composizione di classe è al contempo prodotto e produttrice di lotte concernenti le relazioni sociali del modo di produzione capitalista. La transizione dalle composizioni tecnica e sociale alla composizione politica è proprio quel balzo dialettico che definisce la prospettiva politica della classe.
[12] R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico (Einaudi, Torino, 1972).
[14] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, volumi I e II (La Nuova Italia, Firenze, 1968-70).
[15] K. Marx, Frammento sulle macchine, in Quaderni rossi n. 4 (1964) pag. 289-300 (traduzione di Renato Solmi).
[16] M. Turchetto, Dall'”operaio massa” all'”imprenditorialità comune”: la sconcertante parabola dell’operaismo italiano in Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis (PUF, Paris, 2001).
[17] K. Marx, Frammento sulle macchine, in Quaderni rossi n. 4 (1964) pag. 289-300 (traduzione di Renato Solmi).
[18] K. Marx, Frammento sulle macchine, in Quaderni rossi n. 4 (1964) pag. 289-300 (traduzione di Renato Solmi).
[19] M. Tronti, Sull’autonomia del politico (Feltrinelli, Milano, 1977).
[20] Vedasi, per esempio, la dettagliata ricostruzione storica del partito in: Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria (vol. 1) (DeriveApprodi, Roma, 2018).
[21] Inno suggestivo, sul motivo della “Warszawianka” polacca (1905) e anche di “A las baricadas” anarchica spagnola (1936), ha un testo molto esplicito (quando il “politically correct” ancora non esisteva…) che vale più di un saggio storico su “Potere Operaio”:
Stato e padroni, fate attenzione!
La classe operaia, compagni, è all'attacco,
Stato e padroni non la possono fermare,
niente operai curvi più a lavorare,
ma tutti uniti siamo pronti a lottare.
No al lavoro salariato,
unità di tutti gli operai.
Il comunismo è il nostro programma,
con il Partito conquistiamo il potere.
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell'insurrezione;
Potere operaio e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà.
Nessuno o tutti, o tutto o niente,
e solo insieme che dobbiamo lottare,
i fucili o le catene:
questa è la scelta che ci resta da fare.
Compagni, avanti per il Partito,
contro lo Stato lotta armata sarà;
con la conquista di tutto il potere
la dittatura operaia sarà.
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell'insurrezione;
Potere operaio e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà.
I proletari son pronti alla lotta,
pane e lavoro non vogliono più,
non c'è da perdere che le catene
e c'è un intero mondo da guadagnare.
Via dalle linee, prendiamo il fucile,
forza compagni, alla guerra civile!
Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo,
non più parole, ma piogge di piombo!
Stato e padroni, fate attenzione,
nasce il Partito dell'insurrezione;
Potere operaio e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà.
Stato e padroni, fate attenzione
nasce il Partito dell'insurrezione;
viva il Partito e rivoluzione,
bandiere rosse e comunismo sarà!
[22] E. Quadrelli, Autonomia Operaia (Edizioni Interno4, Rimini, 2020).
[23] Vedi nota 3.
[24] M. Cacciari, Krisis (Feltrinelli, Milano, 1976).
[25] R. D'Alessandro e F. Giacomantonio, Post-strutturalismo e politica. Foucault, Deleuze, Derrida (Morlacchi, Perugia, 2015).
[26] La vicenda dei rapporti tra gli ex-vertici di Potere Operaio, passati poi all’Autonomia (Negri, Ferrari Bravo, Vesce, Piperno, Scalzone, Pace ecc.) e la giustizia italiana è molto complicata e gira intorno al cosiddetto processo “7 Aprile”, una delle pagine più buie della storia giudiziaria della Repubblica, nel quale, sommando soltanto alcuni vaghi indizi, si sostenne un legame strategico ed organico tra la vasta area dell’Autonomia Operaia e i terroristi delle Brigate Rosse. Nel lungo iter processuale (1979-1988) la gran parte dei capi d’accusa venne lasciata cadere in quanto totalmente indifendibile, ma si giunse comunque a una condanna definitiva per molti degli accusati (per esempio, di 12 anni di reclusione per Negri), i quali però, nel frattempo, erano riusciti ad espatriare in Francia. Lì, grazie alla cosiddetta “dottrina Mitterand”, rimasero liberi fino all’estinzione della pena, avvenuta all’incirca nel corso degli anni ’90.
[27] A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione (Feltrinelli, Milano, 1977).
[28] S. Bologna “L’Operaismo Italiano” in “L’altro novecento. Comunismo eretico e pensiero critico”, a cura di Pier Paolo Poggio, vol. II, “Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989” (Jaca Book, Milano 2011).
[29] Vedi nota 5.
[30] Pur con i dovuti distinguo tra una situazione blandamente prerivoluzionaria nell’Italia dell’Autunno Caldo ed una pienamente rivoluzionaria nell’Impero tedesco immediatamente dopo la resa del novembre 1918.
[31] Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria (vol. 1) (DeriveApprodi, Roma, 2018).
[32] La canzone riprende la base musicale del celebre successo di Barry McGuire, scritta da P.F. Sloan, Eve Of Destruction, inserendovi un testo politico ispirato alle idee dei gruppi extra-parlamentari italiani dell'epoca, specie di Lotta Continua. Il testo italiano è stato scritto dal cantautore Pino Masi assieme a Piero Nissim, entrambi attivi nell’ambito del cosiddetto “Canzoniere Pisano”.
L'Ora del Fucile
Tutto il mondo sta esplodendo
dall’Angola alla Palestina,
l’America Latina sta combattendo,
la lotta armata vince in Indocina;
in tutto il mondo i popoli acquistano coscienza
e nelle piazze scendono con la giusta violenza.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
L’America dei Nixon, degli Agnew e Mac Namara
dalle Pantere Nere una lezione impara;
la civiltà del napalm ai popoli non piace,
finché ci son padroni non ci sarà mai pace;
la pace dei padroni fa comodo ai padroni,
la coesistenza è truffa per farci stare buoni.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
In Spagna ed in Polonia gli operai
insegnan che la lotta non si è fermata mai
contro i padroni uniti, contro il capitalismo,
anche se mascherato da un falso socialismo.
Gli operai polacchi che hanno scioperato
gridavano in corteo: Polizia Gestapo,
gridavano: Gomułka, per te finisce male.
Marciavano cantando l’Internazionale.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
Le masse, anche in Europa, non stanno più a guardare,
la lotta esplode ovunque e non si può fermare:
ovunque barricate: da Burgos a Stettino,
ed anche qui da noi, da Avola a Torino,
da Orgosolo a Marghera, da Battipaglia a Reggio,
la lotta dura avanza, i padroni avran la peggio.
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
E quindi: cosa vuoi di più, compagno, per capire
che è suonata l’ora del fucile?
[33] cfr., per esempio, L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi, Torino, 2003).
[34] S. Bologna e A. Fumagalli, Il lavoro autonomo di seconda generazione: scenari di post-fordismo in Italia (Feltrinelli, Milano, 1997).
[35] I ponti tra alcuni spezzoni più riflessivi del movimento dell’Autonomia Operaia e il semisconosciuto universo “consiliarista” furono principalmente due: uno fortemente intellettuale e di marca essenzialmente “francese” che raccoglieva l’interesse per la breve ma intensa storia di “Socialisme ou Barbarie” (1948-1967) e per il movimento artistico d’avanguardia detto “Internazionale Situazionista” (1957-1972). L’altro, più genuinamente proletario, era legato alla rivista “Collegamenti per l’azione diretta di classe” il cui primo numero uscì nel marzo del 1977. Il gruppo promotore di tale rivista svolse un lavoro di ricerca critica sulle lotte operaie valorizzandone le forme di autorganizzazione sociale che si andavano sviluppando sia a livello nazionale che internazionale. Rappresentò negli anni ’70 la tendenza maggiormente libertaria all’interno della variegata area autonoma italiana. La redazione di Collegamenti era in stretta relazione con una rete di collettivi di fabbrica e territoriali dei quali era la diretta espressione, in particolare a Milano dove negli anni precedenti era stato prodotto un omonimo bollettino ciclostilato. Ebbe redattori a Torino, Milano, Firenze, Reggio Emilia, Perugia, Roma e Napoli. I suoi membri provenivano in larga parte dalle componenti classiste e comuniste libertarie del movimento anarchico, liberate (a loro detta) da “incrostazioni ideologiche e rigidità autoreferenziali”. Soprattutto nella prima fase, Collegamenti individuò nella fabbrica e nei comportamenti degli operai sul luogo di lavoro il fulcro dell’organizzazione della classe. Le radici del suo pensiero affondavano nel cosiddetto “sindacalismo dell’azione diretta” (ossia la USI italiana, la IWW statunitense e la CNT spagnola), ma subiva da un lato l’influenza della Sinistra Comunista tedesco-olandese e della tematica consiliare, fuori però (sempre a loro detta) “da ogni impianto determinista”, e dall’altro quella della scuola operaista della “composizione di classe”, nella sua versione più convintamente antipartitica, valorizzando per esempio le esperienze panzieriane delle celebri “inchieste operaie”. Collegamenti prestò un’attenzione particolare ai cosiddetti “comportamenti medi” della classe lavoratrice, nella convinzione che la radicalità acquistasse un senso solo se e quando veniva largamente condivisa. Espresse una critica severa e puntuale del sindacalismo realmente esistente, come pure dei gruppi d’avanguardia dediti alla lotta armata. La rivista terminò la prima serie nel 1980, dopo aver prodotto solo otto numeri.
[36] Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai (Feltrinelli, Milano, 1969).
[37] Autori Vari, Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista (Jaka Book, Milano, 1974).
[38] Ci riferiamo qui a una lettura piuttosto opinabile del noto brano secondo cui:
“Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" [K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, 1846 (Editori Riuniti, Roma, 1972)].
Ma anche a un’altra frase invero un poco più esplicita della precedente:
“Così la Revue Positiviste di Parigi mi rimprovera, da un lato, di aver trattato l’economia metafisicamente, d’altro lato – indovinate! – di essermi limitato ad una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell’avvenire” [K. Marx, Post-scritto alla seconda edizione del I libro de “Il Capitale”, 1873].
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