La caduta tendenziale del tasso di profitto in Marx e nella teoria economica marxista (un’esposizione divulgativa)

 

 

Il profitto cade o se desta?

Prefazione "volgarizzata"

L’uomo è spinto a lavorare produttivamente per adattare, ovvero valorizzare, l’ambiente circostante. Ciò vuol dire: lavorare per aumentare le proprie probabilità di sopravvivenza e migliorare le proprie condizioni di vita. Come è evidente, l’uomo affronta questo processo di adattamento in modo sociale, ossia all’interno di una società. Il processo di valorizzazione è, in ultima analisi, l’uso della tecnologia. Questa è esistita prima del sistema capitalista ed esisterà anche dopo.

Ma nel sistema capitalista il ruolo della tecnologia nella produzione, quindi nell’adattamento dell’ambiente, assume una funzione fondamentale. Con il capitalismo la produzione riceve una spinta che va ben oltre alla coesistenza con l’ambiente (pur ammettendo un certo adattamento di quest’ultimo), divenendo un mezzo per l’unico fine che conti: il profitto!

Il profitto è quanto, in termini assoluti ($10, $100, $1000 ecc.), possiamo ricavare da una qualsiasi attività al netto dei costi di tale attività. Il tasso di profitto tiene contro quindi del sovrappiù e dei costi ed è quindi la profittabilità, una sorta di tasso d’interesse (1%, 10%, 100% ecc.). Ovvero se investo $1000 quanti ne guadagno?

Vi sono almeno due elementi concorrenti nel capitalismo: l’innovazione tecnologica e la competizione.

Il tasso di profitto aumenta quando un produttore sviluppa un vantaggio rivoluzionario (una cosiddetta “disruptive technology”, ovvero una “tecnologia dirompente”), ma questo tenderà nel tempo a distribuirsi tra i vari produttori che a loro volta lo adotteranno, portando fuori produzione quelli che, per mancanza di liquidità o di lungimiranza, non lo avranno adottato in tempo.

Il punto di Marx è che a causa di questa ridistribuzione, il tasso di profitto non può che scendere alla lunga, anche se, come aggiungerebbe Schumpeter, ad ogni rivoluzione tecnologica il tasso di profitto si riposiziona ad un valore enormemente più alto di quello del periodo del precedente. Una controtendenza, se vogliamo, già menzionata esplicitamente da Marx anche se in modo non del tutto esauriente.

Ora la domanda è: ad ogni ondata evolutiva del capitalismo vi sarà sempre una super-compensazione del tasso di profitto? Ovvero il tasso di profitto tornerà o meno più ai livelli, o addirittura sopra i livelli, che aveva immediatamente dopo la precedente rivoluzione tecnologica? La seconda domanda è: che cosa succede quando in un settore produttivo non si verificano più rivoluzioni tecnologiche? Si ripropone l’ipotesi di Marx? Oppure l’esistenza di un tasso di profitto medio, ammessa esplicitamente anche da Marx, permette al capitalismo di continuare a funzionare a patto che vi sia sempre qualche settore in rapida evoluzione?

“Rivoluzione tecnologica” significa valorizzazione dell’ambiente, ovvero essere in grado di diminuire la quota di lavoro umano nella produzione, e questo significa automazione. L’automazione è ovviamente costosa, perché presuppone lavoro altamente complesso, ovvero una grande quota di “lavoro astratto” altamente profittevole. Si pensi un imprenditore o un gruppo di imprenditori che dopo l’investimento in una attività produttiva, non sono costretti a pagare i salari, se non per le manutenzioni, molto probabilmente già pianificate a priori: tutto il resto sarà profitto. S’immagini poi che questa quasi-completa automazione si generalizzi. Ora, oltre ai tecnici manutentori, che sarebbero gli unici a ricevere un salario, chi altro potrebbe permettersi di acquistare le varie merci? Probabilmente solo i lavoratori improduttivi, ovvero quelli come gli insegnanti, i ricercatori, gli assistenti sanitari ecc. Quindi la società si dividerebbe in produzione automatizzata con i suoi tecnici manutentori, più i lavoratori improduttivi (ma utili!) del settore terziario. Ma diventando la forza-lavoro dei tecnici manutentori una merce rara, questi si trasformerebbero in un’élite, pagata profumatamente e molto esclusiva, mentre il terziario diventerebbe una sorta di “enorme calderone” dove la sovrabbondanza di offerta di lavoro farebbe precipitare i salari. In ultima analisi chi si potrebbe permettere queste merci prodotte “super-efficientemente” in grandi quantità? Sovrapproduzione (o sottoconsumo) vorranno dire crisi economica e, quindi, caduta dei profitti? Non sappiamo, ma comprendiamo bene come la sola automazione non sia di per sé una panacea universale e quindi non liberi l’uomo dalle angosce provocate dalle instabilità intrinseche nel sistema capitalista.

L’adattamento umano dell’ambiente ha bisogno del capitalismo? Sicuramente ne ha avuto, ma ora può fare certamente a meno dei vincoli imposti da un’economia tutta imperniata sulla logica del profitto!

 

Cesco e D.C.

 

 

 

Buona lettura: 




 

 

I.             Introduzione

 

Nel precedente saggio divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” (https://adattamentosocialista.blogspot.com/2020/12/la-trasformazione-marxiana-dei-valori.html) ci siamo interessati al problema marxiano della trasformazione dei valori di scambio in prezzi di produzione, presentando sia la soluzione originaria di Marx, sia la successiva critica neoricardiana, e concludendo poi con il tentativo di sintesi fornito dalla cosiddetta New Interpretation. Alla base di tutta la discussione vi erano però due ipotesi fondamentali tese a semplificare notevolmente il problema e peculiari di ciò che Marx [1] definiva come “riproduzione semplice”, ovvero:

(1) la mancanza di crescita economica e demografica del sistema economico in esame;

(2) l’assenza di qualsiasi forma di progresso tecnologico in tale sistema.

 

Per ciò che concerne il punto (1), fu l’autore stesso de Il Capitale, sempre nel Libro II, ad abbozzare i cosiddetti schemi di “riproduzione allargata” che tanto contribuirono al noto dibattito sull’imperialismo tra Rosa Luxemburg, Karl Kautsky, Vladimir I. Lenin, Otto Bauer e Nikolai I. Bukharin nel periodo compreso tra il 1913 e il 1924. La Luxemburg riteneva infatti impossibile la “riproduzione allargata” ipotizzata da Marx e considerava l’evoluzione del capitalismo mondiale verso la forma imperialista a lei contemporanea (caratterizzata dall’acceso militarismo e dalla conquista coloniale di molti paesi extraeuropei non ancora provvisti di un’economia di mercato) proprio come un tentativo di sfuggire agli impossibili vincoli imposti dagli schemi di riproduzione allargata (vedasi Ref. [2] e l’appendice in fondo all’articolo). Al contrario, Bukharin [3] credette di completare il lavoro di Marx correggendo una piccola svista dell’autore e di dimostrare la sostenibilità (almeno teorica) di un sistema capitalista chiuso ma in crescita. Questi risultati, che saranno presentati nella Sez. II seguendo la trattazione di Marx e Bukharin nell’ambito della rigida validità della teoria del valore-lavoro, svelano in effetti la fondamentale similitudine tra “riproduzione semplice” e “riproduzione allargata” e giustificano il relativo ritardo con cui le tematiche dell’espansione sono tornate al centro dell’interesse della scuola economica marxista (cfr., per esempio, la “expanded reproduction in the circuit of capital model”   (riproduzione allargata nel modello del circuito del capitale) nei lavori di Duncan K. Foley [4]).

 

Il punto (2) relativo al progresso tecnologico, anzi, più esattamente alla cosiddetta “labour saving technology” (tecnologia per il risparmio del lavoro), se si eccettuano sporadiche ma brillanti riflessioni in varie sue opere economiche, è abbozzato da Marx in modo analitico solo nel I Libro de Il Capitale [5] (capitoli 12-15) e nel III Libro de Il Capitale [6] (capitoli 13-15), dove giunge, con tutte le cautele del caso, a formulare la famosa “legge della Caduta Tendenziale del Tasso di Profitto” (CTTP). I ragionamenti di Marx verranno presentati nella Sez. III di questo breve saggio.

È veramente difficile sottostimare l’importanza della CTTP, non solo nel dibattito economico tra economisti marxisti e studiosi appartenenti ad altre scuole, ma anche nell’evoluzione teorica e strategica del movimento operaio e socialista della prima metà del XX secolo. Non possiamo soffermarci sulla questione in quanto esula dall’ambito di questo breve lavoro divulgativo, ma tutta la discussione sull’ipotetico “crollo finale del capitalismo”, sia durante la Seconda Internazionale [cfr. Conrad Schmidt e il dibattito con Mikhail I. Tugan-Baranovsky sul tema del “Zusammenbruch” (crollo)], sia durante la Terza Internazionale (cfr. Henryk Grossman e il suo lavoro fondamentale del 1929 [7]), sia dopo l’ultimo conflitto mondiale (cfr. Paul Mattick e il suo studio sulla crisi economica e le teorie della crisi [8]).

Tornando alla teoria economica, dobbiamo rilevare che, dopo esser stato uno dei bersagli preferiti della polemica marginalista contro l’economia marxiana all’inizio del XX secolo, la legge della CTTP cominciò a essere attaccata anche da studiosi marxisti “eterodossi”, come Paul Sweezy [9] nel 1942. Per Sweezy, infatti, la non dimostrabilità della legge della CTTP era una semplice conseguenza del supposto errore marxiano nella trasformazione dei valori di scambio in prezzi di produzione. Ma bisognerà attendere ancora qualche anno, il 1961, per avere il famoso teorema di Okishio [10] e la formulazione matematica dell’opposto della legge della CTTP: se un singolo capitalista eleva i suoi profitti personali introducendo una nuova tecnica che riduce i suoi costi di produzione, allora il tasso di profitto generale (o collettivo) della società (ovvero quello valido per tutti i capitalisti) crescerà anch’esso.

Ma il suddetto teorema (cfr. la Sez. IV di questo articolo) fa pesantemente uso dei modelli economici neoricardiani dovuti a Sraffa e ai suoi allievi, per cui da parte marxista “ortodossa”, la polemica contro l’approccio sraffiano alla determinazione dei prezzi di produzione venne a saldarsi quasi immediatamente con quella contro il teorema di Okishio e in difesa della legge della CTTP. In effetti la filiazione di tale teorema da tutto il dipanarsi storico della critica neoricardiana agli schemi di riproduzione di Marx (da Tugan-Baranovsky a Bortkiewicz e Moszkowska fino a Shibata ecc.) è ben descritta da Shalom Groll e Ze’ev B. Orzech nel loro studio del 1989 [11]. A questo proposito è opportuno terminare la nostra brevissima introduzione ricordando il lungo dibattito tra David Laibman (pro) e Andrew Kliman (contra) proprio sul teorema di Okishio e il suo uso tendente a minare la legge della CTTP, svoltosi tra il 1999 e il 2004. Esso sarà rapidamente richiamato nelle conclusioni di questo lavoro, nella Sez. V, insieme al recente libro di Kliman largamente dedicato alla legge della CTTP, sia dal punto di vista teorico che empirico.

 

II.             Gli schemi marxiani di riproduzione allargata

 

Torniamo con la mente alla terza sezione del saggio divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” in cui veniva presentato il più elementare modello di riproduzione semplice, quello a due settori, dove il primo rappresentava la fabbricazione dei mezzi di produzione, mentre il secondo riguardava la produzione dei beni di consumo. I cicli annuali del sistema economico riportato in quello schema si susseguivano l’uno dopo l’altro, ma nella riproduzione semplice non giocavano alcun ruolo, data la stazionarietà del sistema. Quindi per ciascun settore esisteva una terna di valori sempre uguali: c1, v1, s1 e c2, v2, s2 che rappresentavano rispettivamente: il capitale costante, il capitale variabile e il plusvalore prodotti dal settore considerato. Il valore di scambio della produzione annuale di merci per il singolo settore, w1 o w2, era dunque dato semplicemente dalla somma delle tre componenti appena citate. La teoria del valore-lavoro si applicava in modo inflessibile e le merci erano dunque vendute esattamente al loro valore di scambio non sussistendo alcun tasso di profitto generale r. Infine, erano presenti nel modello altre due ipotesi semplificatrici: il saggio di plusvalore, m, era uguale in entrambi i settori e costante nel corso degli anni; la composizione organica, q, poteva variare da un settore all’altro (in generale quindi q1 q2), ma doveva essere costante nel corso degli anni, non essendoci alcun progresso tecnico. In questo modo la conoscenza della coppia v1, v2 specificava tutti i dettagli del sistema, dato che m, q1 e q2 erano costanti positive fissate inizialmente. Le condizioni che la coppia v1, v2 doveva soddisfare per garantire la riproduzione semplice del sistema venivano trovate rapidamente e si esprimevano con la relazione: c2 = v1 + s1, nota come condizione di riproduzione semplice (basata sul valore) per un modello a due soli settori economici, ed equivalente a scrivere: v1 / v2 = q2 / ( 1 + m ).

 

Rimuoviamo ora l’ipotesi della stazionarietà e sostituiamola con quella della crescita: le sei quantità economiche che abbiamo appena incontrato presenteranno una dipendenza esplicita da n, l’indice del ciclo in esame: c1(n), v1(n), s1(n) e c2(n), v2(n), s2(n). Marx, come abbiamo visto, parla in questo caso di “riproduzione allargata” in cui una parte del plusvalore non è consumato alla fine del ciclo annuale, ma è trasformato in capitale e nel ciclo immediatamente successivo comincia a fungere effettivamente da capitale (variabile o costante che sia). Più precisamente, seguendo la notazione di Bukharin [3], abbiamo per ognuno dei due settori varie quote che ci indicano la destinazione del plusvalore generato in un certo ciclo:

 

s1(n) = α1(n) + β1(n) = α1(n) + β1,v(n) + β1,c(n) ;                                     (1a)

s2(n) = α2(n) + β2(n) = α2(n) + β2,v(n) + β2,c(n) .                                     (1b)

 

Ossia, per quel che concerne il primo settore (riguardante la fabbricazione dei mezzi di produzione) gli imprenditori consumano la quota α1(n) del plusvalore da loro ottenuto, mentre ne investono la quota β1(n): β1,c(n) incrementando il capitale costante e β1,v(n) incrementando quello variabile. Analogamente, per quel che concerne il secondo settore (riguardante la produzione dei mezzi di consumo) gli imprenditori consumano la quota α2(n) del plusvalore da loro ottenuto, mentre ne investono la quota β2(n):  β2,c(n) incrementando il capitale costante e β2,v(n) incrementando quello variabile.

Ma vediamo meglio il meccanismo dell’espansione capitalista ipotizzando che si possa iniziare la nostra analisi dal ciclo annuale n=1, dove investendo c1(1) e v1(1) si dà luogo a un prodotto di valore w1(1) (mezzi di produzione) con un plusvalore s1(1), mentre investendo c2(1) e v2(1) si dà luogo a un prodotto di valore w2(1) (beni di consumo) con un plusvalore s2(1). Schematicamente:

 

c1(1) + v1(1) → w1(1) [s1(1)] ;                                                        (2a)

c2(1) + v2(1) → w2(1) [s2(1)] .                                                        (2b)

 

Poiché il plusvalore non è ora totalmente consumato, ma parzialmente reinvestito, nel successivo ciclo (n=2) si avrà sempre schematicamente:

 

[c1(1) + β1,c(1) + v1(1) + β1,v(1)] → c1(2) + v1(2) → w1(2) [s1(2)] ;                (3a)

[c2(1) + β2,c(1) + v2(1) + β2,v(1)] c2(2) + v2(2) → w2(2) [s2(2)] .                (3b)

 

E così via per i cicli successivi. Si vede quindi che passando da un ciclo qualsiasi (diciamo n) al successivo (diciamo n + 1), il capitale investito nel primo settore crescerà di β1(n) = β1,c(n) + β1,v(n), mentre quello investito nel secondo settore di β2(n) = β2,c(n) + β2,v(n). Ma siccome il plusvalore è sempre proporzionale al capitale investito mediante il coefficiente m / ( 1 + q1,2 ), cresceranno anche i plusvalori ricavati nel ciclo n + 1 e quindi anche gli investimenti nel ciclo n + 2 ecc. Ovviamente a un certo momento il nostro modello diverrà irrealistico perché per carenza di materie prime o di derrate alimentari, oppure per difetto di popolazione, gli investimenti diventeranno tecnicamente impossibili (anche in presenza di adeguati capitali) e l’espansione si arresterà non potendo più procedere con il ritmo ipotizzato dal semplice modello di Marx-Bukharin.

A questo punto possiamo porci legittimamente la domanda di come la riproduzione allargata modifichi la relazione c2 = v1 + s1, valida per la riproduzione semplice e ottenuta risolvendo l’equazione 12 dell’articolo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione”. La soluzione fu trovata da Bukharin studiando il sistema di equazioni che impone l’equilibrio nella produzione, i consumi e gli investimenti insiti nella Eq. (3), ossia:

 

    (4)

 

Sfruttando l’Eq. (1) questi fu in grado di estrarre dal precedente sistema la semplice relazione: c2(n) = v1(n) + α1(n) + β1,v(n) – β2,c(n) dettacondizione di riproduzione allargata (basata sul valore). È evidente che nel caso di α1(n) = s1(n) e β1,v(n) = β2,c(n) = 0 si ritorni alla condizione di riproduzione semplice.

Tuttavia, studi successivi di Roman Rosdolsky, Roy Tearse e David Yaffe [12] misero in luce un errore di Bukharin, che credette di poter scindere la condizione di riproduzione allargata (basata sul valore) in due sotto-equazione separate: c2(n) = v1(n) + α1(n) e β1,v(n) = β2,c(n). Questo in generale non è lecito, dato che le quote di plusvalore investito devono sottostare ad altre relazioni che erano sfuggite sia a Marx che a Bukharin. Infatti, vogliamo preservare in ogni ciclo della riproduzione allargata la costanza delle due composizioni organiche q1 e q2, in quanto abbiamo ipotizzato che non vi sia progresso tecnico e che quindi, sebbene su scale quantitative diverse, i processi produttivi rimangano qualitativamente sempre gli stessi. Questa richiesta implica che, per un indice n qualsiasi, valgano le relazioni:

 

( c1(n) + β1,c(n) ) / ( v1(n) +  β1,v(n) ) = c1(n) / v1(n) = q1 ;                          (5a)

( c2(n) + β2,c(n) ) / ( v2(n) +  β2,v(n) ) = c2(n) / v2(n) = q2 .                          (5b)

 

Allo stesso modo si richiede che l’espansione del sistema preservi nel corso dei vari cicli il rapporto tra i lavoratori (ossia il capitale variabile) impiegati nel settore 1, v1(n), e quelli impiegati nel settore 2, v2(n). Chiamiamo questo rapporto, v1(n) / v2(n), con il simbolo η (indipendente da n). Questa richiesta implica che, per un indice n qualsiasi, valga la relazione:

 

( v1(n) + β1,v(n) ) / ( v2(n) +  β2,v(n) ) = v1(n) / v2(n) = η.                          (6)

 

Con un po’ di algebra elementare è possibile trasformare le Eqq. (5) e (6) in tre espressioni ben più maneggevoli:

 

β1,c(n) / β1,v(n)  = q1;                                                                     (7a)

β2,c(n) / β2,v(n)  = q2 ;                                                                    (7b)

β1,v(n) / β2,v(n)  = η .                                                                      (7c)

 

Queste relazioni, insieme a quelle in Eq. (1), implicano un risultato fondamentale: la riproduzione allargata ammette un solo parametro libero, per esempio β2,v(n), dopodiché tutti gli altri (α1,2, β1,c, β1,v e β2,c) sono determinati (con l’ovvio vincolo che devono esser tutte quantità positive). Così definendo il rapporto β2,v(n) / s2(n) con il simbolo γ (indipendente da n), possiamo riscrivere la condizione di riproduzione allargata (basata sul valore) in forma molto sintetica:

 

 η = q2 ( 1 + m γ ) / ( 1 + mm γ q1 ) ,                                           (8)

 

che nel caso di mancata accumulazione (γ = 0) coincide con il risultato della riproduzione semplice.

Concludiamo questa sezione ricordando che l’Eq. (7) è anche perfettamente compatibile con le condizioni aggiuntive espresse da Yaffe [12]:

 

( β1(n) s2(n) ) / ( β2(n) s1(n) ) = [ v2(n) ( c1(n) + v1(n) ) ] / [ v1(n) ( c2(n) + v2(n) ) ].    (9)

 

Un semplice esempio numerico di schema di riproduzione allargata a due settori (basato sul valore) è riportato in Tab. I. 

 

 

 

Anno

Settore

c

(£)

v

(£)

s

(£)

w

(£)

α

(£)

βc

(£)

βv

(£)

 

1

2

280,00

111,98  

  72,00

156,78

  48,00

104,52 

400,00

373,28

40,80

99,02

5,732,29

1,47

3,21

 

1

2

285,73

114,27

73,47

159,98

48,98

106,65

408,18

380,91

41,64

101,04

5,84

2,34

1,50

3,27

 

1

2

291,57

116,61

74,98

163,25

49,98

108,84

416,53

388,70

42,49

103,11

5,96

2,39

1,53

3,34











 

Tab. I. Esempio di schema di riproduzione allargata a due settori rappresentato per tre cicli successivi, dal 1° anno al 3° anno, e caratterizzato dai seguenti parametri: m=2/3, q1=35/9, q2=5/7 e η=0,45926. La validità della relazione di Bukharin c2 + β2,c = v1 + α1 + β1,v può esser facilmente verificata per ogni singolo ciclo annuale confrontando la somma delle cifre in giallo con quella delle cifre in celeste.

 

III.             La legge marxiana della caduta tendenziale del tasso di profitto

 

Marx fu da sempre interessato a comprendere il modo in cui le società umane si trasformano e cambiano. Orbene, la teoria del valore-lavoro applicata al sistema economico capitalista costituì per lui uno strumento importante per descrivere in modo succinto, mediante gli schemi di riproduzione semplice e allargata, cosa accadeva in questo modo di produzione, ma, ovviamente, tali schemi non erano in grado di risolvere il problema del mutamento qualitativo.  Ciò potrebbe sembrare persino paradossale in quanto Marx ed Engels, già dai tempi del Manifesto del Partito Comunista (1848), avevano concepito il capitalismo proprio come il modo di produzione tecnicamente progressivo per antonomasia, ovvero il primo nella Storia umana che istituzionalizzava l’avanzamento tecnologico non limitandosi a subirlo passivamente come un fenomeno tutto sommato aleatorio. Ne risultava quindi che lo svelamento dell’origine del plusvalore come il risultato dello sfruttamento dei lavoratori, e l’analisi del circuito del capitale nella sua incessante metamorfosi di merce in denaro e viceversa, specchio deformato delle sottostanti relazioni sociali, benché entrambi d’importanza cruciale, non potevano però esser sufficienti. Infatti, i cambiamenti tecnologici andavano ad alterare proprio quei parametri che Marx aveva mostrato sovraintendere allo sfruttamento dei lavoratori e alla circolazione del capitale: il saggio di plusvalore m, la composizione organica del capitale q, la percentuale reinvestita di plusvalore ( β/s ), la velocità di rotazione del capitale ecc.

Marx cominciò ad affrontare il problema dell’evoluzione del capitalismo nel cap. 13 del III Libro de Il Capitale [6] da un punto di vista storico, immaginando un ipotetico protocapitalista che erediti procedimenti tecnici relativamente inefficienti dal precedente modo di produzione. Proprio a causa della bassa efficienza di tali metodi, questi non saranno in grado di fornire una grossa mole di plus-lavoro (ossia di plusvalore) per singolo operaio. Tuttavia, sempre per lo stesso motivo, essi richiederanno anche modesti investimenti di capitale costante. Calcolando il tasso di profitto r del singolo protocapitalista, avremo che esso è dato come sempre dal rapporto tra il plusvalore s (in questo caso identico al profitto) e il capitale totale investito (costante c, più variabile v):

 

r = s / ( c + v ) = m / ( q + 1 ).                                             (10)

 

Si noti che, anche se m è piccolo, r può non esser trascurabile in quanto il denominatore è di poco maggiore di 1. Con l’introduzione di nuove tecnologie il capitalista abbandonò gradualmente i vecchi sistemi produttivi e aumentò a dismisura la produttività del lavoro mediante massicci investimenti di capitale costante. Ma cosa accadde al tasso di profitto alla fine di un tale lungo ciclo di accumulazione? Due tendenze si combattono in Eq. (10): la crescita di m, dovuta all’aumento della produttività del lavoro e quella di q, causata dalla crescita relativa del capitale costante (investimenti) rispetto al capitale variabile (salari). Marx, come vedremo successivamente, fu sempre convinto della tendenza secolare a prevalere del denominatore sul numeratore, ovvero, alla caduta tendenziale del tasso di profitto.

Va precisato però che non fu lui ad inventare questa espressione, in effetti già presente in Adam Smith e, soprattutto, in David Ricardo, ma sicuramente la pose su basi nuove legandola in modo preciso alla questione dello sviluppo tecnologico. In Ricardo, infatti, era l’effetto combinato dell’esistenza di una rendita fondiaria e dei terreni meno fertili da mettere necessariamente a coltura a inibire a un certo punto il processo di accumulazione. Marx fu però molto critico nei confronti delle conclusioni ricardiane ricavate dal famoso modello mono-merce, detto di “solo grano”, dove il ruolo del capitale costante veniva essenzialmente trascurato confondendo così il saggio di plusvalore con il tasso di profitto.

Nel cap. 15 del III Libro de Il Capitale [6], Marx elabora la sua teoria alla base della legge della CTTP iniziando a discutere in maniera preventiva l’obiezione tipica degli avversari della teoria del valore-lavoro: “Se è vero che gli investimenti tecnologici hanno l’effetto di diminuire r, perché i capitalisti si affannano ad investire il loro capitale in modo da introdurre nuove tecnologie per risparmiare lavoro? Non è infatti proprio il lavoro a fornire plusvalore e, quindi, in ultima analisi, profitto?” Per rispondere a ciò non è più sufficiente ragionare, come per l’Eq. (10), in termini di una singola impresa capitalista, ma è necessario introdurre il ruolo del mercato dove operano una moltitudine di imprese concorrenti. Questo servirà anche a chiarire un’affermazione finora data per scontata, ovvero che l’aumento della produttività del lavoro indotta dallo sviluppo tecnologico ha l’effetto di innalzare, almeno fino ad un certo livello, il saggio di plusvalore m.

Il meccanismo individuato nel III Libro de Il Capitale è tutto sommato abbastanza semplice e si basa su quella che diventerà nota (pochi anni dopo la morte di Marx) come legge di mercato di Jevons, detta anche legge d’indifferenza del prezzo: un dato bene, in un determinato momento e su uno stesso mercato, non può avere che un unico prezzo. Quindi un singolo imprenditore che riuscisse a produrre, grazie all’introduzione di nuove tecnologie, un determinato prodotto a un valore-lavoro molto più basso del corrispondente prezzo medio di produzione del momento, riuscirebbe a vendere tale prodotto a un prezzo quasi indistinguibile da quest’ultimo e, quindi, intascherebbe un ricco sopraprofitto. Per questo motivo sarebbe immediatamente seguito nei suoi investimenti tecnologici dagli altri imprenditori concorrenti attivi nel suo stesso settore, i quali però intascherebbero sopraprofitti via via decrescenti in quanto il prezzo medio di produzione comincerebbe inevitabilmente a calare. Ad un certo punto di tale discesa le imprese ancora basate sul vecchio schema produttivo fallirebbero del tutto lasciando il mercato a quelle ammodernate, le quali però si troverebbero di fronte a un prezzo sostanzialmente uguale al valore-lavoro effettivo del prodotto fabbricato con le nuove tecnologie, ossia molto più basso di quello di partenza. Il tasso medio di profitto del settore in esame sarebbe quindi necessariamente calato rispetto alla situazione precedente agli investimenti tecnologici, però nella fase transitoria alcuni imprenditori si sarebbero arricchiti enormemente a spese di taluni loro concorrenti. Tuttavia, vanno senz’altro riportate due osservazioni importanti: la domanda del mercato e, soprattutto, la sua capacità di assorbire tutti i prodotti in questione è data per garantita, anzi non è proprio considerata in questa fase, mentre diventerà importante nello studio della teoria delle crisi cicliche del capitalismo. La formazione di un tasso di profitto di equilibrio, uniforme e trasversale ai vari settori economici, qui non è inclusa in quanto Marx sta studiando l’effetto transiente dell’introduzione di nuove tecnologie in un determinato settore.

 

Per chiarire meglio quanto appena discusso pensiamo sia utile un piccolo esempio pratico. Immaginiamo il settore della produzione dei palloni da calcio in un determinato sistema economico. Il metodo di partenza è quello artigianale con una bassissima composizione organica del capitale: un singolo operaio produce 2 palloni al giorno ricevendo una paga di 36 $ (capitale variabile) e utilizzando 10 $ di capitale costante circolante (pellame, camere d’aria, spago, valvole, colla e vernici), ovvero 5 $ per pallone. Il poverissimo strumentario in uso (forbici, trincetti, aghi, pennelli ecc.) rappresenta il capitale costante fisso dell’azienda e vale circa 70 $ per ogni operaio, ma si deteriora completamente dopo un anno di lavoro (approssimativamente di 350 giorni). L’ammortamento sarà quindi di un ulteriore 1/5 $ al giorno per operaio. Supponendo un saggio di plusvalore di m = 100%, possiamo calcolare la composizione organica: q = ( 10 + 1/5 ) / 36 = 28,33%, nonché il valore della coppia di palloni prodotti giornalmente da un operaio medio: w = ( 10 + 1/5 ) $ + 36 $ + 36 $ = 82,2 $. Ogni singolo pallone varrà quindi 41,1 $, mentre le imprese del settore garantiranno un tasso di profitto del 77,92% come mostrato nell’Eq. (10). Immaginiamo pure che nel nostro sistema economico vengano impiegati permanentemente nella produzione dei palloni 1.000 lavoratori distribuiti in un certo numero di imprese, distinte e in concorrenza tra loro. La produzione totale di palloni da calcio sarà dunque di 2.000 esemplari al giorno per un valore complessivo (fatturato) di 82.200 $.

A un certo momento, il Sig. Khan, padrone di un’impresa con 10 operai, s’accorge che l’utilizzo di tagliatrici automatiche, macchine da cucire elettriche e pistole ad aria compressa permette di decuplicare la produzione giornaliera (ossia 20 palloni per operaio, pari a 200 palloni al giorno), ma necessita di un investimento di 21.000 $ da ammortizzare completamente in 1 anno. Ciò corrisponde a un capitale costante fisso giornaliero per operaio di 6 $. Supponendo sempre un saggio di plusvalore di m* = 100%, possiamo calcolare la nuova composizione organica q* = (100 + 6) / 36 = 294,44% e il valore della ventina di palloni prodotti dal nostro operaio medio: w* = (100 + 6) $ + 36 $ + 36 $ = 178 $. Ogni singolo pallone varrà quindi soltanto 8,9 $, ma non sarà certamente venduto al suo valore.

Infatti l’astuto Sig. Khan proverà a venderlo al prezzo originario di 41,1 $ (ovvero con un sovraprofitto di ben 32,2 $), portando così il suo guadagno giornaliero, somma del sovraprofitto e del reale plusvalore, a una cifra data da: 10 (operai) ´ 20 (palloni) ´ [ 32,2 $ (sovraprofitto) + 1,8 $ (plusvalore) ] = 6.800 $. Questo corrisponderebbe a un tasso di profitto del 478,87% dato un capitale investito giornaliero di: 10 (operai) ´ [ 106 $ (capitale costante) + 36 $ (capitale variabile) ] = 1.420 $. Tuttavia, non si tratterebbe di una stima realistica dato che il prezzo medio del singolo pallone da calcio, a causa del basso valore-lavoro dei 200 esemplari giornalieri immessi sul mercato dal Sig. Khan, troverà il suo prezzo di equilibrio, p1, come segue, ovvero mediante una semplice media pesata: p1 = ( 1980 ´ 41,1 $ + 200 ´ 8,9 $ ) / 2180 = 38,15 $. La procedura appena utilizzata combina il principio marxiano, limitato al solo settore economico in esame, dell’uguaglianza tra la somma dei prezzi e quella dei valori, con la citata legge di mercato di Jevons.

Il sovraprofitto si assesterà quindi a: 38,15 $ - 8,90 $ = 29,25 $, comportando un guadagno giornaliero dato da: 10 (operai) ´ 20 (palloni) ´ [ 29,25 $ (sovraprofitto) + 1,8 $ (plusvalore) ] = 6.210 $ al giorno. Questo corrisponde ora a un tasso di profitto per Khan, più realistico, del 437,32%, mentre tutte le altre imprese ancora artigianali scenderanno dal 77,92% a un preoccupante 65,15%.

Adesso il Sig. Singh, anche lui con un’impresa di 10 operai e attento concorrente del Sig. Khan, ne copia esattamente le strategie d’investimento, generando un nuovo prezzo di equilibrio per tutto il mercato dato da: p2 = ( 1960 ´ 41,1 $ + 400 ´ 8,9 $) / 2360 = 35,64 $. Singh e Khan avranno entrambi un sovraprofitto di 26,74 $ per singolo pallone corrispondente a un tasso di profitto di 401,97 %, mentre tutte le altre imprese ancora artigianali scenderanno dal 65,15% all’ancora più preoccupante 54,29%. Man mano che questo processo d’investimento si diffonde caleranno sia i superprofitti delle imprese ammodernate, sia i tassi di profitto delle imprese obsolete. Quando questi ultimi diventeranno negativi (ossia per p < 23,1 $) esse spariranno dal mercato, lentamente ma inesorabilmente, a causa della bancarotta. A questo punto il prezzo di equilibrio precipiterà rapidamente al suo valore-lavoro effettivo: p=8,9 $ e i sovraprofitti rigorosamente a zero, in quanto tutte le imprese sopravvissute avranno già implementato gli investimenti tecnologici citati. Ma quale sarà il loro comune tasso di profitto? Soltanto il 25,35%, che è assai minore del 77,92% relativo alla fase precedente agli investimenti tecnologici iniziati dal Sig. Khan. Questi, per un certo periodo, si è arricchito enormemente estorcendo plusvalore ai suoi imprenditori concorrenti, ma ha anche innescato la svalorizzazione del singolo pallone da calcio (da 41,1 $ a 8,9 $) provocando una serie di trasformazioni che hanno avuto come risultato finale l’aumento della produttività del lavoro (un operaio passa da 2 a 20 palloni al giorno), ma anche una notevole caduta del tasso di profitto.

 

Una volta svelata la ragione degli investimenti tecnologici e mostrata la loro piena compatibilità con la teoria del valore-lavoro, è possibile volgere di nuovo lo sguardo al sistema economico nel suo complesso, dove la condizione di equilibrio permette l’esistenza di un tasso medio di profitto, rm, trasversale a tutti gli N settori produttivi. Come mostrato nella sezione II del lavoro divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione”, secondo Marx rm può essere direttamente associato ai valori di scambio, senza necessariamente doverli prima trasformare in prezzi di produzione. Ciò avviene mediante una semplice formula dove S rappresenta la somma di tutti gli N plusvalori settoriali s1, s2, …, sn; C la somma di tutti gli N capitali costanti settoriali c1, c2, …, cn e V  la somma di tutti gli N capitali variabili settoriali v1, v2, …, vn:

 

rm  = S / ( C  + V ) = m V / [ ( q1v1 + q2v2 + … + qNvN ) + V  ].                       (11)

 

Se ora introduciamo la composizione organica media, qm = C / V  = ( q1v1 + q2v2 + … + qNvN ) / V, possiamo ulteriormente semplificare l’Eq. (11) dandogli una forma simile a quella valevole per la singola impresa [ossia l’Eq. (10)], con la sola composizione organica individuale q sostituita da quella media qm:

 

rm  = m / (qm + 1 ).                                                           (12)

 

Il risultato è molto rilevante e ci dice che, progressivamente, all’aumentare della composizione organica dei vari settori q1 - qN, la composizione organica media qm dovrà necessariamente prima o poi crescere, anche se all’inizio sarebbero (teoricamente) possibili esiti temporaneamente diversi mediante lo spostamento di frazioni della forza-lavoro v1 - vN da un settore all’altro. Ciò sembrerebbe suffragare in modo inoppugnabile la legge della CTTP marxiana, almeno su lunga scala temporale, ma sempre nell’ipotesi dell’esistenza di un saggio di plusvalore unico per i vari settori e, soprattutto, costante nel tempo. A questo proposito va detto che Marx si era già reso conto (cap. 14 del III Libro de Il Capitale [6])  che la caduta del tasso di profitto era sì una tendenza intrinseca del capitalismo, spinta dall’innovazione tecnologica e dalla concorrenza tra gli imprenditori, ma che, anche alla luce delle statistiche economiche, non appariva in maniera sempre chiara ed evidente, anzi, in alcuni periodi sembrava quasi bloccata e ostacolata, per poi riemergere prepotentemente in concomitanza delle crisi periodiche. Lasciando lo studio della teoria marxista delle crisi a un’altra occasione, possiamo comunque proseguire il nostro discorso attribuendo alla temporanea crescita di m una parte delle controtendenze{a} alla caduta di rm, identificate da Marx e messe in opera dalla classe capitalista per opporsi al calo della profittabilità dei suoi investimenti.

Iniziamo semplicemente scrivendo la definizione del saggio di plusvalore globale: m = S /V, dove però, sostiene Marx, si potrebbe ugualmente usare la somma dei profitti, P, invece di quella dei plusvalori, S. Quindi, per aumentare m si può agire su due fronti: dilatare S ( = P ) e/o diminuire V. Immaginiamo di lasciare per ora V  invariato. Dato che V + S sono proporzionali al montante di ore di lavoro effettuate, L, dai lavoratori di tutti gli N settori produttivi, per aumentare S è necessario allungare la giornata di lavoro media dei lavoratori suddetti. Questo è sicuramente fattibile, ma ha un limite fisiologico preciso e, soprattutto, aumenta enormemente la conflittualità sociale. Storicamente non è la strada scelta dal capitalismo in cui il valore di L è sceso inesorabilmente in tutto il XIX secolo per poi stabilizzarsi a metà del XX secolo più o meno al valore odierno, che nei paesi occidentali si attesta intorno alle 37-42 ore settimanali.

Essendo preclusa la via dell’aumento del cosiddetto plusvalore assoluto, non resta da percorrere che quella della crescita del plusvalore relativo, ovvero la riduzione di V. Più intuitivamente, esprimendo V ed S direttamente in ore di lavoro astratto (o socialmente necessario) piuttosto che in denaro, possiamo scrivere: m = L / V – 1, quindi per aumentare m a parità di ore lavorate L, è necessario ridurre V. Questa scelta che apparentemente implica la riduzione dei salari giornalieri, sembrerebbe soffrire degli stessi problemi dell’aumento del plusvalore assoluto, ovvero limiti fisiologici e alta conflittualità sociale, ma soltanto a uno sguardo di superficie. Infatti, V è all’origine un valore-lavoro e quindi la sua successiva espressione monetaria potrebbe velarne la vera essenza (specie a causa dei fenomeni inflattivi), che è quella del tempo di lavoro necessario affinché vengano ricostituite le merci e i servizi che compongono il cosiddetto “salario reale” dei lavoratori del nostro sistema economico. In altre parole, il “salario reale” è un paniere di beni economici e V potrebbe tranquillamente diminuire, senza provocare malcontenti, qualora tali beni diventassero più a buon mercato. Da un punto di vista del valore-lavoro questo implicherebbe che il rapporto V / L, ossia la frazione della giornata di lavoro in cui gli operai lavorano effettivamente per loro stessi e non per i loro imprenditori, diverrebbe in effetti minore. E, come abbiamo visto, la decrescita di V / L implica necessariamente la crescita di m.

Sorge quindi il problema di come “svalorizzare” il “salario reale” dei lavoratori in questione, che, va ricordato, ai tempi di Marx era costituito quasi esclusivamente da beni di consumo frugali (alimenti e bevande, legna o carbone per il riscaldamento, un po’ di abiti e di mobilio e, soprattutto, l’odiato fitto per gli alloggi). D’altro canto, tale svalorizzazione è stata così evidente nella storia del capitalismo mondiale che i “salari reali” medi della classe lavoratrice non solo non sono stati erosi, ma sono addirittura notevolmente aumentati, arrivando sovente a includere elettrodomestici, automobili, cure mediche, spese per l’istruzione, vacanze o viaggi e perfino, nei casi migliori, piccole abitazioni di proprietà. Per esempio, nei paesi occidentali ciò è avvenuto soprattutto nel periodo 1871-1913 e poi ancora di più tra il 1946 e il 1977. In realtà la “svalorizzazione” dei beni costituenti il “salario reale” della classe lavoratrice è semplicemente il riflesso dell’aumento della produttività del lavoro proprio nei settori deputati a produrre tali beni. L’origine di questo fenomeno è chiara e l’abbiamo già incontrata nel nostro esempio sui palloni da calcio, dove il singolo oggetto passava, proprio a causa degli investimenti tecnologici, da un valore di 41,1 $ a uno di 8,9 $. Al contempo la composizione organica del settore cresceva dal 28,33% al 294,44%. Quindi la svalorizzazione dei “salari reali” è semplicemente la conseguenza degli investimenti tecnologici in settori economici ben precisi, gli stessi che, simultaneamente e insieme a tutti gli altri, contribuiscono a far crescere la composizione organica media qm. Ai tempi di Marx ed Engels questi settori erano molto ristretti: la produzione di derrate alimentari, l’estrazione del carbone, la tessitura di abiti semplici, la piccola falegnameria e, soprattutto, l’edilizia per gli alloggi nei quartieri popolari. Tutti ambiti industriali, eccettuato forse quello tessile, in cui gli investimenti tecnologici procedevano molto a rilento rispetto alla grande industria deputata alla fabbricazione dei mezzi di produzione, dove il valore di q diveniva sempre più elevato. In aggiunta, sulla terra coltivabile e sulle miniere gravava pesantemente la rendita (di cui non possiamo discutere in questa sede) che di certo si opponeva fortemente alla “svalorizzazione” dei prodotti agricoli ed estrattivi. Queste considerazioni resero Marx del tutto convinto del carattere limitato e temporaneo della possibilità di far crescere m tramite “svalorizzazione” e di controbilanciare così l’aumento di qm. Di conseguenza sia lui che Engels si fecero del tutto persuasi dell’inarrestabilità della CTTP e quindi della fine non troppo remota del sistema capitalista. Mancava però nel III Libro de Il Capitale [6] una dimostrazione rigorosa dell’ineluttabilità di tale destino, cosa che, decenni dopo, Grossman s’ingegnò di fare [7] con esiti molto controversi {b}.

 

 

 

IV.             Il teorema di Okishio

 

Come abbiamo visto nella sezione precedente, benché Marx avesse fornito importanti elementi per sostenere la plausibilità della tesi della CTTP piuttosto che una dimostrazione rigorosa di questa tendenza storica, il suo discorso economico era tutto intessuto di continui richiami alla teoria del valore-lavoro e, soprattutto, al suo metodo di trasformazione dei valori in prezzi. È evidente quindi che messi in discussione come furono l’una e l’altro (cfr. la sezione IV del lavoro divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” ), la teoria della CTTP non poteva che divenire un obiettivo polemico di prim’ordine delle critiche mosse dalla scuola neoricardiana all’economia marxista. A questo proposito abbiamo accennato nell’introduzione al famoso teorema di Okishio [10] che si proponeva di essere il ribaltamento completo della CTTP, dimostrando addirittura un legame positivo tra l’implementazione di una qualsiasi nuova tecnica che riduca i costi di produzione e la crescita del tasso di profitto medio nel sistema economico in esame. La dimostrazione di questo teorema può esser effettuata per modelli produttivi molto generali mediante le tecniche dovute principalmente a Piero Sraffa [13] e Michio Morishima [14]; ma qui, dato il carattere divulgativo dello scritto, ci accontenteremo di un elementare schema di riproduzione semplice a due soli settori produttivi ancora più facile di quello a tre settori risolto da Ladislaus Bortkiewicz [15], nell’ambito della nota polemica sulla trasformazione marxiana dei valori in prezzi (cfr. ancora la sezione IV del lavoro divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” ). In effetti, la base teorica dei risultati di Nobuo Okishio è il teorema di Perron-Frobenius per le matrici quadrate positive, ma si tratta di un argomento matematico alquanto avanzato che non può trovare posto nella nostra presentazione.

 

Il modello a due settori in questione descrive lo stato stazionario (ossia, senza crescita e, momentaneamente, anche privo di progresso tecnico) di un sistema economico comprendente il settore “1”, relativo alla fabbricazione dei mezzi di produzione, e il settore “2”, dedicato alla produzione dei beni di consumo per lavoratori e imprenditori. Inoltre, s’ipotizza pure l’esistenza di un unico tasso di profitto netto ρ e l’assenza di capitale costante fisso da ammortizzare. La peculiarità neoricardiana è quella di risolvere il problema utilizzando esclusivamente i prezzi di produzione senza mai ricorrere ai valori di scambio, di fatto eliminando la teoria del valore-lavoro. Per questo motivo, onde evitare equivoci, indicheremo il prezzo del capitale costante (non il suo valore) con il simbolo greco Χ e il prezzo del capitale variabile con il simbolo greco Υ.  Per i due settori varrà dunque la semplice relazione contabile:

 

                                                                             (13)

 

ossia, il prezzo totale (non quello unitario), detto anche costo, dei mezzi di produzione, P1, è dato dal prezzo totale del capitale costante investito, Χ1, più il prezzo totale del capitale variabile investito, Υ1, entrambi attualizzati per il tasso lordo di profitto ( 1 + ρ ). La stessa cosa vale per i beni di consumo, dove il loro prezzo totale, P2, è dato dal prezzo totale del capitale costante investito, Χ2, più il prezzo totale del capitale variabile investito, Υ2, entrambi attualizzati per il medesimo tasso lordo di profitto ( 1 + ρ ). A questo punto notiamo che, dato lo stato di equilibrio del sistema in cui ogni ciclo economico è identico al precedente, si ha: Χ1 + Χ2 = P1, mentre: Υ1 + Υ2 < P2, visto che vi è anche una quota di consumo da parte degli imprenditori dovuta ai loro profitti. Introducendo i prezzi unitari, p1 e p2, e le quantità prodotte, n1 e n2, dei due beni in esame, possiamo utilizzare quattro coefficienti “tecnici”: a11, la quantità di mezzi di produzione necessaria a fabbricare un’unità di mezzi di produzione; l1, la quantità di ore di lavoro necessaria a fabbricare un’unità di mezzi di produzione; a21, la quantità di mezzi di produzione necessaria a fabbricare un’unità di beni di consumo e l2, la quantità di ore di lavoro necessaria a fabbricare un’unità di beni di consumo. Inoltre, mediante il “salario reale” orario che si indica con λ, dato che per ipotesi tutti i lavoratori godono del medesimo trattamento salariale, siamo in grado di esprimere anche: λ l1, la quantità di beni di consumo necessaria per fabbricare un’unità di mezzi di produzione e λ l2, la quantità di beni di consumo necessaria per fabbricare un’unità di beni di consumo. Introducendo tutte queste grandezze nell’Eq. (13) otteniamo un sistema omogeneo di due equazioni di primo grado:

 

                                                    (14)

 

L’Eq. (14) non permette la determinazione simultanea di p1, p2 e ρ, in quanto sono presenti tre incognite e due sole equazioni. È tuttavia possibile trovare il tasso di profitto netto ρ assieme al prezzo relativo della merce “1” rispetto alla merce “2”, ovvero: x = p1 / p2. A tale scopo l’Eq. (14) si semplifica eliminando le quantità prodotte e ponendo p2 = 1, divenendo così:

 

              (15)

 

che ammette come soluzioni:

 

 1 / ( 1 + ρ ) = 0.5 { a11 + b2 + [ ( a11 - b2 )2 +  4 a21 b1 ]0.5 };                 (16a)                                            

                         x  = 0.5 { a11 - b2 + [ ( a11 - b2 )2 + 4 a21 b1 ]0.5 } / a21,      (16b)

 

dove abbiamo utilizzato le seguenti abbreviazioni: b1 = λ l1 e b2 = λ l2. L’equivalente neoricardiano della composizione organica del capitale marxiana si chiama “intensità di capitale”, κ = Χ / Υ, ed è definita come il rapporto tra prezzo del capitale costante investito diviso per il prezzo del corrispondente capitale variabile usato. Nel nostro modello abbiamo: κ1 = a11 p1 / ( λ l1 p2 ) = a11 x / b1 e  κ2 = a21 p1 / ( λ l2 p2 ) = a21 x / b2

Immaginiamo ora che una sola azienda (supposta di fatturato piccolissimo rispetto alle dimensioni economiche complessive del suo settore) voglia introdurre alcune innovazioni tecnologiche che abbiano lo scopo di ridurre i costi di produzione. Ovviamente dovrà modificare i coefficienti a11, a21, b1 e b2 dell’Eq. (14) in maniera opportuna. Prendiamo ad esempio una piccola azienda del settore “1” che produca ε1 unità di mezzi di produzione (ε1<<n1). I suoi proprietari vogliono che i costi complessivi diminuiscano a seguito degli investimenti tecnologici per ridurre la mano d’opera: , dove con a’11 e l’1 abbiamo indicato i coefficienti modificati in modo tale che a’11>a11, ma che l’1<<l1.  Si noti che il ragionamento è fatto a prezzi fissati in quanto le decisioni della singola ditta (se piccola) non sono in grado di alterare sensibilmente i prezzi di mercato p1 e p2, né quindi il loro rapporto x.  Utilizzando la prima riga dell’Eq. (15), , i proprietari sono in grado di calcolare facilmente il loro tasso di profitto individuale r  che ovviamente sarà assai maggiore di quello medio ρ:

 

                                            (17)

 

Fino a questo punto il ragionamento di Okishio e quello di Marx (cfr. l’esempio dei palloni da calcio nella sezione precedente) coincidono in modo qualitativo, anche se quantitativamente abbiamo visto (cfr. ancora la sezione IV del lavoro divulgativo La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” ) che i tassi di profitto marxiani e neoricardiani non sono sempre identici tra loro. Ma la divaricazione profonda tra le due scuole economiche avviene nella descrizione della seconda fase dell’investimento tecnologico, ossia quando le innovazioni della piccola impresa pilota, essendo convenienti, vengono implementate gradualmente da tutte le altre imprese del settore “1”, fino al raggiungimento dei nuovi valori di equilibrio per i prezzi, x’, e per il tasso di profitto, ρ’. Qui il disaccordo è totale. Per Marx (cfr. ancora l’esempio dei palloni da calcio alla sezione precedente) ρ’ < ρ < r, ossia il nuovo valore di equilibrio del tasso di profitto è minore sia del valore originario ρ, che del valore transitorio della piccola impresa pilota r. Per Okishio invece ρ < ρ’ < r, ovvero il nuovo valore di equilibrio del tasso di profitto è maggiore del valore originario ρ (in opposizione all’ipotesi della CTTP), ma minore del valore transitorio della piccola impresa pilota r.

 

Da un punto di vista rigoroso e formale, dobbiamo provare che, se all’equilibrio, per a11a’11 > a11 e b1b’1 << b1 i costi complessivi di produzione Χ1 + Υ1 diminuiscono (assumendo un nuovo valore Χ1’ + Υ1 < Χ1 + Υ1), allora necessariamente ρ’ > ρ e l’intensità di capitale κ1 aumenta (assumendo un nuovo valore κ’1 > κ1). Per compiere questa dimostrazione è sufficiente prendere la seconda riga dell’Eq. (15): quella con i coefficienti invariati, dove si vede chiaramente che se ρ aumenta x diminuisce e viceversa. A questo punto osserviamo la prima riga dell’Eq. (15):  dove per ipotesi  {c} diminuisce a seguito della nostra trasformazione. Qui si danno solo tre scenari: (i) ρ aumenta e x diminuisce; (ii) ρ diminuisce e x  aumenta; (iii) ρ e x  restano entrambi invariati. Ma gli ultimi due sono palesemente assurdi in quanto: (ii) il prodotto di due funzioni positive in diminuzione non può esser crescente; (iii) il prodotto di due funzioni positive, una costante e una in diminuzione, non può esser costante. Resta quindi solo lo scenario (i) che è la prima parte della nostra dimostrazione, ovvero l’aumento di ρ e la diminuzione di x. La seconda parte, quella relativa alla conseguente crescita di κ1, si ottiene sempre dalla prima riga dell’Eq. (15) che, con un po’ d’algebra elementare, si può agevolmente trasformare in:  Risolvendo rispetto a κ1 abbiamo:

 

 

                                     

                                      (18)

 

che raggiunge esattamente il nostro scopo in quanto il numeratore aumenta a seguito della nostra trasformazione (infatti sia a11 che ρ crescono), mentre il denominatore, pur restando sempre positivo, diminuisce. Ne deriva che κ1 cresce necessariamente. Il teorema di Okishio è così definitivamente dimostrato per un semplice modello a due settori produttivi senza crescita.

 

Un esempio pratico dell’effetto simultaneo dell’aumento di a11 e della riduzione di l1 sul tasso medio di profitto e sulle intensità di capitale è riportato nella sottostante Tab. II.

 

 

Stato

a11

n1

a21

n2

λ

(h-1)

l1

(h)

l2

(h)

p1

($)

p2

($)

ρ

(%)

κ1

 

κ2

 

A

0,80

1

0,40

1

2

0,1

0,1

1,781

1,000

9,612

7,123

3,562

tr.

0,85

1

0,40

1

2

0,05

0,1

1,781

1,000

-

15,137

3,562

B

0,85

1

0,40

1

2

0,05

0,1

1,767

1,000

10,301

15,015

3,533

 

Tab. II. Il sistema economico è stabile nello stato inziale “A”, con un tasso di profitto medio ρ = 9,612%. Una sola azienda del settore “1” introduce ora investimenti per ridurre i costi, dimezzando l1 e aumentando un poco a11, ossia elevando fortemente la sua intensità di capitale κ1. Ipotizzando nel regime transitorio (“tr.”) i prezzi invariati, essa accumula notevoli sovraprofitti raggiungendo un tasso di profitto individuale r  = 10,356%. Successivamente questi interventi si generalizzano a tutto il settore “1” e il sistema raggiunge il nuovo stato di equilibrio “B”, dove si forma un tasso di profitto medio ρ = 10,301%, leggermente minore di r, ma assai maggiore del precedente valore di 9,612%, verificando così il teorema di Okishio. I valori numerici sono in parte presi dalla seguente pagina di Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Okishio%27s_theorem .

 

Naturalmente anche il teorema di Okishio, pur avendo ricevuto vari consensi da parte marxista “eterodossa”, non è stato risparmiato nel corso del tempo da diverse critiche. Per i marxisti “ortodossi”, per esempio i sostenitori della cosiddetta “Temporal Single System Interpretation” (Andrew Kliman, Alan Freeman, Guglielmo Carchedi, Paolo Giussani ecc.), tale polemica risulta esser solo un aspetto della contestazione completa dell’approccio neoricardiano all’economia politica in nome di un’intransigente riproposizione della teoria del valore-lavoro. Un discorso abbastanza simile riguarda i proponenti della cosiddetta “New Interpretation”, che invece criticano l’uso neoricardiano di “salari reali” costanti e, all’opposto, suggeriscono piuttosto di ipotizzare salari monetari costanti. Per questo motivo accenneremo a questo tipo di polemiche solo nella sezione conclusiva.

Esistono invece critiche più specifiche all’impianto del teorema che non necessariamente mettono in discussione l’approccio sraffiano generale. Per esempio, Giancarlo Gozzi [16] sostiene in modo piuttosto convincente che l’introduzione di capitale costante fisso (ossia da ammortizzare gradualmente) nel modello economico preso in considerazione da Okishio invaliderebbe la correttezza delle sue conclusioni: il tasso di profitto potrebbe diminuire oppure aumentare a seconda delle circostanze. Altri autori, pur non contestando l’approccio sraffiano in quanto tale, sono scettici circa la possibilità che questo metodo statico-comparativo descriva correttamente il fenomeno dell’introduzione di nuove tecnologie: i capitalisti non attenderebbero il momento in cui l’economia abbia raggiunto un nuovo stato di equilibrio, dato che gli investimenti per tecniche atte a risparmiare manodopera sono un processo essenzialmente continuo. Per esempio, secondo Alfred Müller [17], il teorema di Okishio sarebbe valido nel caso di un ipotetico coordinamento dei capitalisti al livello economico globale, in pratica impossibile e forse addirittura contraddittorio in teoria. Infatti, i singoli capitalisti perseguono i loro interessi individuali e non cooperano affatto per raggiungere elevati tassi generali di profitto o di crescita.

 

V.      Conclusioni

 

Al termine di questa velocissima, ma speriamo non inutile, disamina del problema della caduta tendenziale del tasso di profitto vogliamo tirare un po’ le somme di quanto abbiamo scritto. I capisaldi della questione non risiedono solo nella valutazione empirica dell’andamento del tasso di profitto nella storia del capitalismo degli ultimi due secoli e mezzo [18, 19], ma anche (e forse soprattutto) nelle basi teoriche che sono a fondamento della CTTP o della sua totale inversione (il teorema di Okishio). Questo è detto non certo per svalutare lo studio storico dei dati economici, che tuttavia presenta sempre le sue incertezze e le sue difficoltà, ma per spiegare perché lunghi e dottissimi dibattiti come quello già citato tra Laibman e Kliman (1999-2004) siano raramente conclusivi. Il motivo della difficoltà di queste discussioni sulla CTTP è che spesso fanno da schermo a visioni dell’economia differenti e difficilmente conciliabili tra loro, ovvero quella neoricardiana (Laibman) e quella “marxista ortodossa” (Kliman e Freeman). Infatti, Laibman scrive esplicitamente in uno dei suoi lavori polemici contro la CTTP: «If a viable technical change is made, and the real wage rate is constant, the new material rate of profit must be higher than the old one. That is all that Okishio, or Roemer, or Foley, or I, or anyone else has ever claimed!» [20]. Ma la convinzione dell’esistenza di un “salario reale” costante è un’affermazione così peculiare della scuola sraffiana che non poteva non incrociarsi con la seguente reazione di Kliman e Freeman: «In an effort to absolve the physicalist tradition of error, however, both Foley and Laibman have now suggested that nothing more was ever intended» [21], dove l’uso del termine “fisicalista” è comprensibile solo nell’ottica della polemica condotta dalla “Temporal Single System Interpretation” contro tutte le altre interpretazioni marxiane in odore di qualche forma di cedimento all’approccio neoricardiano. Alla fine, sembra che tutto il dibattito sia ricondotto alla vexata questio della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione a cui abbiamo dedicato, non a caso, il nostro primo lavoro divulgativo intitolato per l’appunto La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione”.

 

di Dan Kolog

 

 

Note

 

{a} Abbiamo scritto “una parte” perché Marx, in effetti, delinea vari espedienti per combattere la CTTP, non tutti legati all’aumento di m, che chiama “controtendenze” alla caduta del tasso di profitto. Per completezza le elenchiamo tutte qui di seguito: (i) la possibilità che il saggio di plusvalore possa aumentare a seguito di una diminuzione del valore della forza-lavoro per via della crescente produttività del lavoro è l’unica controtendenza che studieremo in dettaglio in questo breve saggio; (ii) l’accorciamento del ciclo economico di produzione-vendita-consumo, mediante la crescita della velocità di rotazione del capitale; (iii) la riduzione dei prezzi degli elementi del capitale costante con vari artifici; (iv) la crescita di una popolazione in eccedenza relativa (il famoso “esercito di riserva del lavoro”) che rimanendo disoccupata spinge i salari verso il basso; (v) il commercio estero che riduce il costo delle materie prime industriali e dei beni di consumo; (vi) l'aumento dell'utilizzo del capitale sociale da parte delle società per azioni, che devolvono ad altri parte dei costi d’impiego del capitale nella produzione.

Le questioni sollevate ai punti (ii), (iii), (v) e (vi), benché interessanti in quanto non sempre agiscono direttamente su m, esulano evidentemente da una trattazione elementare della CTTP e verranno quindi tralasciate. Marx ed Engels comunque rimasero sempre dell’idea che anche tali espedienti, almeno a lungo termine, fossero strutturalmente incapaci di arrestare in modo stabile la CTTP.

 

{b} In effetti è possibile studiare in modo analitico rigoroso la situazione “patologica” in cui la svalorizzazione del “salario reale” abbia raggiunto livelli così spinti da far sì che il capitale variabile aggregato, V, divenga del tutto trascurabile. In tale situazione il tasso di profitto globale tenderebbe a un valore-limite, r0: r  = ( L - V ) / ( C + V )  L / C = r0, ovvero al rapporto tra le ore totali lavorate e il capitale costante aggregato (espresso in ore di lavoro astratto socialmente necessario). Immaginando ragionevolmente L come fissata, abbiamo che l’espansione assoluta del capitale costante (dovuta, per esempio, agli investimenti tecnologici) conduce necessariamente a un r0 in decrescita. La presente situazione è effettivamente “patologica” e anomala su scala globale, ma se pensiamo all’universo concentrazionario hitleriano o staliniano abbiamo che localmente tali condizioni si sono realizzate nella pratica. In effetti, in questi casi in cui il costo del lavoro fu davvero prossimo allo zero, era molto conveniente far lavorare i prigionieri con dotazioni di capitale costante minime (compatibilmente con i processi tecnologici utilizzati). Non sorprendono quindi le memorie di certi “zėki” che ricordavano lunghi canali fluviali costruiti con sole pale, picconi e carriole piuttosto che con esplosivi, scavatrici e autocarri!

 

{c} Con analogia di simbolismo, intendiamo con le lettere minuscole i prezzi unitari dei capitali, rispettivamente, costante: χ1 = Χ1 / n1 e variabile: υ1 = Υ1 / n1.

 

 

Appendice: le ragioni di Rosa Luxemburg

 

Recentemente, un articolo [22] del ricercatore giapponese Nobumichi Sekiguchi ha riportato l’attenzione degli economisti di formazione marxista sulla vecchia controversia relativa agli schemi di riproduzione allargati di cui abbiamo parlato nella Sez. II: da un lato Rosa Luxemburg [2], che riteneva impossibile la riproduzione allargata ipotizzata da Marx nel libro II de “Il Capitale” [1], dall’altro Lenin e Bukharin [3], che credettero di difendere Marx correggendo una sua piccola imprecisione e dimostrando così la sostenibilità di un sistema capitalista chiuso non-stazionario, ma in crescita. Secondo Sekiguchi, invece, la Luxemburg avrebbe avuto ragione a notare l’errore di Marx, mentre Lenin e Bukharin non avrebbero compreso il problema in discussione, limitandosi a seguire quanto già supposto da Mikhail Tugan-Baranovskij nel 1901 [23] nel suo studio sulle crisi economiche in Gran Bretagna, ossia la validità della vecchia legge di Say (o degli sbocchi), secondo la quale in regime di libero scambio non sono possibili crisi prolungate, poiché l'offerta crea necessariamente la domanda. Quindi da una parte vi sarebbe la Luxemburg (nella scia di Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi e di Thomas Robert Malthus) che non accetterebbe questa legge, mentre dall’altra rimarrebbero Tugan-Baranovskij, Lenin e Bukharin (seguendo Adam Smith e David Ricardo) che la darebbero per scontata. In mezzo vi resterebbe Marx, con una posizione più sfumata sulla questione. In altre parole, Lenin e Bukharin, assumendo inconsciamente la legge di Say, si preoccuperebbero soltanto dei prodotti (ossia, dei mezzi di produzione e dei beni di consumo) contenuti nello schema di riproduzione allargato e delle loro corrette quantità che dovranno crescere necessariamente in modo coordinato (detto anche “proporzionato”) tra loro, ciclo dopo ciclo, per render possibile l’espansione. Al contrario Marx e la Luxemburg si sarebbero occupati anche della domanda, ovvero della possibilità per lavoratori e capitalisti di essere effettivamente in grado di acquistare tutti i prodotti a loro necessari, sia per il consumo che per l’investimento. Su questo punto però Marx sarebbe stato erroneamente ottimista, mentre la Luxemburg più correttamente pessimista.

Non è assolutamente nostra intenzione prender posizione nella polemica iniziata da Sekiguchi che ha lo scopo non soltanto di delucidare un aspetto interessante della storia del pensiero economico “eterodosso”, ma anche di rinverdire la nota corrente “sotto-consumista” nell’ambito marxista, la quale proprio dalla Luxemburg ebbe origine vedendo poi in Fritz Sternberg e Paul Sweezy [9] due dei suoi massimi esponenti. Ci limiteremo quindi a illustrare lo svolgimento, sia dal lato della produzione (offerta) sia da quello della compravendita (domanda), di due schemi di riproduzione a due settori: uno semplice e uno allargato. Utilizzeremo esempi numerici piuttosto che formule analitiche dato il carattere divulgativo della presente trattazione.

 

 

Riproduzione Semplice

 

Come già sappiamo dal precedente lavoro divulgativo sull’economia marxista (“La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua Nuova Interpretazione”, Sez. III), uno schema di riproduzione semplice a due soli settori si configura come l’esempio della Tab. A1 sottostante, dove il settore 1 fabbrica i mezzi di produzione per sé e per il settore 2, mentre quest’ultimo produce i beni di consumo per lavoratori e capitalisti di entrambi i settori. Sappiamo anche che la condizione di stazionarietà del sistema (ossia il fatto che in ogni ciclo esso si presenti invariato e sempre uguale a se stesso) è data dalla relazione c2 = v1 + s1, che è infatti soddisfatta nella Tab. A1.

 

Sett.

(m=2/3)

cn

(€)

vn

(€)

sn

(€)

wn

(€)

1

2

Somma

280,00

120,00

400,00

72,00 168,00

240,00

48,00

112,00

160,00

400,00

400,00

800,00

Tab. A1. Schema di riproduzione semplice a due settori usato per illustrare la plausibilità di un sistema capitalistico chiuso e stazionario, sia dal punto di vista della domanda che dell’offerta.

 

Però, come abbiamo visto, questa volta non ci dovremo limitare all’analisi della produzione, come fatto in precedenza, ma introdurremo i seguenti luoghi economici virtuali: casseforti (riserve monetarie maggiori) e magazzini (riserve di prodotti) per i capitalisti; borsellini (riserve monetarie minori) per i lavoratori. Si noti come non siano necessarie le “dispense per i lavoratori in quanto il loro consumo è considerato come personale e completo, ossia il loro salario è speso totalmente per i mezzi di consumo nell’ambito del singolo ciclo economico considerato.

Cominciamo a seguire il ciclo economico del nostro schema di riproduzione semplice assumendo le seguenti ipotesi: lasciamo totalmente liberi i contenuti della cassaforte 1 (cioè X €) e della cassaforte 2 (cioè Y €), nonché del magazzino 1 (cioè A €) e del magazzino 2 (cioè B €). I due corrispondenti borsellini saranno considerati inizialmente vuoti, in ottemperanza a quanto appena detto sul consumo dei lavoratori.

 

Momento t=A, inizio ciclo: investimento e vendita dei mezzi di produzione

  • Capitalisti 1:   cassaforte X ;

                           magazzino A

  • Capitalisti 2:   cassaforte Y €;

                           magazzino B €

  • Lavoratori 1: borsellino 0,00 €
  • Lavoratori 2: borsellino 0,00 €

 

Ora i Capitalisti 1 (C1) investono 352,00 come da Tab. A1. Ne danno 72,00 € ai loro lavoratori (Lavoratori 1, L1) come stipendio e poi utilizzano per sé 280,00 € presi dai loro mezzi di produzione. I Capitalisti 2 (C2) investono 288,00 €. Ne danno 168,00 € ai loro lavoratori (Lavoratori 2, L2) come stipendio e 120,00 € ai C1 per i mezzi di produzione.

 

Passiamo ora ai momenti successivi:

 

Momento t=B, produzione

  • Capitalisti 1:   cassaforte X €-72,00 +120,00 €;

                           magazzino A €-400,00 €

  • Capitalisti 2:   cassaforte Y €-288,00 €;

magazzino B

  • Lavoratori 1: borsellino   72,00 €
  • Lavoratori 2: borsellino 168,00 €

 

Gli L1 fabbricano 400,00 € di mezzi di produzione per i C1. Gli L2 fabbricano 400,00 € di beni di consumo per i C2.

 

Momento t=C, vendita dei beni di consumo

  • Capitalisti 1:   cassaforte X €-72,00 €+120,00 €;

magazzino A

  • Capitalisti 2:   cassaforte Y €-288,00 €;

magazzino B +400,00 €

  • Lavoratori 1: borsellino 72,00 €
  • Lavoratori 2: borsellino 168,00 €

 

I C1 comprano 48,00 € di beni di consumo dai C2. Gli L1 comprano 72,00 € di beni di consumo dai C2. Gli L2 comprano 168,00 € di beni di consumo dai C2. I C2 consumano per sé 112,00 € dei loro beni di consumo.

 

Momento t=D, fine ciclo

  • Capitalisti 1:   cassaforte X €-72,00 €+120,00 €-48,00 €=X €;

magazzino A

  • Capitalisti 2:   cassaforte Y €-288,00 €+288,00 €=Y ;

magazzino B

  • Lavoratori 1: borsellino   0,00 €
  • Lavoratori 2: borsellino   0,00 €

 

Il risultato finale a t=D è identico a quello relativo al momento t=A, garantendo così la stazionarietà del sistema non solo dal punto di vista della produzione (magazzini), ma anche da quello della compravendita (casseforti e borsellini). In altre parole, anche senza invocare a priori la legge di Say, siamo stati in grado di provare la plausibilità di un sistema capitalistico chiuso e stazionario, sia dal punto di vista della domanda che da quello dell’offerta. Si noti inoltre che per quel che concerne le casseforti, X può esser qualsiasi cifra, mentre Y deve esser maggiore o uguale a 288,00 € (ossia l’investimento dei capitalisti del settore 2, c2+v2). Per i magazzini invece, A € deve essere maggiore o uguale a 400,00 €, mentre B € può esser qualsiasi quantità. L’ipotesi minimale di partenza sarà dunque: X=0,00 €, Y=288,00 €=c2+v2; A=400,00 €=w1, B=0,00 €.

 

 

Riproduzione Allargata

 

Cerchiamo ora di ripetere il tipo di analisi effettuata per la riproduzione semplice nel quadro di uno schema di riproduzione allargata, come quello riportato in Tab. A2, per tre cicli successivi (convenzionalmente chiamati: k=I, II e III).

 

Sett.

n

Ciclo

k

cn(k)

(€)

vn(k)

(€)

sn(k)

(€)

wn(k)

(€)

αn(k)

(€)

βc, n(k)

(€)

βv, n(k)

(€)

1

2

Somma

I

I

I

280,00

111,98

391,98

72,00

156,78

228,78

48,00

104,52

152,52

400,00

373,28

773,28

40,80

99,02

139,82

5,73

2,29

8,02

1,47

3,21

4,68

1

2

Somma

II

II

II

285,73

114,27

400,00

73,47

159,98

233,45

48,98

106,65

154,63

408,18

380,91

789,09

41,64

101,04

142,68

5,84

2,34

8,18

1,50

3,27

4,77

1

2

Somma

III

III

III

291,57

116,61   408,18

74,98

163,25

238,23

49,98

108,84

158,82

416,53

388,70

805,23

42,49

103,11

145,60

5,96

2,39

8,35

1,53

3,34

4,87

Tab. A2. Schema di riproduzione allargata a due settori usato per illustrare la plausibilità di un sistema capitalistico chiuso ma in espansione, sia dal punto di vista della domanda che dell’offerta. Il sistema è seguito per tre cicli successivi. Errori di arrotondamento sull’ultima cifra sono talora presenti.

 

Cominciamo a seguire il ciclo economico del nostro schema di riproduzione allargata assumendo le seguenti ipotesi (in analogia con quanto già fatto per la Tab. A1): lasciamo totalmente liberi i contenuti della cassaforte 1 (cioè X €) e della cassaforte 2 (cioè Y €), nonché del magazzino 1 (cioè A €) e del magazzino 2 (cioè B €). I due corrispondenti borsellini saranno invece considerati inizialmente vuoti.

 

Momento t=A, inizio del ciclo I: investimento e vendita dei mezzi di produzione

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €;  

magazzino A

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y €;  

magazzino B

  • Lavoratori 1:             borsellino 0,00 €
  • Lavoratori 2:             borsellino 0,00 €

 

I C1 investono 352,00 €. Ne danno 72,00 € ai loro lavoratori, L1, come stipendio e poi utilizzano per sé 280,00 € dei loro mezzi di produzione. I C2 investono 268,76 €. Ne danno 156,78 € ai loro lavoratori, L2, come stipendio e 111,98 € ai C1 per i mezzi di produzione.

 

Momento t=B, produzione del ciclo I

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €-72,00 €+111,98 €=X+39,98 €;

magazzino A-280,00 €-111,98 €=A-391,98 €

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y €-268,76 €;

magazzino B

  • Lavoratori 1:              borsellino    72,00 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   156,78 €

 

Gli L1 fabbricano 400,00 € di mezzi di produzione per i C1. Gli L2 fabbricano 373,28 € di beni di consumo per i C2.

 

Momento t=C, vendita dei beni di consumo del ciclo I

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €+39,98 €;

magazzino A €-391,98 €+400,00 €=A €+8,02

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y €-268,76 €;

magazzino B €+373,28

  • Lavoratori 1:              borsellino    72,00 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   156,78 €

 

I C1 comprano 40,80 € di beni di consumo per se stessi dai C2. Gli L1 comprano 72,00 € di beni di consumo dai C2. Gli L2 comprano 156,78 € di beni di consumo dai C2. I C2 consumano da sé stessi 99,02 € dei loro beni di consumo.


Momento t=D, fine del ciclo I e inizio del ciclo II: investimento e vendita dei mezzi di produzione

  • Capitalisti 1:               cassaforte X -0,82 ;  

magazzino A €+8,02 € [cioè βc, 1+2(I)]

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y +0,82 €;  

magazzino B €+4,68 € [cioè βv,1+2(I)]

  • Lavoratori 1:             borsellino 0,00 €
  • Lavoratori 2:             borsellino 0,00 €

 

I C1 investono 359,20 €. Ne danno 73,47 € ai loro lavoratori, L1, come stipendio e poi utilizzano per sé 285,73 € presi dai loro mezzi di produzione. I C2 investono 274,25 €. Ne danno 159,98 € ai loro lavoratori, L2, come stipendio e 114,27 € ai C1 per i mezzi di produzione.

 

Momento t=E, produzione del ciclo II

  • Capitalisti 1:               cassaforte X -0,82 -73,47 €+114,27 €=X €+39,98 €;

magazzino A €+8,02 €-285,73 €-114,27 €=A €-391,98 €

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y +0,82 €-274,25 €=Y -273,43 ;

magazzino B €+4,68 €

  • Lavoratori 1:              borsellino    73,47 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   159,98 €

 

Gli L1 fabbricano 408,18 € di mezzi di produzione per i C1. Gli L2 fabbricano 380,91 € di beni di consumo per i C2.

 

Momento t=F, vendita dei beni di consumo del ciclo II

  • Capitalisti 1:               cassaforte X +39,98 €;

magazzino A €+16,20 €

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y -273,43 €;

magazzino B €+385,59 €

  • Lavoratori 1:              borsellino    73,47 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   159,98 €

 

I C1 comprano 41,64 € di beni di consumo per sé stessi dai C2. Gli L1 comprano 73,47 € di beni di consumo dai C2. Gli L2 comprano 159,98 € di beni di consumo dai C2. I C2 consumano per sé 101,04 € dei loro beni di consumo.

 

Momento t=G, fine del ciclo II e inizio del ciclo III

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €-1,66 ;  

magazzino A €+16,20 € [cioè 8,02 €+8,18 €=βc, 1+2(I)+βc, 1+2(II)]

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y +1,66 ;    

magazzino B €+9,46 € [cioè 4,68 €+4,78 €=βv, 1+2(I)+βv, 1+2(II)]

  • Lavoratori 1:              borsellino   0,00 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   0,00 €

 

I C1 investono 366,55 €. Ne danno 74,98 € ai loro lavoratori, L1, come stipendio e poi utilizzano per se stessi 291,57 € presi dai loro mezzi di produzione. I C2 investono 279,86 €. Ne danno 163,25 € ai loro lavoratori, L2, come stipendio e 116,61 € ai C1 per i mezzi di produzione.

 

Momento t=H, produzione del ciclo III

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €-1,66 €-74,98 €+116,61 €=X €+39,97 €;  

magazzino A €+16,20 €-291,57 €-116,61 €=A €-391,98 € 

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y +1,66 €-279,86 €=Y €-278,20 €;       

magazzino B €+9,46 €

  • Lavoratori 1:              borsellino    74,98 €
  • Lavoratori 2:              borsellino 163,25 €

 

Gli L1 fabbricano 416,53 € di mezzi di produzione per i C1. Gli L2 fabbricano 388,70 € di beni di consumo per i C2.

 

Momento t=I, vendita dei beni di consumo del ciclo III

  • Capitalisti 1:               cassaforte X +39,97 €;

magazzino A €+24,55 €

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y -278,20 €;

magazzino B €+398,16 €

  • Lavoratori 1:              borsellino     74,98 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   163,25 €

 

I C1 comprano 42,49 € di beni di consumo dai C2 per se stessi. Gli L1 comprano 74,98 € di beni di consumo dai C2. Gli L2 comprano 163,25 € di beni di consumo dai C2. I C2 consumano per se stessi 103,11 € dei loro beni di consumo.

 

Momento t=J, fine ciclo III

  • Capitalisti 1:               cassaforte X €-2,52 €;  

magazzino A €+24,55 € [cioè 8,02 €+8,18 €+8,35 =

         βc, 1+2(I)+βc, 1+2(II)+βc, 1+2(III)]

  • Capitalisti 2:               cassaforte Y +2,52 ;    

magazzino B €+14,33 € [cioè 4,68 €+4,78 €+4,87 €=

         βv, 1+2(I)+βv, 1+2(II)+βv, 1+2(III)]

  • Lavoratori 1:              borsellino   0,00 €
  • Lavoratori 2:              borsellino   0,00 €.

 

___________________ ***_____________________

 

In conclusione, per ciò che riguarda le casseforti, sembrerebbe a un primo sguardo superficiale che X € possa essere una qualsiasi cifra positiva, mentre Y € debba esser maggiore o uguale all’investimento dei C2 [ossia c2(k)+v2(k)] che cresce a ogni ciclo kmo. Ciò sarebbe in analogia con il caso della riproduzione semplice, anche se nello schema allargato non esisterebbe uno “scoperto massimo” per i C2.

Ma non crediamo che questo sia il cuore dell’argomento di Rosa Luxemburg, in quanto in un’economia che cresce anche lo scoperto massimo dei C2 deve poter crescere parallelamente. In effetti questo compito di anticipazione dei capitali è proprio una delle funzioni di un normale sistema creditizio capitalista.

Per ciò che concerne i magazzini poi non ci sono difficoltà: A deve essere maggiore o uguale a 391.98 € [ossia c1(I)+c2(I)], mentre B può essere una qualsiasi quantità positiva. L’ipotesi minimale di partenza per i magazzini sarà quindi: A=391.98 €, B=0.00 €.

 

Tuttavia, se osserviamo con più attenzione le casseforti troviamo che le cose sono assai più complicate di quanto appena riportato, fornendo forse un indizio dello squilibrio che sembrerebbe, almeno parzialmente, giustificare il pessimismo della Luxemburg. Infatti, al momento t=D (fine del ciclo I e inizio del ciclo II) si ha che la cassaforte di C1 contiene X -0,82 e quindi non si può assumere per X € un valore minore di 0,82 €, pena uno “scoperto”. Analogamente, sempre in t=D, la cassaforte di C2 contiene Y +0,82 €, ossia vi è stato un trasferimento netto, δ(I), di 0,82 € da C1 a C2. Se ora ci spostiamo alla fine del II ciclo e all’inizio del III, nel momento t=G, osserviamo un fenomeno simile, ma con una cifra aumentata: la cassaforte di C1 contiene X -1,66 e quella di C2 Y +1,66 €. Il trasferimento ora è di δ(II)=1,66 €.   Alla fine del III ciclo, nel momento t=J, giungiamo a X -2,52 € e Y +2,52 €, con un trasferimento di δ(III)=2,52 €, sempre in crescita all’aumentare di k. Quindi abbiamo in generale che nel ciclo k+1 la massima esposizione di C1 sarà X €-δ(k+1), mentre quella di C2 sarà Y €-c2(k+1)-v2(k+1)+δ(k). Però, a parte gli scoperti, le situazioni dei due gruppi di capitalisti sono dissimili: mentre C1 avrà delle passività, piccole ma crescenti, a ogni fine ciclo, C2, benché manifesti transitoriamente grossi scoperti via via crescenti (sanabili solo mediante il ricorso al credito) accumulerà a fine ciclo un surplus sempre maggiore. C1 sembrerebbe quindi inevitabilmente destinato alla bancarotta, mentre C2 gestirebbe un’attività economica particolarmente redditizia caratterizzata da un sovraprofitto δ(k), esattamente opposto alle passività di C1. Solo l’azione di un’autorità extra-economica come lo Stato, mediante un’opportuna tassazione, potrebbe opporsi alla formazione di un δ(k) crescente ritrasferendo questa cifra da C2 a C1; ma qui ovviamente siamo già al di là del normale funzionamento del sistema creditizio.

Qual è il significato economico e l’origine del trasferimento δ(k)? Prendiamo il caso più semplice, ossia k=I, il trasferimento deriva dal fatto che alla fine del primo ciclo si ha, dal punto di vista finanziario, il seguente semplice bilancio:

 

C1: -v1(I)+c2(I)-α1(I)=-δ(I)=-0.82 ¹0;                                                                        (A1)

C2: -v2(I)-c2(I)+v1(I)+v2(I)+α1(I)=v1(I)-c2(I)+α1(I)=δ(I)=0.82 ¹0.

 

Ma sappiamo che negli schemi di riproduzione allargata, dal punto di vista dei prodotti, deve sempre valere ciclo per ciclo la relazione di Bukharin (cfr. Sez. II), che nel nostro caso si scrive come: c2(I)=v1(I)+α1(I)+β1,v(I)–β2,c(I). Sostituendo in Eq. (A1) abbiamo proprio:

 

C1: β1,v(I)–β2,c(I)=-δ(I)=-0.82 €;                                                  (A2)

C2: -β1,v(I)+β2,c(I)=δ(I)=0.82 €,

 

che è confermata da Tab. A2. Ma sarebbe possibile porre δ(I)=0 immaginando che β1,v(I)=β2,c(I)? Ricordando le altre relazioni valide nella riproduzione allargata (cfr. Eq. (7)) sappiamo che questa richiesta implicherebbe un ulteriore vincolo: β1,v(I)=hβ2,v(I)=q2β2,v(I), ovvero: q2=h. Nel nostro schema di Tab. A2 abbiamo invece q2=0.714¹h=0.459.

Orbene, sappiamo dalla Sez. II che la riproduzione allargata, dal punto di vista dei soli prodotti deve rispettare la relazione fondamentale (detta condizione di riproduzione allargata basata sul valore) dell’Eq. (8): η=q2(1+m β2,v(I)/s2(I))/(1+mm q1β2,v(I)/s2(I)). Se aggiungiamo la nostra nuova condizione, abbiamo che: β2,v(I)=s2(I)/(1+q1), ossia non vi sono più parametri liberi, se non una generica dimensione di scala del sistema (per esempio, v1(I)). In altre parole, uno schema di riproduzione allargata, una volta fissati v1(I), m, q1 e q2, ammette soltanto una versione che sia stabile dal duplice punto di vista della produzione e della compravendita. Anche se non siamo alla totale impossibilità dell’espansione capitalista in un sistema chiuso, come supposto da Rosa Luxemburg, ci siamo giunti davvero molto vicino… in quanto abbiamo necessariamente che α1(I)=0,00 €. I C1 sarebbero assurdamente privati di ogni loro consumo, costretti come sono a reinvestire ogni loro guadagno!

Un esempio che utilizza gli stessi valori di v1(I), m, q1 e q2 di Tab. A2, ovvero v1(I)=72,00 , m=2/3, q1=35/9 e q2=0.714, è riportato in Tab. A3.

 

Sett.

n

Ciclo

k

cn(k)

(€)

vn(k)

(€)

sn(k)

(€)

wn(k)

(€)

αn(k)

(€)

βc, n(k)

(€)

βv, n(k)

(€)

1

2

Somma

I

I

I

280,00

72,00

352,00

72,00

100,81

172,81

48,00

67,20

115,20

400,00

240,01

640,01

0,00

43,63

43,63

38,18

9,82

48,00

9,82

13,75

23,57

Tab. A3. Schema di riproduzione allargata a due settori analogo a quello di Tab. A2, ma costruito in modo da mantenere anche la stabilità finanziaria. Si noti come sia implicito il risultato altamente irrealistico di α1(I)=0,00 €.

 

 

 

Bibliografia

 

[1] Karl Marx, Il Capitale, Libro II (Editori Riuniti, Roma, 1968).

[2] Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale (Pgreco, Milano, 2012).

[3] Nikolaj I. Bucharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale (Laterza, Bari, 1972).

[4] per una versione riassunta dell’argomento si veda p.e. Duncan K. Foley, Understanding Marx’s Capital [Harvard University Press, Cambridge (MA) & London (UK), 1986] alle pp. 73-90.

[5] Karl Marx, Il Capitale, Libro I (Editori Riuniti, Roma, 2006).

[6] Karl Marx, Il Capitale, Libro III (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[7] Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo (Mimesi, Sesto San Giovanni, 2009).

[8] Paul Mattick, Christoph Deutschmann, Volkhard Brandes, Crisi e teorie della crisi (Dedalo, Bari, 1979).

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[10] Nabuo Okishio, A mathematical note on Marxian theorems, Weltwirtschaftliches Archiv vol. 91, pp. 287-99 (1963).

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[12] David Yaffe, Review Article: “Imperialism and Accumulation of Capital”, Bullettin of the Conference of Socialist Economists, no. 2, pp. 70-77 (2nd August 1972).

[13] Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci (Einaudi, Torino, 1960).

[14] Michio Morishima, Marx's Economics: A dual theory of value and growth (Cambridge University Press, Cambridge, 1973).

[15] Ladislaus von Bortkiewicz, La Teoria Economica di Marx (Einaudi, Torino, 1971); Eugen von Böhm Bawerk, Rudolf Hilferding, Ladislaus von Bortkiewicz, Economia borghese ed economia marxista (La Nuova Italia, Firenze, 1975).

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[20] David Laibman, Two of Everything: A Response, Research in Political Economy, vol. 18, pp. 269–278 (2000).

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