Il Socialismo e il Leviatano Le disavventure di socialisti e comunisti nei loro rapporti con il potere statale tra 1848 e 1991 - PARTE II -


 

Dal programma di Erfurt alla catastrofe della guerra civile spagnola

 

 

 

VI) L’idea di Stato nella II Internazionale: Karl Kautsky e il suo tempo

 

Nel capitolo precedente abbiamo trattato in breve le parti del programma di Erfurt della SPD riguardanti lo Stato in connessione con le dettagliate critiche di Engels alle elaborazioni dei suoi compagni tedeschi. Abbiamo anche menzionato nella nota alla Ref. [1] che un giovane teorico del partito, l’austriaco Karl Kautsky (1854-1938), scrisse una lunga e minuziosa descrizione dello scarno programma della SPD, la quale rappresentò un vero e proprio manuale del militante socialdemocratico dell’epoca. Fu composto nel 1892 con l’idea di attualizzare il celebre “Manifesto” di Marx ed Engels del 1848 [2]. L’opera ebbe un successo editoriale enorme fino alla dissoluzione della II Internazionale nel 1914, e perciò venne tradotta in ben 16 lingue, apparendo spesso con titoli differenti quali, ad esempio, “La lotta di classe” o “Il Programma Socialista”. Fu considerato da alcuni il riferimento teorico più completo del marxismo della II Internazionale. In Italia, ricordiamo, fu pubblicata per la prima volta nel 1908 da “Critica Sociale” e poi di nuovo nel 1914 dall’ “Avanti!”, l’organo ufficiale del Partito Socialista Italiano. È quindi molto istruttivo contrapporre le poche righe teoriche del programma di Erfurt sullo Stato:

“La lotta della classe operaia contro lo sfruttamento capitalista è necessariamente una lotta politica. Senza diritti politici, la classe operaia non può portare avanti le sue lotte economiche e sviluppare la sua organizzazione economica. Non può realizzare il trasferimento dei mezzi di produzione nel possesso della comunità senza aver prima ottenuto il potere politico” [3],[4],

a quanto scrive esplicitamente Kautsky l’anno dopo nel lungo IV capitolo intitolato “La Repubblica Futura” di cui riportiamo per intero i titoli delle dieci sezioni:  

1. Riforma sociale e rivoluzione sociale

2. Proprietà privata e proprietà comune

3. Produzione socialista

4. Il significato economico dello Stato

5. Socialismo di Stato e socialdemocrazia

6. La struttura dello Stato futuro

7. L'“abolizione della famiglia”

8. Confisca della proprietà

9. Divisione dei prodotti nello Stato futuro

10. Socialismo e libertà.

Soprattutto i paragrafi 4-6 sono densi d’informazioni, specie relativamente a due tematiche che sembrano stare particolarmente a cuore a Kautsky: l’enorme aumento dell’importanza economica dello Stato nel quadro del capitalismo post-manchesteriano [5] e l’inganno di ogni ipotesi di “socialismo di Stato”. In entrambe le questioni viene difeso in modo efficace e vivace il punto di vista del cosiddetto “marxismo ortodosso” che il nostro teorico austriaco aveva appreso da Engels. E ciò non deve stupire in quanto Kautsky era già stato l’autore di due importanti articoli dedicati alle questioni citate [6],[7], entrambi pubblicati nel dicembre del 1881: “Il Socialismo di Stato” in polemica con i lassalliani e “L’abolizione dello Stato” in contrapposizione agli anarchici. Ma facciamo parlare direttamente l’autore de “La lotta di classe” circa la vera natura dello Stato nella Germania guglielmina di fine XIX secolo:

“L'attività economica dello Stato moderno è il naturale punto di partenza dello sviluppo che porterà alla Repubblica Socialista. Non ne consegue, tuttavia, che ogni nazionalizzazione di una funzione economica o di un’industria sia un passo verso la Repubblica Socialista, e che quest'ultima possa essere il risultato di una nazionalizzazione generale di tutte le industrie senza alcun cambiamento nel carattere dello Stato.

La teoria che questo potrebbe essere vero è quella dei “socialisti di Stato”. Nasce da un malinteso circa lo Stato stesso. Come tutti i precedenti sistemi di governo, lo Stato moderno è principalmente uno strumento destinato a tutelare gli interessi della classe dirigente. Questa caratteristica non viene in alcun modo modificata dall'assunzione di funzioni di utilità generale che toccano gli interessi non della sola classe dirigente, ma dell'intero corpo politico. Lo Stato moderno assume spesso queste funzioni semplicemente perché altrimenti gli interessi della classe dirigente sarebbero in pericolo insieme a quelli della società nel suo complesso; ma in nessun caso esso ha assunto, né potrebbe mai assumere, queste funzioni in modo tale da mettere in pericolo il dominio della classe capitalista.

Se lo Stato moderno nazionalizza certe industrie, non lo fa allo scopo di limitare lo sfruttamento capitalistico, ma allo scopo di proteggere il sistema capitalista e di stabilirlo su una base più solida, o allo scopo di prendere parte, esso stesso, allo sfruttamento del lavoro, aumentando le proprie entrate e riducendo così i contributi per il proprio sostentamento che dovrebbe altrimenti imporre alla classe capitalista. In quanto sfruttatore per antonomasia, lo Stato è superiore a qualsiasi capitalista privato. Oltre al potere economico dei capitalisti, esso può anche far valere sulle classi sfruttate il potere politico che già esercita.

Lo Stato non ha mai portato avanti la nazionalizzazione delle industrie oltre quanto richiesto dagli interessi delle classi dominanti, né andrà mai oltre. Finché le classi dei proprietari saranno quelle dominanti, la nazionalizzazione delle industrie e delle funzioni capitalistiche non sarà mai portata al punto tale da danneggiare i capitalisti e i proprietari terrieri o da limitare le loro possibilità di sfruttamento del proletariato.

Lo Stato non cesserà di essere un'istituzione capitalista finché il proletariato, la classe operaia, non sarà diventata la classe dirigente; solo allora sarà possibile trasformarlo in una Repubblica Socialista” [8].

Quanto appena riportato è più che sufficiente per confutare quelli che hanno sostenuto che il marxismo successivo ad Engels (e precedente a Lenin) non avesse una chiara nozione del carattere classista dello Stato moderno. Come si è visto in un precedente articolo su Kautsky [9], il problema della II Internazionale non fu la mancanza di una visione scientifica dello Stato, quanto, piuttosto, l’assenza di una teoria chiara e coerente della cosiddetta “rivoluzione sociale”, ovvero della conquista dello Stato da parte della classe lavoratrice. Ma ciò esula dalla nostra discussione attuale e verrà affrontato nella prossima sezione. Lo stesso Lenin, prima discepolo fedele e poi, dopo il 1914, critico acerrimo di Kautsky e della sua interpretazione del marxismo, colloca, scrivendo “Stato e rivoluzione” [10], l’inizio dello sviamento del suo ex-maestro dalla teoria marxista dello Stato in un periodo successivo al programma di Erfurt di quasi un decennio. Si tratta degli anni seguenti al 1896, inizio della celebre “revisione” del marxismo portata avanti da Eduard Bernstein, la quale culminerà, dopo una serie di lunghi articoli teorici, nell’opera intitolata I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” [11] del 1899. A questo punto Kautsky, dopo qualche comprensibile esitazione (data la sua lunga amicizia con Bernstein), scenderà in campo in difesa del “marxismo ortodosso”, ovvero proprio di quello codificato ne “La lotta di classe”, con il suo famoso saggio antirevisionista “Bernstein e il programma socialdemocratico: un’anticritica” [12], vera “bibbia” per i socialisti rivoluzionari dell’epoca.

 

La questione a questo punto si fa un po’ ingarbugliata, dato che le critiche di Bernstein al marxismo non vertevano principalmente sulla questione dello Stato, ma sull’apparente divaricazione tra lo sviluppo del capitalismo post-manchesteriano e certe, supposte, previsione marxiane sull’immiserimento crescente del proletariato e sul carattere via via sempre più acuto delle crisi cicliche dell’economia mondiale. Quindi, almeno da questo punto di vista, è ovvio che Kautsky si concentri più su altre questioni che su quella dello Stato. Tuttavia, è pur vero che Bernstein, a causa delle sue lunghe frequentazioni dei socialisti fabiani britannici, notori fautori di un forte riformismo d’impronta statalista, si esprime in modo assai scoperto a favore di una revisione anche della teoria marxista dello Stato, benché continui sempre a professarsi strenuo sostenitore del materialismo storico e della lotta di classe. Il teorico revisionista tenta di farlo dando una lettura tendenziosa proprio dell’opuscolo di Marx sulla Comune di Parigi [13] di cui abbiamo lungamente parlato nella Sez. IV, nonché della nota prefazione all’edizione tedesca del “Manifesto” del 1872, concentrandosi curiosamente sulla frase seguente:

“In particolare, la Comune ha dimostrato che «la classe operaia non può semplicemente prendere possesso dell’apparato statale così com’è e metterlo al servizio dei propri fini» (si veda ‘La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori’, edizione tedesca, p. 19, dove tale concetto è ulteriormente sviluppato)” [14],

a cui assegna un senso profeticamente “riformista” e “gradualista”, assai improbabile dal punto di vista filologico marxiano. Orbene, Kautsky ha in effetti gioco facile a confutare Bernstein citando la celebre introduzione di Engels alla “Guerra Civile in Francia” del 1891 (anche questa già incontrata nella Sez. IV), dove si legge:

“La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato; sicché la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli, senza nessuna eccezione e in ogni momento, revocabili” [15].

 

Però, secondo la malevola (ma non del tutto priva di fondamento) opinione di Lenin [16] la risposta di Kautsky su questo punto è molto blanda limitandosi a dire che se è vero che:

 “(…) la classe operaia non può semplicemente prendere possesso dell’apparato statale così com’è e metterlo al servizio dei propri fini, essa potrà comunque prenderne possesso, anche se non esattamente così com’è” [17].

In somma, per il leader bolscevico, Kautsky, a differenza del periodo precedente quando scriveva sotto l’occhio vigile del vecchio Engels, comincerebbe da questo momento a non gradire più espressioni forti che farebbero pensare ad un vero e proprio smantellamento dello Stato borghese, limitandosi a dire in modo un po’ sibillino che:

“possiamo, in tutta tranquillità, lasciare all’avvenire la cura di risolvere il problema della dittatura del proletariato” [18].

Un incipit di opportunismo o semplice dialettica politica? Lasciamo la valutazione al lettore, segnalando solo come Lenin, sempre in “Stato e rivoluzione” [19], scopra altri due episodi nei quali il teorico socialdemocratico mostri ritrosia (in un caso) e irritazione (nell’altro) a parlare esplicitamente dello Stato e di come dovrà esser completamente trasformato dopo che la classe lavoratrice avrà instaurato la sua dittatura. Nel primo caso ci si riferisce all’opera del 1902, intitolata complessivamente “La Rivoluzione sociale” [20] e divisa in due volumetti: “la rivoluzione sociale” (propriamente detta) e “il giorno dopo la rivoluzione sociale” derivanti da due conferenze tenute in Olanda. Ebbene un libro interamente dedicato alla transizione rivoluzionaria dal capitalismo al socialismo stupisce in effetti per la ricchezza di considerazioni socioeconomiche e la povertà di quelle politico-giuridiche. All’inizio del tomo secondo, l’autore si limita a scrivere che:

“D'altra parte, dobbiamo procedere in tutta questa indagine partendo da certi presupposti. Non possiamo accettare come nostro fondamento un’immagine delle condizioni che potrebbero svilupparsi in futuro perché questo ci porterebbe a fantasie. Eppure, è certo che non otterremo la nostra vittoria nelle condizioni attuali. La rivoluzione stessa presuppone una lotta lunga e profonda che cambierà di per sé grandemente la nostra attuale struttura sociale e politica. Dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, sorgeranno problemi di cui non sappiamo nulla e molti dei quali oggi ci occupiamo saranno allora risolti. Nasceranno anche nuovi mezzi per la soluzione di questi diversi problemi di cui oggi non abbiamo alcun sospetto” [21].

Praticamente lo stesso concetto di tre anni prima, scritto durante la polemica con il revisionista Bernstein e sintetizzabile come segue: sulla questione dello Stato e della sua metamorfosi passando dalla dittatura della borghesia alla dittatura del proletariato non è possibile dire ora nulla di preciso. Meglio non fare previsioni avventate.

 

In ultimo, dieci anni dopo, nel 1912 durante la famosa polemica tra Kautsky e la Luxemburg sulla questione dello sciopero spontaneo di massa con finalità politiche, il teorico austriaco è chiaramente infastidito da un articolo (“Azione di massa e rivoluzione” [22]) di un brillante astronomo olandese molto radicale, Antonie Pannekoek (1873-1960), che lo chiama in causa esplicitamente ben 23 volte criticandone un lavoro del 1911, “L’azione della massa”. L’argomento dei due articoli non ci interessa molto in questa sede perché fa parte del cosiddetto “Massenstreikdebatte”; però è importante una piccola nota stizzita di Kautsky nella sua replica a Pannekoek contenuta in “La nuova tattica” [23] dove l’olandese è citato ben 102 volte, mentre Rosa Luxemburg, che pure aveva iniziato il dibattito, solo due volte. Ebbene Kautsky cita due brevi passi di “Azione di massa e rivoluzione” [24]:

“Il contenuto della rivoluzione è l’annientamento e la dissoluzione degli strumenti di potere dello Stato attraverso gli strumenti di potere del proletariato. (…). La lotta si interrompe solo quando si è ottenuto il risultato finale, la completa distruzione dell'organizzazione statale. L’organizzazione della maggioranza avrà così dimostrato la sua superiorità distruggendo l’organizzazione della minoranza dominante (…)” [25],[26].

E poi commenta sarcastico:

“Finora il contrasto tra socialdemocratici e anarchici è consistito nel fatto che i primi volevano conquistare il potere statale, mentre i secondi volevano distruggerlo. Pannekoek vuole entrambe le cose. Purtroppo, anche qui, senza ulteriori spiegazioni. Per quanto dettagliato sia quando si tratta di dimostrare la necessità della sua nuova tattica, egli è altrettanto breve e oscuro - un nuovo Eraclito - quando si tratta di presentare l'essenza e l'obiettivo di tale nuova tattica” [27].

Il teorico olandese risponderà ancora, l’anno dopo, con un lungo lavoro dal titolo emblematico di “Teoria marxista e tattiche rivoluzionarie” (1913) [28] che è una durissima requisitoria non solo contro Kautsky, ma in opposizione a tutta la tattica dei massimalisti della SPD e della Seconda Internazionale. Pannekoek crederà, esattamente come farà Lenin quattro anni dopo, che Kautsky parli di opposizione all’anarchismo solo per annacquare e mettere la sordina alla teoria marxista dello Stato, almeno per come si era venuta configurando dopo l’esperienza della Comune di Parigi, pur senza mai negarla esplicitamente. Solo dopo la polemica con Lenin e Trockij, successiva alla rivoluzione bolscevica in Russia e alla conseguente guerra civile, il teorico austriaco sarà costretto a precisare le sue opinioni in merito allo Stato borghese e alla sua eventuale conquista da parte del proletariato rivoluzionario. E lo farà in modo alquanto sorprendente nel contesto della Germania liberal-democratica della Repubblica di Weimar, scivolando un poco alla volta, anche lui, verso l’idea di un socialismo di Stato. Ma tutto questo dovrà esser discusso nella prossima sezione.

 

Prima di concludere il discorso sulla teoria marxista dello stato ai tempi della II Internazionale sarà opportuno lasciare brevemente la Germania per passare alla III Repubblica Francese (1870-1940). In effetti, benché la SPD fosse senz’altro il partito-guida della II Internazionale, la Francia rappresentò un laboratorio politico unico per la teoria marxista dello Stato in un modo tale che né Germania, né Austria-Ungheria poterono mai uguagliarla almeno fino al 1918. Il motivo è piuttosto semplice: le due monarchie imperiali citate non erano strutture politiche pienamente liberal-democratiche e, benché molto avanti dal punto di vista economico e della legislazione sociale (specie il Reich tedesco), possedevano certi limiti all’esercizio delle libertà civili (di parola, stampa, associazione, riunione ecc.) e, soprattutto, mostravano una notevole ipertrofia del potere esecutivo rispetto a quello legislativo e a quello giudiziario. In particolare, le elezioni politiche, anche quando effettuate su una base di suffragio universale maschile (cosa non completamente vera, per esempio, nella vasta Prussia), davano luogo a Camere Parlamentari essenzialmente consultive o, comunque, non pienamente deliberative, ovvero non in grado di approvare leggi che non fossero state proposte o gradite dal governo in carica. Questo faceva sì che tutti i dibattiti socialisti sullo Stato in ambito austro-tedesco fossero viziati da grosse ambiguità, come visto nel caso del programma di Erfurt, in parte dovute ad una censura ancora molto occhiuta, in parte causati dal fatto che il termine stesso di “rivoluzione” poteva essere piegato, a seconda dei casi e delle convenienze, in modo da avere un senso politico (ottenimento della “repubblica democratica”) oppure anti-capitalista (instaurazione di una “repubblica socialista”). Ebbene, tutta questa massa di equivoci nella III Repubblica Francese non era più possibile: una volta scongiurato il rischio di derive reazionarie (la cosiddetta “repubblica dei duchi”) con la fine della presidenza del monarchico clericale Patrice de Mac-Mahon nel 1879, la costituzione repubblicana del 1875 entrò pienamente in azione, prevedendo un parlamento deliberativo eletto a suffragio universale maschile. Le istituzioni repubblicane furono ulteriormente confermate dalle elezioni legislative dell’agosto del 1881, le quali videro una larga vittoria dei repubblicani, sia moderati che radicali. Grazie a questi successi il Presidente della Repubblica, Jules Grévy, e il Presidente del Consiglio, Jules Ferry, diedero vita a una serie di importantissime riforme: l’amnistia per i condannati della Comune, la libertà di riunioni pubbliche (1881), la libertà di stampa (1881) e la libertà sindacale (1884). Si avviò inoltre una riorganizzazione scolastica che separò l'insegnamento religioso da quello delle altre materie, e si stabilì la gratuità (1881) e l'obbligo dell'insegnamento primario (1882). Fu poi sancita la laicizzazione degli ospedali e venne ripristinato il divorzio (1884). In somma, già nel 1884 la Francia poteva esser considerata a tutti gli effetti lo stato liberal-democratico più avanzato d’Europa, persino oltre la monarchia costituzionale del Regno Unito e la piccola repubblica federale della Svizzera. Sorgeva quindi spontaneo nel movimento socialista francese la scottante questione: come comportarsi di fronte a una repubblica democratico-borghese “chimicamente pura”, sebbene scossa periodicamente da instabilità politiche momentanee quali la crisi “boulangista” (1885-1889), il caso del Canale di Panama (1889-1894) e l’affaire Dreyfus (1894-1902)? E la questione dello Stato, che inizialmente era solo teorica, divenne presto pratica con l’affaire Millerand e il problema del cosiddetto “ministerialismo” (1899) che scosse prima il socialismo francese e poi l’intera Internazionale. Lasciamo però al lettore curioso la possibilità di approfondire tali vicende politiche studiando su questo stesso sito l’ottimo articolo introduttivo [29] su Jean Jaurès, un personaggio che di queste vicissitudini fu protagonista.

 

In effetti non è affatto facile riassumere i dibattiti culturali del socialismo francese nel periodo 1896-1914 poiché esso sfugge alla dicotomia largamente diffusa nella II Internazionale tra minimalismo (o “riformismo”) e massimalismo (o “impossibilismo”). Beninteso, non che mancassero del tutto tali posizioni, rozzamente rappresentate, rispettivamente, da Jean Jaurès e da Jules Guesde; ma la matrice culturale nella Parigi di quegli anni era molto più ricca. Il marxismo aveva attecchito bene in Francia grazie agli sforzi titanici di Paul Lafargue (1842-1911) e della sua compagna Laura Marx, ma non aveva cancellato del tutto i residui delle tradizioni rivoluzionarie precedenti: il giacobinismo-blanquismo sopravviveva in parte in Édouard Vaillant, la tradizione anarchico-libertaria trovava nuova linfa con sindacalisti rivoluzionari Fernand Pelloutier ed Émile Pouget ecc. E poi sorgevano personaggi difficilmente classificabili come Jean Allemane e Gustave Hervé [30], sempre oscillanti tra un socialismo “marxisteggiante” e un sindacalismo rivoluzionario dalle tinte pseudo-anarchiche. Chi avesse cercato in questo continuo ribollire di tendenze e di posizioni, di discorsi infocati ed azioni plateali, il rigore argomentativo tedesco sarebbe rimasto molto deluso: gli unici teorici degni di nota nel socialismo transalpino di quegli anni furono il menzionato Lafargue e Gabriel Deville (quest’ultimo prima di divenire riformista…), mentre uno dei capi della frazione massimalista, il noto Guesde, il quale ostentava massima deferenza e venerazione per Marx ed Engels, pare che non avesse letto di loro nulla oltre il celebre “Manifesto” o poco più. Sarà quindi a Lafargue che ci volgeremo per illustrare brevemente le concezioni del marxismo francese relative alla teoria dello Stato, da lui esposte in un pamphlet memorabile: “Il socialismo e la conquista dei poteri pubblici” [31] del 1899. Lo scritto, uscito proprio in concomitanza con il già menzionato affaire Millerand, combatte radicalmente l’ipotesi del cosiddetto ‘ministerialismo socialista’ (ovvero la partecipazione di dirigenti e parlamentari socialisti a governi di coalizione con partiti borghesi), ma, come è tipico del marxismo della II Internazionale, si guarda bene dal denunciare la partecipazione alle elezioni politiche e all’attività parlamentare. Anzi, sostiene che è proprio dall’attività parlamentare al di fuori di qualsivoglia impegno governativo, che si possono ottenere i migliori risultati in termini di progresso delle condizioni materiali e morali della classe lavoratrice. Ovviamente la prospettiva lafarghiana è interamente rivoluzionaria, eppure le “riforme” ottenute dall’impegno del partito non sono affatto disprezzate: sebbene non risolutive esse hanno il pregio di aumentare il prestigio e l’influenza della componente socialista dei lavoratori sui vasti strati della classe ancora non sufficientemente politicizzati. Ma non è questo il punto che vogliamo porre in risalto, quanto il modo esplicito con cui Lafargue, differentemente dai teorici socialisti tedeschi, esprime in modo netto e lapidario la dottrina marxista dello Stato. Citando le delibere del recentissimo congresso di Éperney [32], Lafargue ricorda che tre punti sono stati decisi in modo inappellabile dal partito:

"Che per la conquista dei poteri pubblici, il Partito Operaio Francese ha sempre inteso l'espropriazione politica della classe capitalista, sia che questa espropriazione avvenga pacificamente oppure violentemente (…).

Che venga dato spazio, quindi, solo all'occupazione di quelle cariche elettive che il Partito può conquistare per mezzo delle proprie forze, cioè dei lavoratori organizzati in partito di classe. (…).

Che si lasci, per l'avvenire, al Consiglio Nazionale il compito di esaminare, di volta in volta e secondo le circostanze, se, senza uscire dal terreno della lotta di classe, altre posizioni possano essere occupate”.

Soprattutto il primo punto non lascia ombra di dubbio circa la concezione dello Stato del Partito Operaio Francese del periodo, la quale viene ulteriormente precisata, in maniera quasi brutale, più avanti nel testo di Lafargue:

“(…). In qualsiasi governo parlamentare, sia che il Capo dello Stato venga dotato del diritto di veto come il Presidente degli Stati Uniti d’America, sia che risulti un personaggio decorativo, un re o un presidente, come in Belgio, in Inghilterra e in Francia, è la classe capitalista che governa: i ministri sono degli impiegati che, sotto il controllo di deputati e senatori, stanno lì solo per servirne gli interessi.

Il Partito socialista non è e non può diventare un partito parlamentare, poiché il parlamentarismo è la forma di governo specifica della classe capitalista. Ma, sebbene la sua missione sia quella di abolire il parlamentarismo, il partito è costretto però a utilizzare i mezzi che gli si offrono per organizzarsi e minare il potere politico del capitale: è così che, destinato a sopprimere la guerra, il partito sarà tuttavia obbligato a usare cannoni e fucili per compiere la rivoluzione sociale.

Il Partito socialista, pur non essendo un partito parlamentare, è quindi portato dalla forza delle circostanze ad avere un’azione parlamentare che si esercita sia fuori dal Parlamento sia nel Parlamento.”

Parole semplicemente impensabili nella Germania guglielmina… nemmeno tra i “radicali” di Luxemburg e Pannekoek, le quali possono però essere accostate in qualche misura a quelle dei marxisti britannici più intransigenti, i cosiddetti “impossibilisti” del Socialist Party of Great Britain, che nel 1904 scrivevano nei loro punti 6°, 7° e 8° dei loro “Principi”:

“Il Partito Socialista della Gran Bretagna ritiene: (…).

6. Che, siccome l’apparato di governo, comprese le forze armate della nazione, esiste solo per conservare il monopolio, a vantaggio della classe capitalista, della ricchezza sottratta ai lavoratori, la classe operaia debba organizzarsi consapevolmente e politicamente per la conquista dei poteri di governo, nazionali e locali, affinché questo apparato, comprese le dette forze, possa trasformarsi da strumento di oppressione ad agente di emancipazione e rovesciamento del privilegio, aristocratico e plutocratico.

7. Che, siccome tutti i partiti politici altro non sono se non l’espressione di interessi di classe, e l’interesse della classe operaia è diametralmente opposto agli interessi di tutti i settori della classe padronale, il partito che cerchi l'emancipazione della classe operaia debba essere ostile a ogni altro partito.

8. Il Partito socialista di Gran Bretagna, quindi, entra nel campo dell'azione politica deciso a muover guerra a tutti gli altri partiti politici, siano essi presuntamente “operai” oppure dichiaratamente capitalisti, e invita i membri della classe lavoratrice di questo paese a radunarsi sotto la sua bandiera affinché possa essere compiuta una rapida eliminazione del sistema che li priva dei frutti del loro lavoro, in modo tale che la povertà possa lasciare il posto al benessere, il privilegio all’uguaglianza e la schiavitù alla libertà.

Ebbene, quasi incredibilmente, tali principi, dopo 119 anni, sono ancora tenacemente difesi dal Socialist Party of Great Britain di oggi e stampigliati nel retro di ogni sua pubblicazione.

 

 

 

 

 

 

 


Fig. 5: Eduard Bernstein, il padre del revisionismo socialdemocratico, e Karl Kautsky, il cosiddetto “papa rosso” del marxismo ortodosso, da fieri antagonisti nel periodo 1896-1903, si riconciliarono dopo la Grande Guerra e divennero alleati nella loro lotta al bolscevismo. La fotografia che li ritrae insieme nel 1928 mostra Bernstein a sinistra e Kautsky a destra.

 

 

VII) Socialdemocratici contro comunisti: “dittatura del proletariato” o “democrazia sociale”?

 

È vicenda nota che lo scoppio della Prima Guerra mondiale nel 28 luglio del 1914 si sia abbattuto sul movimento operaio e socialista europeo come un maglio, scardinandolo duplicemente in modo inaspettato per le stesse classi dirigenti: prima per la mancata opposizione alla guerra da parte della II Internazionale, in palese violazione delle risoluzioni congressuali di Basilea (4-25 novembre 1912) [33], poi per l’ingresso di molti partiti socialisti nei rispettivi governi di coalizione bellica detti di “Union Sacreé” o di “Burgfrieden”. Certo vi furono eccezioni, come i socialisti dei paesi neutrali o dei partiti dell’Italia e della Serbia, ma globalmente l’Internazionale si macchiò ampiamente non solo di un’ignavia paralizzante, ma persino di un vero e proprio “social patriottismo” traditore.

Con il procedere delle ostilità, che secondo molti “soloni” della strategia si sarebbero dovute concludere entro l’anno 1914, e, soprattutto, con l’incrudelirsi di una guerra di posizione sempre più cruenta e paranoica, i piccoli gruppi socialisti che in Europa si erano opposti in qualche modo alla guerra, ripresero fiato e cominciarono a crescere di numero, d’influenza e di visibilità: nel settembre del 1915, a Zimmerwald nella neutrale Svizzera, vi fu un importantissimo incontro di socialisti anti-bellicisti con 28 delegati di 11 paesi, replicato poi a Kienthal (sempre in Svizzera) nell’aprile dell’anno successivo. Emerge già un embrione di quella che sarà la divisione insanabile tra socialdemocratici di sinistra (o “centristi”) e comunisti (o “leninisti”).  Nell’ottobre del 1916 Friedrich Adler, figlio del fondatore del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori d’Austria, uccide a rivoltellate il primo ministro Karl von Stürgkh, perché a suo avviso è il massimo responsabile della prosecuzione della guerra. Dopo uno spettacolare processo pubblico, già a dicembre, la maggioranza del suo partito diventa apertamente ostile alla guerra. Ma è il 1917 l’anno cruciale della rinascita socialista: in marzo abdica lo zar di Russia e si forma un Governo Provvisorio repubblicano in cui partecipano anche socialisti riformisti, mentre nel paese, operai, soldati e contadini si auto-organizzano, come nel 1905, in consigli autoconvocati, detti soviet. In aprile si sfalda la storica SPD tedesca: la sua opposizione interna, sentendosi minacciata, si riunisce nella conferenza di Gotha, alla fine della quale vincono gli scissionisti ed è costituito il Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania, la USPD (Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands) su posizioni apertamente antibelliciste. Infine, nel novembre del 1917 i bolscevichi, guidati da Lenin e Trockij, conquistano la maggioranza nei principali soviet del paese e con un abile colpo di mano spodestano il Governo Provvisorio trasferendo il potere al Comitato Militare Rivoluzionario, espressione del soviet filobolscevico di Pietrogrado. Gli efficaci slogan sovietici erano stati apertamente per la fine della guerra, la distribuzione dei generi alimentari agli indigenti e la cessione gratuita della terra ai contadini, tutti obiettivi irresponsabilmente mancati dal Governo Provvisorio i quali ne determinarono la fine.

È proprio in questa temperie (precisamente tra l’agosto e il settembre del 1917) che Lenin scrive il suo saggio più importante, ossia quello “Stato e rivoluzione: la dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione” [34] che abbiamo già incontrato varie volte. Vale la pena di riassumerne brevemente le conclusioni, dato il suo carattere centrale nella discussione sullo Stato tra i teorici marxisti di quegli anni. Infatti, a “Stato e rivoluzione” risponderà (tra gli altri) Karl Kautsky con “La dittatura del proletariato” (agosto 1918), alla quale seguirà il famigerato pamphlet al vetriolo di Lenin “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” (novembre 1918). Ad esso risponderà ancora Kautsky con “Terrorismo e comunismo” (giugno 1919) che verrà poi criticato da Trockij in un’opera dall’identico titolo (maggio 1920), ma sottotitolata provocatoriamente “anti-Kautsky”. In effetti, l’importanza di quest’opera leniniana nel movimento comunista internazionale è somma: anche se dal punto di vista della prassi tutte le cosiddette “rivoluzioni comuniste” a partire dagli anni ’40 del XX secolo (in Iugoslavia, Cina, Corea del Nord, Cuba, Vietnam ecc.) non seguiranno il cammino indicato dal leader bolscevico, dal punto di vista della teoria “Stato e rivoluzione” costituirà la dottrina marxista ufficiale sullo Stato e sulla rivoluzione proletaria quasi sine glossa per settantacinque anni. L’unico parziale disallineamento avverrà nei partiti comunisti europei occidentali degli anni ’70, durante il periodo del cosiddetto “Eurocomunismo”, quando il Partito Comunista Italiano cercherà una formulazione post-leninista (ma distinta da quella socialdemocratica) per la sua analisi dello Stato nel capitalismo del XX secolo, trovandola, almeno in parte, nelle elaborazioni teoriche di Antonio Gramsci.

L’opera di Lenin in questione è in effetti piuttosto breve (con poco più di cento pagine) ed ha un curioso taglio apparentemente filologico, tanto da farla somigliare ad un saggio teologico della Scolastica medievale, tutto giocato in punta di citazioni di Marx ed Engels, nonché di successiva esegesi. Ma la scelta non è casuale in quanto “Stato e rivoluzione” si pone da un lato l’obiettivo di ricostruire la genuina “teoria marxiana ed engelsiana” dello Stato, e dall’altro l’intento di confutare non tanto i revisionisti palesi, quanto i sedicenti “marxisti ortodossi” di tradizione socialista democratica. Questo modo di procedere, che tende a nasconde le vere idee di Lenin sullo Stato sviluppate nel crogiolo della Rivoluzione russa, rende lo studio del testo piuttosto pesante e tortuoso, ma alla fine il lettore attento riesce ad enucleare una vera e propria “dottrina leninista” dello Stato nella sua transizione tra capitalismo e socialismo. Ed è proprio quello che abbiamo l’ambizione di fare nelle poche righe che seguono.

Secondo un certo numero di studiosi il libro “Stato e rivoluzione” avrebbe avuto origine a seguito di una discussione tra Lenin e il giovane Bucharin avvenuta nell’estate del 1916 e concernente la sopravvivenza dello Stato dopo una rivoluzione proletaria vittoriosa. Bucharin avrebbe sottolineato l’aspetto del “deperimento dello Stato” (di engelsiana memoria), mentre Lenin avrebbe insistito maggiormente sulla necessità della sopravvivenza della macchina statale per portare a termine la “espropriazione degli espropriatori” (à la Marx); però alla fine fu Lenin (incredibile dictu) a cambiare parzialmente idea. In effetti molte delle opinioni contenute in “Stato e rivoluzione” sembrerebbero esser maggiormente vicine a quelle di Bucharin piuttosto che a quelle tradizionali di Lenin, il quale, va detto, era per molti versi ancora idealmente legato al kautskiano “programma di Erfurt” (vedasi la I parte di questo lavoro). Il testo inizia in pratica con una definizione diretta e semplice dello Stato che sarebbe per il leader bolscevico semplicemente:

“(…) una ‘forza repressiva particolare’ della classe oppressa. Quindi uno Stato, qualunque esso sia, non è libero e non è popolare. Marx ed Engels l’hanno spiegato cento volte ai loro compagni di partito negli anni 18701880[35].

Di qui anche l’aspra critica leniniana alla democrazia parlamentare, influenzata da ciò che Lenin osservava accadere in Occidente e che aveva valutato come un rapido aumento delle influenze burocratiche e militari sulla politica:

"Decidere una volta ogni qualche anno quale membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche più democratiche” [36].

Successivamente, utilizzando in modo ampio citazioni di Engels e di Marx, Lenin studia la questione teorica dell’esistenza dello Stato dopo una rivoluzione proletaria vittoriosa, affrontando e criticando gli argomenti degli anarchici e dei socialdemocratici riformisti nella descrizione delle fasi successive della trasformazione sociale, e ribadisce che la rivoluzione, stabilendo prima "lo stadio inferiore della società comunista" (o “socialismo”) e poi lo "stadio superiore della società comunista"  (o “comunismo”), darà alla fine luogo a una realtà stabile ed armoniosa in cui la libertà personale di chiunque potrà essere pienamente espressa. In particolare Lenin difende la teoria di Marx sul comunismo (e il marxismo in generale), notando che quando muoiono i “vecchi rivoluzionari” (F. Engels, J. Dietzgen, W. Liebknecht, A. Bebel ecc.), la borghesia non si accontenta di averli precedentemente etichettati come “nemici dello Stato”, perché ciò attirerebbe verso il loro pensiero una nuova generazione politica radicalizzata, ma attacca anche gli scritti teorici di tali rivoluzionari attribuendo loro un ruolo addirittura di “mediocrità social-democratica antirivoluzionaria”, opposta alla “vera natura rivoluzionaria di Marx”. Gli agenti di questa operazione sono gli intellettuali borghesi noti come “socialisti revisionisti” che trasformano un essere umano reale, Marx, in una pura astrazione:

“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia. Tutti i social-sciovinisti non ridete! sono oggi "marxisti". E gli scienziati borghesi tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo, parlano sempre più spesso di un Marx "nazional-tedesco" che avrebbe educato i sindacati operai, così magnificamente organizzati per condurre una guerra di rapina!” [37].

Il riferimento a G. von Vollmar, E. Bernstein, H. Cunow ed anche, almeno in parte, K. Kautsky è qui del tutto evidente.

 

Il resto dell’opera prosegue continuando a descrivere la natura più intima dello Stato quale strumento per l'oppressione di classe, ovvero una creazione nata dal desiderio della classe sociale dominante di controllare le altre classi della società quando le controversie politico-economiche non possono essere risolte pacificamente. Che si tratti di una dittatura o di una democrazia, lo Stato rimane il mezzo di controllo sociale della classe egemone. Anche in una repubblica democratica “capitalista”, la classe dominante non rinuncia mai al suo potere politico, mantenendolo attraverso il controllo “dietro le quinte” del suffragio universale, un eccellente inganno che tiene in vita i concetti puramente idealistici di “libertà e democrazia”. Per Lenin, quindi, la rivoluzione proletaria è l'unico rimedio per una tale demagogia, ma agli anarchici, che propongono l'abolizione immediata dello Stato, il dirigente bolscevico ribatte che tale utopia è praticamente impossibile, poiché il proletariato avrà bisogno di schiacciare la resistenza borghese attraverso un meccanismo di dittatura politica temporanea, cioè di un “semi-stato”. Se lo Stato fosse immediatamente abolito, senza che prima venissero abolite anche le “condizioni che portano alla nascita dello Stato” [38], apparirebbe presto un nuovo Stato borghese (per esempio, una reazione militare) e la rivoluzione socialista sarebbe stata vana. Al contrario, il proletariato attraverso la sua dittatura istituirebbe un semi-stato comunitario basato sui “soviet” (in parziale analogia al modello della Comune di Parigi del 1871), quindi sopprimerebbe rapidamente la borghesia dissenziente, giungendo gradualmente all'estinzione del semi-stato dato che le sue istituzioni comincerebbero a "perdere il loro carattere politico" [39], divenendo semplicemente amministrative. Così, convinto di seguire le conclusioni di Marx sulla Comune di Parigi [40], che Lenin elesse a suo modello in opposizione agli pseudo-marxisti revisionisti, quest’ultimo dichiarò che il compito principale della rivoluzione proletaria era essenzialmente quello distruggere, frantumare e disarticolare la “macchina” dello Stato borghese. Sebbene, sotto il potere proletario, "rimanga per un certo periodo non solo il diritto borghese, ma anche lo Stato borghese senza la borghesia" [41], Lenin riteneva che dopo una rivoluzione vittoriosa lo Stato non solo dovesse cominciare ad appassire, ma che fosse già in un’avanzata situazione di decomposizione, ovvero solo un semi-stato. Ma Lenin chiamava tale realtà politica anche “proletariato armato e dominante”, quindi molti studiosi del bolscevismo si sono interrogati sul senso e sulla modalità di un tale “appassimento” nella visione leniniana, senza però riuscire a trovare una risposta convincente. In effetti pare che Lenin avesse nel 1917 poco da dire sulla forma istituzionale di questo “periodo di transizione”, che si badi bene, avrebbe dovuto in qualche modo interessare anche la fase inferiore del comunismo (“socialismo”). Infatti, laddove c’è una forma, anche se mite e blanda, di coercizione, come nell’utilizzo dei buoni-lavoro per la distribuzione dei beni di consumo tra i lavoratori, lì deve senz’altro sussistere anche una certa realtà statale repressiva. Il capo bolscevico si limitava in quel periodo a porre una forte enfasi sulla dittatura del proletariato, condensando in poche righe la differenza più evidente tra comunisti e socialisti democratici, la quale sarebbe durata per quasi tutto il XX secolo:

"L'elemento essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe. Così si dice e si scrive molto spesso. Ma questo non è vero e da questa affermazione errata deriva, di solito, una deformazione opportunista del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso di renderlo accettabile alla borghesia. Perché la dottrina della lotta di classe non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx, e può, in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. “Marxista” è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccoloborghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo” [42].

 

Se le idee di “Stato e rivoluzione” e de “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky” verranno presto (nell’ottobre 1919) condensate e popolarizzate dal famoso “catechismo comunista” di N.I. Bucharin e E. A. Preobraženskij noto come l’”ABC del comunismo” [43], l’opposizione a tali concezioni da parte di chi nei raggruppamenti politici socialisti eredi della II internazionale ancora si rifaceva in qualche modo al marxismo, non si fece attendere. Oltre ai già citati tre scritti di Kautsky, vanno segnalati, a puro titolo di esempio, gli interessanti saggi sull’argomento di É.  Vandervelde (“Le Socialisme contre l'État”, 1918), di J. O. Martov (“The state and the socialist revolution”, 1919), di M. Adler (“Demokratie und Rätesystem”, 1919 e “Die Staatsauffassung des Marxismus”, 1922), di O. Bauer (“Bolschewismus oder Sozialdemokratie?”, 1920) e di M. Illquit (“From Marx to Lenin”, 1921), diversi per prospettiva e tono, ma tutti critici relativamente agli esiti dittatoriali ed antidemocratici della Rivoluzione d’ottobre. In particolare, vi si contestava l’intero impianto teorico di “Stato e rivoluzione” e, soprattutto, la pretesa paternità marxista-engelsiana di tali idee, che invece venivano ricondotte a sotterranei influssi anarchici, anarco-sindacalisti e sorelliani. Schematizzando moltissimo e in modo forse un po’ brutale, si può sostenere che i socialdemocratici marxisti affermassero nel periodo 1918-1921 che:

1) La “dittatura del proletariato” in un paese ad economia industriale avanzata poteva tranquillamente assumere la forma di una repubblica democratica, dato che il proletariato, se necessario insieme alle classi ad esso tradizionalmente prossime (ossia, i braccianti, i piccoli contadini, gli artigiani e i bottegai minuti ecc.), costituiva la stragrande maggioranza dei votanti. Spettava solo ai socialisti convincere tale maggioranza a votare sistematicamente per i partiti proletari invece che per quelli borghesi.

2) Una volta giunti stabilmente al potere i partiti socialisti avrebbero potuto iniziare la socializzazione della produzione e della distribuzione in modo legale, ossia mediante leggi approvate dal parlamento. Invece, nella fase transitoria tipica del periodo post-bellico, in cui sussistevano inevitabilmente governi di coalizione dei partiti socialisti insieme ai partiti liberal-democratici borghesi, era necessaria una certa gradualità. La socializzazione in questi casi doveva procedere lentamente e l’azione dei socialisti si sarebbe concentrata sul miglioramento delle condizioni legali e materiali dei lavoratori, nonché sull’effettiva democratizzazione degli apparati dello Stato, soprattutto nelle sue parti più influenti e nascoste: quelle burocratiche, giudiziarie, poliziesche e militari. Tale fase “transitoria” propedeutica alla vera e propria costruzione del socialismo veniva generalmente chiamata “democrazia sociale”.

3) Per quanto riguarda poi la ricostruzione filologica del pensiero di Marx ed Engels, erano principalmente Martov e Kautsky a voler ribattere punto su punto al discorso di Lenin. Si minimizzava innanzitutto l’importanza del saggio marxiano sulla Comune di Parigi [44], situandolo in una fase caratterizzata ancora da un’incompleta rottura con l’anarchismo bakuninista. Si prendevano le dovute distanze dalle supposte critiche di Marx alla democrazia parlamentare, ricordando che ai tempi della stesura di tali critiche il suffragio universale unito a un parlamento realmente deliberativo esisteva solo negli USA e in Svizzera. Si ricordavano invece le note posizioni marxiane (per esempio, La Liberté Speech”, 1872 [45]) relative ad una possibile transizione pacifica al socialismo nei paesi liberal-democratici più avanzati. S’interpretava, e questo forse è il punto più rilevante, la famosa frase della lettera di Marx a Kugelmann del 1871:

“Se rileggi l’ultimo capitolo del mio ‘18 Brumaio’, vedrai che, parlando del prossimo tentativo di Rivoluzione francese, sostengo che non si tratterà più di trasferire l’apparato burocratico‑militare da una mano all’altra, com’è accaduto finora, ma di spezzarlo, e questa è la condizione essenziale di ogni rivoluzione autenticamente popolare nel continente. Ed è ciò che stanno facendo i nostri eroici compagni di partito a Parigi” [46],

non alla maniera di Lenin, ovvero come la necessaria demolizione di tutto lo Stato borghese, ma come la cattura di questo mediante mezzi democratici e l’eliminazione dell’apparato burocratico-poliziesco-militare che, notano Martov e Kautsky, è proprio la parte non elettiva della pubblica amministrazione moderna (quella che al giorno d’oggi chiameremmo “deep state”). Tuttavia, il primo, con grande onestà intellettuale, ammette che le tesi socialiste democratiche si trovano sì anticipate in Marx, ma con qualche oscillazione, dovuta, non a caso, all’esperienza della Comune:

“Per Marx ed Engels, il problema della presa del potere politico da parte del proletariato è legato alla distruzione della macchina militar-burocratica, che governa lo Stato borghese nonostante l'esistenza del parlamentarismo democratico.

Per Marx ed Engels il problema della dittatura del proletariato è legato all'instaurazione di uno Stato fondato sulla democrazia sincera e totale, sul suffragio universale, sulla più ampia estensione dell’autogoverno locale, ed ha come corollario l'esistenza di un'egemonia elettorale del proletariato sulla maggioranza della popolazione. A questo proposito Marx ed Engels continuano ed estendono la tradizione politica della “Montagna” del 1793 e dei cartisti della scuola di O'Brien.

È vero, però, che è possibile scoprire nell'opera di Marx ed Engels le tracce di altre idee. Queste sembrano offrire terreno alle tesi secondo le quali le forme, e anche le istituzioni che possono incarnare il potere politico del proletariato assumono un carattere essenzialmente nuovo, opposto in linea di principio alle forme e alle istituzioni che incarnano il potere politico della borghesia e contrario in linea di principio allo Stato in quanto tale” [47].

Tuttavia, subito dopo Martov dedica un intero capitolo a delucidare in grandissimo dettaglio le opinioni pubbliche e private (spesso divergenti tra loro) di Marx sulla Comune, sottolineandone la grandezza, ma anche i limiti, nonché le influenze su di esse giocate dalle idee blanquiste, proudhoniane e bakuniniste.

 

4) Ma il punto più forte della critica socialista democratica al leninismo è senz’altro quello relativo al sistema sovietico come strumento politico principale dell’esercizio della dittatura del proletariato. Benché mai pregiudizialmente ostili alla formazione di consigli permanenti di fabbrica, di caserma, di quartiere, di villaggio rurale ecc. dai quali i borghesi siano strutturalmente esclusi, i marxisti socialdemocratici hanno gioco facile a mostrare come la struttura piramidale dei “soviet” implichi nella pratica un livello di democrazia molto inferiore a quello garantito dal semplice suffragio universale. Questo ovviamente non avverrebbe a caso, ma servirebbe principalmente a lasciare spazio alla ferrea dittatura del partito-guida, di cui i soviet diverrebbero una mera “foglia di fico”. Ancora una volta è soprattutto Martov, investito in questo caso da un carisma quasi profetico, a scrivere le seguenti acute osservazioni sulla Rivoluzione di ottobre, già nel 1919:

“Il ruolo di fattore attivo nel rovesciamento spettava alle minoranze delle classi sociali nel cui interesse si sviluppò la rivoluzione. Queste minoranze sfruttavano il malcontento confuso e le sporadiche esplosioni di collera che sorgevano tra elementi sparsi e socialmente incoerenti all'interno della classe rivoluzionaria. Hanno guidato questi ultimi nella distruzione delle vecchie forme sociali. In alcuni casi, le minoranze-guida attive hanno dovuto usare il potere della loro energia concentrata per vincere l'inerzia degli elementi che cercavano di utilizzare per scopi rivoluzionari. Pertanto, queste minoranze-guida attive a volte hanno compiuto sforzi – spesso sforzi riusciti – per superare la resistenza passiva degli elementi manipolati, quando questi ultimi si rifiutavano di andare avanti verso l'allargamento e l'approfondimento della rivoluzione. La dittatura di una minoranza rivoluzionaria attiva, una dittatura tendenzialmente terroristica, era il normale sbocco della situazione in cui il vecchio ordinamento sociale aveva confinato la massa popolare, ora chiamata dai rivoluzionari a forgiare il proprio destino” (il grassetto è di Martov) [48].

 

Tuttavia, la relativa “purezza marxista” di Julij O. Martov e di Max Adler, non può nascondere una profonda trasformazione che gradualmente ma inesorabilmente stava investendo la concezione dello Stato propria dell’Internazionale Operaia e Socialista (1923-1940) nel periodo dell’immediato dopoguerra. La polemica con i comunisti, visti semplicisticamente come un semplice mélange di vecchio blanquismo e nuovo anarco-sindacalismo, aveva portato teorici di livello come Karl Kautsky e Rudolf Hilferding a compiere una difesa a tutto campo della democrazia parlamentare pura, la quale ora rischiava però di spingersi ben oltre quella barriera che né Marx né Engels avrebbero mai attraversato: l’idea del carattere permanente ed essenzialmente inestinguibile dello Stato democratico anche durante la fase di costruzione del socialismo. Tale posizione era di una rilevanza teorica enorme di cui forse gli stessi autori non furono completamente consci. Eppure, Kautsky, non proprio con chiarezza adamantina (come è nel suo stile ogniqualvolta si parli di Stato), su questa sua “correzione” a Marx scrive molto tranquillamente che:

“Il nostro esame della rivoluzione politica dei lavoratori può essere riassunto nelle seguenti frasi: la crescita del movimento dei lavoratori è accompagnata dalla crescita della democrazia. Così la via della democrazia è la via normale per la conquista del potere politico da parte dei lavoratori. La repubblica democratica è la forma statale per il governo dei lavoratori. La repubblica democratica è la forma statale per la realizzazione del socialismo (sottolineatura nostra) [49].

Va notato che le brevi righe appena riportate sono solo la conclusione di un lungo capitolo, denominato “Lo Stato nel periodo di transizione” dell’opera “La rivoluzione dei lavoratori” [50], dove l’autore spiega in maniera dettagliata perché rinunciare a tutte le caratteristiche politiche della “dittatura del proletariato” evidenziate da Marx nel suo noto opuscolo sulla Comune di Parigi [51] e poi ripetute da Lenin in “Stato e rivoluzione” [52]: l’unione dei poteri legislativo ed esecutivo, la revocabilità immediata dei rappresentanti eletti a suffragio popolare (ma senza il voto delle classi sfruttatrici), il salario dei rappresentanti calibrato su quello di un operaio specializzato ecc. In altre parole, dopo l’elaborazione di un possibile programma socialista nel 1922, noto come “La rivoluzione proletaria e il suo programma” [53], Kautsky, tornato saldamente nella SPD, rivede questo suo ultimo contributo programmatico di rilievo, propedeutico al noto programma di Heidelberg del partito (1925), abbreviandolo e dandogli anche una veste internazionale [54]. Ebbene, al di là degli ossequi formali alle ipotesi di Marx ed Engels, la posizione kautskiana sembra oramai chiara: lo Stato nel periodo di transizione dal capitalismo al socialismo è la repubblica democratica parlamentare sul modello di quella di Weimar. Si tratterà solo di far conseguire alla SPD una stabile maggioranza assoluta dei suffragi per poter iniziare la transizione anche in campo economico. E su come quest’ultimo aspetto dovrebbe prender forma, sarà Hilferding, il pupillo di Kautsky e il suo successore come teorico di punta del partito [55], a fare chiarezza: alla piena socializzazione si potrà giungere solo dopo una lunga fase di “capitalismo organizzato”, dove l’anarchia del mercato verrà temperata dalla pianificazione economica di concerto tra imprenditori, sindacati e governo. Siamo ormai in una fase nuova della politica socialdemocratica, dove, parafrasando Lev Trockij, si potrebbe ben dire che “di socialismo si parla solo la domenica”, mentre nel resto della settimana si ragiona sull’estensione della democrazia e sulla pianificazione capitalista (cioè della cosiddetta “democrazia sociale”). E se la teorizzazione dell’ipertrofia dello Stato in ambito russo avverrà concependola in modo brutale, con l’esautorazione dei soviet, la ferrea dittatura del partito bolscevico ed infine le tremende purghe staliniane, in ambito socialdemocratico accadrà in qualche modo lo stesso processo, ma in modo ovviamente più morbido ed accattivante (anche perché la socialdemocrazia fu raramente al potere nell’Europa tra le due guerre mondiali). Eppure, come vedremo nella prossima sezione, i due filoni, apparentemente così tra loro ostili e distanti, potranno esser compresi unitariamente come una medesima tappa della marcia forzata del capitalismo monopolistico mondiale verso un periodo di vera e propria “statolatria” a cui non sarà estraneo, ovviamente, né il criminale nazi-fascismo italo-tedesco, né il rassicurante New Deal statunitense, dove il “capitalismo organizzato” di Hilferding troverà una prima e verace realizzazione. Sono infatti gli anni ’30: la lugubre mezzanotte del XX secolo!

Ma prima di concludere questa sezione è d’uopo citare le lucide parole di Rudolf Rocker, un anarchico tedesco, spettatore imparziale, critico e disincantato delle lotte politiche di Weimar, che riesce a nostro parere a condensare efficacemente la deriva statalista del suo paese dal congresso di Erfurt nel 1891 all’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht nel gennaio del 1919. Si noti come, pur essendo un anarco-sindacalista convinto, palesemente ostile al marxismo, Rocker riconosca il carattere eminentemente antistatalista delle idee di Marx ed Engels, attribuendo quindi a rigurgiti hegeliani e lassalliani la deriva politica della SPD del periodo. Non è affatto frequente in ambiente anarchico una tale onestà intellettuale dopo le violente polemiche tra Marx e Bakunin che abbiamo visto nella prima parte del presente lavoro:

“(…). L’attività di un agitatore come Ferdinand Lassalle aveva aperto la strada al movimento operaio tedesco e la sua influenza su di esso restò sempre ben riconoscibile. Fu lui a dare al socialismo tedesco la sua particolare impronta, che riprese alquanto vigore soprattutto negli anni precedenti la Prima guerra mondiale e in quelli successivi alla cosiddetta «Rivoluzione tedesca» del 1918-19. Quando era in vita, Lassalle era un fanatico adepto dell’idea hegeliana di Stato e aveva fatta propria la concezione di Louis Blanc, il francese fautore di un socialismo di Stato. I suoi seguaci erano profondamente convinti della «missione liberatrice» dello Stato, a tal punto che la loro credenza nello Stato assumeva talvolta forme che inducevano la stampa liberale tedesca a definire il movimento di Lassalle come uno strumento di Bismarck. Queste accuse mancavano certo di prove materiali, ma il singolare occhieggiare amoroso di Lassalle con il «Reich sociale» bastava a renderle più che plausibili. All’estero si ha spesso la convinzione che la Germania sia stata la nazione più marxista del mondo, e la barbara lotta dei nuovi potenti contro il cosiddetto «marxismo» ha rafforzato in molti questa opinione. In realtà le cose stanno in modo del tutto diverso: il numero dei marxisti autentici era molto esiguo anche in Germania e le posizioni politiche della socialdemocrazia erano influenzate dalle idee di Lassalle più che da quelle di Marx ed Engels.

Marx aveva sì dichiarato che la presa del potere politico era la prima premessa per la realizzazione del socialismo, però lui sosteneva il punto di vista per cui lo Stato, appena avesse compiuto la sua missione di eliminare le classi e i monopoli dalla società, dovesse scomparire per lasciar posto a una società senza governo. Questa era un’illusione che fu sconfessata completamente dall’esperienza bolscevica in Russia, perché lo Stato non solo protegge, bensì mantiene e crea monopoli, assieme al dominio di classe nella società. Comunque Marx aveva preconizzato la fine dello Stato, Lassalle invece era un entusiasta sostenitore dell’idea di Stato ed era disposto a sacrificargli ogni libertà personale del cittadino. Da lui hanno ereditato la loro ardente fede nello Stato i socialisti tedeschi, assieme a gran parte delle loro tendenze liberticide. Da Marx presero solo la fede fatalistica nell’ineluttabile forza dei rapporti economici, che, come tutti i fatalismi, paralizzava la volontà e soffocava sistematicamente nelle masse ogni desiderio di una vera azione rivoluzionaria” [56].

 

 

Fig. 6: Immagini della cosiddetta “rivolta spartachista” nella Berlino del gennaio 1919, uno dei primi momenti nella Storia di violenta contrapposizione tra socialdemocratici e comunisti. La rivolta vide scontrarsi principalmente il moderato Partito Socialdemocratico di Germania (SPD) e la sinistra “radicale” rappresentata dal “Revolutionäre Obleute” (Sindacato Rivoluzionario) e dai comunisti del Partito Comunista di Germania-Spartachista (KPD-S) appena formatosi.

 

VIII) La catastrofe del movimento operaio: dalla 'peste' fascista all'alba della II Guerra Mondiale

 

I rapporti conflittuali tra il neonato movimento comunista (ovvero l’Internazionale Comunista o Comintern, fondata nel 1919) e il risorto raggruppamento socialdemocratico e socialista (ossia l’Internazionale Operaia e Socialista o IOS, rifondata nel 1923 unendo i due tronconi socialisti separati dalla I Guerra Mondiale: quello “riformista” e quello “centrista”) sono ben noti agli storici del ‘900 [57] e, fino al secondo conflitto mondiale, alternano fasi di scontro aperto a periodi di ostilità più misurata, per terminare poi con la celebre alleanza antifascista dei “Fronti Popolari” del 1934-35. Ma non ci soffermeremo su queste vicende perché, nonostante la loro importanza nella storia del movimento operaio e socialista, aggiungono molto poco allo sviluppo delle concezioni marxiste dello Stato ormai sedimentate all’interno delle due Internazionali nelle forme alternative viste nella sezione precedente: rispettivamente, la “dittatura del partito proletario per tramite dei soviet” e la “democrazia sociale”. All’opposto, sono i gruppi dissidenti che fuoriuscirono “a sinistra” di tali compagini politiche ad aver fornito strumenti concettuali rilevanti per comprendere le due escrescenze più vistose della generale tendenza all’ipertrofia dello Stato capitalista del periodo interbellico: il fascismo italo-tedesco-giapponese e lo stalinismo sovietico.

Nell’ambito comunista si parla di norma di tre ‘Opposizioni di Sinistra’ che successivamente entrarono in rotta di collisione con la dirigenza sovietica e, quasi automaticamente, con quella del Comintern a quest’ultima del tutto assoggettata: l’Opposizione di Sinistra Tedesco-Olandese (1921), l’Opposizione di Sinistra Russa (1927) e l’Opposizione di Sinistra Italiana (1930), dove la data tra parentesi indica l’anno di rottura definitiva ed espulsione dal movimento “comunista” ufficiale. In ambito socialista il discorso è invece più sfumato e misconosciuto, ma non per questo meno interessante: quando nel 1923 i socialisti “centristi” dell’Unione dei Partiti Socialisti per l’Azione Internazionale (o Unione di Vienna), animata principalmente dalla SFIO francese, dalla USPD tedesca e dalla SDAPÖ austriaca, decisero di fondersi con la ricostituita Seconda Internazionale, alcuni partiti minori e piccoli gruppi rifiutarono tale ricongiungimento per il carattere riformista e social-patriottico dei socialdemocratici scandinavi e tedeschi, nonché dei labouristi britannici. Tennero una prima conferenza a Berlino, dal 28 al 30 dicembre del 1924, la quale si concluse con la costituzione di un Bureau Internazionale di Informazione dei partiti socialisti rivoluzionari’ con sede a Vienna, il quale veniva così a contrapporsi vivacemente sia allo IOS sia al Comintern. Erano presenti: la piccola minoranza dell’USPD vicina a Theodor Liebknecht, che si era rifiutata sia di riunificarsi con la SPD sia di entrare nella IOS, i Socialisti Rivoluzionari russi e lituani, il Partito Socialista Indipendente di Romania e il Bund ebraico-polacco. Una nuova conferenza ebbe luogo, all'inizio del 1926 a Parigi, e da essa scaturì un Bureau allargato a nuovi aderenti (il Partito Operaio Norvegese e il Partito Socialista Comunista Francese), del quale fu eletta segretaria Angelica Balabanoff [58]. Esso stabilì a Parigi la sua nuova sede e da allora tale Ufficio fu definito anche come il ‘Bureau di Parigi’. I comunisti invece denominarono questa nuova organizzazione dei socialisti di sinistra “l’Internazionale due e tre quarti”, continuando il sarcasmo con cui Karl Radek aveva battezzato l’Unione dei Partiti Socialisti per l’Azione Internazionale con il nomignolo canzonatorio di “Internazionale due e mezzo”. Gli aderenti al Bureau di Parigi si consideravano infatti come i veri continuatori dell’Internazionale di Vienna e reclamavano l’unità del movimento operaio, specialmente nella lotta contro l’autoritarismo ungherese e il fascismo italiano. Se è vero che l’esiguità delle forze numeriche non consentirà mai loro di poter incidere concretamente sulla realtà politica europea, tuttavia all'inizio degli anni ‘30 il Bureau di Parigi riuscirà ad intercettare una serie di frange consistenti e molto radicalizzate in uscita dal moderatismo della IOS (per esempio, l’ILP britannico, la SAP tedesca e il POUM spagnolo) ed evolverà rapidamente nel Centro Marxista Rivoluzionario Internazionale (1932-40), anche noto come Bureau di Londra’ o ‘Internazionale 3½’, tutt’altro che irrilevante, come vedremo più avanti discutendo della guerra civile spagnola.

 

Le quattro opposizioni di sinistra appena citate ebbero percorsi quasi paralleli nel corso del periodo di cui stiamo parlando (approssimativamente tra il 1922 e il 1939), ma non mancarono tentativi di avvicinamento, spesso infruttuosi, e contatti reciproci. Le famose lettere dell’italiano Amadeo Bordiga al russo Lev Trockij (2 marzo 1926) e al tedesco Karl Korsch (28 ottobre 1926) [59] sono solo due esempi. Ma la complessa vicenda di Michelangelo Pappalardi o la polemica sulla guerra civile spagnola del gruppo di esuli comunisti italiani legati alla rivista di opposizione Bilan, stanno a dimostrare la sostanziale impossibilità di conciliare le posizioni della Sinistra Comunista Italiana con quelle dei cosiddetti “Comunisti dei Consigli” di ascendenza tedesco-olandese, oppure con la proiezione estera dell’Opposizione di Sinistra Russa (nota successivamente come Opposizione di Sinistra Internazionale o “Trotzkista”). Un discorso diverso, che qui però possiamo appena menzionare en passant, è la lunga e tormentata relazione tra Trockij e il Bureau di Londra: il primo andava sostenendo dal gennaio del 1933 che le politiche del Comintern del cosiddetto “terzo periodo” (1928-1933) avevano, seppur involontariamente, contribuito all’ascesa al potere di Hitler in Germania. Ben presto (già a maggio del 1934) il rivoluzionario russo aggiunse che l’auspicata svolta verso i Fronti Popolari, con l'intenzione di riunire tutte le forze antifasciste (comprese quelle liberal-democratiche), avrebbe seminato in realtà pericolose illusioni nel riformismo e nel pacifismo. In effetti Trockij era già convinto da anni che il Comintern fosse caduto irrimediabilmente nelle mani della burocrazia russa e così sia lui che i suoi sostenitori all’estero, una volta espulsi dai rispettivi partiti comunisti, decisero di partecipare a una delle conferenze del Bureau di Londra. Tre dei partiti di questa organizzazione si unirono all'Opposizione di Sinistra Internazionale firmando un documento redatto da Trockij in cui si lanciava un appello per la fondazione di una “Quarta Internazionale”. Il testo, dell’agosto del 1933, diventerà noto come la "Dichiarazione dei 4"  [60]. Due di questi partiti si ritirarono ben presto dall’accordo, ma il Partito Socialista Rivoluzionario olandese (prima RSP e poi RSAP), sotto la guida del capace Henk Sneevliet, si impegnò seriamente insieme all’Opposizione di Sinistra Internazionale a dar vita ad una nuova lega comunista internazionale. Però questa posizione fu contestata da Andrés Nin (leader dell’Opposizione di Sinistra Internazionale in Spagna) e da altri membri della sua fazione, i quali non accettavano l'idea di lanciare subito un appello pubblico per la fondazione di una nuova internazionale. Questi dirigenti da un lato preferivano l'idea di una fusione con altre formazioni della dissidenza comunista verso Stalin, principalmente l’Opposizione Comunista Internazionale di “destra” (formata da ex-seguaci di Bucharin), che Trockij considerava una organizzazione “centrista”; dall’altro erano consci che la fondazione immediata di una nuova internazionale sarebbe stata vista da molti lavoratori vicini alla IOS e al Comintern come una provocazione degna del massimo disprezzo. Così, nonostante la posizione contraria di Trockij, il Blocco Operaio e Contadino (BOC), vicino alla Opposizione Comunista Internazionale di “destra” e la sinistra comunista spagnola si fusero nel 1935, formando il Partito Obrero de Unificacion Marxista (POUM). Trockij, che lo stesso anno ribadì la necessità di procedere verso la Quarta Internazionale con la famosa “Lettera Aperta per la Quarta Internazionale” [61], dichiarò che questa fusione operata in Spagna non era affatto un successo, ma solo una resa al “centrismo”. In maniera alquanto sbrigativa, dopo la violenta repressione del POUM nel 1937, si permise anche di sostenere che ciò era accaduto proprio a causa (piuttosto che nonostante…) l’unione con i “centristi” del BOC.  Poi procedette, senza però l’appoggio di veri partiti di massa (dato che anche il RSAP di Sneevliet si era ritirato dall’impresa) a fondare la Quarta Internazionale nel 1938 sulla celebre base programmatica de “Il programma di transizione” [62], intitolato in realtà “L’agonia mortale del capitalismo e i compiti della Quarta Internazionale”.

 

Questo documento, che secondo l’autore avrebbe dovuto superare la vecchia dicotomia “centrista” tra programma minimo e programma massimo, è anche illuminante circa le idee di Trockij nel 1938 relativamente al ventennio di esistenza dell’URSS, che lui stesso aveva contribuito a fondare e dirigere, almeno nel periodo 1917-1923. Esso riprende un saggio ben più vasto, “La rivoluzione tradita”, scritto nel 1936 [63], dove viene introdotto il concetto di “Stato operaio degenerato”, ossia di una società virtualmente in transizione dal capitalismo al socialismo, ma bloccata ed incapace di evolvere a causa della presenza di enormi escrescenze burocratiche (sia partitiche, sia amministrative, sia militari), soffocanti e tiranniche nei confronti dei lavoratori, ma timide e remissive verso l’imperialismo capitalista internazionale. Trockij non accetta infatti la caratterizzazione dell’URSS come “capitalismo di Stato” e, di conseguenza, non ammette che la burocrazia stalinista rappresenti né una nuova classe sfruttatrice, né una forma moderna di classe borghese collettiva. Essa sarebbe solo uno strato estremamente influente e privilegiato della classe sociale dei lavoratori salariati. Per tenere questa posizione è però costretto ad iniettare dosi massicce di sociologia accademica nella sua visione del marxismo, spaziando dalla dottrina paretiana delle élites fino ai profondi studi weberiani sulla inevitabile crescita della burocrazia nello Stato moderno. Rispetto ai sociologi che abbiamo citato, Trockij ha però un problema aggiuntivo: spiegare la genesi di tale strato sociale burocratico a partire dal modello di superiore “democrazia dei soviet” che Lenin aveva così convintamente proposto in “Stato e rivoluzione” [64] come la forma “finalmente trovata” di dittatura del proletariato, contrapposta alla dittatura della borghesia nelle decadenti “democrazie parlamentari” occidentali.  Comprendendo il carattere delicatissimo di tale passaggio, il rivoluzionario russo percorre due strade diverse in modo sequenziale. Inizialmente incolpa le devastazioni della guerra civile, l’accerchiamento della giovane Russia sovietica ad opera di forze militari filo-imperialiste e la generale arretratezza economica di questa nuova realtà statale, ma non può calcare troppo la mano su questi punti per non prestare il fianco alla pericolosa accusa di ‘menscevismo’. Infatti, se avesse evidenziato troppo l’immaturità della Russia per una rivoluzione che non fosse stata solo “democratico-borghese”, avrebbe dato implicitamente ragione a Martov e Kautsky, implacabili avversari della Rivoluzione d’Ottobre, e, soprattutto, avrebbe parzialmente contraddetto la sua teoria della “Rivoluzione Permanente” [65], alla quale restò intellettualmente legato per tutta la vita. Non gli resta quindi che una sola via da seguire, quella già in parte percorsa ai tempi della sua durissima lotta contro il concetto di “socialismo in un solo paese” di Bucharin e Stalin nel 1925-26 e condivisa anche da Bordiga. Secondo Trockij, infatti, l’isolamento dell’URSS, principalmente a causa della fallita rivoluzione tedesca nel 1918-21, unito all’arretratezza economica e alle devastazioni della guerra, dà origine alla burocrazia, la quale però, si promuove, cresce e si istituzionalizza proprio nella rinuncia de facto al progetto di rivoluzione mondiale. Accettando l’idea del “socialismo in un solo paese” essa di fatto preannuncia l’era della coesistenza pacifica tra URSS e imperialismo mondiale. Così si conclude il ragionamento dell’autore sul legame organico tra la burocrazia sovietica e la rinuncia alla rivoluzione mondiale:

“Avendo tradito la rivoluzione mondiale, ma sentendosi ancora fedele ad essa, la burocrazia “termidoriana” [stalinista - nota del traduttore -] ha diretto i suoi sforzi principali verso la "neutralizzazione" della borghesia. Per far questo era necessario sembrare un baluardo dell'ordine: moderato, rispettabile ed autentico. Ma per sembrare veramente qualcosa e per molto tempo, devi esserlo. E a questo ci ha pensato l'evoluzione organica dello strato sociale dirigente. Così, ritirandosi passo dopo passo davanti alle conseguenze dei propri errori, la burocrazia è arrivata all'idea di assicurare l'inviolabilità dell'Unione Sovietica includendola nel sistema euro-asiatico dello ‘status quo’. Cosa ci sarebbe stato di meglio, in fin dei conti, di un eterno patto di non aggressione tra socialismo e capitalismo? L'attuale formula ufficiale della politica estera, ampiamente pubblicizzata non solo dalla diplomazia sovietica, che è autorizzata a parlare nella lingua abituale della sua professione, ma anche dall'Internazionale Comunista, che invece dovrebbe parlare il linguaggio della rivoluzione, recita: «Noi non vogliamo un centimetro di terra straniera, ma non rinunceremo a un centimetro della nostra». Come se fosse una questione di mere liti per un po' di terra, e non della lotta mondiale tra due sistemi sociali inconciliabili” [66].

L’insufficienza di questa interpretazione dei modelli socioeconomici del cosiddetto “socialismo reale” emerse in modo eclatante dopo la Seconda Guerra Mondiale con la Guerra Fredda, la sovietizzazione dell’Europa Orientale e le rivoluzioni iugoslava e cinese, ma ciò riguardò i trotzkisti e non più Trockij, che era già stato brutalmente assassinato nel 1940 a colpi d’ascia da un sicario di Stalin. C’è comunque da prendere atto della flessibilità teorica del maestro rispetto al dogmatismo sterile e ripetitivo di molti suoi discepoli. Infatti, il rivoluzionario russo, pur negando decisamente la natura capitalista dell’URSS di quegli anni, ammette il carattere intrinsecamente instabile del supposto “Stato operaio degenerato” e non esclude, soprattutto negli scritti del 1940, una possibile evoluzione sovietica verso una vera e propria restaurazione capitalista completa [67].

 

Un altro punto interessante de “La rivoluzione tradita” e de “Il programma di transizione” è certamente l’uso continuo di paragoni tra la Rivoluzione Francese del 1789-94 e la Rivoluzione Russa del 1917-24, soprattutto per ciò che riguarda l’arrivo al potere dell’entourage di Stalin confrontato con il Direttorio del cosiddetto “colpo di Stato del 9 Termidoro”, moderato e antigiacobino. Fino a qui i parallelismi sono suggestivi, ma essenzialmente retorici, mentre è nella categoria del “bonapartismo”, chiaramente ispirata dal noto scritto di Marx del 1852 “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, che Trockij riversa la sua originale interpretazione del fenomeno europeo del fascismo. Tale visione, espressa in maniera compiuta in due noti articoli: “Bonapartismo e fascismo” [68] e “Contro il Fronte Popolare” [69], rispettivamente del 1934 e del 1935, arricchisce ma non sostituisce la visione del fascismo tipica della Terza Internazionale, parzialmente abbozzata già dai tempi della “Marcia su Roma” italiana del 1923. Secondo la vulgata comunista, cristallizzatasi definitivamente nel VII congresso del 1935, i fascismi rappresentano il tentativo di Stati sconfitti militarmente (Germania), o di recente sviluppo (Giappone), o economicamente arretrati rispetto alla situazione nord-europea (Italia), di portare avanti in modo molto aggressivo una politica imperialista nei confronti dei paesi vicini più deboli, anche a costo di sfidare l’influenza delle grandi potenze imperialiste e colonialiste. A tale scopo, dato il carattere ostile (o comunque non favorevole) a tali progetti da parte del movimento operaio organizzato, il suo sistematico e violento smantellamento s’imporrebbe come prerequisito proprio per la promozione dell’imperialismo voluta dai fascismi. Ora, secondo Trockij, questa analisi, tutta fondata sulla politica estera e sulle varie proiezioni coloniali o, più genericamente, imperialiste, non è errata, ma è incompleta, in quanto rischia di confondere il “nazionalismo” con il “fascismo” e, soprattutto, sembra incapace di inquadrare correttamente il fenomeno dei “semi-fascismi” e dei “fascismi minori” (o “clerico-fascismi”), come quelli in Ungheria, Polonia, Portogallo, Austria ecc. In effetti, vi sarebbe un’origine endogena del fascismo, visto come fase successiva o conclusiva del fenomeno del “bonapartismo” (di marxiana memoria): quando la società è dilaniata da un conflitto sociale tra classi antagoniste (per esempio, la borghesia contro i lavoratori salariati e i piccoli contadini) incapace di concludersi, allora vi è quasi spontaneamente la formazione di un “governo forte” (spesso animato da un “uomo forte”) che si pone apparentemente come arbitro tra le classi, favorendo ovviamente, in ultima istanza, quelle dominanti. Già Marx credeva infatti che un regime bonapartista potesse esercitare un grande potere solo in assenza di una classe sociale abbastanza forte e sicura di sé per stabilire fermamente la propria egemonia. In tal caso, un leader in grado di elevarsi al di sopra dei conflitti sociali poteva assurgere al potere in una situazione per sua stessa natura instabile, in quanto tale leader, in apparenza quasi onnipotente, sarebbe stato messo da parte non appena il conflitto sociale si fosse risolto. Per ovviare a questa debolezza, Trockij notava l’evoluzione di alcune forme di bonapartismo verso regimi più radicati e istituzionalizzati, ovvero i “fascismi” veri e propri di Italia e Germania. Una forma tutta peculiare di bonapartismo sarebbe poi quella staliniana, in quanto in questo caso Stalin e la sua cricca burocratica si ergerebbero come “arbitri” tra i lavoratori sovietici e la borghesia imperialista internazionale.

 

Una visione radicale e organica su fascismo e stalinismo, ma completamente alternativa all’approccio trotzkista, è quella elaborata da un gruppo di intellettuali marxisti partecipanti a vario titolo alla Sinistra Comunista Tedesco-Olandese, anche nota con il nome di tendenza dei “Comunisti dei Consigli”. Nonostante la scarsa entità numerica di tali organizzazioni, se si eccettua il periodo 1920-22 in Germania, la statura degli intellettuali ad esse legati, come Antonie Pannekoek, Otto Rühle, Karl Korsch e Paul Mattick, è piuttosto notevole. Prima di presentare brevemente le loro posizioni sui fenomeni politico-sociali dello stalinismo e del fascismo è però necessario spiegare come i comunisti dei consigli vennero alla luce. Nati ufficialmente in Germania col nome di Kommunistische Arbeiter-Partei Deutschlands (KAPD) nell’aprile del 1920 da una scissione di sinistra del KPD (Kommunistische Partei Deutschlands), si trattava principalmente di militanti molto radicali che si opponevano all’accordo di Bielefeld (24 marzo 1920) tra KPD e governo di Weimar per porre fine alla cosiddetta Ruhraufstand (rivolta della Ruhr). La questione era in quel periodo molto pratica in quanto la KPD, guidata dal moderato Paul Levi, aveva alla fine accettato il disarmo della cosiddetta “Armata Rossa della Ruhr”, una milizia operaia forte di circa 70.000 uomini, nata per opporsi al tentato golpe militare di Wolfgang Kapp, ma coinvolta poi in sanguinosi scontri con le forze (militari e paramilitari) fedeli a Weimar in cui erano stati trucidati almeno 1.600 operai. Il gruppo berlinese prese l’iniziativa di convocare un congresso della ex-minoranza comunista di sinistra decidendo rapidamente di formare la KAPD in rappresentanza di 80.000 iscritti della KPD, situati principalmente a Berlino, Amburgo, Brema e nella Sassonia orientale. Il partito appena formato decise subito la fine di tutte le attività parlamentari e la lotta attiva contro lo Stato borghese, lavorando a stretto contatto con l'Unione generale dei lavoratori della Germania (AAUD), un’organizzazione di fabbrica influenzata dagli Industrial Workers of the World (IWW) statunitensi e ostile ai vecchi sindacati di mestiere, la quale predicava la formazione generalizzata dei Räte (consigli operai). Benché assai critici delle varie manovre politico-parlamentari della KPD, del suo “corteggiamento” dell’ala sinistra della USPD, e del suo pessimo risultato elettorale (2,1%) nel giugno del 1920, la KAPD fu tutto sommato abbastanza leale con gli ex-compagni comunisti “ufficiali”, per esempio partecipando attivamente alla fallimentare “Azione di marzo” quando, sotto l’esplicita influenza del Comintern,  i comunisti tedeschi tentarono di “forzare il corso della rivoluzione” sollevando gli operai, tramite uno sciopero generale insurrezionale, contro un governo ed un parlamento ancora abbastanza fragili. Male organizzata e in minoranza tra i lavoratori, la rivolta si concluse con un fallimento che indebolì notevolmente il movimento comunista in Germania, almeno fino all’ultima crisi prerivoluzionaria tedesca, quella della celebre Ruhrbesetzung (l’occupazione della Ruhr) e dei successivi “scioperi anti-Cuno” nel 1923. Certo, non piacevano a molti dirigenti della KPD i metodi violenti del “guerrigliero” consiliarista Max Hölst, il quale alla fine del 1920 organizzò una banda armata di circa 50 uomini che si adoperò a liberare i militanti operai imprigionati dopo la fallita rivolta della Ruhr. Nel marzo del 1921 aveva organizzato addirittura diverse azioni terroristiche, in particolare un attentato dinamitardo contro il municipio di Falkenstein/Vogtland in Sassonia, un’azione che forse aveva allontanato un buon numero di lavoratori indecisi piuttosto che avvicinarli all’idea dell’insurrezione.

 

Tuttavia, i rapporti più difficili furono quelli tra la KAPD e il Comintern, del quale essa era solo partito simpatizzante e non membro ufficiale come invece la KPD. La vicenda è piuttosto complessa e vi giocarono un ruolo essenziale Otto Rühle da un lato e lo stesso Lenin dall’altro. Quest’ultimo, durante il II congresso del Comintern (19 luglio - 7 agosto 1920), fece distribuire a tutti i delegati convenuti (prima a Pietrogrado e poi a Mosca) una copia della seconda edizione del suo opuscolo (scritto principalmente all’inizio del 1920) contro le tendenze settarie, astensioniste ed antisindacali nel neonato movimento comunista, da lui chiamate un po’ genericamente “estremiste”. Il titolo del pamphlet è in effetti emblematico: “Estremismo, malattia infantile del comunismo” [70]. Malauguratamente questa nuova edizione conteneva, in aggiunta ai vecchi tre capitoli (dal 5° al 7°) dedicati all’ala “luxemburghista” della KPD prima della scissione, già molto duri, un’appendice esplicitamente concentrata sulla scissione della KPD e sulla nascita dalla KAPD. È naturale che la cosa non fosse recepita in modo molto positivo dai “comunisti dei consigli”, soprattutto perché Lenin citava largamente, insieme a Karl Horner (pseudonimo dello stimato teorico marxista olandese Antonie Pannekoek), un vecchio articolo del nazional-bolscevico Karl Erler (psedonimo di Heinrich Laufenberg, rapidamente espulso dalla KAPD nell’agosto 1920) che non veniva in alcun modo considerato indicativo delle posizioni ufficiali dell’organizzazione. Le parole di Lenin, forse non del tutto conscio dell’identità tra Horner e Pannekoek, erano in effetti veramente sferzanti e offensive:

“I più confusi tra i sindacalisti e gli anarchici dei paesi latini possono trarre ‘soddisfazione’ dal fatto che i solidi tedeschi, che evidentemente si considerano marxisti (con i loro articoli nel suddetto giornale [la ‘Kommunistische Arbeiterzeitung’ di Amburgo - nota del traduttore -] K. Erler e K. Horner hanno mostrato assai chiaramente che si considerano dei veri marxisti, ma in effetti dicono incredibili sciocchezze in un modo molto ridicolo e rivelano la loro incapacità di comprendere l'ABC del marxismo), arrivano al punto di fare affermazioni assolutamente inutili. La semplice accettazione del marxismo non salva dagli errori. Noi russi lo sappiamo particolarmente bene, perché il marxismo è stato molto spesso la ‘moda’ nel nostro paese” [71].

La risposta informale all’“Estremismo” leniniano fu affidata a un olandese, il celebre poeta socialista Herman Gorter, membro di primo piano sia della KAPD sia della Kommunistische Arbeiders-Partij Nederland (KAPN), un piccolo partito gemello del precedente, nato nei Paesi Bassi da una scissione del locale partito comunista. Gorter aveva avuto in precedenza parecchi scambi epistolari con Lenin, anche legati alla traduzione di “Stato e rivoluzione” in lingue estere, e per questo alla fine dell’agosto 1920 indirizzò un appello, franco e cordiale, al vecchio leader bolscevico: “Lettera aperta al compagno Lenin” [72]. Essa era ancora basata, essenzialmente, su divergenze tattico-strategiche (parlamento, sindacati ecc.) piuttosto che programmatico-ideologiche, benché già filtri in modo abbastanza evidente una certa intolleranza per il ruolo egemone dei bolscevichi russi nel movimento comunista mondiale, per la burocrazia partitica e per il forte interesse del Comintern nei confronti del mondo rurale. I seguenti punti conclusivi di tale lettera aperta saranno sufficienti a restituirci lo spirito della polemica gorteriana:

“1. La tattica della rivoluzione nell'Europa occidentale deve essere diversa da quella della Rivoluzione russa.

2. Perché qui il proletariato è da solo.

3. Qui il proletariato deve fare la rivoluzione autonomamente, contro tutte le altre classi.

4. L'importanza delle masse proletarie è quindi relativamente maggiore, e quella dei dirigenti minore, che in Russia.

5. Di conseguenza, qui il proletariato deve disporre delle migliori armi per la rivoluzione.

6. I sindacati, essendo armi insufficienti, devono essere sostituiti o trasformati in organizzazioni industriali, che siano unite in una lega.

7. Poiché il proletariato deve fare la rivoluzione da solo, senza aiuto, deve elevarsi molto in alto sia moralmente che spiritualmente. È meglio quindi non usare il parlamentarismo nella rivoluzione. Marx aveva imparato dalla Comune di Parigi che il proletariato non può usare o impadronirsi dello Stato borghese per la rivoluzione. Così l’“ala sinistra” [cioè la KAPD - nota del traduttore -] ha imparato dai russi, dai tedeschi, dagli ungheresi, dalla rivoluzione mondiale, che il proletariato non può usare i vecchi partiti socialisti, né i vecchi sindacati per portare a termine la rivoluzione” [73].

In effetti Herman Gorter, Karl Schröder e una parte del KAPD erano ancora incerti sui rapporti da tenere con il Comintern e le sue organizzazioni in Germania e nei Paesi Bassi, e scrissero di nuovo a Lenin dopo la fallita “Azione di marzo”, vista come il classico risultato di un pasticcio burocratico-partitico orchestrato a tavolino dagli intriganti emissari del Comintern (Béla Kun e Karl Radek in primis) e virtualmente “tradito” dal segretario stesso della KPD, il moderato Paul Levi, che non vi aveva mai creduto fino in fondo. Questo fu anche l’argomento dell’importante intervento della KAPD al III congresso mondiale del Comintern (giugno-luglio 1921) che venne poi condensato nella relazione al Comitato Centrale del partito [74] i cui punti salienti furono:

“Le 21 Condizioni del Secondo Congresso sono ora ancor meno capaci di quanto non fossero in precedenza di fornire qualsiasi tipo di sicurezza contro una futura corruzione riformista.

Dopo la creazione e l’ammissione dei grandi partiti di massa, la Terza Internazionale ha bisogno, ora più che mai, della presenza di un’opposizione rivoluzionaria puramente proletaria.

Una tale opposizione non può essere efficace se è sopraffatta dall’apparato e dal numero di voti di un partito che vuole (in linea di principio), a qualunque costo, unificare dietro di sé le masse e quindi non può che essere (e deve essere) riformista.

Il Partito Comunista Unificato (VKPD) [unione della KPD con l’ala sinistra della USPD – nota del traduttore], in particolare, rimane ancora oggi, in relazione ai suoi principi tattici, nel campo di Paul Levi. La sua stessa ala sinistra è abitualmente prigioniera di un fatale autoinganno.

In conclusione, in tutti i partiti del Comintern si stanno formando correnti legate al KAPD. Ma non possono continuare a crescere nell’interesse della rivoluzione proletaria e dell'Internazionale, a meno che il KAPD non continui a sussistere come partito indipendente all'interno dell’Internazionale Comunista” [75].

 

Però un altro settore del partito, quello libertario, stava sviluppando un atteggiamento antibolscevico in maniera più netta e programmatica sotto l’influsso di Otto Rühle, di cui è importante spiegare l’azione nel 1920 la quale si esplicò in tre brevi, ma fondamentali, articoli: “La rivoluzione non è un affare di partito” (maggio 1920), “Rapporto da Mosca” (agosto 1920) e “Mosca e noi” (settembre 1920) [76]. Rühle, un marxista che non veniva certo dal mondo dell’anarco-sindacalismo, ma che era stato un esperto di “educazione operaia” nella SPD, nonché un deputato di orientamento “luxemburghiano” per questo partito, spartachista delle origini e membro del Reichstag fino al 1918, sviluppa una particolare posizione di sfiducia nella politica tradizionale dopo la fallita rivoluzione del gennaio 1919. Poco più di un anno dopo scriverà salutando la fondazione della KAPD:

“Fine anche dei partiti, della politica dei partiti, dell'inganno e della perfidia dei partiti. È un nuovo inizio per il movimento comunista, il Partito Comunista Operaio, le organizzazioni rivoluzionarie di fabbrica raggruppate nell’Unione Generale dei Lavoratori, i consigli rivoluzionari, il congresso dei consigli rivoluzionari, il governo dei consigli rivoluzionari, la dittatura comunista dei consigli” [77].

Non possiamo scendere ulteriormente nei dettagli, ma l’impressione del bolscevismo al potere ricavata da Rühle dopo il suo rocambolesco viaggio per raggiungere il II congresso del Comintern in Russia è davvero pessima. Il comunista tedesco è convinto che sia Radek che Lenin vogliano forzare il KAPD a piegarsi alla disciplina di Mosca e a tornare nel KPD. Quindi, dopo aver litigato con il primo dei due, che considera solo un folle e un buffone, ne ha persino per il leader bolscevico che saluta con un brevissimo scambio di battute:

“Mentre salutavo Lenin, gli dissi: «Spero che il prossimo Congresso della III Internazionale potrà svolgersi in Germania. Allora vi avremo portato la prova concreta che avevamo ragione. Quindi dovrai correggere il tuo punto di vista». Al che Lenin rispose ridendo: «Se così accadesse, allora saremmo gli ultimi a voler ostacolare una tale correzione». Possa accadere così!  E accadrà così!” [78].

Al netto dell’ironia, Rühle è uno dei pochi “comunisti dei consigli” a non farsi nessuna illusione sul “comunismo di guerra” sovietico precedente alla NEP. Anzi, paragonandolo al “capitalismo di Stato” prussiano del generale Ludendorff nel periodo 1914-18, scrive già nel settembre 1920 parole molto forti contro il Comintern:

 Non c'è alcuna possibilità di realizzare una seconda volta in Germania il sistema Ludendorff, anche se fosse con l’uniforme del bolscevismo. I metodi russi della rivoluzione e del socialismo sono fuori discussione per la Germania e per il proletariato tedesco. Ci opponiamo a loro. Assolutamente. Categoricamente. Sarebbero una calamità. Più di questo: sarebbero un crimine. Ci porterebbero alla rovina. Perciò non vogliamo – non possiamo – non dobbiamo avere nulla in comune con un’Internazionale che mira a proporre, anzi a imporre, i metodi russi al proletariato del mondo. Dobbiamo preservare la nostra completa libertà ed indipendenza. Il proletariato tedesco farà la sua Rivoluzione tedesca, come il proletariato russo ha fatto la Rivoluzione russa. Quello tedesco è arrivato più tardi alla rivoluzione. Dunque, deve lottare più duramente. Ma per questo arriverà prima e più sicuramente al comunismo.

Ma Rühle, oltre ad essere un profondo conoscitore di Marx e un comunista libertario intrinsecamente ostile ai metodi leninisti, è anche uno spirito inquieto. Presto si convince dell’inutilità della scissione tra KAPD (partito) e AAUD (unione operaia) e postula un ritorno ai metodi della I Internazionale con il superamento della dicotomia partito-sindacato. Lascerà quindi anche il KAPD e la AAUD nell’ottobre del 1921 per fondare insieme a Franz Pfemfert la Allgemeine Arbeiter-Union – Einheitsorganisation (Unione Generale dei Lavoratori – Organizzazione Unificata, AAU-E). Tuttavia, già nel 1923 abbandonerà per sempre la politica attiva per dedicarsi a studi di sociologia, filosofia, psicologia e storia del movimento operaio, rimanendo scrittore prolifico e comunista convinto fino alla morte, avvenuta in esilio in Messico nel 1943. Di questo periodo vanno necessariamente menzionati due lavori: “Dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione proletaria” (1924) e “La lotta contro il fascismo inizia dalla lotta contro il bolscevismo” (1939) [79], dove sono espresse in modo chiaro le concezioni rühleiane circa l’URSS e i regimi fascisti. Nel primo saggio l’autore definisce senza reticenze di sorta la Rivoluzione d’Ottobre come una piena e compiuta rivoluzione borghese, aprendo così una strada interpretativa che, successivamente, diverrà molto feconda e popolare nelle varie Opposizioni di Sinistra. Egli, infatti, conclude il terzo capitolo, intitolato “Lo Stato borghese-capitalista”, con queste parole molto chiare:

“Istituire il capitalismo ed organizzare lo Stato borghese è la funzione storica della rivoluzione borghese. La Rivoluzione russa è stata ed è una rivoluzione borghese, né più né meno: la forte mescolanza con elementi socialisti non cambia nulla di questa essenza. Quindi essa adempirà al suo compito gettando via, prima o poi, gli ultimi resti del suo "comunismo di guerra" e rivelando il volto di un vero, autentico capitalismo. Le lotte all’interno del partito bolscevico stanno preparando questa conclusione, e con essa la fine della dittatura del partito bolscevico. La linea di sviluppo - se quella di una coalizione di partiti che abbrevi e allevi la fase di lancio del capitalismo, o quella di un Bonaparte che la protragga e la aggravi - non è ancora chiara; entrambi gli scenari sono possibili” [80],

dove si prevede addirittura la possibilità di una fine “bonapartista” (ovvero “stalinista”) della NEP con quattro anni di anticipo rispetto agli eventi davvero accaduti. Nell’altro lavoro citato, scritto all’inizio della II Guerra mondiale, Rühle, forte della caratterizzazione totalmente “borghese” del bolscevismo, traccia interessanti paragoni tra quest’ultimo e i fascismi europei, andando proprio alla radice programmatica leninista mediante nove punti salienti che sembrano attagliarsi perfettamente sia allo stalinismo che al fascismo:

“1. Il bolscevismo è una dottrina nazionalista. Originariamente ed essenzialmente concepita per risolvere un problema nazionale, fu successivamente elevata a teoria e pratica di portata internazionale, nonché a dottrina generale. Il suo carattere nazionalista emerge anche nella sua posizione circa la lotta per l’indipendenza nazionale delle nazionalità oppresse.

 

2. Il bolscevismo è un sistema autoritario. Il vertice della piramide sociale è il punto determinante e più importante. L’autorità si realizza in una personalità onnipotente. Nel mito del leader l’ideale della personalità borghese celebra i suoi più alti trionfi.

 

3. Dal punto di vista organizzativo il bolscevismo è altamente centralistico. Il comitato centrale ha la responsabilità di ogni iniziativa, direzione, istruzione, comando. Come nello Stato borghese, i membri dirigenti dell'organizzazione svolgono il ruolo della borghesia e l'unico ruolo dei lavoratori è quello di obbedire agli ordini.

 

4. Il bolscevismo rappresenta una politica di potere militante. Interessato esclusivamente al potere politico, esso non è diverso dalle forme di governo nel senso tradizionale borghese. Anche nell’organizzazione partitica vera e propria non c'è alcuna autodeterminazione per i propri membri. L'esercito serve il partito e si mostra come un grande esempio di organizzazione.

 

5. Il bolscevismo è dittatura. Lavorando con la forza bruta e le misure terroristiche, dirige tutte le sue funzioni verso la soppressione di ogni istituzione e opinione non bolsceviche. La sua “dittatura del proletariato” è la dittatura di una burocrazia o, addirittura, di una singola persona.


6. Il bolscevismo è un metodo meccanico. Aspira al coordinamento automatico, alla conformità tecnicamente assicurata e al totalitarismo più efficiente come obiettivi dell'ordine sociale. L’economia centralisticamente “pianificata” confonde in modo consapevole i problemi tecnico-organizzativi con le questioni socioeconomiche.

 

7. La struttura sociale del bolscevismo è di natura borghese. Non abolisce il sistema salariale e rifiuta l’autodeterminazione proletaria relativamente ai prodotti del lavoro. Rimane quindi fondamentalmente all’interno della cornice di classe dell’ordine sociale borghese. Il capitalismo è così perpetuato.

 

8. Il bolscevismo è un elemento rivoluzionario solo nel quadro della rivoluzione borghese. Incapace di realizzare il sistema dei consigli operai, non è quindi in grado di trasformare in modo essenziale la struttura della società borghese e la sua economia. Non stabilisce il socialismo, ma il capitalismo di stato.

 

9. Il bolscevismo non è un ponte che conduce alla società socialista. Senza il sistema dei consigli, senza la rivoluzione radicale totale degli uomini e delle cose, non può soddisfare la più essenziale di tutte le richieste socialiste, che è quella di porre fine all’alienazione capitalista. Esso rappresenta l'ultima tappa della società borghese e non il primo passo verso una nuova società.

 

Questi nove punti rivelano un'opposizione incolmabile tra bolscevismo e socialismo. Dimostrano con tutta la chiarezza necessaria il carattere borghese del movimento bolscevico e la sua stretta relazione con il fascismo. Nazionalismo, autoritarismo, centralismo, dittatura dei leader, politiche di potere, dominio accompagnato dal terrore, dinamiche meccaniche, incapacità di socializzare: tutte queste caratteristiche essenziali del fascismo esistevano ed esistono ancora nel bolscevismo. Il fascismo è semplicemente una copia del bolscevismo. Per questo la lotta contro l'uno deve iniziare dalla lotta contro l'altro” [81].

 

Ma questa analisi del totalitarismo “rosso-bruno” non porta Rühle a schierarsi nel 1940 con le democrazie contro i fascismi e i loro temporanei alleati sovietici. Anzi, uno dei suoi ultimi scritti politici (“Quale dei due lati sostenere?” [82]) si conclude con queste parole di speranza nella rivoluzione proletaria:

“Nella Seconda Guerra Mondiale entrambi i fronti, quello democratico come quello fascista, rischiano di essere sconfitti: l’uno militarmente, l’altro economicamente. Da qualunque parte si schieri, il proletariato sarà tra i vinti. Perciò non deve schierarsi né con le democrazie, né con i totalitarismi. Per i rivoluzionari coscienti c'è solo una soluzione, la soluzione che rompa con tutte le tradizioni e con tutti i resti di organizzazioni del passato, che spazzi via tutte le illusioni dell'epoca borghese-intellettuale e che davvero impari dalle lezioni dello scoraggiamento e della disillusione sofferti durante la fase infantile del movimento operaio” [83].

 

Prima di concludere il nostro breve excursus sui “comunisti dei consigli” dobbiamo però tornare al KAPD, che abbiamo lasciato nel luglio del 1921 immediatamente dopo il III congresso del Comintern. Ben presto il fossato tra il partito e il Comintern divenne incolmabile e si arrivò alla rottura nel settembre 1921. Al fallimento dell’”Azione di marzo” e al ruolo nefasto giocato dal segretario della KPD Paul Levi, si sommarono vari fatti relativi all’URSS e al Comintern, giudicati dalla KAPD in modo molto negativo, quali: la repressione di Kronštadt, la sconfitta dell’Opposizione Operaia di Alexander G. Šljapnikov e Alexandra M. Kollontaj, l’inizio della NEP e la tattica del “Fronte Unico” coi sindacati socialdemocratici europei. Tuttavia, questo è anche l’inizio della crisi della KAPD con la perdita di militanti e di influenza nel mondo operaio tedesco. Nel 1922 essa si divide addirittura in due tronconi: a Berlino la parte più proletaria, ad Essen, invece, quella più intellettuale capitanata dai celebri Alexander Schwab (alias “Sachs”), Arthur Goldstein, Bernhard Reichenbach e Karl Schröder. È da notare che la creazione di un’Internazionale Comunista dei Lavoratori (la KAI), nel 1922 da parte della direzione del KAPD di Essen, non fu condivisa da quella di Berlino in quanto ritenuta troppo in anticipo sui tempi della futura rivoluzione tedesca. In questa organizzazione internazionale confluirono i gruppi di Herman Gorter e Antonie Pannekoek nei Paesi Bassi, di Sylvia Pankhurst in Gran Bretagna e altri piccoli nuclei di esuli comunisti in Belgio e in Bulgaria. Il loro manifesto pubblico “L’Internazionale comunista operaia” [84], scritto da Gorter nel 1923, benché abbastanza stringato, è estremamente importante perché vi compare per la prima volta il concetto di “rivoluzione doppia” applicata alla Russia sovietica, un concetto ripreso e ampliato da Amadeo Bordiga nel secondo dopoguerra:

“La Rivoluzione russa è diventata una nuova e potente fonte di luce per il proletariato mondiale grazie al suo duplice carattere: una rivoluzione in parte proletaria, in parte democratico-capitalista. Perché, in quanto proletaria, la rivoluzione ha mostrato al proletariato mondiale la via della vittoria. In quanto democratico-capitalista, si confrontava con nuovi ed enormi avversari. Perché gran parte del mondo è nello stesso stato della Russia. In quest'area, cioè in quasi tutta l'Asia, l'America meridionale, parti dell'America centrale e settentrionale e l'Africa, vive un proletariato sorto in un ambiente contadino. La rivoluzione minaccia in diversi luoghi. Operai e contadini prenderanno parte a questa rivoluzione” [85].

Tuttavia, questa interpretazione dell’Ottobre rosso si dimostrerà estremamente instabile e quando negli anni ’30 i “comunisti dei consigli” diverranno una presenza sporadica ed organizzata solo in piccoli gruppi di studio e propaganda, la posizione rühleiana si diffonderà rapidamente anche tra i successori della KAPD in Germania e della KAPN nei Paesi Bassi. L’esempio più illustre è forse quello delle celebri “Tesi sul bolscevismo” di Helmut Wagner (1934), prodotte nell’ambito del gruppo tedesco dei Rote Kämpfer, oppure l’articolo “La legenda di Lenin” (1935) dell’ex-militante della KAPD poi emigrato negli USA, Paul Mattick.

 

Proprio con Mattick, interessantissima figura di operaio-intellettuale estremamente versato nel marxismo e nell’economia politica, vogliamo terminare questa II parte del nostro lavoro. Infatti, il durissimo necrologio mattickiano “Kautsky: da Marx a Hitler” (1939) [86] rappresenta, pur nella sua schematicità, una lucidissima analisi del fallimento del socialismo europeo alla luce del nazi-fascismo: quest’ultimo realizzerebbe de facto, benché in modo spiccio e brutale, esattamente ciò che la socialdemocrazia tedesca aveva predicato per decenni senza aver la forza di costruirlo: il “capitalismo organizzato” propugnato dall’esperto economico della SPD post-bellica, Rudolf Hilferding:

“Un'attenta analisi di ciò che i socialisti volevano effettivamente fare e non hanno mai fatto, confrontato con le politiche in vigore dal 1933, rivelerà a qualsiasi osservatore obiettivo che Hitler non realizzò altro che il programma della socialdemocrazia, ma senza i socialisti. Come Hitler, la socialdemocrazia e Kautsky erano contrari sia al bolscevismo che al comunismo. Anche un sistema capitalista di stato completo come quello russo è stato respinto da entrambi a favore del mero controllo pubblico. E quanto è necessario per realizzare un tale programma non è stato neppure osato dai socialisti, ma viene intrapreso dai nazi-fascisti. L’antifascismo di Kautsky illustrava solo il fatto che, proprio come una volta egli non poteva immaginare che la teoria marxista potesse essere integrata con una pratica marxista, in seguito non poté vedere che una politica di riforma capitalista richiedeva una pratica di riforma capitalista, la quale risultò essere proprio la prassi fascista. La vita di Kautsky può insegnare agli operai che nella lotta contro il capitalismo fascista è necessariamente contenuta la lotta contro la democrazia borghese, la lotta contro il kautskismo. La vita di Kautsky può, in tutta verità e senza malizia, essere riassunta nelle parole: da Marx a Hitler” [87].

 

E coerentemente con questa visione, Mattick, esprimendosi sugli eventi della guerra civile spagnola 1936-39, rimase estremamente diffidente sia rispetto all’alleanza tra democratici, socialdemocratici e bolscevichi (il noto “Fronte Popolare”), sia rispetto ai dissidenti ex-trotzkisti del POUM, che egli vide come dei potenziali “bolscevichi” iberici. Pur restando rigorosamente marxista, il comunista tedesco si schiererà quindi con gli anarchici della Federación Anarquista Ibérica (FAI) e gli anarco-sindacalisti della Confederación Nacional del Trabajo (CNT), che gli appariranno, un po’ come i residui degli IWW negli USA, il male minore per ciò che riguarda la tanto bramata autonomia politica del proletariato [88]. Tuttavia, di lì a poche settimane, con l’ingresso nel novembre del 1936 di quattro ministri della FAI-CNT nel governo repubblicano, anche la speranza nell’anarchismo spagnolo svanirà. I tragici scontri all’interno del fronte antifascista, i quali videro contrapposti socialisti, comunisti e radical-democratici da un lato, ed anarchici ed ex-trotzkisti dall’altro, lo troveranno quindi del tutto disilluso [89]:

“Un mutamento della situazione militare in Spagna potrebbe costringere il “fascismo” di Mosca ancora una volta a rivestire l’abito rivoluzionario. Ma dal punto di vista degli interessi degli operai spagnoli, come pure degli operai del mondo, non c'è differenza tra il franco-fascismo e quello moscovita, per quanto possa esserci qualche differenza tra Franco e Mosca. Le barricate, se erette di nuovo, non dovrebbero essere abbattute. La parola d’ordine rivoluzionaria per la Spagna è: abbasso i fascisti e abbasso anche i repubblicani lealisti. Per quanto futile, vista l'attuale situazione mondiale, possa essere il tentativo di lottare per il comunismo, tuttavia, questa è l'unica strada da seguire per i lavoratori. Meglio il senso di futilità che l'energia morbosa che si consuma su false strade. Conserveremo il nostro senso della verità, della ragione a tutti i costi, anche a costo della futilità” [90] .

 

 

Dan Kolog

 

 


Fig. 7: Combattenti anarchici della CNT-FAI nel maggio del 1937 durante la Guerra Civile Spagnola. Proprio in quel frangente a Barcellona scoppiarono violenti scontri all’interno della coalizione antifascista, i quali videro contrapposti socialisti, comunisti e radicali da un lato, ed anarchici e ex-trotzkisti dall’altro. In concomitanza con questa rivolta, iniziarono le epurazioni politiche, tra le quali ricordiamo quelle del comunista dissidente Andrès Nin e dell’anarchico Camillo Berneri.



[1] Karl Kautsky Il Programma di Erfurt (La Nuova Sinistra - Samonà e Savelli, Roma, 1971).

[2] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori Riuniti, Roma, 1977).

[3] Karl Kautsky Il Programma di Erfurt (La Nuova Sinistra - Samonà e Savelli, Roma, 1971).

[4] Non si pensi che la stringatezza delle posizioni socialiste sullo Stato sia appannaggio esclusivo della SPD tedesca. Il celebre “programma di Genova” (1892) del Partito Socialista Italiano, più o meno coevo a quello di Erfurt, si limita a questa lapidaria formulazione, appena più incisiva di quella socialdemocratica:

“(…) II) di una lotta più ampia e intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, ecc.) per trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante (…)”.

[5] Per il concetto di capitalismo oligopolista “post-manchesteriano” si veda l’articolo divulgativo da poco messo in rete: “MANCHESTER, ADDIO! LA SCUOLA ECONOMICA MARXISTA E IL LUNGO CORSO DEL CAPITALISMO POST-MANCHESTERIANO” di Dan Kolog (20-01-2023).

https://adattamentosocialista.blogspot.com/2023/01/manchester-addio-la-scuola-economica.html

[6] K. Kautsky, “Der Staatssozialismus”, Der Sozialdemokrat, No 50, 8. Dezember 1881.

[7] K. Kautsky, Die Abschaffung des Staates, Der Sozialdemokrat, No 51, 15. Dezember 1881.

 

[8] Karl Kautsky Il Programma di Erfurt (La Nuova Sinistra - Samonà e Savelli, Roma, 1971).

[9] Dan Kolog & Cesco, “KARL KAUTSKY E IL RIFORMISMO: RIFLESSIONI SU UN RAPPORTO MOLTO COMPLESSO” (14-12-2021).

https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/12/karl-kautsky-e-il-riformismo.html

[10] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[11] E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (Laterza, Roma e Bari, 1968).

[12] E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (Laterza, Roma e Bari, 1968).

 

[13] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[14] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori Riuniti, Roma, 1977).

[15] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[16] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[17] K. Kautsky, Bernstein und das sozialdemokratische Programm: eine Antikritik (J. H. Dietz, Nachf. Stuttgart,1899).

[18] K. Kautsky, Bernstein und das sozialdemokratische Programm: eine Antikritik (J. H. Dietz, Nachf. Stuttgart,1899).

[19] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[20] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).

[21] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).

[22] A. Pannekoek, Massenaktion und Revolution (Die Neue Zeit, 30. Jhrg., 2. Band, 1912).

[23] K. Kautsky, Die neue Taktik (Die Neue Zeit, 30. Jahrgang, 2. Band, 1912).

[24] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).

[25] A. Pannekoek, Massenaktion und Revolution (Die Neue Zeit, 30. Jhrg., 2. Band, 1912).

[26] K. Kautsky, Die neue Taktik (Die Neue Zeit, 30. Jahrgang, 2. Band, 1912).

 

[27] K. Kautsky, Die neue Taktik (Die Neue Zeit, 30. Jahrgang, 2. Band, 1912

[28] A. Pannekoek, Marxistische Theorie und revolutionäre Taktik (Die Neue Zeit, Jg. 31, Bd. 1, S. 272–281, 365–373, 365–373, 611–612, 1913).

 

[29] Cesco, “JEAN JAURÈS: ESTRATTO DA THE LIFE OF JEAN JAURÈS DI HARVEY GOLDBERG” (2021).

https://adattamentosocialista.blogspot.com/search?q=jaur%C3%A8s

[30] Cesco, “GUSTAVE HERVÉ: ESTRATTO DA “FROM REVOLUTIONARY THEATER TO REACTIONARY LITANIES: GUSTAVE HERVÉ (1871-1944) AT THE EXTREMES OF FRENCH THIRD REPUBLIC” DI MICHAEL D. LOUGHLIN” (2022).

https://adattamentosocialista.blogspot.com/search?q=herv%C3%A9

[31] P. Lafargue “Le socialisme et la conquête des pouvoirs publics” (Éd. Les Bons Caractères, Pantin, 2004).

[32] Tenuto dal 13 al 17 agosto del 1899, il Congresso di Épernay preparò la collaborazione del Partito Operaio Francese con l'unione delle forze socialiste. Successivamente, al Congresso Generale delle Organizzazioni Socialiste Francesi (Parigi, 3-8 dicembre 1899), dove i delegati del Partito Operaio Francese rappresentavano quasi la metà dei mandati, furono adottate le risoluzioni che vietavano a un socialista di entrare in un ministero borghese e ponevano sotto il controllo di un organismo centrale i giornali, gli eletti e i candidati che si proclamavano “socialisti”. Esse erano, nella sostanza e nella forma, le stesse risoluzioni votate dal Partito Operaio Francese durante il suo precedente congresso di Épernay.

[33] Georges Haupt, L’Internazionale Socialista dalla Comune a Lenin (Einaudi, Torino, 1978).

[34] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[35] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[36] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[37] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[38] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[39] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[40] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[41] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[42] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[43] Nikolaj Bucharin ed Evgenij Preobrazenskij, ABC del comunismo (PiGreco, Milano, 2020).

[44] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[45] K. Marx, “La Liberté Speech” (Amsterdam, 08/09/1872)

https://www.marxists.org/archive/marx/works/1872/09/08.htm

[46] J. Martov, The State and the Socialist Revolution (International Review, New York, 1938).

(parts I, II, and III)

https://www.marxists.org/archive/martov/1919/xx/sovietism.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1921/xx/decomp.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1918/xx/marxdp.htm

[47] J. Martov, The State and the Socialist Revolution (International Review, New York, 1938).

(parts I, II, and III)

https://www.marxists.org/archive/martov/1919/xx/sovietism.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1921/xx/decomp.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1918/xx/marxdp.htm

[48] J. Martov, The State and the Socialist Revolution (International Review, New York, 1938).

(parts I, II, and III)

https://www.marxists.org/archive/martov/1919/xx/sovietism.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1921/xx/decomp.htm

https://www.marxists.org/archive/martov/1918/xx/marxdp.htm

[49] K. Kautsky, The Labour Revolution (Ruskin House, London, 1924).

[50] K. Kautsky, The Labour Revolution (Ruskin House, London, 1924).

[51] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[52] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[53] K. Kautsky, Die proletarische Revolution und ihr Programm (Dietz, Berlin und Stuttgart, 1922).

[54] K. Kautsky, The Labour Revolution (Ruskin House, London, 1924).

[55] W. Smaldone, “Rudolf Hilferding and the Theoretical Foundations of German Social Democracy, 1902–1933”, Central European History, vol. 21 (September 1988): ps. 267–299.

[56] R. Rocker, “Contro la corrente” (Elèuthera, Milano, 2018).

[57] Milos Hajek, Storia dell'Internazionale comunista (1921-1935). La politica del fronte unico (Editori Riuniti, Roma,1969).

[58] Importante dirigente socialista italiana di origine russo-ebraica. In effetti, per capire il ruolo della Balabanoff nelle dissidenze socialiste europee, bisogna fare un breve inciso sulle vicende dell’atipico socialismo italiano. Il Partito Socialista Italiano (PSI), dopo aver subito nel gennaio 1921 la scissione dei comunisti, nel suo XIX congresso di Roma (ottobre 1922) deliberò l’espulsione dei riformisti. Questi ultimi costituirono subito dopo il congresso il Partito Socialista Unitario (PSU), il quale sarà sciolto dal regime fascista (novembre 1925) e si ricostituirà subito col nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), che in esilio a Parigi cambierà ancora divenendo Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani (PSULI). Il neocostituito PSULI aderì all’Internazionale di Vienna e con questa, dopo in congresso di Amburgo del 1923, alla IOS, di cui diventò la sezione italiana. Il vecchio PSI, invece, continuò le trattative con il Comintern. Ma quando, in occasione del suo XX congresso di Milano (aprile 1923), il cosiddetto “Comitato di Difesa Socialista” (organizzato da Arturo Vella e Pietro Nenni) conquistò la maggioranza, fu accantonato ogni discorso di adesione al Comintern. Il PSI si era tenuto sempre distante dall’Internazionale di Vienna, ma quando quest’ultima confluì nella IOS e una sua minoranza rifiutò tale confluenza, allora il PSI partecipò nel dicembre 1924 a Berlino alla conferenza di tale minoranza, cioè dell’Bureau Internazionale d’Informazione, in cui vennero stabiliti i principi ispiratori del socialismo rivoluzionario. Il PSI partecipò a una seconda conferenza (all’inizio del 1926) dopo la quale il Bureau trasferì la sua sede a Parigi ed elesse come sua segretaria proprio Angelica Balabanoff. Però nel periodo dell’esilio nel PSI si verificò una nuova spaccatura fra i favorevoli alla fusione col PSULI (Nenni) e i contrari (Balabanoff). Col convegno di Grenoble del marzo 1930 i due gruppi si separarono definitivamente in due distinti partiti che si chiameranno ambedue “PSI”. Il PSI massimalista (o PSI-m) della Balabanoff rimase nel Bureau di Parigi e ne segui interamente la vicenda. Il PSI di Nenni col congresso di Parigi (luglio 1930) si fuse col PSULI e prese il nome di PSI-IOS. Tale unificazione nella IOS, naturale per i socialisti del PSULI (che già ne facevano parte) fu per quelli del PSI di Nenni una dura necessità in modo da avere il sostegno dei partiti fratelli. Si veda su questo argomento il seguente articolo on-line:

https://www.rivoluzionedemocratica.it/LAINTERNAZIONALE-DUE-E-MEZZO.htm

[59] https://www.quinterna.org/lingue/english/historical_en/correspondance_bordiga_trotsky.htm

https://www.marxists.org/italiano/bordiga/1926/korsch.htm

[60] https://www.marxists.org/history/etol/document/1930s/four.htm

[61] https://www.marxists.org/archive/trotsky/1935/xx/fi.htm

[62] https://www.marxists.org/archive/trotsky/1938/tp/index.htm

[63] Lev Trockij, La rivoluzione tradita (Mondadori, Milano, 1990).

[64] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[65] Lev Trockij, La rivoluzione permanente (Mondadori, Milano, 1979). Secondo tale teoria, che affonda le sue radici negli scritti di Marx ed Engels sulla fallita rivoluzione tedesca del 1848, nei paesi arretrati e succubi dell’imperialismo non è più la borghesia in quanto classe la forza sociale in grado di eliminare le residue vestigia dei modi di produzione precedenti. Tale compito spetta alla giovane classe lavoratrice alla guida di una coalizione comprendente braccianti, contadini ed elementi della piccola borghesia. Tuttavia, e questo è il punto nodale e più controverso della teoria, nel portare avanti il proprio progetto rivoluzionario, tale coalizione antimperialista a guida proletaria dovrà necessariamente travalicare l’orizzonte democratico-borghese e iniziare una fase dichiaratamente anticapitalista. In pratica Trockij voleva rendere l’esperienza russa, privandola delle sue molte particolarità, una sorta di cliché valido in tutti i paesi economicamente arretrati, ma per questo fu duramente criticato da altri teorici bolscevichi, per esempio da Bucharin.

[66] Lev Trockij, La rivoluzione tradita (Mondadori, Milano, 1990).

[67] Arturo Peregalli e Riccardo Tacchinardi, L' URSS e la teoria del capitalismo di Stato. Un dibattito dimenticato e rimosso (1932-1955) (Pantarei, Milano, 2011).

[68] https://www.marxists.org/archive/trotsky/germany/1934/340715.htm

[69] David Beetham ed., Marxists in the face of Fascism (Haymarket, Chicago, 2017).

[70] Lenin, Estremismo malattia infantile del comunismo (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[71] Lenin, Estremismo malattia infantile del comunismo (Editori Riuniti, Roma, 1974).

[72] https://www.marxists.org/archive/gorter/1920/open-letter.htm

[73] https://www.marxists.org/archive/gorter/1920/open-letter.htm

[74] https://www.marxists.org/history/international/comintern/3rd-congress/kapd.htm

[75] https://www.marxists.org/history/international/comintern/3rd-congress/kapd.htm

[76] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/moscow-and-ourselves.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/ruhle02.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/ruhle01.htm

[77] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/moscow-and-ourselves.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/ruhle02.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1920/ruhle01.htm

[78] https://www.marxists.org/history/international/comintern/3rd-congress/kapd.htm

[79] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1924/revolution.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1939/ruhle01.htm

[80] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1924/revolution.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1939/ruhle01.htm

[81] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1924/revolution.htm

https://www.marxists.org/archive/ruhle/1939/ruhle01.htm

[82] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1940/ruhle01.htm

[83] https://www.marxists.org/archive/ruhle/1940/ruhle01.htm

[84] https://www.marxists.org/archive/gorter/1923/cwi.htm

[85] https://www.marxists.org/archive/gorter/1923/cwi.htm

[86] https://www.marxists.org/archive/mattick-paul/1939/kautsky.htm

[87] https://www.marxists.org/archive/mattick-paul/1939/kautsky.htm

[88] Paul Mattick, Civil War in Spain, International Council Correspondence, vol. 2 no. 11, October 1936.

[89] Paul Mattick, The Barricades Must Be Torn Down, Moscow-Fascism in Spain, International Communist Correspondence, vol. 3, nos. 7-8, August 1937.

[90] Paul Mattick, The Barricades Must Be Torn Down, Moscow-Fascism in Spain, International Communist Correspondence, vol. 3, nos. 7-8, August 1937.

 

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