Karl Kautsky e il riformismo: riflessioni su un rapporto molto complesso

 

 


 

1. Introduzione (ovvero del cattivo uso del lessico politico)

 

Chiunque abbia un minimo di familiarità con la politica italiana attuale si sarà sicuramente imbattuto miriadi di volte nel termine “riformismo” e nell’aggettivo da esso derivato: “riformista”. Ma cosa intendono i mezzi di comunicazione di massa del secondo decennio del XXI secolo con queste due parole, così insistentemente frequenti nel lessico politico nazionale. Di primo acchito si sarebbe portati a dire, dizionario alla mano, che si tratta certamente di qualcosa che ha a che vedere con le riforme. Ossia, il “riformista” auspicherebbe alcune importanti riforme, economiche, politiche o sociali a seconda dei casi. In questo senso sembrerebbe logico contrapporlo al “conservatore”, che invece si batterebbe per il mantenimento dello status quo e, dunque, a rigor di logica dovrebbe in generale avversare dette riforme. Ma è tutto così semplice e lineare? Purtroppo, no!

Se prendiamo infatti i nomi di importanti famiglie politiche europee, scopriamo che esiste e prospera un “Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei” (in inglese European Conservatives and Reformists Party [1]), il cui solo nome, un vero e proprio ircocervo, sembra frustrare il nostro desiderio di chiarezza come in una pièce del teatro dell’assurdo di Eugène Ionesco.

A questo punto non ci resta che sfogliare un buon manuale universitario di storia delle dottrine politiche [2] e apprendere che “riformista” non è un sinonimo di “riformatore”, ma che è un’espressione specifica della storia della sinistra o, più precisamente, del movimento operaio e socialista, diffusasi a partire dagli ultimi anni del XIX secolo. Almeno per quanto riguarda l’Italia, essa andrebbe contrapposta all’aggettivo “massimalista”[3], termine in effetti ancora in uso (benché solo in senso dispregiativo) e riservato esclusivamente alla sinistra politica, ogniqualvolta si mostri troppo esuberante e poco dialogante con le classi egemoni. Quindi, perlomeno secondo i mezzi di comunicazione odierni, l’ala destra del “Partito Democratico” e gli scissionisti di “Italia Viva” sarebbero i “riformisti”, mentre i fuoriusciti di “Articolo Uno” e i loro alleati di “Sinistra Italiana” rappresenterebbero i “massimalisti”. Naturalmente pure questa interpretazione, così comunemente dispensata al vasto pubblico anche da tanti illustri politologi accademici, fa semplicemente ridere una volta compresa la vera storia di questa coppia di parole contrapposte.

Iniziamo subito col dire che parlare di “riformisti” e “massimalisti” ha senso esclusivamente nell’ambito di forze politiche che si richiamino programmaticamente al socialismo, inteso non come uno slogan generico, ma come un effettivo superamento del modo di produzione capitalistico attualmente vigente al livello planetario. Più precisamente, si dovrà intendere il socialismo come “quel sistema sociale caratterizzato dalla proprietà comune e dal controllo democratico dei mezzi di produzione e di distribuzione dei beni e dei servizi, esercitato da tutta la società a vantaggio di essa stessa” [4]. Sia i “riformisti” che i “massimalisti” (quelli veri… non le correnti del “Partito Democratico”) accetteranno senza titubanze né infingimenti questa prospettiva, almeno come obiettivo di lungo termine.

Senza l’adesione al socialismo non ha infatti alcun senso distinguere i due schieramenti, in quanto le “riforme” in questione sono proprio le riforme da farsi per fuoriuscire gradualmente dal sistema capitalista, mentre il “massimalismo” di cui si discute riguarda il cosiddetto “programma massimo” del partito, ovvero la realizzazione rapida e integrale del socialismo mediante un processo rivoluzionario. A chi al giorno d’oggi, nella migliore delle ipotesi, dice di battersi per cercare di umanizzare l’attuale società capitalista auspicando miglioramenti di varia natura, spetterebbe tuttalpiù l’etichetta di “riformatore”, non certo quella di “riformista”. Ma comunque questo punto verrà chiarito meglio più avanti inserendolo in una prospettiva storica. Per il momento è invece necessario concludere il paragrafo richiamando le definizioni scientifiche dei termini “rivoluzione sociale”, “riforme” e “riformista” così come sono state fornite con grande chiarezza da Karl Kautsky nella sua celebre conferenza olandese del 1902 [5]. Secondo il nostro autore una rivoluzione cessa di essere solo politica e diviene una vera e propria rivoluzione sociale soltanto quando una classe, fino a quel momento socialmente oppressa, è obbligata a completare la sua emancipazione politica mediante quella sociale, poiché la sua posizione subalterna nella società diverrebbe incompatibile con il suo predominio politico. In quest’ottica Kautsky non confonde mai il concetto marxista di rivoluzione con quello blanquista d’insurrezione violenta e viene quindi a etichettare come riforme esclusivamente quelle misure che hanno per scopo l’adattamento delle sovrastrutture politiche e giuridiche della società alle nuove condizioni economiche, procedendo però dalla classe che fino a quel momento ha governato la società politicamente ed economicamente. E restano riforme anche se tali misure non sono accordate liberamente, ma sono ottenute sotto la pressione delle classi subalterne o di altre cause di forza maggiore. Il riformista, sempre secondo Kautsky, è quindi colui il quale è illusoriamente convinto di poter giungere con estrema lentezza al socialismo mediante una lunga serie di riforme, ossia di misure concesse dalle classi egemoni a vantaggio di quelle subalterne, ma senza mai porre il problema della conquista del potere politico da parte di queste ultime. Conquista del potere, ribadiamo anche a rischio di divenire monotoni, che a questo livello non implica nessuna scelta tattica precostituita, né pacifica né violenta, né graduale né rapida, ma solo il passaggio del dominio politico effettivo dall’egemonia delle classi dei capitalisti, dei rentier e degli alti burocrati di Stato a quella dei lavoratori salariati e dei loro alleati naturali (coltivatori diretti e piccola borghesia).

Rimane però irrisolto il nodo della democrazia: rappresenta davvero un’opportunità di trasferimento del potere dalle classi dominanti alla maggioranza del popolo lavoratore o si tratta piuttosto di un sottile inganno? Vedremo nella quarta sezione come tale questione sarà alla base della nota scissione tra socialisti e comunisti nel turbolento periodo postbellico del 1918-1921.

 

 

2. Le origini tedesche della discussione sul riformismo

 

            La storia del socialismo[6], a partire dai precursori dei secoli XVI, XVII e XVIII, passando poi per i cosiddetti ‘socialisti utopisti’ e i primi anarchici dell’inizio del XIX secolo, per giungere finalmente a Karl Marx, Friedrich Engels, Michail A. Bakunin e alla nascita dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (1864), contiene già in nuce la dialettica tra progetti di riforme e aneliti alla rivoluzione. Purtroppo, però, non abbiamo né il tempo né la competenza storica per discutere di queste pur interessanti vicende; così come dovremo alquanto glissare anche sul complesso periodo che va dalla sconfitta della Comune di Parigi (1871) fino alla morte di Engels (1895) e che presenta come evento clou la fondazione della Seconda Internazionale (1889), la quale segnerà la graduale ma irreversibile separazione tra socialisti marxisti (o anche solo “marxisteggianti” [7]) e socialisti libertari. I primi presero a partecipare attivamente a tutte le elezioni politiche, sia generali che locali, mentre i secondi vi opposero il più fermo rifiuto considerandole un’implicita accettazione dello “Stato oppressore”. Ci concentreremo invece sul periodo che va da poco prima della scomparsa di Engels fino alla Prima Guerra mondiale, iniziando dalle vicende del Partito Socialdemocratico Tedesco (la SPD), allora modello e punto di riferimento per la gran parte dei militanti marxisti di tutto il mondo [8].

Nel 1891 il famoso Programma di Erfurt fu adottato dalla SPD durante il congresso di partito tenuto in tale città. Questo documento, elaborato sotto l’egida politica di Eduard Bernstein, August Bebel e Karl Kautsky, sostituì il precedente Programma di Gotha (1875), che fu quella faticosa sintesi tra marxismo e lassallismo segretamente stigmatizzata da Marx in un celebre documento reso pubblico solo nel 1891: La Critica al Programma di Gotha [9]. Il vecchio testo di Marx si rivelò quindi uno strumento assai utile, insieme al nuovo testo elaborato da Engels in quel frangente (e rimasto inedito fino al 1901): Per la critica del progetto di programma del Partito Socialdemocratico [10] che venne inviata ai dirigenti socialdemocratici tedeschi e ai “teorici di partito” Kautsky e Bernstein, i quali di fatto riscrissero il programma, cestinando la prima bozza (quella a cui si riferiscono appunto le critiche engelsiane) e riuscendo alla fine a far approvare ad Erfurt il primo programma su basi solidamente marxiste varato da un congresso della socialdemocrazia europea. L’anno dopo Kautsky, per superare il carattere molto stringato del programma di Erfurt, avrà il privilegio di scriverne un dettagliato commento ufficiale noto anche col titolo di La Lotta di Classe [11]. Esso rappresenterà, nonostante lo status eminentemente confederale e non unitario della Seconda Internazionale, una sorta di “catechismo marxista” tradotto in sedici lingue su cui si formeranno migliaia di militanti e dirigenti socialisti in Europa e America prima della Grande Guerra. Ma qual era la posizione del Programma di Erfurt (e del suo successivo commento kautskiano) sul problema della transizione al socialismo e sul dilemma riforme-rivoluzione? Se si va direttamente al testo molto conciso del programma vero e proprio, si ha che è solo l’articolo V (scritto per mano di Kautsky) a citare, senza nominarla troppo esplicitamente, la questione della trasformazione socialista della società:

 

“La proprietà privata dei mezzi di produzione, un tempo metodo per assicurare al produttore la proprietà del suo prodotto, è diventata oggi il sistema per espropriare l'agricoltore, l'artigiano e il piccolo commerciante, e per assegnare ai non produttori – capitalisti e latifondisti – il possesso dei frutti del lavoro. Solo con la conversione della proprietà privata dei mezzi di produzione – la terra, le miniere, le materie prime, gli strumenti, le macchine e i mezzi di trasporto e di comunicazione – in proprietà sociale, e con la conversione della produzione di merci in produzione socialista, portata avanti dalla società a vantaggio della società, è possibile trasformare la produzione su larga scala e la produttività del lavoro sociale sempre crescente, da fonte di miseria e di oppressione per le classi sfruttate, in fonte di benessere e di sviluppo armonioso”.

 

Mentre per quello che riguarda la conquista del potere da parte della classe lavoratrice, esso seguita in questo modo piuttosto sfumato (artt. VI, VII e X):

 

“Questa trasformazione sociale equivale all'emancipazione non solo del proletariato, ma dell'intero genere umano, che nelle condizioni attuali soffre. Ma ciò non può essere che opera della classe operaia, perché tutte le altre classi, nonostante i conflitti di interessi tra di loro, si ergono sul terreno della proprietà privata dei mezzi di produzione e hanno come fine comune la conservazione dei fondamenti della società contemporanea.

La lotta della classe operaia contro lo sfruttamento capitalista è necessariamente una lotta politica. Senza diritti politici, la classe operaia non può portare avanti le sue lotte economiche e sviluppare la sua organizzazione economica. Non può determinare il trasferimento dei mezzi di produzione in possesso della comunità senza aver prima ottenuto il potere politico.

(…).

Il Partito socialdemocratico tedesco, quindi, non lotta per nuovi privilegi e diritti di classe, ma per l'abolizione del dominio di classe e delle classi stesse, per uguali diritti e uguali doveri per tutti, senza distinzione di sesso o di nascita. Partendo da questi punti di vista, combatte non solo lo sfruttamento e l'oppressione dei salariati nella società odierna, ma anche ogni forma di sfruttamento e oppressione, diretta contro una classe, un partito, un sesso o una razza”.

 

Si passa poi a un lungo programma rivendicativo (scritto per mano di Bernstein), articolato in 9 richieste politiche generali di carattere liberale e democratico, più 5 richieste specifiche per la protezione della classe lavoratrice in Germania. Siamo chiaramente di fronte a una evidente dicotomia tra programma massimo: il socialismo, e programma minimo: l’estensione dei diritti liberali e democratici in un impero tedesco non ancora pienamente monarchico-costituzionale, unitamente alla costruzione delle prime forme di stato sociale volte a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori salariati e degli altri ceti popolari. Come vedremo tale dualità verrà ad avere nella storia del movimento operaio e socialista internazionale un’importanza veramente enorme.

Di tutt’altro tono è il lungo commento di Kautsky, che dedica un intero capitolo, il IV, intitolato “Lo Stato del futuro”, alla trattazione dei nostri problemi. Qui la parola “rivoluzione”, assente nell’intero programma di partito, appare ben 27 volte! Si tratta essenzialmente di un buon riassunto di parti de Il Capitale di Marx, con chiaro riferimento al Capitolo XXIV del Libro I, in particolare, alla sezione denominata “La tendenza storica dell'accumulazione capitalistica” [12]. Per quanto riguarda invece le rivendicazioni immediate, sia quelle liberal-democratiche sia quelle, chiamiamole così, laburiste, il nostro autore si sforza in qualche modo di calarle nel V capitolo, quello dedicato alla “Lotta di Classe”, ma appare subito evidente come l’intero argomento lo appassioni relativamente poco.

Dato quindi il quadro appena descritto, siamo già in grado di rispondere a una prima domanda: la SPD del 1891, vista l’esistenza di un suo programma minimo di rivendicazioni sociali e politiche, concepito a fini prettamente elettorali, può considerarsi per questo già un’organizzazione politica riformista? A dispetto dei dubbi insinuati dal Partito Socialista della Gran Bretagna e da varie tendenze politiche legate ai “comunisti dei consigli”, la nostra risposta non potrà che esser negativa. Riteniamo infatti che non sia sufficiente la sola presenza di un programma elettorale chiaramente riformista per etichettare allo stesso modo l’intera struttura politica che lo proponga. Non avendo in questa sede la possibilità di argomentare in modo lungo e dettagliato in favore di questo nostro giudizio, non possiamo far altro che rimandare il lettore alle due “critiche” (del programma di Gotha da parte di Marx [13] e del programma di Erfurt da parte di Engels [14]), ma soprattutto ai Considerando [15] di Marx preambolo del Programme Électoral des Travailleurs Socialistes del 1880 [16]. Riguardo a tale programma Marx scrisse: “questo assai breve documento consiste, nella sua sezione economica, di richieste scaturite unicamente dal movimento operaio stesso. C'è, in aggiunta, un passaggio introduttivo di poche linee in cui viene definito l'obiettivo comunista”. Engels descrisse poi la prima sezione, ovvero i Considerando, come: "un raro capolavoro di argomenti convincenti, scritto in modo succinto e chiaro per le masse; io stesso sono rimasto stupefatto da questa breve formulazione" e, più tardi, proprio nella sua critica al programma di Erfurt del 1891, ne raccomandò persino la sezione economica ai socialdemocratici tedeschi [17]. Tuttavia, dopo che il programma venne accettato, crebbe tra Marx ed i suoi sostenitori francesi un contrasto relativo all’intento del programma minimo. Laddove Marx giudicava questo come un mezzo pratico di agitazione formato da obiettivi raggiungibili all’interno della struttura capitalista, Jules Guesde espresse un punto di vista assai differente. Non dando credito alla possibilità di poter ottenere tali riforme dalla borghesia, Guesde le considerava non come un programma di lotta pratico, ma semplicemente come un’esca con la quale allontanare gli operai dal radicalismo repubblicano. Il rifiuto di concedere tali riforme avrebbe, secondo Guesde, “liberato il proletariato” dalla sua ultima illusione riformista, convincendolo dell'impossibilità di evitare una sorta di nuovo 1789 operaio. Accusando Jules Guesde e Paul Lafargue di "mercanteggiamento rivoluzionario" e di negazione del valore della lotta per le riforme, Marx (come sostiene Engels in due lettere dell’agosto del 1890, una a Conrad Schmidt e una allo stesso Lafargue) fece la famosa osservazione secondo cui, se la loro politica rappresentava il marxismo, "Tout ce que je sais, c'est que je ne suis pas marxiste". Ora, a parte l’ironia del vecchio “Moro” verso i suoi zelanti ma dogmatici ripetitori, la polemica è perfettamente in linea con l’orientamento di Marx ed Engels tenuto in tutta la loro lunga vicenda politica: incrollabili rivoluzionari da un lato, ma dall’altro solidamente convinti del valore altamente formativo (e quindi non solo propagandistico) delle lotte operaie per gli obiettivi transitori, sia politici sia sindacali. Basterebbe a questo scopo ricordare i lunghi e complessi rapporti di Marx ed Engels con il movimento cartista britannico [18].

Il primo nodo al pettine relativo alle ambiguità della Seconda Internazionale sulla questione dei limiti dell’azione politica parlamentare e governativa (quindi “borghese”) dei singoli partiti socialisti nazionali, arrivò relativamente tardi, solo nel 1899, con il celeberrimo affaire Millerand in Francia. In quel frangente, il noto capo carismatico di una parte dei socialisti francesi, Jean Jaurès, prese una posizione decisa approvando la partecipazione del compagno Alexandre Millerand al governo presieduto dal primo ministro radicale Pierre Waldeck-Rousseau. Ma ciò portò a una scissione dalla fazione socialista più intransigente e antiriformista guidata proprio da colui che già abbiamo incontrato 19 anni prima in polemica con Marx: Guesde; sicché Jaurès diede vita al Partito Socialista Francese. Ma il dibattito francese [19] riecheggiò rapidamente al livello internazionale trasformandosi nella famosa diatriba socialista sul cosiddetto “ministerialismo”, ovvero la partecipazione di un ministro socialista a un governo retto da una maggioranza parlamentare “borghese progressista”, in cambio della promessa di provvedimenti legislativi a favore dell’estensione dei diritti democratici e/o di tutela dei lavoratori. Se ne discusse animatamente nel settembre 1900 proprio a Parigi, dove si tenne il V Congresso della Seconda Internazionale. Lo scontro tra “possibilisti” e “impossibilisti” fu duro e alla fine si arrivò a un pilatesco compromesso, che naturalmente non accontentò tutti, noto come “risoluzione Kautsky” [20], la quale cercava di venir incontro ai sostenitori di Guesde affermando che l’ingresso di un solo ministro socialista in un governo borghese non può essere considerato come l’inizio della conquista del potere da parte del proletariato. Dall’altro lato, ovvero quello jauressiano, la risoluzione ammetteva che tale partecipazione poteva essere accettabile solo come ripiego temporaneo ed eccezionale in una grave situazione di emergenza politica.

 

 


Fig. 1. Karl Kautsky e Rosa Luxemburg, insieme a Victor Adler (Austria-Ungheria), Georgij Plechanov (Russia) e Sen Katayama (Giappone) al Congresso di Amsterdam della Seconda Internazionale nel 1904.

3. Il Revisionismusdebatte e la Repubblica di Weimar in relazione al riformismo

Il termine tedesco di Revisionismusdebatte (dibattito sul revisionismo) indica una fase cruciale per le vicende teorico-programmatiche della SPD e, di riflesso, di larghi settori della Seconda Internazionale al di fuori della Germania. Anche in questo caso non possiamo coprire tutta la lunga e complessa storia di tale dibattito se non in modo molto succinto: il termine “revisionismo” fu introdotto nell’ambito del movimento operaio e socialista alla fine dell’Ottocento, per indicare un riesame critico delle idee di Marx ed Engels circa lo sviluppo del capitalismo e la transizione al socialismo. All’origine del revisionismo vi fu la pubblicazione nel 1899 del libro di Eduard Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia [21], che, analizzando le più recenti tendenze dello sviluppo economico e sociale di quel periodo, metteva in dubbio l’inevitabilità di crisi economiche sempre più acute e prolungate (dette, spesso ma impropriamente, “crollo”), la necessaria polarizzazione sociale tra borghesia e proletariato col l’impoverimento relativo di quest’ultimo e, infine, la teoria della rovina e della proletarizzazione dei ceti medi. Criticava inoltre il ruolo centrale dei concetti di lotta di classe e di dittatura del proletariato, rifiutava di fatto l’ipotesi di una rivoluzione violenta, accettando invece la democrazia parlamentare e il riformismo come mezzi per una transizione lenta e pacifica dal capitalismo al socialismo. Esprimeva infine un giudizio essenzialmente positivo sui concetti di Stato e di nazione. Le tesi di Bernstein suscitarono in seno alla socialdemocrazia tedesca un aspro dibattito, culminato al congresso di Dresda (1903) con l’apparente sconfitta del revisionismo ad opera dell’alleanza tra il “centro”, guidato da August Bebel e da Karl Kautsky, e la “sinistra”, espressa da Rosa Luxemburg e da Franz Mehring. Unitamente, questi due gruppi rappresentavano, seppure con diversissime sfumature, una sorta di “ortodossia marxista” dal punto di vista ideologico. In realtà ciò non mutò molto la prassi riformista da tempo radicatasi nella SPD, e non poté arrestare la crescente influenza del revisionismo, e del riformismo in genere, nella Seconda Internazionale, specie, ma non esclusivamente, in Gran Bretagna e nei paesi scandinavi. Naturalmente è importante non cadere nelle semplificazioni eccessive, purtroppo tanto diffuse, che vorrebbero stabilire un’equazione rigida tra revisionismo e riformismo. Non è così. Il revisionismo, inteso come critica parziale o totale al pensiero di Marx ed Engels, si diffuse moltissimo anche in ambienti anarchici e anarco-sindacalisti totalmente ostili al riformismo, ad opera soprattutto del politologo e sociologo francese Georges Sorél. Mentre noti capi politici riformisti, come per esempio i socialisti Jean Jaurès in Francia, Émile Vandervelde in Belgio, Karl Renner in Austria e Filippo Turati in Italia, non appoggiarono apertamente Bernstein nella sua lotta revisionista contro Kautsky, preferendo una posizione in qualche modo intermedia tra i due, in cui, ribaditi i capisaldi teorici del marxismo (materialismo storico, lotta di classe e valore lavoro), veniva auspicata una certa flessibilità teorica per aggiunte, correzioni ed arricchimenti di varia natura, soprattutto tattica e strategica. Detto questo è tuttavia innegabile che il revisionismo bernsteiniano costituì un potente catalizzatore del riformismo in seno alla socialdemocrazia mondiale il quale, a questo punto, ebbe una base teorica più solida di quanto non fossero stati in precedenza il fabianesimo inglese, il socialismo umanitarista francese e il socialismo kantiano tedesco. Base teorica che però, almeno formalmente, la Seconda Internazionale rigettò in modo ufficiale nel congresso di Amsterdam del 1904, il quale fece proprie le tesi antirevisioniste di Dresda della SPD. È ad ogni modo evidente che la lotta politica a colpi di opuscoli di Kautsky [22] e della Luxemburg [23] contro Bernstein di quegli anni rivela uno spirito ben lontano dalla dotta e pacata discussione tra studiosi socialisti circa la validità e i limiti del marxismo nello spiegare l’evoluzione del capitalismo mondiale negli ultimi venticinque anni del XIX secolo. Tutto all’opposto, si capisce che sono in gioco due visioni incompatibili del ruolo politico della SPD all’interno di quella peculiarissima struttura politica che fu l’impero tedesco del Kaiser Guglielmo II.

Da un lato c’è quella di Bernstein, che pensa a una graduale trasformazione del II Reich in monarchia costituzionale liberal-democratica di stampo britannico sotto la duplice spinta della borghesia industriale e bancaria, e della classe lavoratrice (organizzata sempre più ampiamente in vaste strutture sindacali). In questo modo, ragiona il nostro autore, il parlamento acquisterà un ruolo via via sempre più importante e la SPD, in crescita continua di consensi elettorali, giungerà a influenzarlo in modo profondo anche a causa del suffragio universale già introdotto da Otto von Bismarck. Sarà quindi possibile avviare una serie di riforme democratiche profonde accompagnate da una graduale estensione dei primi elementi di stato sociale (sempre di origine bismarckiana). Tale posizione, ovviamente, non sarà limitata alla Germania guglielmina, ma avrà fervidi sostenitori anche in molti altri paesi. In Italia, per esempio, verrà propagandata dagli ex-socialisti del minuscolo Partito Socialista Riformista Italiano (1912-1926) il cui esponente più noto fu senz’altro Leonida Bissolati, che in un certo periodo ipotizzò anche un “partito del lavoro” su modello britannico strettamente legato alle organizzazioni sindacali.

Per Kautsky, invece, questa visione è errata perché trascura l’esistenza di una forte casta militare-burocratico-agraria, i famosi junker prussiani, che è il vero perno dell’Impero tedesco costituendone lo “Stato profondo”, non disposta a cedere il suo potere se non in minima parte. Essa sarebbe soprattutto in grado di orientare la spesa pubblica e quindi di legare a sé la grande borghesia industriale in una pericolosa politica estera militarista e bellicista. A tale stato di cose si potrà opporre solo la via rivoluzionaria che, una volta aperte le porte alla repubblica democratica, condurrà rapidamente al potere del proletariato e quindi al socialismo. In questo Kautsky è fedelissimo ad Engels che, parlando della Germania, dice espressamente, proprio nella sua critica al programma di Erfurt della SPD [24], cose che sembrano contraddire completamente l’ipotesi bernsteiniana:

“Primo. Se una cosa è certa è che il nostro partito e la classe operaia possono arrivare al potere solamente sotto la forma di una repubblica democratica. Questa è anche la forma specifica della dittatura del proletariato, come ha già dimostrato la Grande Rivoluzione francese. Sarebbe inconcepibile per le nostre persone migliori diventare ministri sotto un imperatore, come Miquel [25]. Sembrerebbe che da un punto di vista giuridico non sia consigliabile inserire direttamente nel programma la richiesta di una repubblica, sebbene ciò fosse possibile anche sotto Luigi Filippo in Francia, ed è ora possibile in Italia. Ma il fatto che in Germania non sia permesso portare avanti apertamente persino il programma di un partito repubblicano, dimostra quanto sia totalmente errata la convinzione che una repubblica, e non solo una repubblica, ma anche una società comunista, possa essere costituita in modo morbido e pacifico”.

Subito dopo la Prima guerra mondiale, quando Bernstein e Kautsky, sempre compagni dello stesso Partito Socialdemocratico Indipendente (la USPD) si riconcilieranno nella cornice della repubblica democratica di Weimar, entrambi dovranno ammettere di essersi parzialmente sbagliati: il primo dovette constatare l’irriformabilità dell’impero tedesco in senso liberal-democratico e la conseguente necessità di eliminare la monarchia degli Hohenzollern e la casta militar-burocratica ad essa legata da vincoli aristocratici in modo rapido e rivoluzionario (die Novemberrevolution 1918-19) sfruttando il malcontento post-bellico. Il secondo invece, si rese presto conto di come il binomio repubblica democratica-socialismo fosse molto più problematico di quanto concepito dal vecchio Engels [26] e da lui stesso in tutte le opere prebelliche [27], e di quanto paziente lavorio politico fosse necessario nell’ambito di una via democratico-parlamentare al socialismo. Lo chiameremo “gradualismo socialista” per distinguerlo dal classico riformismo fabiano e bernsteiniano.

Le prime inefficaci esperienze furono per Kautsky quelle della Commissione per la Socializzazione, che avrebbe dovuto realizzare le richieste popolari di porre l’economia sotto il controllo democratico. Tuttavia, la SPD, il partito de facto al governo della coalizione SPD-USPD che prese il potere dopo l’abdicazione del Kaiser, diede priorità al ripristino dell’attività economica ai livelli prebellici rispetto alla sua socializzazione: i rappresentanti della SPD e dei sindacati si erano già allineati ai portavoce dei capitalisti industriali (patto Stinnes-Legien del 18 novembre 1918) per assicurare che il controllo capitalistico della produzione rimanesse largamente in vigore, in cambio di alcune richieste operaie da molto tempo attese: giornata di lavoro di 8 ore, riconoscimento ufficiale dei sindacati e consigli di fabbrica per le aziende con più di 50 dipendenti. Con l’uscita della maggioranza dell’USPD e la sua fusione con il piccolo partito comunista spartachista per dar vita al più vasto raggruppamento della VKPD (Partito Comunista Unificato di Germania), Kautsky e Bernstein si ritrovarono nel 1922 di nuovo nella vecchia SPD, ormai da diverso tempo fuori dalla “stanza dei bottoni” dopo la sconfitta elettorale di Hermann Müller nel giugno del 1920. Eppure, il vecchio teorico marxista non si diede per vinto: nel 1925 il partito varò il nuovo programma di Heidelberg, d’impronta marxista e con forti contributi kautskiani, nel quale si “richiedeva la trasformazione del sistema capitalista di proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà sociale”. La politica gradualista aveva finalmente abbandonato ogni veste revisionista e, per tramite della repubblica democratica, poteva tranquillamente convivere con il marxismo (o, almeno, con una certa lettura del marxismo) come spiegato in dettaglio nell’opera forse più celebre del Kautsky post-bellico: La rivoluzione dei lavoratori (1924) [28], un interessante saggio alla base del programma di Heidelberg del 1925, dove una via gradualista-democratica al socialismo in Germania è tracciata accuratamente. Naturalmente Kautsky si premura di farci capire che non si tratta di un disegno riformista di collaborazione di classe, in quanto s’ipotizza l’esistenza di una “dittatura democratica del proletariato” mediante una stabile maggioranza socialdemocratica in parlamento. È però appena il caso di dire che un tale progetto non verrà mai attuato in quanto la SPD nel periodo di Weimar non riuscirà in alcun modo a tornare ai fasti del 1919, ottenendo risultati elettorali sempre minori del 30%. E se siederà talora al governo, sarà solo per periodi brevi (maggio 1921-novembre 1922, agosto-ottobre 1923 e giugno 1928-marzo 1930) e, quel che è peggio, in grandi coalizioni ministeriali con programmi tutt’altro che socialisti prima, beninteso, del disastro nazista del 1933. Anche se è ben possibile vedere nella debacle della SPD (e del suo partito-cugino, la SDAPÖ austriaca, che seguì una sorte quasi identica) l’agire di una nemesi storica a favore di certe grandi figure prebelliche del socialismo europeo: Jean Jaurès, Émile Vandervelde e Filippo Turati, le quali operando in paesi assai più liberal-democratici degli imperi tedesco e austro-ungarico, con parlamenti effettivamente in grado di esercitare in modo autonomo il loro potere legislativo, avevano più volte messo in guardia i loro compagni della SPD circa le difficoltà della lotta politica socialista in tali ambiti, sfatando la semplice equazione secondo la quale il suffragio universale più le istituzioni liberal-democratiche produrrebbero automaticamente l’egemonia dei partiti operai e socialisti e quindi, in breve tempo, il socialismo. Si pensi solo che nel 1906 la SFIO francese otterrà appena il 10,2% dei voti alle elezioni legislative con suffragio universale, mentre quando lo stesso verrà introdotto in Italia (seppure in modo incompleto) da Giovanni Giolitti, nel 1913 il PSI si aggiudicherà un modesto 17,6%, mentre la SPD era già al 34,8%. Eppure Kautsky, in fuga dal nazismo da Berlino a Vienna, poi a Praga e in fine in Olanda, morirà nel 1938 all’età di 84 anni sempre convinto dell’inscindibilità del binomio socialismo-democrazia, protestando in modo veemente contro il suo vecchio sodale Otto Bauer, quando questi, dopo il putsch fascista di Engelbert Dollfuss del 1934 che distrusse la socialdemocrazia austriaca, comincerà in esilio ad avvicinarsi al comunismo parlando della necessità di metodi di lotta “non parlamentari” e di una “dittatura temporanea” dei partiti operai. Ma per capire l’origine di questa vera e propria idiosincrasia kautskiana nei confronti dell’elaborazione politica bolscevica dovremmo fare un salto indietro di circa un ventennio.

 


 

 

Fig.2. Eduard Bernstein (a sinistra) e Karl Kautsky (a destra) nell’epoca di Weimar

dopo la loro “riconciliazione” politica.

 

 

 

 

 

 

4. L’ipotesi russa: i bolscevichi contro la democrazia parlamentare

 

La relazione tra Karl Kautsky e i bolscevichi (principalmente, ma non solo, Vladimir I. Lenin) sembrerebbe un esempio del cosiddetto complesso psicologico di Brunilde applicato alla politica: un legame di ammirazione, deferenza e sudditanza intellettuale che, a seguito di una serie ravvicinata di forti delusioni, si tramuta non in indifferenza (come sarebbe sano e naturale), ma invece in odio viscerale, disprezzo e sistematica denigrazione. Sull’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro e quindi non vale la pena scrivere troppe righe per introdurre la parte che riguarda il discorso che stiamo facendo, ovvero “l’ipotesi russa”: l’equazione tra democrazia parlamentare rappresentativa e riformismo.

Vogliamo solo ricordare al lettore le opinioni di Lenin nel 1899 sulla SPD e sul programma di Erfurt: «Non abbiamo alcun timore di dire che vogliamo imitare il programma di Erfurt: non c’è nulla di male a imitare ciò che è buono, ed è appunto adesso, quando capita così spesso di sentire una critica opportunistica e ambigua a questo programma, che riteniamo nostro dovere dichiarare apertamente che lo condividiamo». In effetti, ancora nel 1910 quando la Luxemburg accusa apertamente Kautsky di aver intrapreso la via del riformismo burocratico-sindacale per essersi opposto al concetto a lei caro di “sciopero generale politico”, Lenin si schiera a difesa di Kautsky. Anche sulla presenza nella SPD di Bernstein e di un settore del partito dichiaratamente revisionista, l'unico tra i dirigenti socialisti russi a insistere per l’espulsione è Plechanov e non Lenin.  In altre parole, Lenin riteneva la SPD un modello di partito e Kautsky un maestro di marxismo, certamente fino al 1909 (l’anno in cui Kautsky dà alle stampe il saggio La via al potere, che Lenin rivendicava totalmente citandolo addirittura a memoria). A parte qualche sporadica critica precedente molto velata (relativa, per esempio, al fallito tentativo di riunificazione tra bolscevichi e menscevichi), è solo dal 4 agosto 1914, data in cui la Seconda Internazionale collassa di fronte allo scoppio della Grande Guerra, che Lenin ritiene necessario rompere con Kautsky e i suoi sostenitori in tutta Europa (i cosiddetti “centristi kautskiani”) per avviare la costruzione di una nuova Internazionale senza di loro e, ça va sans dire, senza i riformisti.

Ora, aldilà della comprensibile delusione da parte di Lenin (e di tutti i socialisti antibellicisti della II Internazionale) per le titubanze e gli iniziali ondeggiamenti del “centro kautskiano” della SPD relativamente all’atteggiamento da tenere nei confronti della guerra appena scoppiata, è nel corso dello sviluppo del movimento socialista contro la guerra (ossia, nelle conferenze di Zimmerwald nel settembre 1915, di Kienthal nell’aprile 1916 e di Stoccolma nel settembre 1917) che matura un’opposizione frontale tra filo-kautskiani e filo-bolscevichi già sulle prospettive rivoluzionarie e i rispettivi slogan. Se per i primi la pace (cioè “pace senza annessioni né riparazioni) è la precondizione per la ricostruzione dell’Internazionale e per procedere speditamente sulla via del socialismo, per i secondi, tutt’all’opposto, è la guerra che dialetticamente può mutarsi da macello imperialista dei popoli in conflitto di classe rivoluzionario: “trasformando la guerra imperialista in guerra civile”. Ma neppure queste importantissime tensioni tra i due schieramenti spiegano la vera fissazione anti-kautskiana di Lenin che nel periodo tra il giugno 1916 e il settembre 1917, nei suoi due celeberrimi opuscoli, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo e Stato e Rivoluzione, si cimenta nell’elaborazione di un marxismo rivoluzionario a suo dire “restaurato” e totalmente “depurato” dai compromessi dei centristi. Se nel primo dei due si fa fuoco e fiamme contro la teoria kautskiana dell’imperialismo e soprattutto contro l’ipotesi, in realtà puramente congetturale, di un compromesso “ultra-imperialista” tra le grandi potenze; nel secondo tutto viene in ultima analisi ricondotto al senso “genuino” (ma in realtà con ascendenze blanquiste e giacobine) del termine “dittatura del proletariato”, nonché al presunto oblio socialdemocratico (con l’esclusione quasi unica del teorico olandese Anton Pannekoek) della famosa frase marxiana contenuta in una lettera a Ludwig Kugelmann del 12 aprile 1871. Questo vero “mantra bolscevico”, ripetuto più e più volte nei decenni successivi fino quasi alla nausea, recita in effetti: «Se rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 Brumaio, vedrai che, parlando del prossimo tentativo di Rivoluzione francese, sostengo che non si tratterà più di trasferire l’apparato burocraticomilitare da una mano allaltra, com’è accaduto finora, ma di spezzarlo, e questa è la condizione essenziale di ogni rivoluzione autenticamente popolare nel continente. Ed è ciò che stanno facendo i nostri eroici compagni di partito a Parigi». Eppure, è citato in modo assai tendenzioso da Lenin in quanto si situa in un orizzonte temporale (1852 – 1871) precedente allo sviluppo di una compiuta forma democratico-repubblicana in Francia, che, come è noto, verrà faticosamente reintrodotta solo a partire dalle Leggi Costituzionali del 1875, le quali, tuttavia, subordinavano ancora la nomina dei funzionari civili e militari al solo Senato: grande rivendicazione monarchica e autentica "bestia nera" per i veri repubblicani. E invece del tutto evidente che un apparato burocraticomilitare potente, invasivo, elitario, non eletto ed essenzialmente autoreferenziale, permaneva nell’epoca immediatamente prebellica in Germania, Austria-Ungheria e Russia, tutti stati per i quali Kautsky (a differenza di Bernstein e in parte anche di Renner) non aveva alcun dubbio che bruschi processi rivoluzionari sarebbero stati assolutamente indispensabili.

Ma se fino all’ottobre del 1917 ci si muoveva ancora parzialmente sul terreno della teoria e della raffinata esegesi marxiana (benché il programma politico bolscevico fosse già contenuto nelle famose “Tesi di Aprile”), da questa data in poi non sarà più possibile alcun “colpo di fioretto” tra socialisti centristi e “comunisti” (come i bolscevichi vorranno farsi chiamare), ma solo guerra ideologica totale, lunghissima e senza esclusione di colpi, anche personali e molto scorretti. Infatti i comunisti non solo pretenderanno dai marxisti di tutto il mondo una piena, totale e incondizionata giustificazione del putsch del 7 novembre 1917 contro il Governo Provvisorio, dello scioglimento della legittima Assemblea Costituente del 19 gennaio 1918 e del trattato di pace di Brest-Litovsk  con gli Imperi Centrali del 3 marzo 1918, ma, e questo è infinitamente più grave, vorranno anche estorcere dalle ali sinistre dei vari partiti socialisti la dichiarazione che la via della dittatura dei soviet sarebbe l’unica autentica strada per la rivoluzione socialista mondiale. Che poi tale potere sovietico consistesse in realtà in una striminzita foglia di fico per nascondere la dittatura del partito comunista fu una verità, goffamente giustificata dalle asprezze della guerra civile (marzo 1918-ottobre 1922), che emerse così rapidamente [29] da rendere la miopia della gran parte dei comunisti occidentali veramente incredibile.

Tornando a Kautsky [30] e i suoi alleati centristi (Julij O. Martov in Russia [31], Otto Bauer in Austria [32], Morris Hillquit negli Stati Uniti [33] ecc.), contrapposti ai massimi teorici comunisti Vladimir I. Lenin [34], Lev D. Trockij [35] e Nikolaj I. Bucharin [36], possiamo notare che questa è la stagione di una serrata serie di brucianti pamphlet (pensati quasi in risposta l’uno all’altro) interamente dedicati alla teoria marxista della rivoluzione, al ruolo della violenza, alla valutazione delle istituzioni democratiche occidentali, alle peculiarità del caso russo e, infine, alle prospettive rivoluzionarie per i paesi europei nel periodo cosiddetto “dell’offensiva”: novembre 1918 - marzo 1921. Sarebbe troppo lungo riassumere qui questa articolata polemica anche in modo succinto, ma per comprendere il senso dei ragionamenti bolscevichi e la loro drastica equazione tra socialdemocrazia tout court e riformismo, sarà sufficiente spendere qualche parola su uno solo dei lavori citati: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky [37], forse il più violento, il più brutale e il più aspro dei pamphlet bolscevichi citati, dove davvero la polemica strategica si fonde con il tipico sarcasmo leniniano e con l’invettiva politica nella sua forma chimicamente pura. Fu scritto tra l’ottobre e il novembre del 1918 (quando, alla fine della Grande Guerra, i bolscevichi credettero che la rivoluzione si potesse estendere in tutta Europa) in risposta al saggio kautskiano La dittatura del proletariato [38] di qualche mese prima, in cui il teorico socialdemocratico argomentava sul ruolo della democrazia e sull'uso della forza nella transizione dal capitalismo al socialismo. Kautsky rimproverava a Lenin di aver tentato una rivoluzione proletaria in un paese sottosviluppato come la Russia (contrariamente alle previsioni di Marx e di Engels) e, inoltre, accusava il potere bolscevico di essere una dittatura blanquista più che marxista.

Nella sua risposta Lenin scrive di come Kautsky abbia, a suo parere, distorto la concezione di democrazia presente in Marx ed Engels e, soprattutto, abbia deformato la relazione di quest’ultima con il socialismo e con la rivoluzione. Inoltre, Kautsky viene accusato senza mezzi termini di "blaterare superficialmente per confondere e annebbiare la questione" quando, per esempio, egli descrive la democrazia nel capitalismo e, invece di utilizzare il termine "democrazia borghese", che ha una forte connotazione peggiorativa e classista, usa quello più attraente di "democrazia presocialista".

Un’importante questione sollevata da Kautsky nel suo saggio era stata quella dell’immotivato scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi. Lenin risponde che effettivamente questo è il vero nocciolo del pamphlet perché si tratta di una domanda essenziale in quanto "il rapporto tra democrazia borghese e democrazia proletaria qui si confronta con la rivoluzione in una forma pratica". Lenin prosegue scendendo purtroppo a un livello bassamente personale e affermando che Kautsky ricorre alla menzogna e alla falsificazione dei fatti al solo fine di sostenere le sue tesi. Secondo Lenin, all’opposto, le questioni davvero fondamentali, soprattutto per un sedicente “marxista”, non ricevono nessuna attenzione da parte di Kautsky, anzi vengono da lui evitate accuratamente, come nel caso della mancata risposta alla domanda se "la repubblica parlamentare democratico-borghese sia inferiore o meno alla repubblica della Comune di Parigi o a quella di tipo sovietico". In sostanza, secondo Lenin, Kautsky non vorrebbe mai chiarire se il socialismo sia o meno una forma superiore di democrazia rispetto alla democrazia borghese. In ultima analisi, per Lenin, il centrismo, assimilato alle posizioni di Martov in Russia, sarebbe addirittura peggiore e potenzialmente più dannoso del chiaro e palese riformismo delle collaborazioni di classe e dei governi di coalizione, in quanto il primo, subordinando la conquista del potere da parte del partito dei lavoratori alle procedure maggioritarie nel quadro di istituzioni democratico-borghesi, avrebbe un forte effetto paralizzante nel bloccare gli elementi più coscienti del proletariato, le cosiddette “avanguardie”, tenendole così lontane dai nascenti gruppi comunisti e dai loro programmi di sostituzione della democrazia borghese con quella sovietica.

Lenin, all’inizio del 1920, dopo il chiaro fallimento dello sbocco consiliare della Rivoluzione di novembre in Germania, crederà di aver avuto totalmente ragione nella sua critica a Kautsky e al centrismo [39], identificando nell’oscillante e incerta USPD di Hugo Haase e Georg Ledebour il reale “freno”, forse in parte involontario, del movimento rivoluzionario più ancora che nella SPD “ufficiale”, chiaramente e apertamente riformista e anticomunista. Eppure, per ironia della sorte, come si è già detto, nell’ottobre 1920, il Komintern manderà il addirittura il suo presidente, Grigorij E. Zinov’ev, alla conferenza di Halle dell’USPD per perorare la causa della fusione con il piccolo KPD spartachista. In buona sostanza il rapporto altalenante che i comunisti stabiliranno con la galassia del centrismo socialdemocratico (ossia, 1920: netta separazione tra comunisti e centristi; 1921-22: fronte unico; 1924: governi operai e contadini; 1928: socialfascismo; 1935: fronti popolari), tutto piegato alle esigenze contingenti del gruppo dirigente sovietico, sarà il vero rovello della breve vita (1919-1943) del Komintern e, mutatis mutandis, si trasferirà pari pari nel 1938 all’interno del “feto ancora immaturo” della IV Internazionale, dove Trockij mostrerà verso i centristi del Centro Marxista Rivoluzionario Internazionale [40] (detto anche  “Bureau di Londra” o addirittura “Internazionale 3½”) un atteggiamento oltremodo morboso e preoccupato fin quasi alla paranoia, come dimostrano i suoi rapporti via via più tesi con personalità del calibro di Andrés Nin. Riassumendo i ragionamenti di questa sezione prima di concluderla, possiamo ben dire di avere enucleato abbastanza precisamente le contraddizioni insanabili tra queste due correnti marxiste: i centristi socialdemocratici e i comunisti “bolscevichi”. Al di là delle pur diverse valutazioni sull’imperialismo, le lotte anticoloniali, le crisi cicliche del capitalismo, il legame tra guerra e rivoluzione ecc., il cuore (o meglio “la croce”, come dice Lenin [41]) delle divergenze si situa nella valutazione della forma democratico-parlamentare del potere politico. Per Kautsky una repubblica veramente democratica, con la reale separazione e mutua indipendenza dei poteri, con un parlamento eletto a suffragio universale e in grado di legiferare liberamente, con un governo obbligato a ottenere periodicamente la fiducia parlamentare, è una grandissima conquista del proletariato e, ipso facto, assume un ruolo “presocialista”, in quanto è la sola forma politica in grado di garantire a un partito maggioritario della classe lavoratrice una stabile egemonia necessaria per alleviare istantaneamente le condizioni di vita dei lavoratori ed iniziare la costruzione di una società socialista. Per Lenin, invece, la democrazia parlamentare rappresentativa è un ingannevole involucro politico tipico dell’imperialismo, in cui la classe dominante, grazie a una serie di pesanti condizionamenti ideologici (mezzi di comunicazione di massa, educazione scolastica, confessioni religiose, sindacati moderati e/o corporativi, culto degli “esperti” e degli “specialisti” ecc.) riesce al contempo a rimanere salda al comando e ad illudere la maggioranza della popolazione di detenere in qualche modo il potere. All’interno di una tale struttura il ruolo di un partito dei lavoratori, al di là delle intenzioni e dei programmi, non potrà che essere completamente e incondizionatamente riformista, ossia prono alla collaborazione di classe. La parola d’ordine del comunismo sarà quindi l’abolizione della democrazia parlamentare “borghese” e la sua completa sostituzione con una democrazia “proletaria” basata sui soviet (ossia, i consigli composti esclusivamente da lavoratori salariati, soldati e piccoli contadini) [42].

 


 

Fig.3. Necrologio di Karl Kautsky apparso sul “New York Times”

nell’ottobre 1938, dove spicca la frase “fu l’arcinemico di Lenin”.

 

 

5. Otto Bauer di fronte alla marea fascista: oltre riformismo e massimalismo?

 

Nel periodo che va dalla morte di Lenin (del quale Kautsky scriverà un leale ed equilibrato necrologio per la Pravda) nel gennaio del 1924 alla sua scomparsa nell’ottobre del 1938, le posizioni del nostro teorico socialista non muteranno in modo considerevole, ma la sua avversione per l’esperimento sovietico e per il Komintern diverrà sempre più convinta, come dimostrano varie opere sull’argomento [43]. Osteggerà in seno all’Internazionale Operaia Socialista (l’erede della Seconda Internazionale nel periodo tra le due guerre mondiali) qualsiasi proposta di cooperazione con il mondo comunista, sia pure in funzione meramente difensiva ed antifascista. Parallelamente, rimarrà intatta ed incrollabile la fiducia di Kautsky nel metodo democratico come unica via legittima per trasferire il potere dalla classe dominante a quella lavoratrice, sicché, come si è visto, non avrà remore a polemizzare con i suoi vecchi compagni austriaci quando questi ultimi tenteranno di mettere in discussione il dogma legalitario della socialdemocrazia di quegli anni. Inoltre, e questo forse è il punto meno noto e più interessante, Kautsky si farà via via più convinto (sempre in polemica con i comunisti) del ruolo negativo delle guerre in una prospettiva socialista rivoluzionaria. Il suo ultimo lavoro di un certo spessore teorico, Guerra e Democrazia [44], sviscererà il problema in una prospettiva storica mostrando come la mobilitazione bellica polverizzi l’alto livello della coscienza di classe del proletariato, assolutamente necessaria per iniziare l’edificazione di una società socialista, sostituendola invece con il rancore, l’abbrutimento e la violenza cieca, ottimo “materiale infiammabile” per anarchici e bolscevichi, ma non, sostiene Kautsky, per autentici socialisti marxisti. 

In questa sezione però vogliamo soffermarci proprio sul teorico socialista oggetto degli strali dell’ultimo Kautsky, Otto Bauer, e sulle sue originali riflessioni degli anni dell’esilio ceco e francese (1934-1938) sul vecchio problema della dicotomia tra riforme e rivoluzione. In effetti, una volta esiliato, Bauer tentò di riformulare l'approccio generale della socialdemocrazia austriaca. Si avvicinò gradualmente ad alcune posizioni proprie dell’Unione Sovietica di quegli anni, che ormai egli non vedeva più soltanto come uno Stato dominato da una piccola élite burocratica alla testa di un nuovo tipo di capitalismo, ma come un paese che si stava dotando di alcuni elementi di autentico socialismo e che quindi, in qualche modo, doveva divenire un punto di riferimento essenziale per ogni rivoluzionario. Quindi Bauer teorizzò ciò che divenne noto con il nome di socialismo integrale, cioè la riunificazione tra socialdemocrazia e movimento comunista su una nuova base, fondendo il meglio di entrambi gli approcci. Ecco come formula il suo punto di vista, nel 1936, nella sua nota opera “Tra due guerre mondiali?” avente come sottotitolo “la crisi dell'economia mondiale, della democrazia e del socialismo[45]. Il testo è così chiaro e diretto che non meriterebbe neppure di essere glossato, eppure resta sorprendente se si pensa che solo sedici anni prima il suo autore era fermamente convinto [46] che il bolscevismo fosse un fenomeno tipico di una società molto arretrata e che nulla avesse da insegnare al proletariato occidentale.

 

“Questo sviluppo del capitalismo a un livello senza precedenti di progresso tecnico, sociale e culturale è stato uno dei risultati più importanti della democrazia. Tuttavia, ciò non è stato l’opera dei capitalisti, ma è stato il risultato della lotta di classe che la classe operaia ha condotto per la democrazia e nella democrazia. Eppure, il risultato di queste lotte ha rafforzato il capitalismo (…).

Il capitalismo ha sottomesso le forze fisiche e mentali degli esseri umani, ha moltiplicato le forze produttive del lavoro, ha reso l'umanità incomparabilmente più ricca di quanto non lo sia mai stata. Con il suo sviluppo tecnologico, di pari passo con lo sviluppo delle scienze naturali, della medicina, dell’igiene, esso ha raggiunto prestazioni che costituiranno il patrimonio prezioso di ogni futuro ordine sociale. Ma tutto questo sviluppo è avvenuto sotto il dominio del capitale (...).

Altrettanto ambigua nel suo carattere è la democrazia borghese (…).

Tutto questo fruttuoso sviluppo della democrazia si è compiuto sul terreno dell'ordine sociale capitalista e, per questo motivo, sotto il dominio del capitale (...).

La democrazia borghese è stato il più grande trionfo del capitalismo (…).

La guerra è stato il più grande trionfo della democrazia borghese (…).

Dal crollo della socialdemocrazia tedesca, il partito laburista britannico, il partito bolscevico russo e il partito socialista francese sono stati i tre partiti più potenti del movimento operaio socialista nel mondo. Il partito laburista è l’incarnazione più pura del riformismo. Il partito bolscevico russo è la guida del comunismo rivoluzionario. Il partito socialista francese è a metà tra i due (…).

Nell’ideologia del partito socialista francese vi sono indubbiamente elementi importanti e promettenti per lo sviluppo di una concezione che si elevi al di sopra dell’opposizione tra riformismo e bolscevismo. Elementi simili si trovano anche nei partiti socialisti in esilio dei paesi fascisti. I quadri provengono dai partiti democratici e riformisti di massa, sconfitti e smantellati. Ma la sconfitta di questi partiti li ha resi rivoluzionari: il terrore fascista li ha costretti alla lotta rivoluzionaria. In essi si uniscono le tradizioni della fase riformista democratica insieme a nuovi metodi e prospettive rivoluzionari. Infine, ci sono dei piccoli gruppi tra le due Internazionali, alcuni derivanti da scissioni a sinistra della socialdemocrazia, altri da scissioni a destra dell’Internazionale comunista. Cercano anche di sviluppare una concezione che vada oltre i rigidi dogmi dei grandi campi del socialismo internazionale. Il compito oggi è, in effetti, quello di sviluppare questi molteplici elementi unificanti della teoria e della politica socialiste, per riunire ciò che la guerra mondiale aveva diviso. Chiamo socialismo integrale questa concezione unificata che deve superare la scissione del proletariato mondiale (...).

Da una parte abbiamo i grandi movimenti operai di massa: il partito laburista britannico, i partiti e i sindacati socialdemocratici dei paesi scandinavi, del Belgio e dei Paesi Bassi, con i loro successi, i sindacati degli Stati Uniti, i partiti operai australiani - tutti questi grandi movimenti di massa sono democratici e riformisti. Dall'altro, abbiamo la lotta cosciente per una società socialista che si realizza nell'URSS, la cui influenza domina i quadri socialisti rivoluzionari dei paesi fascisti, si fa sentire nei movimenti socialisti di massa in Francia e in Spagna, e anche nel movimento rivoluzionario dell’Estremo Oriente. I rapporti tra il movimento di classe riformista e il socialismo cosciente: questo è il problema da cui dobbiamo partire per sviluppare un socialismo integrale (…).

La scissione della classe operaia, causata dalla guerra mondiale e dal diverso sviluppo della Rivoluzione russa e delle rivoluzioni dell’Europa centrale (ossia in Ungheria e Germania), ha posto il movimento operaio riformista e il socialismo rivoluzionario l’uno contro l’altro, come due poli opposti. La classe operaia ha sperimentato le conseguenze catastrofiche di questa scissione. Il fascismo e il pericolo della guerra spingono oggi i due schieramenti a superare questa ostilità (…).

Il riformismo non è un'ideologia borghese, non è l’asservimento ideologico degli operai alla borghesia. È l'ideologia della classe operaia a un certo stadio del suo sviluppo. Il marxista che ha compreso che l'ideologia e la tattica riformiste sono una fase necessaria e inevitabile dello sviluppo della coscienza di classe proletaria in determinate condizioni, a un certo stadio di tale sviluppo, non può credere di poter superare l’ideologia riformista delle masse, la tattica riformista dei partiti di massa, a meno che non vengano superate le condizioni stesse che hanno dato origine a questa ideologia e alle quali questa tattica risponde (…).

Il marxismo deve far capire alle masse che solo una dittatura temporanea del proletariato può distruggere definitivamente il potere economico e ideologico della borghesia capitalista per riportare la democrazia a un livello superiore, in una forma più compiuta, sulla base di un nuovo ordine sociale, e garantire così all'umanità le grandi conquiste della civiltà borghese come beni inalienabili. In questa concezione della storia si deve unire l'ethos del socialismo democratico e il pathos del socialismo rivoluzionario (...).

Occorre innanzitutto mettere al centro della concezione della storia che bisogna trasmettere alla classe operaia il fatto più importante della storia del dopoguerra. E questo fatto è lo sviluppo trionfale del socialismo in URSS. Dobbiamo combattere i pregiudizi piccolo-borghesi e il volgare democratismo nei confronti dell'URSS, che continuano a prevalere all'interno del socialismo riformista. Si deve insegnare alle masse operaie, guidate dai partiti operai riformisti, a riconoscere che nell'URSS un ordine socialista si sta sviluppando al ritmo più potente e veloce, dimostrando la superiorità del socialismo sul capitalismo. Dobbiamo utilizzare tutti i successi ottenuti in URSS per la nostra propaganda a favore della società socialista (…).

In un'epoca in cui la classe operaia dei paesi capitalisti ha subito le più gravi sconfitte e vede incombere su di essa le minacce più serie, il marxismo rivoluzionario deve infondere nelle masse la fede nelle idee socialiste, la fiducia nelle proprie forze, la speranza nella loro emancipazione, mostrando loro che lì, nel vasto territorio che va dal Baltico e dal Mar Nero al Pacifico, si sta realizzando una società socialista. Si sta sviluppando un grande potere socialista, il vostro alleato, con il quale voi, lavoratori di tutto il mondo, distruggerete il capitalismo, realizzerete la società socialista, supererete i confini nazionali per costruire la futura federazione internazionale degli stati socialisti! (…).

Il processo di trasformazione della società capitalista in società socialista che sta avvenendo in URSS non sarà completato finché la dittatura, l'unica in grado di avviare e mantenere in moto questo processo, non sarà eliminata e sostituita da una democrazia socialista che renderà le masse popolari stesse padrone del proprio lavoro, della propria vita, della propria civiltà sulla base dei diritti individuali restaurati, della libertà intellettuale totale, dell'autodeterminazione collettiva diretta".

 

Otto Bauer morì nel luglio del 1938. Dopo il 1945 il nuovo Partito Socialdemocratico dell’Austria, la SPÖ, si formò con un orientamento decisamente filoamericano e liquidò completamente tutto ciò che aveva a che fare col Bauer dell’esilio. La nota risoluzione dei 44 quadri socialisti che invocavano una maggiore indipendenza dagli Stati Uniti e, in pratica, sostenevano la linea filosovietica dell’ultimo Otto Bauer, fu sconfitta e la sua stessa esistenza fu nascosta per anni. Anche la Gioventù Socialista, che aveva appoggiato tale risoluzione, non osò mai menzionarla nuovamente da nessuna parte.

La SPÖ di quegli anni non parlava volentieri dell’austromarxismo e non pubblicò molti lavori su di esso. Il suo presidente nel periodo 1945-1957, Adolf Schärf, rifiutò persino una proposta studentesca di installare un busto del noto teorico austro-marxista Max Adler all'Università di Vienna perché veniva giudicato in qualche modo a favore della dittatura del proletariato e dei consigli operai. Alcune opere selezionate di Otto Bauer furono poi ripubblicate nel 1961, ma ad esse risposero le Memorie di Adolf Schärf in un modo tale da richiedere la completa liquidazione di tutto ciò che nel partito avesse a che fare con l’ultimo Bauer. Cosa che l’intellettuale socialista di punta del momento, il celebre Norbert Leser, eseguì perfettamente al livello teorico. L’idea baueriana di un “socialismo integrale” oltre socialdemocrazia e bolscevismo rimase quindi lettera morta proprio nella sua terra natale, l’Austria. Eppure, essa avrà fortuna in contesti geografici e politici completamente diversi: dalla Spagna del 1937-39, ai paesi dell’Europa Orientale dopo il 1945, all’Italia dal 1946 fino addirittura al 1956 nel PSI di Nenni e Morandi, al Cile, almeno in qualche misura, del 1970-73. In quest’ultimo caso, di cui parleremo ancora nelle conclusioni del presente lavoro, vanno sottolineate le tragiche conclusioni che videro il cruento colpo di stato del generale Pinochet e che ebbero importanti ripercussioni in tutto il mondo. In particolare, forte fu l’eco degli eventi cileni in Italia, dove il Partito Comunista, bloccato dai contraccolpi delle violente lotte sociali del periodo ’68-’70 nella sua lenta e difficile transizione dal filosovietismo alla socialdemocrazia, rinunciò a un’alleanza strategica con il Partito Socialista Italiano (su modello francese e totalmente alternativa ai governi democristiani) per vagheggiare “un compromesso storico” proprio con il partito cattolico maggioritario in nome di una generica quanto vaga difesa dei valori democratici e anti-fascisti.  

Ogni qualvolta nel XX secolo la socialdemocrazia subì pesanti rovesci e intimidazioni ad opera di forze politiche fasciste o, comunque violente ed antidemocratiche, fu vittima della tentazione di dimenticare il doppio monito di Kautsky, relativo a democrazia e bolscevismo, ed allinearsi al movimento comunista, nonostante le aspre critiche e le denigrazioni che quest’ultimo non ha mai lesinato al socialismo democratico. L’elemento fallace del ragionamento di Bauer fu, un po’ imprevedibilmente data la grossa statura politica del personaggio [47], una certa confusione tra democrazia e riformismo: in tali frangenti il “bauerismo”, pur non abbandonando completamente le sue radici democratiche, tendeva però a metterle tra parentesi, vagheggiando persino un’autoriforma dei paesi del cosiddetto “socialismo reale” in senso pluralista e antiburocratico. La Storia, negli anni ’80-’90 del secolo scorso, s’incaricò di dimostrare il carattere utopico di questa ipotesi con il collasso dell’URSS di Michail S. Gorbačëv e la violenta svolta repressiva nella Cina di Deng Xiaoping. Parafrasando Lenin, se l’estremismo fu la malattia infantile del movimento comunista, il “bauerismo” fu un grave sintomo delle periodiche crisi depressive della Socialdemocrazia, almeno fino a quando quest’ultima mantenne l’obiettivo della transizione al socialismo nella sua agenda politica.

 

 


Fig. 4. Otto Bauer nel 1929 mentre commenta gli effetti

della Grande Crisi in un celebre discorso radiofonico.

 

 

 

6. Conclusioni: Karl Kautsky e la prassi del riformismo ’18-’33.

 

Al termine di questa carrellata, abbastanza lunga ma al contempo alquanto sommaria, su Kautsky (prima e dopo lo spartiacque della Grande Guerra), su Lenin e su Bauer, siamo forse in grado di rispondere in modo un po’ più informato alla questione iniziale, ossia quali siano stati realmente i rapporti tra Kautsky e il riformismo socialista. Se abbiamo identificato nell’acerrima critica bolscevica sia degli elementi di faziosità personale (addirittura un’accusa di “rinnegamento” dal sapore parareligioso), sia delle differenze strategiche molto serie, ma, in tutta evidenza, non legate al supposto riformismo kautskiano, un po’ diverso è il discorso circa la critica indiretta (nel senso che il suo nome non è mai citato) al teorico dalla SPD da parte di Otto Bauer. Infatti, nel caso di Lenin, Trockij e Bucharin il nodo centrale è la totale sfiducia bolscevica nella democrazia parlamentare rappresentativa, contrapposta invece all’esaltazione del partito-avanguardia e della sua capacità di catturare il potere nonostante sia minoranza, anzi, proprio perché minoranza formata da quadri esperti e devoti alla causa. Per questo motivo, anche quando pensatori comunisti più sofisticati come Antonio Gramsci capiranno l’inapplicabilità dei metodi del Komintern all’Europa Occidentale elaborando la teoria dell’egemonia e della “guerra di posizione”, la loro concezione della democrazia rimarrà del tutto strumentale e, in ultima analisi, non machiavellica, come dimostrato chiaramente nel saggio di Massimo Salvadori [48]. È proprio questo il dramma dei partiti comunisti occidentali nell’epoca post-staliniana: ossia quello di non capire che l’assimilazione di una mentalità veramente democratica non è solo un lusso che la classe lavoratrice si può concedere al fianco del consumismo o di altre attività superflue graziosamente elargite dal capitalismo opulento del secondo dopoguerra, ma è, all’opposto, la conditio sine qua non per l’inizio della costruzione di una società autenticamente socialista. Al contrario, la perenne e sforzata contrapposizione tra democrazia “borghese” (formale, elettorale, rappresentativa, indiretta e irrevocabile), certamente imperfetta in un’ottica marxista ma esistente e praticabile, e quella supposta “proletaria” (concreta, conciliare, diretta, revocabile), piuttosto immaginaria o comunque largamente mitizzata, ha percorso tutta la storia della sinistra di classe almeno fino all’89. In questo senso Kautsky segna facilmente un punto quando ricorda più e più volte l’atteggiamento a favore dei sistemi democratici (dotati ovviamente di suffragio universale e parlamenti realmente sovrani) di Karl Marx dopo la Comune di Parigi come possibile via, relativamente pacifica, al socialismo in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi [49].

Molto diversa è invece la nostra valutazione delle critiche dell’esiliato Bauer alla socialdemocrazia degli anni ’20 e ’30 e quindi, implicitamente, anche al suo teorico Kautsky. E questo per almeno due ragioni importanti. In primo luogo, per la profonda relazione (sia ideale che personale) tra i due marxisti in questione, intessuta di densissimi scambi epistolari improntati sempre alla correttezza ma anche alla massima sincerità critica. Questa realtà ovviamente elimina tutta la parte di contrapposizione personale che invece inquinò già dall’agosto del 1914 i rapporti tra Kautsky e i bolscevichi. Secondariamente, perché Bauer era stato fino al periodo dell’esilio, in qualche misura, più kautskiano di Kautsky; nel senso che il citato Programma di Linz della SDAPÖ potrebbe sembrare persino più prossimo al saggio La Rivoluzione dei Lavoratori di quanto non lo sia il Programma di Heidelberg della SPD (pur scritto in larga parte da Kautsky in persona). Ovviamente Bauer non ha nessun interesse a gettar fango sui vari partiti socialisti proscritti ed esiliati di quel momento (il 1936), specie sulla SPD e sulla SDAPÖ, e quindi usa a mo’ di esempio movimenti vivi e vitali in due paesi assolutamente democratici: il partito laburista (LP) britannico come archetipo del riformismo e la SFIO francese come simbolo del centrismo. Eppure, non è affatto azzardato leggere SPD al posto di LP e SDAPÖ al posto di SFIO: agli occhi di Bauer la prassi politica dell’SPD non poteva infatti non apparire, almeno a partire dall’epoca del governo di grande coalizione guidato dal socialdemocratico Müller nel 1928-30, alquanto insoddisfacente e piuttosto lontana dalle teorizzazioni kautskiane, ovvero “riformista” nel senso deteriore del termine. Una prassi però che né Kautsky (che tuttavia dal 1924 risiedeva a Vienna), né Hilferding (che anzi fu perfino ministro delle finanze in tale governo) avevano sentito minimamente il dovere di condannare. E tale differenza tra SPD e SDAPÖ si sarebbe manifestata fino alla fine: con la prima coinvolta in umilianti “genuflessioni” parlamentari davanti ai nazisti prima della inevitabile proscrizione finale, mentre la seconda distrutta solo manu militari dopo un’accanita e gloriosa resistenza nella sua roccaforte viennese. In ultima analisi, se Bauer cerca inutilmente nel bolscevismo e in una temporanea dittatura del partito la soluzione al problema della lotta antifascista prima e di quella anticapitalista dopo, non è però possibile ignorare l’enorme iato esistente tra l’alta teorizzazione politica kautskiana della metà degli anni ’20 e la contemporanea prassi politica della SPD. Quest’ultima, incalzata a sinistra dai comunisti dichiaratamente anti-Weimar, era stata allontanata per lunghi periodi dal governo federale da parte di coalizioni di partiti borghesi e si doveva quindi spesso accontentare di una politica piuttosto poco ambiziosa in governi regionali. In questo senso il problema del supposto “riformismo” di Kautsky tra le due guerre mondiali non fu tanto, almeno a parere di chi scrive, nella teoria stessa da lui prodotta, quando nella prassi politica del partito in cui l’autore si trovò comunque coinvolto senza grosse contestazioni per un buon decennio, cioè dalla riunificazione con la minoranza della USPD all’avvento del nazismo. In questo periodo, eccettuato il mondo scandinavo in cui comunque il riformismo era divenuto la dottrina ufficiale di partito, gli unici due paesi dove la socialdemocrazia tentò una via parlamentare al potere senza un’eccessiva sudditanza verso i partiti borghesi furono la Francia e la Spagna. Ma se la vicenda tragica della guerra civile spagnola è nota a tutti, molto meno conosciuta è la storia di come il “Fronte Popolare” di Léon Blum venne liquidato in breve tempo (1936-38) a dispetto delle grandi speranze di trasformazione sociale che esso aveva generato. Forse questo episodio meriterebbe davvero un futuro approfondimento in quanto pone intrinsecamente una domanda difficile ma cruciale: può un genuino partito socialista giungere al potere con mezzi democratici e, nel massimo rispetto dello stato di diritto e delle procedure costituzionali, iniziare concretamente a edificare il socialismo mediante un audace programma di riforme strutturali che non si limitino a piccoli aggiustamenti “cosmetici” del capitalismo ma a un suo sistematico superamento? Se gli esempi di Francia, Spagna e Cile sembrerebbero negare questa possibilità, o almeno mostrarne l’ardua praticabilità, le strade alternative indicate dal bolscevismo (cfr. Russia, Iugoslavia, Cina, Cuba, Vietnam ecc.) sono state percorse con esiti disastrosi sia dal punto di vista dello sviluppo economico che dei costi umani; mentre quelle suggerite dal riformismo socialdemocratico della collaborazione di classe e del “capitalismo dal volto umano”, benché assai meno cruente delle precedenti, dopo un’iniziale espansione dello stato sociale nel periodo dei “trenta gloriosi” (’45-’75) hanno mostrato tutta la loro incapacità a difendere la classe lavoratrice dalla controffensiva neo-liberista del capitalismo globalizzato.

 

 


Fig. 5. Comitato di accoglienza e manifestazione per la visita di Léon Blum a Roubaix dopo i noti accordi di Matignon, firmati nella notte tra il 7 e l’8 giugno 1936 durante il governo del “Fronte Popolare”. Saranno poi seguiti dall’importante legge del 24 giugno 1936 sulla contrattazione collettiva.

  

di Dan Kolog con la collaborazione di Cesco

 


[2] Per esempio, Vittore CollinaGianluca Bonaiuti, Storia delle dottrine politiche (Mondadori Educational, Milano, 2012).

[3] Al termine “massimalista” poteva, all’epoca, essere anche contrapposto il termine “minimalista”, pur non essendo questo un sinonimo pedissequo di “riformista”. “Massimalista” era la corrente politica all’interno del partito socialista che perseguiva il programma massimo, ovvero l’instaurazione della Repubblica Democratica Socialista, mentre “minimalista” era la corrente politica che ammetteva l’esistenza di un programma di concessioni minime a favore della classe lavoratrice. Questo programma, puramente elettorale, veniva chiamato, giustappunto, programma minimo. I punti contenuti nella parte economica del programma minimo del Parti Ouvrier Français del 1881, per il quale Marx scrisse i Considerando a metà del 1880, null’altro furono che: “rivendicazioni […] nate realmente in modo spontaneo dallo stesso movimento dei lavoratori”, come Marx spiegò a Sorge qualche mese più tardi [Karl Marx, Lettera di Marx a Sorge, 5 novembre 1880. http://www.hekmatist.com/Marx%20Engles/Marx%20&%20Engels%20Collected%20Works%20Volume%2046_%20Ka%20-%20Karl%20Marx.pdf]. Il programma minimo fu contrastato vivamente dagli anarchici al Congresso Regionale del Centro tenutosi nel luglio 1880 a Parigi, in preparazione al Congresso di Le Havre di novembre. Per gli anarchici il programma minimo rappresentava una distrazione dal fervore rivoluzionario. Dopo il Congresso di Le Havre, gli anarchici, da critici del programma minimo, abbandonarono il Partito Operaio Francese. Il programma minimo faceva anche parte del programma originale costitutivo del Partito Socialista nel 1892 che venne quindi ribadito da Filippo Turati nel 1900 al VI Congresso. Ma avere un programma di concessioni minime, non voleva dire, automaticamente, essere riformista, ovvero credere di poter giungere al socialismo mediante le riforme. Allo stesso modo il “possibilismo”, ovvero la politica del possibile dei francesi Malon e Brousse della Fédération des Travailleurs Socialistes de France non è semplicemente un altro sinonimo di “riformismo” né di minimalismo. Per possibilismo si intende, secondo Engels, l’abbandono del carattere di classe del movimento e del programma per la ricerca del consenso elettorale [vedi lettera di Engels a Bebel del 28 ottobre 1882]. A onor del vero i possibilisti anticipavano il concetto di gradualismo, caratteristico del riformismo, ovvero la graduale conquista della maggioranza dei lavoratori per mezzo dell’acquisizione dei Comuni, o Municipalità, che avrebbe, attraverso il controllo dei servizi pubblici, trasferito man mano i mezzi di produzione agli organi socialisti

[http://www.hekmatist.com/Marx%20Engles/Marx%20&%20Engels%20Collected%20Works%20Volume%2046_%20Ka%20-%20Karl%20Marx.pdf].

[4] Da “Object and Declaration of Principles” del Socialist Party of Great Britain (1904).

[5] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).

[6] Si veda, per esempio, l’opera monumentale in sette volumi di G. D. H. Cole, Storia del Pensiero Socialista (Laterza, Roma e Bari, 1977).

[7] Eccezione a questo quadro estremamente semplificato fino all’osso è la presenza del Partito Laburista Britannico (1906) nella Seconda Internazionale, in quanto erede di tendenze politiche socialiste né marxiste né anarchiche, ma piuttosto un vasto amalgama di sindacalismo, guildismo, socialismo religioso e gradualismo fabiano. L’affiliazione del più longevo Independent Labour Party al nascente partito laburista vi portò in effetti alcuni elementi più radicali prossimi al marxismo, i quali tuttavia non riuscirono mai a raggiungere grandi consensi.

[8] Esistevano in quel periodo anche alcuni piccoli movimenti marxisti, piuttosto radicali, che avevano con l’SPD e la Seconda Internazionale solo rapporti alquanto tenui, se non, talora, addirittura critici. Ricordiamo tra loro il Socialist Labor Party degli Stati Uniti (rifondato da Daniel De Leon nel 1890), il Socialist Party of Great Britain (1904) e il Sociaal-Democratische Partij olandese (1909).

[9] K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976). In merito alla pubblicazione della Critica del Programma di Gotha di Marx, c’è un retroscena emblematico. Come noto, Engels lo inviò a Kautsky in quanto impossibilitato a contribuire alla stesura del nuovo programma, che sarà quello di Erfurt. Engels suggerì che la Critica, scritta ormai sedici anni prima, fosse finalmente resa pubblica, ma, comprendendo che la sua pubblicazione avrebbe destato ancora non poco imbarazzo tra i vari leader della SPD coinvolti nella stesura del Programma di Gotha, chiese a Kautsky di mandarlo a Victor Adler che lo avrebbe pubblicato in Austria. Kautsky sentì la necessità di confidarsi con Bernstein sul da farsi. Infine, Kautsky, capendo la portata della Critica e le ripercussioni che avrebbe avuto, informò August Bebel, leader della SPD, della sua intenzione di pubblicarlo in Germania.  Bebel replicò di non aver mai letto questo materiale, nonostante questo fosse stato indirizzato originariamente anche a lui, oltre che ad Ignaz Auer e Wilhelm Liebknecht. Kautsky mandò finalmente la Critica in lettura a Bebel e a Heinrich Dietz, i quali chiesero a Kautsky di non pubblicarla, ma era ormai troppo tardi. All’uscita della Critica, nel 1891, la Fraktion, e in particolare Dietz e Liebknecht, biasimarono duramente Kautsky, ma non Engels, il quale se ne assunse la piena responsabilità. In una lettera ad Engles, Kautsky, addossò la responsabilità dell’accaduto a Liebknecht, per aver celato nel 1875 la Critica a Bebel; e, i rapporti tra i due, Kautsky e Liebknecht, si incrinarono definitivamente e irrimediabilmente [da: Gray P. Steenson, Karl Kautsky, 1854-1938: Marxism in the central years. 1978 Ed. Pittsburgh (1991)]. 

[10] In appendice a K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[11] K. Kautsky, Il Programma di Erfurt (Samonà e Savelli, Roma, 1971).

 

[12] K. Marx, Il Capitale, vol. 1 (Editori Riuniti, Roma, 1977).

[13] K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[14] In appendice a K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[15] “Considerando,

Che l'emancipazione della classe produttiva è anche quella di tutti gli esseri umani senza distinzioni di sesso o razza;

Che i produttori non possono essere liberi salvo che quando questi siano in possesso dei mezzi di produzione;

Che esistono solo due forme in cui i mezzi di produzione possano appartener loro:

1)    la forma individuale, che non è mai esistita come stato di cose generale e che è eliminata sempre più dal progresso industriale;

2)    la forma collettiva, i cui elementi materiali e intellettuali sono costituiti dallo stesso sviluppo della società capitalista;

 

Considerando,

Che tale appropriazione collettiva può divenire solo dall'azione rivoluzionaria della classe produttiva - o proletariato - organizzata in un partito politico distinto;

Che tale organizzazione deve essere perseguita con tutti i mezzi a disposizione del proletariato, compreso il suffragio universale, così trasformato da strumento di inganno, qual è stato finora, a strumento di emancipazione;

Gli operai socialisti francesi, adottando come obiettivo dei loro sforzi di ordine economico il ritorno alla collettività di tutti mezzi di produzione, hanno deciso, come mezzo di organizzazione e di lotta, di prender parte alle elezioni con il programma minimo seguente: […]”

[Karl Marx, Preambolo al Programma del Partito Operaio Francese, maggio 1880,

http://www.hekmatist.com/Marx%20Engles/Marx%20&%20Engels%20Collected%20Works%20Volume%2024_%20M%20-%20Karl%20Marx.pdf].

[16] In appendice a Enzo Gamba e Gianfranco Pala, Il Programma Minimo (La Città del Sole, Napoli, 2015).

[17] Ecco qui la traduzione della parte economica del programma minimo: “B. - Programma economico.

1 * Riposo del lunedì o divieto legale per i datori di lavoro di far lavorare il lunedì — Riduzione legale della giornata lavorativa alle 8 ore per gli adulti. Divieto di lavoro minorile nelle officine private per età inferiori ai 14 anni; e, dai 14 ai 18 anni, riduzione legale della giornata lavorativa a 6 ore.

2 * Salario minimo legale, determinato ogni anno in base al prezzo locale del cibo.

3 * Pari retribuzione per i lavoratori di entrambi i sessi.

4 * Educazione scientifica e tecnologica di tutti i bambini, del cui sostentamento è responsabile la società rappresentata dallo Stato e dai Comuni.

5 * Eliminazione di ogni interferenza da parte dei datori di lavoro nell'amministrazione dei fondi di mutuo soccorso dei lavoratori, fondi di previdenza, ecc., restituzione della loro gestione esclusiva ai lavoratori.

6 * Responsabilità dei datori di lavoro in materia di infortuni, garantita da una caparra versata dal datore di lavoro, e proporzionale al numero di lavoratori impiegati e ai rischi presentati dall'industria.” [da: L'Égalité, No.  24, 30 juin, 1880).

http://www.hekmatist.com/Marx%20Engles/Marx%20&%20Engels%20Collected%20Works%20Volume%2024_%20M%20-%20Karl%20Marx.pdf].

N.B. Marx nella già citata (vedi nota n. 3) lettera a Sorge del 5 novembre 1880 spiega: “Poco dopo è venuto Guesde a Londra per scrivere qui con noi (Engels, Lafargue e me) un programma elettorale per i lavoratori per le prossime elezioni generali. Nonostante la nostra protesta, Guesde ritenne necessario imporre alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge, ecc. (Gli ho detto: se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma). Salvo ciò, questo brevissimo documento, oltre a poche righe introduttive nelle quali viene definito il fine comunista, è composto nella sua parte economica soltanto di rivendicazioni che sono nate realmente in modo spontaneo dallo stesso movimento dei lavoratori. È stato un colpo, riportare i lavoratori francesi dalle nubi della loro retorica sul terreno della realtà; perciò, ha provocato anche molto scandalo tra tutti gli impostori francesi, che vivono delle "vendite di fumo". Il programma è stato approvato, dopo una opposizione fortissima degli anarchici, soprattutto nella regione centrale, cioè Parigi e dintorni, più tardi in molte altre sedi di lavoratori.”

[18] G. Berta, Marx, gli operai inglesi e i cartisti (Feltrinelli, Milano, 1979).

 

[19] Il lettore più curioso può approfondire facilmente all’indirizzo:

 https://adattamentosocialista.blogspot.com/2021/07/jean-jaures-estratto-da-life-of-jean.html).

[20] È interessante notare la reazione del marxista italiano Antonio Labriola in una lettera indirizzata allo stesso Kautsky, in merito alla sua risoluzione di Parigi. “Per me quella tua mozione era troppo dialettica, troppo fina e troppo elaborata per essere capita dal grosso del Patito socialista. Tu hai presentata la possibilità del ministro socialista in condizioni tanto impossibili, che la possibilità arriva alla negazione di sé stessa. Tu hai valorizzato il caso Millerand, togliendogli tutto ciò che ha di concreto e di passionale. Ne hai fatto un caso dottrinale. Ti sei messo troppo dal punto di vista esclusivamente tedesco, dove il caso Millerand è proprio il puro possibile che si confonde con l’impossibile. Invece in Francia si discuteva un fatto accaduto già – di un fatto che per me è un’indecenza, un fatto che i puritani (Guesde e Genossen [ossia ‘compagni’ in tedesco, N.d.T.]) combattevano con troppa passione, e gli altri difendevano per difendere se stessi. Tu forse ignori che nei paesi latini si fa carriera per tutte le vie …”. [da Carlo Pinzani, Il caso Millerand e il socialismo internazionale II, Studi Storici, Anno 7, No. 1 (1966), pp. 71-95].

[21] E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (Laterza, Roma e Bari, 1974).

 

[22] K. Kautsky, Bernstein und das Sozialdemokratische Programm: Eine Antikritik (J. H. W. Dietz Nachf., Stuttgart, 1899).

[23] L. Luxemburg, Riforma Sociale o Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[24] In appendice a K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[25] Johannes Franz Miquel, nobilitato nel 1897 come von Miquel (nato il 19 febbraio 1828 a Neuenhaus, nel distretto della contea di Bentheim, e morto l’8 settembre 1901 a Francoforte sul Meno) fu uno statista prussiano, in particolare ministro delle finanze, nonché sindaco di Francoforte.

[26] In appendice a K. Marx, Critica al Programma di Gotha (Editori Riuniti, Roma, 1976).

[27] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002); K. Kautsky, Il Programma di Erfurt (Samonà e Savelli, Roma, 1971); K. Kautsky, Bernstein und das Sozialdemokratische Programm: Eine Antikritik (J. H. W. Dietz Nachf., Stuttgart, 1899).

[28] K. Kautsky, The Labour Revolution (George Allen & Unwin Ltd., London,1925).

 

[29] M. Brinton, ‘17-’21 i bolscevichi e il controllo operaio (Jaca Book, Milano, 1976).

[30] K. Kautsky, La dittatura del proletariato (Atlantica, Roma, 1944); K. Kautsky, Terrorismo e comunismo (Bocca, Milano, 1920); K. Kautsky, Georgia: A Social-Democratic Peasant Republic (International Bookshops Ltd., London, 1921).

[31] J. O. Martov, The State and the Socialist Revolution (International Review, New York, 1938); J. O. Martov, Bolscevismo mondiale (Einaudi, Torino, 1980).

[32] O. Bauer, Bolschewismus oder Sozialdemokratie (Wiener Volksbuchhandling, Wien, 1920).

[33] M. Hillquit, From Marx to Lenin (Hanford Press, New York, 1921).

[34] V. I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (Newton Compton, Roma, 1973).

[35] L. D. Trockij, Terrorismo e comunismo (Sugar, Milano, 1964).

[36] N. I. Bucharin e E. A. Preobraženskij, ABC del Comunismo (Edizioni Del Bosco, Roma, 1973); N. I. Bucharin, La bourgeoisie internationale et son apôtre Karl Kautsky (Librairie de l’Humanité, Paris, 1925).

[37] V. I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (Newton Compton, Roma, 1973).

[39] V. I. Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo (Edizioni Lotta Comunista, Milano, 2005).

[40] M. Dreyfus, Bureau de Paris et bureau de Londres: le socialisme de gauche en Europe entre les deux guerres, in Le Mouvement Social, No. 112, pp. 25-55 (Jul. - Sep., 1980).

[41] V. I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (Newton Compton, Roma, 1973).

[42] N. Lenin, The Soviets at Work (Rand School Press, New York, 1919).

[43] K. Kautsky, Communism and Socialism (American League for Democratic Socialism, New York, 1932); K. Kautsky, Marxism and Bolshevism: Democracy and Dictatorship (American League for Democratic Socialism, New York, 1934); K. Kautsky, Social Democracy versus Communism (Rand School Press, New York, 1946) [postumo].

[44] K. Kautsky, Krieg und Demokratie (J. H. W. Dietz Nachf., Berlin, 1932).

[45] O. Bauer, Tra due guerre mondiali? (Einaudi, Torino, 1979).

[46] O. Bauer, Bolschewismus oder Sozialdemokratie (Wiener Volksbuchhandling, Wien, 1920).

[47] In effetti Otto Bauer era stato, oltre che uno dei massimi dirigenti dell’Internazionale Operaia Socialista e della SDAPÖ, anche l’estensore materiale del famoso Programma di Linz (1926), dove una via democratica a un socialismo non-riformista era stata dettagliatamente esposta. La SDAPÖ, benché per ovvi motivi sentisse alquanto le influenze della SPD, era stata in qualche modo sempre più a sinistra del partito-cugino tedesco. Immediatamente dopo la Grande Guerra, per esempio, insieme all’USPD tedesca, alla SFIO francese, al PSU turatiano e ad altri gruppi, aveva fondato l'Unione dei Partiti Socialisti per l'Azione Internazionale (1921-23), su posizioni assai più radicali di ciò che rimaneva della Seconda Internazionale. Inoltre, eccettuato il breve periodo dell’Assemblea costituente del 1919, la SDAPÖ, benché avesse sempre tra il 36% e il 40% dei suffragi e dominasse stabilmente il popoloso comune di Vienna, non aveva mai fatto parte di governi di coalizione con partiti borghesi come i Cristiano-sociali. In altre parole, Bauer sembrava realizzare nella piccola Austria, ciò che Kautsky teorizzava, ma raramente riusciva ad implementare precisamente in Germania a causa della variegata struttura della grande SPD, spesso lenta nelle decisioni e fortemente incline al compromesso e alle scelte al ribasso. Perciò non desti troppa meraviglia, almeno sul piano umano, il fatto che, quando nel 1934 i Cristiano-sociali di Dollfuss vireranno definitivamente verso il fascismo e Bauer sarà costretto a fuggire precipitosamente in Cecoslovacchia, quest’ultimo comincerà a sentirsi profondamente sfiduciato verso la via democratica al socialismo e, come si è visto, tenderà ad avvicinarsi pericolosamente all’URSS e al Komintern, seguito a ruota da un altro capo socialista esiliato dal fascismo, l’italiano Pietro Nenni.

[48] Massimo Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi, Torino, 1970).

[49] K. Marx, Discorso cosiddetto “La Liberté” all’Associazione Internazionale dei Lavoratori, Amsterdam, settembre 1872.


Comments