Democrazia parlamentare e democrazia sovietica nel dibattito socialista tra le due guerre mondiali: Oltre la dicotomia riformismo-bolscevismo
1. Introduzione: socialismo e democrazia parlamentare durante la belle époque
Come si è visto nell’articolo precedente del dicembre 2021, intitolato “Kautsky e il riformismo: riflessioni su un rapporto molto complesso” [1], la Seconda Internazionale (1889-1914), nonostante la sua ostentata adesione alle dottrine marxiste del socialismo scientifico, mancò di una chiara e coerente teoria della “rivoluzione sociale”, persino nelle elaborazioni programmatiche del suo partito-guida, la Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito Socialdemocratico della Germania, SPD), che proprio in Karl Kautsky ebbe per decenni il suo teorico di riferimento. In effetti nel lungo periodo della belle époque europea, che si dipanò approssimativamente dalla soppressione della Comune di Parigi (28 maggio 1871) fino allo scoppio della Grande Guerra (28 luglio 1914), solo due eventi portarono in qualche modo all’ordine del giorno la parola “rivoluzione”, scuotendo rispettivamente l’Impero Russo nel 1905 e la Repubblica Messicana nel 1910. Si trattò tuttavia di episodi, benché importanti e con una vasta risonanza mediatica, avvenuti alla periferia del grande polo capitalista industriale e finanziario di quei decenni (Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti), per di più in contesti principalmente (come in Russia) o esclusivamente (come in Messico) agricoli.
Non fa quindi meraviglia il fatto che, con l’eccezione dei socialisti russi che avevano ovviamente il vantaggio di un punto d’osservazione privilegiato dei moti del 1905, solo teorici marxisti del calibro di Rosa Luxemburg e Karl Kautsky compresero che gli eventi del primo decennio del XX secolo segnavano davvero la fine di un’epoca e inauguravano una stagione di aspri conflitti, sia tra le classi dominanti delle varie potenze imperialiste, sia tra tali classi e le rispettive frazioni del proletariato internazionale. In particolare, Kautsky nel 1909 scrisse il saggio La via al potere: considerazioni politiche sulla maturazione della rivoluzione [2], dove sosteneva l'idea che una guerra imminente avrebbe reso la “rivoluzione sociale” inevitabile e parlava addirittura dell'approssimarsi di una vera e propria era di rapide trasformazioni rivoluzionarie. Riuscì inoltre a trasferire una piccola parte di tali concetti nel noto Manifesto di Basilea [3] della Seconda Internazionale (1912) in cui si parla apertamente di “rivoluzione sociale”:
“(…) In case war should break out anyway it is their duty to intervene in favor of its speedy termination and with all their powers to utilize the economic and political crisis created by the war to arouse the people and thereby to hasten the downfall of capitalist class rule”.
{“(…) Nel caso in cui la guerra dovesse comunque scoppiare, è loro [dei partiti socialisti N.d.T.] dovere intervenire in favore della sua rapida cessazione e utilizzare con tutti i loro poteri la crisi economica e politica creata dalla guerra per destare il popolo e affrettare così la caduta del dominio della classe capitalista”} [4].
Sappiamo bene come andarono le cose dopo soli 19 mesi da tale manifesto, ma non è questo il punto che vogliamo evidenziare nell’articolo, quanto piuttosto il fatto che coesisteva nella Seconda Internazionale, apparentemente senza contraddizioni, la riaffermazione dell’inevitabilità della “rivoluzione sociale” (ossia il “programma massimo”) e il più solenne apprezzamento per la democrazia parlamentare, implicito nella richiesta pressante del suffragio universale (contenuta nel “programma minimo”). Recita infatti a questo proposito il noto programma di Erfurt (1891) [5] della SPD nel suo primo punto rivendicativo:
“1. Universal, equal, and direct suffrage with secret ballot in all elections, for all citizens of the Reich over the age of twenty, without distinction of sex. Proportional representation, and, until this is introduced, legal redistribution of electoral districts after every census. Two-year legislative periods. Holding of elections on a legal holiday. Compensation for elected representatives. Suspension of every restriction on political rights, except in the case of legal incapacity”.
(“1. Suffragio universale, uguale e diretto, a scrutinio segreto in tutte le elezioni, per tutti i cittadini dell’Impero di età superiore ai vent'anni, senza distinzione di sesso. Rappresentanza proporzionale e, fino a quando questa non sarà stata introdotta, ridistribuzione legale delle circoscrizioni elettorali dopo ogni censimento. Periodi legislativi di due anni. Svolgimento delle elezioni in un giorno festivo. Compensi per i rappresentanti eletti. Sospensione di ogni restrizione dei diritti politici, salvo il caso di incapacità legale”).
Si badi bene che tale programma, accuratamente commentato da Friedrich Engels in persona [6], si colloca temporalmente svariati anni prima del celebre Revisionismusdebatte (“dibattito sul revisionismo”, 1896) innescato nella SPD dalle posizioni apertamente riformiste e critiche del marxismo di Eduard Bernstein. Ad ulteriore riprova dell’assenza di antagonismo tra i concetti di “rivoluzione sociale” e di democrazia parlamentare nel marxismo della belle époque, possiamo anche citare le posizioni dei cosiddetti “impossibilisti” britannici (Socialist Party of Great Britain, 1904-esistente) e nord-americani (Socialist Labor Party, 1876-2011 e Socialist Party of Canada, 1904-1925). Tali partiti, pur essendo radicalmente antiriformisti e antirevisionisti, sempre restando fuori o ai margini della Seconda Internazionale (giudicata troppo accondiscendente con talune formazioni alquanto lontane dal marxismo) teorizzarono in dettaglio l’utilizzo dei Parlamenti delle costituzioni liberal-democratiche del loro periodo per fini squisitamente rivoluzionari, secondo una peculiare strategia difesa ancora oggi da ciò che resta di tali organizzazioni [7].
L’opposizione ideologica alla partecipazione dei socialisti alle elezioni politiche (specie in presenza di suffragio universale) caratterizzava infatti, sia secondo gli “impossibilisti” che secondo gli altri marxisti degli anni precedenti la Grande Guerra, un atteggiamento prettamente “anarchico” o “anarco-sindacalista”, quindi assai lontano dal socialismo scientifico [8]. Infatti, gli stessi elementi più radicali della SPD, Rosa Luxemburg e Franz Mehring, o della piccola e antiriformista Sociaal-Democratische Partij (van Nederland) (“Partito Socialdemocratico (dei Paesi Bassi)”, SDP), Herman Gorter e Anton Pannekoek, benché rivendicassero apertamente la necessità della distruzione rivoluzionaria dello Stato borghese:
“The struggle of the proletaria is not merely a struggle against the bourgeoisie for state power, but a struggle against state power. (…). The content of this revolution is the destruction and dissolution of the instruments of power of the state with the aid of the instruments of power of the proletariat” [9],
[“La lotta del proletariato non è semplicemente una lotta contro la borghesia per il potere statale, ma una lotta contro il potere statale. (…). Il contenuto di questa rivoluzione è la distruzione e la dissoluzione degli strumenti di potere dello Stato con l'aiuto degli strumenti di potere del proletariato”],
non ne derivavano in questa fase prebellica (a differenza di ciò che accadde successivamente con il passaggio al comunismo) un’aperta ostilità per la democrazia parlamentare, né in quanto principio né in quanto pratica. Difatti nel “programma minimo” della stessa SDP (1909-1918) si leggono chiaramente i seguenti tre punti, pienamente democratico-parlamentari:
o Vervanging van het koningschap door een republiek (sostituzione della monarchia con una repubblica).
o Afschaffing van de Eerste Kamer (abolizione della Prima Camera, ovvero del Senato non elettivo).
o Evenredige vertegenwoordiging en invoering volksreferendum (rappresentanza proporzionale e introduzione del referendum popolare).
Dopo questa breve escursione nel marxismo della Seconda Internazionale sorge spontaneo chiedersi come sia nata in ambito marxista l’idea della supposta incompatibilità tra “rivoluzione sociale” e democrazia parlamentare. La risposta è in effetti molto semplice, almeno in prima battuta, e rimanda ovviamente alla piega che prese la Rivoluzione d’Ottobre. Più precisamente a tre episodi chiave all’interno di essa:
1) l’esautorazione del Governo Provvisorio, rimpiazzato dal Comitato Militare Rivoluzionario, espressione del Soviet di Pietrogrado ormai egemonizzato dai bolscevichi (7 novembre 1917 – cal. gregoriano);
2) scioglimento dell’Assemblea costituente, democraticamente eletta nei due mesi precedenti (19 gennaio 1918 – cal. gregoriano);
3) abolizione di tutta la stampa “borghese” (18 agosto 1918) e promulgazione del decreto che instaurò legalmente il “terrore rosso” (5 settembre 1918);
Tuttavia, sarebbe un mero esercizio di formalismo limitarsi a snocciolare tali date, mentre a nostro parere è assai più importante capire come il pensiero di Vladimir I. Lenin si sia evoluto a partire da idee pienamente democratiche per quanto riguarda il programma politico della rivoluzione russa del 1905 (ossia, la “dittatura democratica rivoluzionaria degli operai e dei contadini” [10]) fino giungere, attraverso la tragedia della Grande Guerra, al concepimento e alla messa in atto del violento putsch dell’Ottobre Rosso. In tutto questo, come vedremo nel prossimo capitolo, il ruolo di Lev D. Trockij e della sua teoria della “rivoluzione permanente” sarà rilevante.
FIG1. Ritratto di gruppo della SDP olandese, sezione di Rotterdam, durante il congresso di partito del 1911. Fu probabilmente il raggruppamento socialista più radicale dell’Europa precedente alla Grande Guerra. Si riconoscono da sinistra a destra: Sam de Wolff, Willem van Ravesteyn, Herman Gorter, David Jozef Wijnkoop, Louis de Visser, Gerrit Mannoury e Jan Cornelis Ceton.
2. I bolscevichi: dalla democrazia operaia e contadina alla dittatura del partito sui soviet
L’evoluzione del pensiero politico di Lenin nel lungo periodo compreso tra il fallimento della Prima Rivoluzione Russa (16 giugno 1907 – cal. gregoriano) e la definitiva proclamazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (30 dicembre 1922) è stato oggetto di molteplici studi [11], accurati talora fino all’acribia dato il vero e proprio culto para-religioso di cui il rivoluzionario russo ha goduto per decenni all’interno del movimento comunista internazionale. Ma ovviamente non è la disamina di questa evoluzione lo scopo che ci proponiamo nel presente breve articolo divulgativo. Ci accontenteremo invece di abbozzare per punti i passaggi che condussero un giovane ammiratore di Kautsky e del Programma di Erfurt della SPD [12] alla nota posizione antidemocratica condensata nelle celebri frasi di “Stato e Rivoluzione” del settembre 1917 [13]:
«L’onnipotenza della “ricchezza” è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito [grazie ai Palcinski, ai Cernov, agli Tsereteli e soci (sottosegretario e ministri del Governo Provvisorio russo del 1917 N.d.T.)] di questo involucro — che è il migliore — fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo».
Il primo passaggio di questa evoluzione è contenuto nell’interessante lavoro “Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica”[14] , pubblicato nell’estate del 1905 in polemica con i menscevichi russi mentre Lenin si trovava in esilio a Ginevra. In esso si affrontano teoricamente le questioni fondamentali della Prima Rivoluzione Russa da poco scoppiata e già si indicano, seppure in modo ancora un po’ vago, i compiti del proletariato russo per gli anni a venire. Lenin, sempre essenzialmente un socialdemocratico kautskiano, introduce però in questa sua opera la teoria della "rivoluzione ininterrotta" (assai simile alla dottrina trotskista della "rivoluzione permanente" [15]) con queste parole assai distanti dalle contemporanee analisi del teorico menscevico Julij O. Martov, strenuo difensore della “dottrina delle due fasi”: rivoluzione democratica in Russia e negli altri paesi arretrati con residui feudali, rivoluzione socialista in Europa Settentrionale e Centrale. Lenin invece scrive:
“Dalla rivoluzione democratica noi cominceremo subito, nella misura delle nostre forze, ossia delle forze del proletariato cosciente ed organizzato, a passare alla rivoluzione socialista. Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta. Non ci arresteremo a metà strada”. Ovviamente non assistiamo ancora alle posizioni del 1917, in quanto Lenin in questo lavoro implica che una tale “rivoluzione ininterrotta” russa avverrà contemporaneamente alla presa del potere da parte dei partiti socialisti europei nell’ambito della futura rivoluzione socialista. Ovvero, proprio quello che Kautsky teorizzerà nel citato saggio La via al potere [16] di quattro anni dopo, che Lenin imparerà quasi a memoria.
Il secondo passaggio chiave dell’evoluzione antidemocratica del pensiero di Lenin è rappresentato dai cosiddetti sovety (“consigli” in russo), noti semplicemente anche come “soviet”. Secondo la storiografia ufficiale il primo soviet si formò nel maggio 1905 a Ivanovo (una cittadina a nord-est di Mosca) durante la Prima Rivoluzione Russa. Tuttavia, alcuni scrittori affermano di aver assistito agli inizi dei lavori del soviet di San Pietroburgo già nel gennaio 1905. I lavoratori industriali russi erano in gran parte già organizzati sindacalmente all'inizio del XX secolo a causa della non ostilità del governo zarista alla formazione di trade union. Tuttavia, nel 1905, mentre la guerra russo-giapponese faceva aumentare enormemente la pressione sulla produzione industriale, i lavoratori iniziarono a scioperare e a ribellarsi a nuovi ritmi di lavoro massacranti. I soviet rappresentarono quindi un movimento operaio autonomo, che si liberò dalla supervisione del governo sui sindacati e svolse un ruolo importante nella fallita rivoluzione del 1905-07. Essi sorsero in tutti i centri industriali della Russia, di solito organizzando incontri a livello di singola fabbrica prima, e in ambito territoriale poi. Questi soviet scomparvero dopo la fine della rivoluzione nel 1907, ma riemersero sotto la guida socialista durante le due rivoluzioni del 1917. Nella mente di Lenin e di Trockij i soviet russi non differivano granché dai vari comitati rivoluzionari francesi dei tre grandi sconvolgimenti dei secoli XVIII e XIX che avevano ispirato così fortemente Marx ed Engels: 1789-1794, 1848-1851, 1871. In particolare, Lenin, che aveva già studiato con grande attenzione gli scritti marxiani sulla Comune di Parigi [17], ricavandone persino un proprio opuscolo [18] nel 1904, tese sempre di più a identificare i soviet del 1905-07 con la forma "finalmente scoperta" (di cui parla Marx) della dittatura proletaria, sotto la quale poteva prodursi l’emancipazione economica e sociale dei lavoratori. Nella mente di Lenin i soviet diventarono quindi, come fu per la Comune, il primo tentativo della rivoluzione proletaria di spezzare la “macchina dello Stato borghese”. In questo senso divennero la forma politica "finalmente scoperta" che può e deve sostituire quello che “è stato spezzato”, ossia lo Stato borghese. Ma qui saremmo già giunti ai concetti di Stato e Rivoluzione, mentre effettivamente manca ancora un duplice e importante passaggio nella maturazione del pensiero leniniano: la teoria dell’imperialismo come fenomeno mondiale e lo scoppio della Grande Guerra con il simultaneo collasso della Seconda Internazionale.
Naturalmente non possiamo dilungarci in questa sede sulle teorie relative alla fase imperialista del capitalismo mondiale, le quali, pur essendo state espresse in un volumetto [19] di neppure 100 pagine, scritto nel 1916 e pubblicato l’anno seguente, hanno goduto di una fortuna davvero enorme nel movimento comunista internazionale e persino in taluni ambienti terzomondisti distanti da questo. Lenin stesso lo definì un “saggio popolare” intendendo che non si sarebbe trattato di uno studio scientifico da porre allo stesso livello de “Il Capitale” di Marx, proprio perché nasceva dall’integrazione di almeno tre contributi distinti: (1) l’analisi del capitale finanziario nel mondo europeo e delle sue interazioni con il capitalismo industriale di tipo monopolistico, dovuta al marxista austriaco Rudolf Hilferding [20]; (2) lo studio delle motivazioni economiche dell’espansione coloniale e del militarismo, effettuato dall’economista fabiano John A. Hobson [21]; (3) le prime bozze del sorprendente saggio del giovanissimo bolscevico Nikolaj I. Bucharin sulle cause profonde dello scoppio della Grande Guerra vista come scontro tra opposti fronti imperialisti [22].
A questo punto il lettore potrebbe facilmente domandarsi quale sia il legame tra due questioni apparentemente molto distanti tra loro: l’imperialismo e la critica alla democrazia parlamentare. In realtà è proprio la mutazione imperialista, colonialista e militarista del capitalismo a cavallo tra i due secoli a fornire al capo dei bolscevichi lo strumento teorico a lungo cercato per giustificare il suo totale distanziamento dal marxismo democratico della Seconda Internazionale, senza però la necessità di opporsi platealmente alle opinioni dei “venerati padri del socialismo scientifico”. Infatti, l’esistenza dei ben noti sopraprofitti monopolistici e coloniali permetterebbe ai capitalisti metropolitani di abbassare lo sfruttamento di interi settori del proletariato europeo e nord-americano dando vita ad una vera e propria “aristocrazia operaia”, sempre meno rivoluzionaria e largamente incline ad appoggiare tattiche sindacali e politiche blandamente riformiste. Tale degenerazione sarebbe alla base dell’involuzioni teoriche (“revisionismo”) e pratiche (“ministerialismo”) della Seconda Internazionale, che, sebbene respinte al livello formale, non furono effettivamente espulse dal corpo vivo dei vari partiti socialisti, ma anzi, con lo scoppio della Grande Guerra, esplosero dando vita al vero e proprio tradimento del “social-patriottismo” [23] e, conseguentemente, alla dissoluzione della stessa Seconda Internazionale (cfr. per esempio l’opuscolo leniniano Il Socialismo e la Guerra del 1915 [24]). Inoltre, sempre secondo Lenin, sarebbe stato proprio l’ambiente parlamentare, insieme al milieu sindacale dei lavoratori più qualificati, il vero e proprio “brodo di cultura” di una tale deriva, opportunista prima e apertamente traditrice poi, dei dirigenti socialisti di Austria-Ungheria, Germania, Francia e Gran Bretagna. Nella visione bolscevica quindi, che in effetti non manca pur nel suo schematismo di un certo fascino, è la fase imperialista a togliere inesorabilmente alla democrazia parlamentare qualsiasi elemento progressivo (ancora presente all’epoca del vecchio Engels) e a trasformarla dialetticamente nel suo opposto, ovvero in una vera e propria camicia di forza del dominio borghese: il “migliore involucro politico possibile per il capitalismo”[25] .
Il resto dell’evoluzione leniniana è piuttosto prevedibile e tutto sommato abbastanza lineare: da strumento di lotta politica del proletariato i soviet (se, e soltanto se, egemonizzati dai bolscevichi) sono promossi in modo alquanto rapido e disinvolto ad organo di governo dittatoriale della classe lavoratrice [26]. Una repubblica sovietica (ovvero una “democrazia sovietica”) diviene dunque una realtà politica in cui i soviet sono eletti tramite un sistema articolato su vari livelli. I membri dei soviet sono direttamente responsabili di fronte ai loro elettori e vincolati al mandato fornito loro da questi ultimi. Si tratta quindi di un cosiddetto “mandato imperativo” che è in contrasto con il “mandato libero” tipico delle democrazie liberali, in cui gli eletti, una volta titolari del mandato, sono responsabili solo “di fronte alla loro coscienza". Di conseguenza, i rappresentanti presso i soviet potrebbero essere revocati o rimossi dai loro incarichi in qualsiasi momento. In una repubblica sovietica gli elettori sono organizzati in unità di base, ad esempio gli operai e gli impiegati di un’azienda, gli abitanti di un quartiere popolare, o i militari di una caserma ecc. I soviet inviano direttamente alcuni loro membri, con il ruolo di pubblici ufficiali, a fungere da legislatori, o da ministri, o da giudici, in modo anche simultaneo in quanto, contrariamente ai precedenti modelli di democrazia concepiti da Locke o da Montesquieu, non vi è alcuna separazione dei poteri. Come si è visto, i soviet sono eletti a più livelli: dal livello territoriale (quartiere) e aziendale (fabbrica o ufficio), alcuni delegati vengono inviati alle riunioni plenarie dei cosiddetti “soviet locali”. Questi a loro volta delegano alcuni loro membri al livello superiore successivo, i soviet distrettuali. Il sistema delle deleghe prosegue fino al soviet centrale, che agisce al livello statale, sempre mediante processi di nomina elettiva che si svolgono dal basso verso l’alto. I livelli dei soviet sono per lo più legati ai livelli amministrativi dello Stato. È del tutto evidente che un sistema del genere, apparentemente imperniato sulla democrazia partecipativa, sia in realtà estremamente indiretto e piramidale: l’elettore del livello di base non ha più nessuna conoscenza, dopo una serie di cinque o sei livelli intermedi, del delegato al soviet centrale. Se da un lato l’architettura appare ben congegnata per escludere gli elementi sociali sgraditi (nobili, membri del clero, borghesi grandi e medi, contadini ricchi, ecc.) dall’esercizio dei diritti politici attivi e passivi secondo lo spirito della “dittatura del proletariato”, dall’altro la presenza di un così gran numero di livelli intermedi rende di fatto i soviet facilmente influenzabili dall’unico grande partito di massa ammesso, ossia quello bolscevico, il quale avrà gioco facile a far prevalere a tutti i livelli i delegati ad esso graditi (iscritti o comunque simpatizzanti).
Successivamente, con la creazione dell’Internazionale Comunista (il famigerato “Komintern”) nel 1919, un tale impianto rivoluzionario sovietico, antiparlamentare (e talora addirittura “terrorista”) verrà non solo raccomandato, ma letteralmente imposto, ai programmi di tutti i partiti affiliati (oramai detti “comunisti” anziché “socialisti”) a prescindere dalle reali situazioni nelle quali tali formazioni si troveranno a operare. Ciò porterà a livello mondiale a una lunga e violentissima contrapposizione tra socialdemocratici riformisti (facenti capo alla rinata Seconda Internazionale di Ginevra), socialisti centristi (aggregatisi nell'Unione dei Partiti Socialisti per l'Azione Internazionale di Vienna) e comunisti fedeli ai diktat moscoviti [27]. Un saggio di tale clima arroventato e polemico si trova per esempio nell’aspro pamphlet leniniano, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky del 1918 [28] o, al livello ancora più divulgativo, nel famoso L’ABC del Comunismo di Nikolaj I. Bucharin ed Evgenij A. Preobraženskij (1919-20) [29]. Anche se ben presto il Komintern stesso si esprimerà per motivi prettamente propagandistici a favore della partecipazione dei neonati partiti comunisti alle elezioni politiche, sarà solo nel 1934 con la politica del “Fronti Popolari” che gli eredi di Lenin, oramai piegati dal tallone di ferro di Stalin, riconsidereranno il ruolo della democrazia parlamentare nella lotta della classe lavoratrice contro il fascismo e il nazismo.
FIG. 2. Riunione del soviet di Pietrogrado nel 1917.
3. Max Adler e la visione austro-marxista della democrazia e dei soviet
Come si è visto, i socialisti centristi del primo dopoguerra rifiutarono, almeno inizialmente, di unirsi alla nuova “Seconda Internazionale” che era stata appena ricostituita sotto la direzione del partito laburista britannico durante il congresso di Ginevra (estate 1920), dopo alcune conferenze preparatorie a Berna (febbraio 1919), ad Amsterdam e a Lucerna (agosto 1919). Il motivo principale di tale rifiuto fu la mancanza di autocritica relativamente alla politica di “social patriottismo” che la maggior parte dei partiti socialisti europei aveva assunto dal 1914 al 1918. Dato che non vi aderirono molti partiti socialisti di sinistra, la nuova “Seconda Internazionale” non rivestì una grande importanza, se non forse per la presenza dell’SPD tedesca.
In effetti, alcuni partiti della sinistra socialista, tra cui anche l’importante “Section française de l’Internationale ouvrière” (Sezione francese dell’Internazionale operaia, SFIO), cercarono di trovare una propria collocazione a metà fra il Komintern e la Seconda Internazionale. Sotto la guida della “Sozialdemokratische Arbeiterpartei Deutschösterreichs” (Partito Operaio Socialdemocratico dell’Austria, SDAP), essi si riunirono a Vienna nel febbraio del 1921 e fondarono l’Unione dei Partiti Socialisti per l'Azione Internazionale (detta anche in modo dispregiativo “Internazionale due e mezzo” dai comunisti o “Internazionale Viennese” dai social patrioti). Nel 1922 un’iniziativa centrista per la riunificazione delle tre Internazionali operaie fallì, determinando però un avvicinamento alla Seconda Internazionale e la fusione nel maggio 1923 delle due organizzazioni nell’Internazionale Operaia e Socialista con il congresso di Amburgo. In questo modo venne sancita definitivamente la scissione fra una Internazionale socialista democratica e una comunista. Questo raggruppamento di socialisti “centristi”, sebbene di breve durata e di dimensioni non grandi (ancorché tutt’altro che trascurabili) comprendeva, tra gli altri, quattro partiti socialisti di notevole importanza: la SFIO francese, i menscevichi russi (presto in esilio), la USPD (“Unabhängige Sozialdemokratische Partei Deutschlands”) tedesca e la SDAP austriaca. Gli ultimi tre furono in quegli anni vere e proprie fucine intellettuali di una garbata ma ferma opposizione sia al riformismo social patriottico, senza principi e piuttosto orientato alla collaborazione di classe, tipico della rinata Seconda Internazionale dei Laburisti e dell’SPD, sia alle versioni occidentali del bolscevismo, ossia ai programmi delle sezioni europee del Komintern, con particolare riferimento a quella tedesca, “Kommunistische Partei Deutschlands” (Partito Comunista di Germania, KPD), quella francese, “Parti communiste français - Section française de l’Internationale communiste” (Partito Comunista Francese – Sezione Francese dell’Internazionale comunista, PCF-SFIC) e quella italiana (“Partito Comunista d’Italia”, PCd’I). Teorici marxisti del livello di Julij O. Martov, Karl Kautsky, Rudolf Hilferding e Otto Bauer seppero tener testa abilmente alle menti migliori del campo comunista come Vladimir I. Lenin, Lev D. Trockij, Nikolaj I. Bucharin, Anton Pannekoek e Amadeo Bordiga.
Martov, per esempio, compì una raffinatissima analisi critica [30] del citato Stato e Rivoluzione leniniano mostrando come la ricostruzione apparentemente filologica della teoria marxiana dello Stato fosse in realtà viziata da alcuni gravi errori di fondo tipici di un modo di procedere esegetico e “neo scolastico”, spia di un approccio teologico e parareligioso anziché storico-dialettico. Notava infatti Martov come Lenin avesse cucito insieme, in modo suggestivo ma estremamente disinvolto, spezzoni di testi e lettere di Marx ed Engels appartenenti a periodi molto diversi dell’evoluzione del loro pensiero e del divenire della storia europea. Per esempio, il Marx giovanile, ancora affascinato dal mito della Grande Rivoluzione Francese, sembra elogiare il Terrore e sarebbe servito a coprire le violenze repressive dei bolscevichi. Il Marx degli anni successivi al ’48, che inveisce contro i parlamenti europei non eletti a suffragio universale, sarà utile a denigrare la democrazia rappresentativa. Il Marx emotivamente coinvolto dalla repressione sanguinosa della Comune di Parigi e ansioso di scriverne rapidamente un elogio pubblico (mentre privatamente non le aveva lesinato dure critiche) verrà in soccorso dell’idea dei soviet quali strumenti democratici di “dittatura del proletariato” e così via. Naturalmente senza mai citare i numerosi passaggi in cui Marx ed Engels lumeggiano la concreta possibilità di una via democratica alla rivoluzione socialista, almeno in taluni paesi occidentali come Gran Bretagna e Olanda.
Tuttavia, l’autore che più di tutti gli altri darà una rigorosa valutazione marxista del grave dilemma “parlamento o soviet” sarà l’austriaco Max Adler, valido filosofo, sociologo e giurista ingiustamente dimenticato dai più. Professore all’Università di Vienna e convinto militante socialista, Max Adler (omonimo ma non parente dei dirigenti socialisti Victor e Friedrich Adler), affronterà con una poderosa ricostruzione teorica la concezione marxiana dello Stato solo nel 1922 [31], in aperta polemica con il grande filosofo del diritto (di formazione liberaldemocratica) Hans Kelsen, che negava esplicitamente la compatibilità tra socialismo e democrazia. Però già nel 1919, sull’onda delle rivoluzioni tedesca, austriaca e ungherese e assistendo al dilagare dell’esperienza dei “Räte” (“soviet” ovvero “consigli”) in Germania, Adler s’interroga su questa problematica in un piccolo ma densissimo opuscolo intitolato proprio Democrazia e Consigli [32].
Il punto di partenza di Adler è lo stesso della nostra introduzione, ossia la domanda che si posero tutti i “vecchi” socialisti nel primo dopoguerra: «Se è vero che la Seconda Internazionale propagandò senza sosta la richiesta di suffragio universale, perché ora i lavoratori più coscienti della Mitteleuropa gridano “Abbasso il parlamento borghese, tutto il potere ai soviet degli operai e dei contadini!” a gran voce?». L’autore prosegue con una breve disamina teorica del concetto stesso di democrazia moderna rintracciandone le origini nell’idea illuministica di “volontà generale” dovuta a Jean-Jacques Rousseau, contrapposta invece alle istanze, sempre illuministiche, di tutela delle libertà individuali e di Stato minimo. Tuttavia, prosegue Adler, dato che in una società divisa in classi la “volontà generale” coinciderebbe con gli interessi della maggioranza sfruttata e priva di mezzi economici, è quasi ovvio che la classe dominante, per rimanere tale, abbia accettato solo una versione in qualche modo adulterata della democrazia, basata sul concetto di maggioranza numerica in luogo della “volontà generale”, e di delega politica periodica a vantaggio di rappresentanti parlamentari privi di vincolo di mandato. Si tratta, come verrà approfondito nel 1926 [33], del famoso iato tra “democrazia sociale” (autenticamente roussoviana) e semplice “democrazia politica” di natura prettamente procedurale.
Sarebbe però un grave errore dedurre da queste pur grosse limitazioni l’idea dell’inutilità, o peggio dell’inganno, della democrazia rappresentativa parlamentare. Nessuno, infatti, direbbe che una giornata lavorativa limitata alle 8 ore sia inutile o dannosa dato che, di per sé, essa non elimina lo sfruttamento capitalista ma pone di fronte a quest’ultimo soltanto una barriera. Allo stesso modo la democrazia “borghese” intesa nella sua vera essenza, ovvero la costruzione di un certo consenso delle classi subalterne nei confronti delle azioni di governo delle classi dominanti, non trasferisce certamente il potere politico dalle seconde verso le prime, ma costituisce ad ogni modo una sorta di argine contro l’arbitrio di un tale potere. E se è innegabile che questo consenso, come già notato da Marx ed Engels, viene sovente plasmato e irrobustito da ideologie mistificatrici diffuse da intellettuali e propagandisti asserviti alle classi egemoni, è anche vero che una situazione del genere non può mascherare la realtà dei fatti in modo illimitato in quanto, oltre un certo segno, i bisogni materiali e morali delle classi sfruttate divengono effettivamente incomprimibili e, quindi, generatori di dissenso.
Dopo di ciò il pamphlet di Adler si rivolge all’idea e alla genesi dei consigli operai, tracciandone correttamente l’origine nell’arretrato contesto russo dei soviet, caratterizzato da una classe lavoratrice ancora giovane, inesperta, di origine rurale e localizzata in poche grandi realtà urbane. Sarà poi l’ambiente bellico della Grande Guerra e della sua leva militare di massa a generalizzare tale forma di auto-organizzazione prima al mondo contadino russo e poi anche agli eserciti degli Imperi Centrali (Germania ed Austria-Ungheria), soprattutto nella seconda metà del 1918 quando da un lato la Rivoluzione d’Ottobre sembra resistere e dall’altro le possibilità di vittoria austro-tedesca svaniscono. Dalle caserme e dagli accampamenti, tramite le licenze della truppa, l’idea dell’auto-organizzazione dei lavoratori raggiunge presto le fabbriche e le officine dei tre paesi suddetti, per poi, con le crisi finali delle rispettive monarchie (Austria-Ungheria: 12 novembre 1918; Germania: 28 novembre 1918), dilagare anche nel tessuto urbano e costituirsi, alla fine, al livello sia distrettuale che nazionale.
A questo punto il nostro autore dà una breve descrizione del sistema piramidale dei Räte, che qui non riportiamo in quanto assai affine a ciò da noi scritto nella precedente sezione, e ne deduce un’estrema efficacia come strumenti di lotta politica finalizzata allo stabilimento della dittatura del proletariato, accompagnata però da un’inevitabile debolezza come organi istituzionali nel quadro di una tale dittatura. Ricordiamo en passant che in queste pagine la duplice critica adleriana contro SPD e KPD è vibrante: i primi, con la loro adesione acritica alla union sacrée, sono stati il fattore principale di discredito delle istituzioni parlamentari di fronte a una classe lavoratrice mandata al macello nelle trincee, i secondi con la loro demonizzazione della democrazia rappresentativa rischiano di ridurre enormemente la forza di attrazione del socialismo nei confronti delle classi intermedie (contadini, artigiani, piccoli commercianti e impiegati pubblici), il cui sostegno è reputato importantissimo nel periodo di transizione da capitalismo a socialismo, proprio perché l’idea bolscevica di un temporaneo “terrore rosso” è respinta con sdegno. In effetti questa seconda osservazione è comprensibile solo nell’ottica adleriana (non troppo dissimile da quella degli “ordinovisti" torinesi del 1920) secondo la quale la legittimità dei consigli si esplica e si esaurisce nei soli luoghi di produzione in cui la classe lavoratrice espleti in modo collettivo ed associato la sua funzione di produzione di plusvalore: le fabbriche, le officine, i laboratori, le cooperative agricole, non certo i quartieri, le caserme, gli uffici ministeriali, le banche, le assicurazioni ecc. Per Max Adler questi ultimi luoghi di lavoro improduttivo, qualora decidessero di costituirsi in “soviet”, sarebbero una mera parodia “conservatrice” dei veri Räte con un effetto prettamente corporativo e addirittura controrivoluzionario. Per tale motivo la proposta costituzionale finale dell’autore, che, si badi bene, pur tenendo d’occhio la vicina Germania, scrive e lavora nella piccola Austria, è in qualche modo scioccante nel suo radicale anti-leninismo: che i Räte, formati dai soli lavoratori salariati, nominino esclusivamente delegati appartenenti ai partiti operai (socialisti o comunisti), ma che coesistano insieme alle istituzioni parlamentari, elette invece a suffragio universale. In questo modo si avrebbe un bicameralismo su base classista che, da un lato permetterebbe ai lavoratori di esercitare in modo democratico la loro “dittatura”, mentre dall’altro non causerebbe l’esclusione delle classi intermedie, ancora necessarie nella fase di transizione al socialismo. Conclude infatti il nostro teorico austro marxista [34]:
“In questo senso la nostra proposta di regolamentazione costituzionale dei Consigli Operai non significa né limitare il loro potere, né la loro importanza politica. Essa intende, al contrario, definire la forma transitoria attraverso la quale si potrà realizzare con il minimo delle contese ciò che rappresenta l’unico significato e l’unico scopo di questa organizzazione di lotta per la rivoluzione sociale: il trasferimento di tutti i poteri ai Consigli Operai stessi”.
La proposta di Max Adler non venne accettata dalla nuova costituzione della Repubblica d’Austria (1° ottobre 1920), non solo per la scontata opposizione dei cattolici, ma anche per una sostanziale ostilità da parte dell’ala destra dello SDAP schierata intorno al socialdemocratico moderato Karl Renner. Egli, che riuscì tuttavia a ritagliare un certo ruolo ufficiale per i Consigli di Fabbrica, condivideva all’incirca le stesse posizioni della SPD tedesca, la quale, molto abilmente, egemonizzò il movimento dei Räte tedeschi per poi effettuarne una sorta di tranquilla eutanasia (nell’aprile del 1919 durante II Congresso Nazionale dei Consigli), nonostante che i celebri delegati Richard Müller ed Ernst Däumig (allora nella USPD) sostenessero posizioni assai simili a quelle di Adler in Austria.
Da parte comunista poi, e non è neppure il caso di dilungarsi sulla questione, la proposta di integrare i soviet in un sistema costituzionale di democrazia parlamentare fu accolta con scherno sarcastico secondo un adagio traducibile con la frase “Non tutto il potere ai soviet!”, dato che, come si è detto, in Russia la questione dell’Assemblea costituente era stata liquidata bruscamente da un piccolo drappello di soldati. Ma la progressiva distruzione dell’indipendenza dei soviet nel corso della lunga guerra civile russa, sfociata poi nella famosa insurrezione di Kronštadt, avrebbe dovuto suggerire molta meno ironia alla dirigenza bolscevica di quegli anni cruciali, segnatamente proprio a Lenin e a Trockij.
FIG. 3. Targa commemorativa sulla facciata
della casa natale di Max Adler a Vienna.
4. La fine delle illusioni: la democrazia sovietica e la rivolta di Kronštadt
Il 26 dicembre del 1991 cessa ufficialmente di esistere l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma l’aggettivo “sovietico” era già un mero espediente retorico dal carattere prettamente decorativo almeno a partire dall’entrata in vigore nel 1936 della II Costituzione dell’URSS, quella voluta da Stalin. Tuttavia, nonostante l’opinione di Trockij (tutt’altro che imparziale essendo stato lui stesso uno degli artefici della vicenda) contenuta nel celebre opuscolo La Rivoluzione Tradita [35], già la I Costituzione dell’URSS, quella del 31 gennaio del 1924, concepiva i soviet come organi alquanto subordinati alla ferrea dittatura del partito comunista bolscevico e del governo (detto “Consiglio dei commissari del popolo”, abbreviato in Sovnarkom) che di tale partito era la diretta espressione. E ciò avveniva, anche se la costituzione del ’23-‘24 recitava per ben 63 volte la parola “soviet” e per nessuna volta quella di “partito”, mediante l’abile stratagemma della “Direzione Politica Statale Unificata” (la Ob’edinënnoe Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie, OGPU), menzionata al Cap. IX in tre soli brevi articoli che in realtà avevano un carattere fondamentale. Infatti, davano all’OGPU il pieno e totale controllo della famigerata polizia politica dell’URSS di quel tempo, la Gosudarstvennoe Političeskoe Upravlenie (“Direzione Politica Statale”, GPU). Vale quindi la pena di citare questi tre articoli per intero:
61. Allo scopo di unificare gli sforzi rivoluzionari delle repubbliche federate per la lotta alla controrivoluzione politica ed economica, lo spionaggio ed il banditismo, viene istituita presso il Consiglio dei commissari del popolo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la Direzione Politica Statale Unificata, il cui presidente entra a far parte del Consiglio dei commissari del popolo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche con diritto di voto consultivo.
62. La Direzione Politica Statale Unificata dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche dirige il lavoro degli organi locali della Direzione Politica Statale a mezzo dei propri plenipotenziari presso i consigli dei commissari del popolo delle repubbliche federate, che operano in base a speciale regolamento approvato in via legislativa.
63. La sorveglianza sulla regolarità degli atti della Direzione Politica Statale Unificata dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è esercitata dal Procuratore della Corte Suprema dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche sulla base di un’apposita deliberazione del Comitato Esecutivo Centrale dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Ma come si giunse dall’Ottobre Rosso, che lanciava in tutto il mondo lo slogan rivoluzionario antiborghese “Tutto il potere ai soviet!”, in poco più di sei anni, alla dittatura de facto (se non ancora de iure) del partito e delle sue articolazioni governative (il Sovnarkom) e poliziesche (la OGPU)? Ovviamente non è nostro intento ripercorrere, neppure in modo sommario, le vicende russe del tumultuoso periodo 1918-22, caratterizzato dall’aggressione dell’Intesa alla giovane repubblica sovietica e dalla successiva lunghissima guerra civile. Il lettore interessato a questi aspetti potrà certamente avvalersi con profitto dei lavori di David Bullock per la parte militare [36] e di Vladimir N. Brovkin [37] per quella politica. Né vogliamo addentrarci nei complessi passaggi che portarono alla dissoluzione del controllo operaio sulla vita politica dei soviet e alla loro graduale ma irreversibile subordinazione alla dirigenza del partito comunista bolscevico russo. Anche questo tema è stato trattato ampliamente da autori di matrice consiliarista come Maurice Brinton [38], o comunista-libertaria come Volin (pseudonimo di Vsevolod M. Eichenbaum) [39].
Quello che ci interessa mostrare qui è come l’idea stessa del potere dei soviet degli operai e dei contadini nell’URSS, nonostante le opinioni dei trotzkisti, fosse stata cancellata prestissimo, già nel 1923, sia per quello che riguarda il fronte interno sia per ciò che concerne l’immagine della Russia negli altri paesi europei. Dopo di quella data il movimento comunista internazionale non farà mai riferimento ai consigli operai in modo serio, ma soltanto come slogan. Infatti, ovunque otterrà il potere senza un diretto intervento militare dell’URSS, come in Iugoslavia, in Cina, a Cuba e nel Vietnam, il ruolo riservato ai soviet sarà assolutamente trascurabile, se non addirittura inesistente. Per perseguire il nostro scopo sarà sufficiente un esempio emblematico della lotta delle classi lavoratrici auto-organizzate contro il nuovo potere bolscevico: l’insurrezione della cittadella di Kronštadt.
La rivolta consumatasi a Kronštadt è, per vari aspetti, passata alla storia come la più seria ribellione dell’intera storia dell’URSS. Nel marzo del 1921 i marinai di questa base navale che domina il golfo di Finlandia si ammutinarono e si ribellarono contro il Sovnarkom, inneggiando ai “liberi soviet”. Fondarono una comune che sopravvisse per sedici giorni prima di soccombere davanti alla repressione violenta operata da truppe scelte inviate esplicitamente da Lenin e da Trockij per sedare la rivolta. Al centro della ribellione vi fu la volontà, ingenua quanto eroica, di rinverdire l’idea dei soviet come strumento contro la dittatura di partito bolscevica. In realtà, i fatti di Kronštadt non costituirono un moto improvviso e fuori dal contesto sociale del Paese. Furono invece la conseguenza di una serie di avvenimenti che per alcuni anni turbarono la Russia post-rivoluzionaria. All’origine della questione vi erano infatti la povertà dilagante e la grave scarsità di cibo, vestiti, servizi ed infrastrutture, così come la deriva autoritaria del nuovo potere bolscevico. Nell’autunno del 1920 cominciò la lenta transizione della Russia post-rivoluzionaria dalla guerra alla pace: la guerra civile nelle varie regioni dell’URSS andava diradandosi e pian piano si ristabilirono le relazioni diplomatiche e commerciali con gli altri Paesi, sia quelli limitrofi che quelli più distanti. Ciononostante, molti vertici comunisti (e, almeno inizialmente, anche Lenin) erano riluttanti a passare dal cosiddetto “Comunismo di Guerra”, un programma economico di requisizioni forzate per far fronte alle emergenze della guerra civile, a quella che verrà poi chiamata la Nuova Politica Economica (NEP). Nelle aree rurali, infatti, continuavano le confische del surplus della produzione di cereali da parte di speciali milizie agli ordini del partito. Tali interventi spesso si trasformavano in veri e propri saccheggi a danno dei contadini già ridotti in miseria. Per questa ragione le rivolte rurali divamparono un po’ ovunque e si creò un serio distacco, anche ideologico, fra il nuovo potere bolscevico e i contadini, i quali, nonostante la ripartizione delle terre, si ritrovarono ben presto sottomessi a meccanismi di sfruttamento non troppo dissimili da quelli padronali dei tempi dello zarismo. Tuttavia, preoccupati da un eventuale ritorno di elementi di “piccolo capitalismo agrario” e di libero mercato nelle campagne, i vertici del Partito Comunista Russo (Bolscevico) si rifiutarono inizialmente d’interrompere le confische di grano connesse al “Comunismo di Guerra”, opponendosi quindi a un cambio di sistema. Ma l’inverno fra il 1920 e il 1921 rappresentò un momento particolarmente critico per la storia del Paese: la Russia era esausta e davvero vicina al crollo economico; le sue infrastrutture, arretrate e inefficienti, non consentivano il rifornimento di viveri alle regioni più remote, così come quello di attrezzature tecniche, anche molto primordiali, e di materie prime. La mortalità, poi, era aumentata considerevolmente a causa delle carestie e delle epidemie.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nelle città la situazione era tutt’altro che migliore: cibo e beni primari erano assolutamente insufficienti all’elevata concentrazione di lavoratori nei centri urbani, prevalentemente manovalanza operaia scarsamente qualificata. Per questo motivo, molte persone si spostarono dai centri urbani verso le campagne (di cui spesso le loro famiglie erano originarie) in cerca semplicemente di cibo. Si creò immediatamente un sodalizio informale fra le masse contadine e quelle operaie, entrambe deluse nel vedere che il nuovo Stato bolscevico stava fallendo sia nel mondo rurale che in quello urbano. Il risultato complessivo fu quindi un’ondata crescente di rivolte rurali, di agitazioni operaie e d’inquietudine fra i militari di truppa. Si aprì così una grave frattura fra il regime bolscevico e la sua principale componente sociale di sostegno: le masse operaie.
I primi gravi disordini ebbero luogo a Mosca nel febbraio del 1921, dove assemblee operaie si riunirono spontaneamente nelle fabbriche per chiedere la fine del “Comunismo di Guerra”. Poco dopo, un’ondata ancora più pesante di scioperi travolse Pietrogrado, ridotta a “uno spettro di se stessa” [40] a causa del freddo e della fame, ancor più di Mosca.
Dopo settimane di gravi disordini, in cui la città era diventata un vero e proprio dedalo di trincee, i moti scemarono gradualmente per via della stanchezza dei manifestanti e delle larghe concessioni che i bolscevichi di Pietrogrado dovettero fare. Tuttavia, le conseguenze delle proteste furono enormi, ispirando i marinai della vicina base di Kronštadt, molto attenti ai moti della capitale.
Kronštadt, in effetti, era una cittadella-fortezza sull’isola di Kotlin nel golfo di Finlandia, a pochi chilometri dalla vecchia San Pietroburgo; un avamposto strategicamente fondamentale che consentiva di proteggere la città da eventuali attacchi dei nemici limitrofi ed era utilizzata come base principale della flotta russa del Baltico. La cittadella aveva una tradizione radicale sin dai moti del 1905 e, ancor più importante, era sostanzialmente autonoma: il soviet di Kronštadt era amministrato in maniera indipendente dai propri residenti (principalmente marinai e operai degli arsenali), riuscendo di fatto a sfuggire all’egemonia del potere centrale bolscevico. Fedeli al principio comunista dell’Ottobre ‘17 di “Tutto il potere ai soviet!”, i marinai di Kronštadt furono tra i più intransigenti nella lotta contro le Guardie Bianche controrivoluzionarie, fornendo a Trockij una delle componenti dell’Armata Rossa tra le più coraggiose e ideologicamente motivate. Tuttavia, man mano che il potere veniva accentrato nelle mani della burocrazia bolscevica, crebbero le tensioni fra la flotta e i collaboratori di Lenin, essendo i marinai particolarmente diffidenti nei confronti della concentrazione del potere nelle mani di una ristretta cerchia di commissari e funzionari.
La situazione si aggravò quando il comitato direttivo della flotta venne sciolto e i suoi poteri furono trasferiti a un consiglio formato da membri designati dal partito. Alla fine della guerra civile, quando questi provvedimenti volti ad accentrare il potere nelle mani dei bolscevichi vennero prolungati, tradendo così l’idea dell’autogoverno dei soviet locali, la situazione divenne insostenibile. A ciò si aggiunsero la fame e il freddo, che i marinai della flotta di Kronštadt soffrivano tanto quanto i civili della cittadella.
Il 1° marzo 1921 si tenne una pubblica assemblea, che stilò una risoluzione in 15 punti da presentare al Sovnarkom, accusato di soffocare la partecipazione e di non rappresentare più né i soviet né i lavoratori. Il giorno dopo venne formato un comitato provvisorio, guidato dall’anarco-sindacalista Stepan M. Petričenko. Il governo bolscevico scelse di rispondere con la forza, nonostante diverse resistenze interne al partito, specie da parte della cosiddetta “Opposizione Operaia” [41] di Gavril I. Mjasnikov e Alexandra M. Kollontaj, sicché il 7 marzo l’Armata Rossa attaccò Kronštadt. Nei giorni successivi, al prezzo di molte perdite, i bolscevichi riuscirono a penetrare nella fortificazione e arrestarono gli insorti. La base fu duramente bombardata su preciso ordine di Trockij. Contrariamente alle aspettative dei ribelli, nessun aiuto giunse dai gruppi operai di Pietrogrado o di altri insediamenti nelle vicinanze. Repressa nel sangue e isolata, la rivolta di Kronštadt si concluse il 18 marzo 1921.
La rivolta di Kronštadt non fu significativa solo in quanto evento particolarmente sanguinoso ma anche come cartina tornasole della piega autoritaria che il regime bolscevico stava prendendo. La sommossa rappresentò, direttamente o indirettamente, la voce di intere classi lavoratrici: marinai, militari, contadini e operai, tutti collegati da solide reti di solidarietà e di appoggio clandestino, tutti afflitti dalle medesime sofferenze e delusi dal tradimento del regime rispetto all’ideale dell’Ottobre ‘17 di “Tutto il potere ai soviet!”.
Si può ben dire quindi, dando una volta tanto ragione agli anarchici [42],[43] che Kronštadt non fu pericolosa in quanto controrivoluzionaria, ma perché la sua concezione di socialismo era profondamente diversa rispetto a quella dei massimi dirigenti comunisti del momento (segnatamente, Lenin e Trockij). I bolscevichi, usciti vittoriosi da una guerra civile che aveva messo il Paese in ginocchio, non avevano alcuna intenzione di vedere il proprio potere messo in discussione e, temendo quindi che Kronštadt potesse fungere da detonatore per qualcosa di più grande (la “quarta rivoluzione russa”, quella libertaria e antiautoritaria?), denunciarono la rivolta come oggettivamente controrivoluzionaria e agirono secondo i propri interessi. L’insurrezione ebbe tuttavia un ruolo fondamentale nell’adozione della NEP da parte di Lenin e dei vertici del partito nel 1921, cosa che finalmente portò un minimo sollievo alla prostrata economia russa ed indusse anche ad un certo ammorbidimento della repressione nel periodo relativamente “felice” della storia dell’URSS compreso tra il 1922 e il 1928.
Anni dopo, quando Trockij, sconfitto da Stalin ed espulso dal partito, sarà in esilio e cercherà di costruire un’opposizione comunista antiburocratica nota con il nome di “Quarta Internazionale”, gli verrà rinfacciato da più parti il suo atteggiamento del marzo 1921 contro l’autonomia dei soviet. Ma il rivoluzionario russo non ammetterà mai il suo errore e scriverà lunghi articoli autoassolutori [44], molto dettagliati ma scarsamente convincenti, per giustificare le scelte repressive contro Kronštadt. Ad ogni modo tali atrocità trotzkiste saranno quasi limitate (2.000-3.000 vittime tra caduti e condannati a morte) se paragonate a quelle ordinate, sempre dal nostro personaggio, contro il movimento anarco-comunista di Nestor I. Machno in Ucraina, prima usato contro le Guardie Bianche di Denikin e Vrangel e poi sterminato con l’inganno. Non abbiamo tempo di discuterne in questo breve articolo ma possiamo rimandare il lettore interessato ai crimini di Lenin e Trockij ad alcuni libri sull’argomento [45],[46],[47]. Vogliamo però concludere questo paragrafo con le lapidarie parole di commento del vecchio anarchico italiano Alfredo Mazzucchelli (morto nel 2019 a 79 anni) ai gravi fatti di Kronštadt; una sorta di complemento alla famosa lettera di Errico Malatesta per la morte di Lenin apparsa in Pensiero e Volontà, n° 3 del 3 febbraio 1924:
“(…). Si dimentica poi che
la strage compiuta a Kronstadt fu tanto più grave proprio in quanto effettuata
su compagni che avevano reclamato il rispetto della promessa e della parola
d’ordine della rivoluzione che tutto il potere sarebbe rimasto ai liberi
Soviet!
Non esistono attenuanti né di ordine teorico, né concettuale, né tanto meno
contingenti o contestuali: si spara al nemico che abbiamo di fronte e non alla schiena
di rivoluzionari!”
5. I socialisti italiani in esilio: democrazia e socialismo nell’azione antifascista
Un altro importante capitolo della riflessione teorica sui rapporti tra socialismo e democrazia durante le due guerre mondiali fu scritto dai militanti del Partito Socialista Italiano (PSI) in esilio in Francia, proprio in concomitanza al dilagare del fascismo in Europa nella metà degli anni ’30.
Però, per capire la genesi e la portata di tale riflessione è necessario fare un passo indietro di dieci anni e tornare all’Italia fascista del tristissimo ’26, ovvero all’inizio del vero e proprio regime mussoliniano: il 16 novembre 1926, dopo che la Camera dei deputati vota la decadenza dei centoventi parlamentari delle forze politiche di opposizione (confermata poi dal Senato il 20 di novembre), la polizia chiude d’autorità tutte le sedi delle organizzazioni e dei partiti antifascisti. A seguito di tale messa al bando, i membri della Direzione del PSI sono costretti a espatriare per evitare il carcere o il confino, sicché molti di loro si rifugiano nella vicina Francia come, d’altra parte, la grande maggioranza degli antifascisti italiani all’estero. In questo periodo il PSI, guidato dal suo segretario Ugo Coccia, si adopera per la conclusione di alleanze strategiche tra i partiti italiani antifascisti d’ispirazione democratica in esilio (escluso quindi il PCd’I). Già il 6 dicembre 1926, per esempio, si costituisce a Parigi un primo nucleo operativo di tale alleanza: il Comitato di attività antifascista, composto dai rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, dell’ex-Partito Socialista Unitario di Filippo Turati e Claudio Treves e, ovviamente, dello stesso PSI, con lo scopo di accertare l’esistenza di condizioni per trasformare in alleanza stabile e formale la collaborazione tra le forze antifasciste democratiche. Il Comitato di attività antifascista approva infatti la proposta di costituire la cosiddetta Concentrazione d'azione antifascista, formata da un insieme di partiti autonomi e di diversa formazione ideologica, ma uniti da un’identica base programmatica di forte opposizione al regime fascista e alla monarchia: la repubblica democratica. Il 28 marzo dello stesso anno si costituisce effettivamente in Francia questa Concentrazione, includendo anche la Lega italiana dei diritti dell'uomo (LIDU), dell’ex-sindacalista Alceste de Ambris, e l’ufficio estero della corrente riformista della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), guidato dal socialista unitario Bruno Buozzi e sempre in concorrenza con la corrente filocomunista di Giuseppe di Vittorio. Nel maggio del 1928 il Comitato centrale della Concentrazione d'azione antifascista in esilio individua in maniera ufficiale nell'instaurazione in Italia di una “Repubblica Democratica dei Lavoratori”, l’obiettivo finale, ancorché un po’ vago, della futura battaglia antifascista unitaria. Esso diverrà dopo diciannove anni l’articolo 1 della Costituzione repubblicana del 1947.
Ma qual era la dialettica interna al PSI in quel periodo? Sul finire degli anni ‘20 si erano cristallizzate all'interno del Partito Socialista Italiano all’estero due posizioni politiche ben distinte. La prima, guidata da Pietro Nenni e considerata un po’ l’ala “destra” del partito, auspicava prima la riunificazione con i riformisti del PSULI [48] e poi un ingresso congiunto nell’Internazionale Operaia e Socialista [49]. La seconda posizione, definibile come “di sinistra”, era invece propugnata dalla dirigente italo-russa Angelica Balabanoff, già segretaria politica del PSI e direttrice dell’Avanti! dal gennaio 1928, che fu in qualche modo l’erede della componente massimalista di Serrati, un tempo maggioritaria nel partito dopo la scissione dei comunisti nel 1921 e l'espulsione dei riformisti nel 1922. La Balabanoff difendeva strenuamente la linea e i metodi rivoluzionari, ma in totale autonomia e persino in polemica con il Komintern, mentre al tempo stesso rifiutava qualunque collaborazione con i riformisti del PSULI, prospettando a livello internazionale l'affiliazione del PSI al piccolo Bureau di Londra [50], formato da socialisti marxisti molto intransigenti. Nelle fasi preliminari del II Convegno socialista di Grenoble del marzo 1930, Pietro Nenni e la sua frazione “fusionista” uscirono dal PSI ufficiale e, successivamente, in occasione del XXI Congresso (tenutosi a Parigi nella Casa dei Socialisti francesi dal 19 al 20 luglio 1930 e passato alla storia come il “Congresso dell’Unità”) si fusero con il Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani di Filippo Turati, Claudio Treves e il giovane Giuseppe Saragat, dando così vita al Partito Socialista – Sezione Italiana dell'Internazionale Operaia Socialista. La frazione della Balabanoff, invece, conosciuta col nome di Partito Socialista Italiano (massimalista), continuò la sua modesta attività politica pubblicando l’Avanti! (la cui testata era rimasta ai massimalisti per motivi legali piuttosto che numerici) fino al 1940 e sciogliendosi solo al termine della Seconda guerra mondiale.
Nel XXII congresso del PSI unificato, svoltosi a Marsiglia nell'aprile del 1933, Nenni fu eletto per la prima volta segretario politico, sostituendo il suo predecessore Ugo Coccia, morto nel dicembre del 1932. Nominato anche direttore del giornale di partito, il Nuovo Avanti!, Nenni ricoprirà la carica di segretario politico per quattordici anni, ovvero fino all’aprile del 1945. Inizialmente il programma concentrazionista di Nenni dette vita anche a un accordo con il movimento liberal-socialista Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli, cosa che favorì anche l’ingresso di tale raggruppamento all’interno della Concentrazione d'azione antifascista nell’ottobre del 1931. Ma il cambio di atteggiamento del Komintern verso i socialisti europei e il successivo orientamento di Nenni in direzione di un patto di unità d'azione con il PCd'I, condusse nel maggio 1934 allo scioglimento definitivo della Concentrazione, nonostante che il documento di tale patto di unità d’azione, sottoscritto da Pietro Nenni e da Ruggero Grieco nell'agosto 1934, non ignorasse le divergenze ideologiche e tattiche tra le due formazioni politiche, ma anzi ne ribadisse la piena e reciproca autonomia. Nell’ottobre 1935, faticosamente, Nenni riuscì a ricucire lo strappo con gli altri partiti antifascisti democratici, promuovendo insieme al PCd’I la convocazione di un congresso degli italiani all'estero ostili alla guerra imperialista di Mussolini contro l'Abissinia. Un anno dopo, il 27 ottobre del 1936, durante le fasi iniziali della guerra civile spagnola, repubblicani, giellisti, socialisti e comunisti italiani firmarono finalmente a Parigi l’atto costitutivo del Battaglione Garibaldi, di cui venne designato a comandante militare il repubblicano Randolfo Pacciardi. La formazione venne inquadrata nelle Brigate internazionali e si distinse nella valorosa, quanto sfortunata, difesa di Madrid, divenendo poi la Brigata Garibaldi nel 1937. Pacciardi, però, abbandonò presto il comando in polemica coi comunisti, restii alla costruzione di una brigata completamente italiana (più impermeabile così alle infiltrazioni spionistiche sovietiche) e propensi all'uso della forza contro gli anarchici e il POUM (Partito Obrero de Unificación Marxista).
È in questa temperie politica piuttosto vivace e ingarbugliata che si situa l’originale riflessione politica di Giuseppe Saragat sul tema dei rapporti tra socialismo e democrazia. Il lettore potrebbe essere spaventato dal nome di un Presidente della Repubblica (1964-1971), così legato nella memoria italiana a un moderatismo timido e ostinatamente governista, sempre subalterno alla politica interna filocapitalista della Democrazia Cristiana e alle ingerenze estere dell’imperialismo degli Stati Uniti. Ma questo percorso verso il centro, ben descritto dal ricco volume bibliografico di Federico Fornaro [51], inizia in realtà soltanto nel 1947, con la celebre scissione del primo PSIUP (nome del PSI nel periodo 1943-47) detta “di Palazzo Barberini”. O forse, ancora più precisamente, con il sostegno alla cosiddetta “Legge-truffa” del 1953. Saragat scrive infatti il 12 febbraio del 1953 sul quotidiano socialista “Le Peuple” di Bruxelles un goffo articolo in cui cerca di giustificare l’apparentamento del suo partito alla Democrazia Cristiana, perché indubbiamente si sente gravemente in colpa:
“Il dovere dei social-democratici italiani sarebbe quello di condurre una lotta implacabile contro gli altri Partiti di origine borghese incapaci di dare una soluzione efficace ai bisogni della classe operaia. Ma per far questo dobbiamo prima consolidare il regime repubblicano”. Questo è, in effetti, l’inizio dell’irrilevanza politica (anche se addolcita da molti onori istituzionali) di un uomo colto e intelligente che aveva dedicato completamente più di trent’anni della sua esistenza alla causa del socialismo, rischiando addirittura in prima persona la vita in almeno un paio di occasioni. Non si trattò comunque di un fenomeno isolato: la rinuncia (de facto anche se non ufficialmente) all’ideale socialista come risposta alla Guerra Fredda investì in tutto il mondo un buon numero di brillanti marxisti del calibro di Angelo Tasca, Sidney Hook, James Burnham, Karl August Wittfogel, Franz Borkenau e molti altri.
Ma il Saragat del primo dopoguerra era un militante socialista tutt’altro che un moderato e, anche se nel 1922 aderì al PSU riformista di Treves e Turati, rimase in realtà culturalmente alquanto distante dal socialismo gradualista padano di fine ‘800 di chiara matrice evoluzionista e positivista. All’opposto, Saragat fu un fine conoscitore di Marx (certamente in modo incomparabilmente superiore a Coccia, Nenni o Balabanoff) tramite l’assimilazione dei capisaldi filosofici di Antonio Labriola e, se proprio si vogliono cercare altre influenze, sembrò sempre abbastanza aperto alle tematiche dell’austromarxismo di Otto Bauer e Friedrich Adler.
Ad ogni modo, la concezione saragattiana della teoria marxista, leggermente venata di neohegelismo in virtù dello studio di Labriola, Salvemini e Croce, non differisce poi molto da quella gramsciana (che è più o meno contemporanea). E se il primo autore ebbe della democrazia una visione intrinsecamente positiva, mentre il secondo ne mise in luce il carattere più che altro strumentale nella lotta per il socialismo [52], ciò non si deve dunque a quell’immaginaria opposizione di fondo tra marxismo socialdemocratico secondo-internazionalista e marxismo comunista terzo-internazionalista, che vari autori, a partire da Karl Korsch, hanno caparbiamente teorizzato. Si deve molto più semplicemente al fatto che il Komintern non riuscì a ben comprendere il fenomeno storico del fascismo nella sua articolazione europea almeno fino al luglio del 1935 (data d’inizio del suo VII Congresso mondiale). Ossequienti quindi all’interpretazione leniniana della democrazia come il “migliore involucro politico possibile per il capitalismo” imperialista [53][11], anche menti acute come quella di Antonio Gramsci (che perlomeno non si piegò mai alla sciagurata teoria staliniana del “socialfascismo”) non poterono evitare di confinare il fenomeno prettamente fascista di smantellamento complessivo dello Stato liberal-democratico e delle sue garanzie, nella categoria dell’arretratezza dello sviluppo capitalista di paesi come l’Ungheria, l’Italia o il Portogallo. Salvo poi essere smentite molto presto, dopo la crisi del ’29, con il dilagare dei movimenti fascisti o para-fascisti ovunque e con l’instaurazione di regimi totalitari persino in Germania ed in Austria. All’opposto, le giovani leve socialiste, prima in Italia e poi in esilio all’estero, ebbero la completa libertà intellettuale di confrontarsi a tutto campo con le più svariate interpretazioni della crisi epocale delle liberal-democrazie europee senza la stretta “camicia di forza” dell’ortodossia leninista. Per questo motivo nel 1925 il giovane Saragat, appena ventottenne e non ancora espatriato, esordì nel trattare queste tematiche con l’importante, ancorché ancora un po’ scolastico e turatiano, articolo “Marxismo e Democrazia”, apparso sull’organo del PSU/PSLI, “La Giustizia”, nel numero del 25 ottobre [54]. In esso vennero poste già le basi della futura azione politica socialista e fu proposto un appello ai principi democratici come antitesi al “giacobinismo” dei comunisti, tacciati di negare sistematicamente la libertà, il ripristino della quale, in Italia, presupponeva un adeguamento dell’organizzazione partitica (in vista anche di un’eventuale riunificazione col PSI) nella direzione dell’accettazione della legalità democratica come “base stessa della immancabile rivoluzione socialista futura”.
La riflessione saragattiana sul rapporto socialismo-democrazia raggiunse il suo punto di reale maturità con L’umanesimo marxista [55], pubblicato a Marsiglia nel 1936 in lingua francese. Si tratta di un saggio di filosofia politica in cui Saragat raccolse organicamente le sue decennali riflessioni sulla teoria marxista al punto da farne un compendio puntuale e preciso, iniziando la sua discussione proprio dagli scritti di Marx prima del 1848, quando era un ex-giovane hegeliano. L’opera godette di un certo consenso e fu recensita perfino da Otto Bauer, che ne elogiò la varietà di idee, considerandola degna di essere annoverata tra gli studi marxisti più rappresentativi dell’argomento. Ciò da un lato non stupisce, data la forte amicizia di Saragat per i socialisti austriaci, che egli andò personalmente a trovare a Vienna una volta lasciata l’Italia prima di stabilirsi a Parigi [56]; ma d’altro canto sorprende un po’ il fatto che Bauer apprezzasse un’opera così venata di hegelismo, mentre l’austromarxismo enfatizzò sempre la possibilità di dare, all’opposto, una lettura del socialismo scientifico di tipo neokantiano, ovvero “trascendentale”[57], come ebbe a puntualizzare ironicamente il giovanissimo hegeliano-marxista Herbert Marcuse [58].
In realtà tra il Saragat ancora un po’ acerbo del 1925 e quello pienamente maturo del 1936, vi era stato nel 1929 un testo intermedio: il breve saggio Democrazia e marxismo, pubblicato sempre a Marsiglia e destinato agli esuli antifascisti. Qui l’autore, richiamandosi a Labriola e a Kautsky, elaborò una riflessione piuttosto complessa sul rapporto tra democrazia politica e lotta di classe, innescando, forse involontariamente, una polemica con i liberal-socialisti eredi delle posizioni salveminiane, che proprio in quel periodo stavano dando vita a un loro movimento autonomo dal PSI, anche se ad esso non ostile, ovvero Giustizia e Libertà. Carlo Rosselli, uno dei massimi dirigenti giellisti, era stato piuttosto critico verso il libro di Saragat e così quest’ultimo, nell’ottobre del 1929, gli rispose ribadendo francamente, proprio a lui che vagheggiava un socialismo etico e interclassista di tipo fabiano, i capisaldi del marxismo:
“(…) O riusciremo a portare gli operai sul terreno della lotta per la rivoluzione democratica o non faremo nulla di buono”.
In effetti, il giovane Giuseppe Saragat, pur rimanendo sempre estraneo al bolscevismo e condannando sia l’anarchia dei comunisti libertari che la statolatria dei russofili (considerata quest’ultima un terreno fertile per reazioni autoritarie e fasciste), cominciava a teorizzare una sua via al socialismo per Paesi come l’Italia. Un approccio in cui traspariva abbastanza evidentemente un certo influsso del pensiero del filosofo socialista Rodolfo Mondolfo, fratello di uno dei dirigenti milanesi del PSU/PSLI. Né mancavano spunti derivati dalla “Rivoluzione liberale” dell’amico e concittadino Piero Gobetti, al quale, nonostante le grosse differenze culturali e politiche, Saragat fu molto vicino durante la sua fase di formazione politica.
Abbiamo già menzionato la parte dell’esilio di Saragat, durata quasi tre anni, in cui questi venne a contatto con l’importante esperienza di governo municipale degli austro-marxisti viennesi. Ciò confermò e rafforzò le sue convenzioni politiche e culturali iniziali e lo convinse a partecipare, attivamente ma in modo critico, a quel processo che avrebbe portato alla tanto agognata riunificazione socialista italiana del 1930, superando sia il legalismo pacifista e un po’ imbelle dei vecchi riformisti turatiani, sia il roboante, ma spesso inconcludente, rivoluzionarismo dei massimalisti serratiani. Gli austro-marxisti, dal canto loro, criticavano, ma sempre rispettosamente (a differenza dei comunisti), benché senza nessun complesso d’inferiorità, il vecchio marxismo “ortodosso” di Kautsky e, per questa ragione, risultava necessario a Saragat dover ridiscutere continuamente la teoria marxista, approfondendola via via per trasformarla in uno strumento analitico aggiornato in grado di spiegare le nuove tendenze della società capitalistica. In particolare, si sarebbero dovute studiare minuziosamente le diverse vie per la costruzione del socialismo, a seconda delle diseguali condizioni dell’evoluzione economica, sociale e politica raggiunta dai vari paesi europei e nordamericani. Bauer, che aveva conosciuto e studiato da vicino [59] gli effetti di degenerazione partitocratica e autoritaria del regime sovietico, osservava che il sistema economico avanzato delle società dell’Europa occidentale e centrale, considerato insieme alla loro stretta dipendenza dagli scambi economici internazionali, richiedeva che la transizione al socialismo si compisse mediante riforme radicalmente strutturali (e non di facciata), ma scandite con una loro precisa tempistica (la cosiddetta “rivoluzione lenta” [60]) e, senz’altro, operate da una forma democratica di governo. L’attenzione politica dei socialisti, poi, non era più rivolta alla sola base operaia, ma a una classe lavoratrice più vasta, composta sì da operai e contadini, ma anche da diversi ceti impiegatizi, professionali e di mestiere. Per queste ragioni, sia per Bauer che per Saragat, la democrazia non era più soltanto un’opzione possibile (come ai tempi di Marx ed Engels), ma era divenuta l’unico terreno di lotta politica specifico della classe lavoratrice “estesa”, che poteva ricorrere extrema ratio alla violenza come in Spagna, ma soltanto nell’eventualità di una controrivoluzione borghese di matrice autoritaria mirata a ledere i principi di quella costituzione repubblicana che il PSI già immaginava negli anni ‘30 come precondizione essenziale per iniziare la transizione al socialismo in Italia.
6. Conclusioni: cosa ci resta di tutto questo a distanza di un secolo?
Dopo questa breve, succinta e per nulla completa panoramica sulle discussioni circa i rapporti tra socialismo e democrazia nel primo dopoguerra è sicuramente opportuno interrogarci sul senso di queste elaborazioni: si tratta oramai solo di erudita ricerca storica e politologica, di certo interessante ma priva di riscontri politici attuali, oppure possiamo in qualche modo riannodarci (sebbene con tutti i distinguo e le cautele del caso) ai lavori di Karl Kautsky, di Max Adler, di Otto Bauer, di Giuseppe Saragat ecc. nell’ipotizzare nuove vie di transizione al socialismo per il nostro XXI secolo?
Per provare a rispondere a questa difficile domanda è però necessario riassumere, anche se solo in modo sommario, cosa accadde al socialismo europeo nel complicato periodo che va approssimativamente dal 1936, anno del Fronte Popolare in Francia e della guerra civile in Spagna, al 1989, data convenzionale per il crollo del modello sovietico nell’Europa Orientale (detto impropriamente “socialismo reale” o “socialismo realizzato”). In primo luogo, va ricordato che le due esperienze che abbiamo citato, con partiti socialisti giunti al potere con mezzi democratici, non sortirono gli effetti sperati. Per ragioni molto diverse tra loro, ovvero il ruolo ambiguo dei radicali e dei radical-socialisti (unito ai condizionamenti britannici e statunitensi) in Francia, e l’aggressione franchista sostenuta da stati esteri in Spagna, nel giro di due o tre anni tali esperienze giunsero a un completo esaurimento. Ciò sembrò dar credito alla teoria bolscevica dell’impossibilità di iniziare la costruzione del socialismo mediante mezzi completamente democratici.
Lo stesso accadde pure a distanza di un decennio al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando le forze comuniste di Tito spinte da una vittoriosa guerra partigiana su tre fronti: contro gli occupanti tedesco e italiano, contro i fascisti croati (Ustascia) e contro i monarchici serbi (Cetnici), fondarono nel 1945 la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Sorte simile subì la piccola Albania con Enver Hoxha. Parallelamente, ma in modo molto meno glorioso rispetto ai due paesi menzionati, ovunque ci fu l’occupazione dell’Armata Rossa nel periodo 1945-1949 (con l’eccezione dell’Austria) si assistette all’impianto di regimi “clone” di quello sovietico insediati con mezzi solo nominalmente “democratici”, ma spesso segnati da violenze politiche, intimidazioni e talora veri e propri colpi di mano, come nella Cecoslovacchia del febbraio 1948.
L’unico fatto degno di nota di questo periodo e concernente in qualche modo (almeno secondo alcuni interpreti) la via democratica al socialismo, fu quello della vittoria elettorale laburista in Gran Bretagna nel luglio del 1945. Si trattò di un successo quasi inaspettato che però, a causa del sistema uninominale britannico, consegnò al Partito Laburista (LP) una robusta maggioranza parlamentare del 61,4%, senza così la necessità di faticose alleanze tra partiti politicamente eterogenei, come invece stava succedendo in quel periodo in Francia. Sicuramente le aspettative della classe lavoratrice britannica al termine della Seconda Guerra Mondiale erano altissime, tant’è che un noto cineasta come Ken Loach ha potuto parlare nel suo interessante documentario sulla vicenda, addirittura di uno “Spirito del ‘45”! Tuttavia, va anche notato che l’LP di quegli anni non era un partito socialista vero e proprio, essendo più che altro l’emanazione politica delle potenti Trade Union britanniche, benché, questo è certo, ospitasse al suo interno molti socialisti, dei quali pochissimi, però, erano di formazione marxista come il celebre politologo Harold Laski.
Il nuovo governo, guidato dal segretario dell’LP, Clement Attlee, aveva in effetti ereditato un paese spossato da sei anni di guerra, con grossi problemi di approvvigionamento alimentare e prossimo alla bancarotta dal punto di vista finanziario a causa dell’enorme indebitamento con gli Stati Uniti d’America per l’acquisto di armamenti. Tuttavia, l’attivismo dell’esecutivo nei cinque anni in cui fu in carica apparve davvero ammirevole: introdusse un approccio dirigista e interventista nella gestione economica teso a raggiungere quanto più possibile il pieno impiego tramite la creazione di un’economia mista e un vasto sistema di servizi sociali gestiti dallo Stato. Questa scelta implicò la nazionalizzazione delle forniture di pubblica utilità (acqua, elettricità, gas, telefonia e treni), nonché delle industrie più importanti, insieme all’implementazione di un gran numero di riforme sociali, come ad esempio le leggi per i piani urbanistici, per la previdenza sociale (National Insurance Act 1946 e National Assistance Act), per la creazione del Sistema Sanitario Nazionale (1948), per il finanziamento delle case popolari gestite dai comuni e per la riforma della legislazione sindacale. In che modo tutto questo impegno fosse davvero l’inizio dell’edificazione di un sistema socialista piuttosto che una correzione, di certo abbastanza incisiva, delle maggiori storture del capitalismo britannico è ancora materia di discussione tra gli storici e i politologi studiosi del settore. Un dibattito però abbastanza accademico, dato che l’LP perse (sebbene di misura) le elezioni del 1951, tornando così all’opposizione, soprattutto a causa del risentimento per il permanere dei razionamenti alimentari nonché delle forti incertezze in politica estera causate dalla guerra fredda e dalla incipiente decolonizzazione dell’Impero britannico. Quando nel 1964 il partito riottenne potere con Harold Wilson, il “socialismo” laburista era ormai solo uno slogan per prender voti dai settori della classe lavoratrice più radicalizzati: in mezzo vi era stata la pubblicazione dell’influente saggio di Tony Crosland, intitolato “The Future of Socialism” (“Il Futuro del Socialismo”, 1956 [61]), che aveva scosso la sinistra britannica come una vera e propria tempesta, con il merito indubbio di aver detto chiaramente quello che ormai l’LP intendeva per “socialismo del futuro”: una sorta di “capitalismo ben temperato” mediante gli strumenti della macroeconomia keynesiana uniti a un certo (ma non eccessivo) ruolo dello Stato nella gestione economica diretta, in modo tale da garantire il pieno impiego e un decente stato sociale a tutti i lavoratori. Se il socialismo immaginato da Attlee nel 1945-51 fu un po’ un rebus, quello di Wilson nel 1964-70 e nel 1974-76 fu semplicemente inesistente…
Non fu quindi un caso che in Germania la SPD, sempre all’opposizione nel secondo dopoguerra, compisse un’operazione simile a quella del Labour quasi nello stesso periodo, ovvero durante il celebre congresso di Bad Godesberg del 1959, dove vide la luce il nuovo programma di partito. Tale documento rappresentò chiaramente un cambio fondamentale nell’orientamento e negli obiettivi politici ed economici della SPD, la quale rinunciò apertamente al socialismo inteso come superamento del capitalismo, adottando invece l’impegno molto più modesto di riformare il sistema economico vigente sposando un indirizzo interclassista popolare che faceva appello a considerazioni etiche e ripudiando, infine, il suo precedente orientamento a favore della lotta di classe. Dal punto di vista economico a Godesberg si stabilì definitivamente che la completa nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione non fosse ormai neppure desiderabile e quindi non rientrasse più tra gli scopi del partito. Essa veniva sostituita dalla tassazione, ovvero, dal punto di vista marxista, una mera e parziale redistribuzione alle classi lavoratrici del plusvalore ad esse precedentemente estorto dalle classi imprenditoriali, mediante la progressività delle imposte e un generoso stato sociale.
Rapidamente il “virus” di Godesberg si propagò tra i partiti socialisti e socialdemocratici di tutta Europa spinto dai successi economici dei cosiddetti “30 gloriosi” (gli anni 1945-1975) che avevano convinto i dirigenti di tali formazioni della possibilità di imbrigliare il neocapitalismo postbellico a tutto vantaggio delle classi lavoratrici con gli strumenti delle politiche keynesiane accompagnati da elementi di economia mista pubblico-privata e grosse iniezioni di stato sociale. L’esempio più eclatante di tale deriva si ebbe nel 1976 nella Svezia di consolidatissime tradizioni socialiste dove il dettagliato piano Rehn-Meidner per una transizione graduale al socialismo fu silurato da un’alleanza trasversale tra la destra del partito socialdemocratico, l’unione degli industriali e un piccolo gruppo di influenti intellettuali liberali. Le cose andarono però in modo più complesso nei due grossi paesi latini (Francia e Italia), dove i rispettivi partiti socialisti erano divisi in correnti piuttosto eterogenee e spesso in lotta tra loro, e dove esistevano importanti partiti comunisti con cui i socialisti erano costretti ad alternare periodi di forte competizione a periodi di alleanze politiche. Per questo motivo in Francia il processo di riorganizzazione della vecchia SFIO di Guy Mollet mediante l’assorbimento di grossi gruppi della sinistra non-comunista portato avanti da Alain Savary rallentò l’abbandono formale del socialismo classico, che però cominciò a prender forma sempre più chiaramente con l’arrivo di François Mitterrand nel 1971, in corrispondenza al congresso rifondativo di Épinay. Solo con la rinuncia programmatica all’Union de la Gauche (Unione delle Sinistre) nel 1983, all’epoca del III governo di Pierre Mauroy, e con il “tournant de la rigueur” (“la svolta del rigore”), la trasformazione filocapitalista dei socialisti francesi si poté dire completa. E non a caso tale periodo storico coincise quasi perfettamente con l’inizio della segreteria di Bettino Craxi nel PSI italiano nel 1976, seguita dall’approvazione del cosiddetto “Progetto Socialista” nel 1978 ed infine completata con la cancellazione delle ultime vestigia veramente classiste con la marginalizzazione di Riccardo Lombardi e della sua corrente politica nel 1980. Ma James Callaghan in Gran Bretagna, Helmut Schmidt in Germania, François Mitterrand in Francia e Bettino Craxi in Italia si ritrovarono al governo dei loro rispettivi paesi ben oltre la fine dei “trenta gloriosi”, nel pieno delle crisi economiche della seconda metà degli anni ’70 e dei primi anni ’80. La risposta socialdemocratica a tali difficoltà provocate da bassa crescita, alta disoccupazione e fenomeni inflattivi fu l’abbandono delle politiche keynesiane d’intervento pubblico e il graduale scivolamento verso modelli di politica economica ispirati a teorie neoliberiste e monetariste, caratterizzati da forte deregulation del mercato del lavoro, privatizzazioni spinte delle imprese pubbliche e ipertrofia degli aspetti bancari e finanziari. Erano solo i prodromi di quella globalizzazione capitalista che dopo il crollo dei regimi dell’Europa Orientale (1989) e dell’URSS (1991) dilagò senz’argini in Occidente rendendo le politiche economiche dei partiti socialdemocratici virtualmente identiche a quelle dei movimenti liberal-liberisti o conservatori, con un conseguente scadimento della vita democratica stessa ormai appiattita su competizioni elettorali basate su squallidi personalismi o su agende politiche totalmente irrilevanti.
Dopo questa concisa panoramica (per forza di cose incompleta [62]) degli eventi della seconda metà del XX secolo più caratterizzanti per ciò che concerne i rapporti tra socialismo e democrazia, siamo finalmente in grado di tentare un bilancio che ci possa, in qualche modo, orientare nell’azione politica futura. Un’azione politica, si badi bene, che s’inquadri in una prospettiva chiaramente democratica ma votata al superamento del capitalismo e all’inizio dell’edificazione di un sistema socialista nel senso non solo etico, ma anche scientifico del termine. Abbiamo notato che la Storia del XX secolo sembrerebbe in qualche maniera mostrare l’impraticabilità di entrambe le vie apertesi nel primo dopoguerra: quella socialista democratica e quella comunista bolscevica. La prima trasformatasi inizialmente nella gestione di un effimero “capitalismo ben temperato” e poi completamente omologatasi ai modelli del capitalismo finanziario globalizzato dell’ultimo quarantennio (cfr. il “New Labour”). La seconda squalificatasi fin da subito con la creazione di apparati statali ipertrofici al vertice di società oppressive ed economicamente inefficienti, ritornate poi, almeno in Europa orientale, nell’alveo della normalità capitalista. Tutto questo ha fatto gridare a molti intellettuali, specie se ex-marxisti, la fine, o meglio l’impossibilità, del socialismo in quanto ipotetico modo di produzione alternativo e superiore a quello capitalista. E a poco servono le proteste di piccoli gruppi di propagandisti (come, ad esempio, il Socialist Party of Great Britain) che, pur correttamente, ci ricordano che il socialismo non può dirsi fallito in quanto, come sistema economico, non è mai stato messo alla prova in nessun angolo del pianeta. In effetti si tratta di una debole obiezione dato che l’“anatema” contro il socialismo potrebbe esser tranquillamente riformulato evidenziando, per esempio, l’impossibilità di una sua edificazione piuttosto che un suo cattivo funzionamento in sé. Un po’ come le Isole Felici dell’Utopia di Tommaso Moro: perfette da ogni punto di vista, ma, ahimè, irraggiungibili.
Allo stesso modo, le pur interessanti analisi della Sinistra Comunista, sia trotskista sia bordighista, che così dettagliatamente hanno caratterizzato i sistemi economici dell’URSS, della Cina Popolare e dei loro satelliti come di certo non completamente socialisti, data la sopravvivenza di molteplici elementi incompatibili persino con la fase inferiore del socialismo (quali il denaro, le banche, la struttura contabile aziendale, la disparità salariale ecc.), non ci aiutano molto a chiarire i problemi della mancata transizione, a meno di non accontentarsi di spiegazioni veramente ad hominem, assai poco convincenti, come l’inceppamento della transizione causato dall’ipertrofia burocratica di matrice stalinista, oppure dalla mancata espansione su scala mondiale della fase di “dittatura del proletariato”, intesa ovviamente in senso partitico alla maniera leninista.
Siamo comunque dell’opinione che, sebbene più fugace e instabile, la forma democratica di transizione al socialismo sia di gran lunga preferibile rispetto a quella dittatoriale. Se non altro perché i fallimenti del socialismo democratico dal Fronte Popolare in Francia all’Unidad Popular in Cile non hanno infangato e reso quasi impronunciabile il nome del comunismo così com’è invece avvenuto in URSS, Cina, Corea del Nord, Cambogia ecc., con effetti che si protrarranno per generazioni. Eppure, siamo parimenti convinti che vi sia una tara comune in questi due approcci politici pur così differenti tra loro: l’idea che la transizione dal capitalismo al socialismo avvenga ad ogni modo attribuendo allo Stato, una volta che quest’ultimo sia stato egemonizzato da un partito espressione della classe lavoratrice, la funzione di accentrare a sé le funzioni di “capitalista collettivo”, ossia di decisore degli investimenti e di percettore del plusvalore generato. Da questo punto di vista la parte di politica economica contenuta in opere apparentemente contrapposte come, per esempio, La rivoluzione dei lavoratori (1924) di Karl Kautsky [63] o Economia del periodo di trasformazione (1920) [64] di Nikolaj I. Bucharin, è incredibilmente simile vertendo sulla edificazione, lenta o accelerata a seconda dei casi, di vere e proprie forme di capitalismo di Stato.
Sembrerebbe quindi che i tentativi del XX secolo di fuoriuscire dal capitalismo si siano concentrati solo su uno dei due aspetti caratteristici di questo modo di produzione, ovvero il fatto che i detentori di beni capitali (“lavoro morto”) D, investano nella produzione di merci M utilizzando “lavoro vivo”, appropriandosi di queste alla fine del processo produttivo e vendendole a un prezzo D’>D in modo tale da ricavarne un profitto D’-D. L’idea base di questo approccio è in effetti molto semplice: nella fase iniziale del socialismo, l’investimento potrebbe avvenire collettivamente, così come l’appropriazione dei prodotti e la conseguente distribuzione dei profitti. In questo modo si riuscirebbe da un lato, almeno teoricamente, a liberarsi dall’anarchia del mercato mediante la pianificazione economica e dall’altro ad eliminare le disuguaglianze sociali causate dalle differenze di reddito. Ma come Marx ha evidenziato in estremo dettaglio nei Grundrisse [65] e nel I volume del Capitale [66], il capitalismo come modo di produzione non è semplicemente sintetizzabile con la formula D-M-D’ che, benché diventi vera in modo assoluto solo nel sistema capitalista (ove tutto diviene “merce”), è già presente, almeno in nuce, nei modi di produzione precapitalisti. Ciò che veramente peculiare del capitalismo è la presenza del proletariato, nel senso pieno e scientifico del termine: lavoratori salariati essenzialmente privi di beni capitali, completamente separati dai mezzi di produzione e sostituibili in qualsiasi momento con figure professionali analoghe e del tutto intercambiabili. Come spiega Marx, questi passaggi sono possibili solo con lo sviluppo tecnologico in quanto soltanto “le macchine” permettono l’uso efficiente dei proletari nel processo produttivo, rispetto, per esempio, agli artigiani del passato, possessori degli strumenti di lavoro e difficilmente intercambiabili.
Ebbene, se il socialismo, dialetticamente, non può non implicare la negazione del proletariato come classe, ovvero il fatto che il proletariato, una volta vittorioso cessi nello stesso momento di esser effettivamente “proletariato”, allora possiamo facilmente verificare come “il capitalismo di Stato” lasci del tutto invariato lo status dei proletari, i quali, pur ricevendo indietro quote di plusvalore collettivo tramite i vantaggi dello stato sociale (in quanto cittadini), restano al livello aziendale in una situazione qualitativamente immutata rispetto al capitalismo. Certo, potrebbero accorciarsi i loro orari, migliorare le condizioni di lavoro, crescere i loro salari reali, ma l’essenza di essere proletari rimarrebbe praticamente invariata. Al contrario, secondo la nostra opinione, una qualsiasi transizione dal capitalismo al socialismo dovrebbe fin da subito abolire l’uso di lavoro salariato per legge, così come il capitalismo liberale fece con la schiavitù in alcuni Paesi. In questo modo si aprirebbero, senza ovviamente nulla togliere a selettive nazionalizzazioni dei monopoli naturali, le strade del mutualismo e del cooperativismo socialisti, le quali dovranno essere di certo esplorate in maggior dettaglio in futuro, ispirandosi, per esempio, agli interessantissimi lavori di Jaroslav Vaněk [67] e, qui in Italia, di Bruno Jossa [68] su questo argomento. Ne parleremo diffusamente, ma sempre in modo divulgativo, in un prossimo articolo.
FIG. 6. L’economista ceco (emigrato negli USA dopo il putsch stalinista del 1948) Jaroslav Vaněk (1930-2017), autore di importanti saggi sul ruolo delle imprese cooperative nel quadro di una società in transizione verso il socialismo. Le sue idee potrebbero fornire spunti programmatici originali per un nuovo movimento operaio del XXI secolo.
di Dan Kolog
[2] K. Kautsky, La via al potere (Laterza, Roma e Bari, 1974).
[4] Come è noto alle ottime intenzioni del Manifesto di Basilea del novembre 1912, suggerito dalle Guerre Balcaniche appena scoppiate ma chiaramente presago dei gravi rischi di un conflitto generalizzato in Europa, seguì un generale annacquamento delle posizioni della Seconda Internazionale, fomentato anche dal noto scetticismo del vecchio leader della SPD, August Bebel, verso lo sciopero generale contro la guerra nel caso di un probabile conflitto tra Germania e Russia. Il successivo congresso dell’Internazionale si sarebbe dovuto tenere a Vienna dal 23 al 28 agosto del 1914, in seguito a una decisione presa durante l’ultima riunione del Bureau Socialista Internazionale tenutasi a Londra nel dicembre del 1913. Tra gli altri punti all’ordine del giorno a Vienna si sarebbe dovuto discutere anche di questioni relative all’imperialismo, al militarismo e all’arbitrato internazionale come possibile prevenzione delle guerre future. Ma all’inizio dell’estate del 1914 la situazione internazionale stava già chiaramente precipitando. Il Bureau Socialista Internazionale nella sua riunione di Bruxelles del 29-30 luglio decise che il successivo congresso dell’Internazionale si sarebbe svolto prima del previsto: la riunione fu fissata per il 9 agosto a Parigi. Il principale punto all’ordine del giorno sarebbe stato proprio “la guerra e il proletariato”. In questo modo il Bureau Socialista Internazionale si preparava a far fronte alla situazione di crisi internazionale, ma, com’è risaputo, tutti i suoi sforzi resteranno vani. Decise all'unanimità solo la seguente dichiarazione un po’ vaga: “(…) sarà dovere dei lavoratori di tutte le nazioni interessate non solo continuare, ma intensificare ulteriormente le loro manifestazioni contro la guerra, per la pace, e per la risoluzione del conflitto austro-serbo mediante un arbitrato internazionale". A guerra ormai cominciata da una settimana, il 5 agosto, il Bureau si vedrà costretto dagli eventi a rimandare il congresso a data da destinarsi. Il giorno prima, il 4 agosto 1914, la SPD, il principale partito della Seconda Internazionale, aveva già votato in Parlamento a favore dei crediti di guerra. Per approfondimenti si veda, per esempio, Elisa Marcobelli, Internationalism toward diplomatic crisis (Palgrave Macmillan, Londra, 2021).
[6] K. Marx e F. Engels, Le basi teoriche del partito socialista, a cura di Filippo Gaja, (Edizioni del Maquis, Milano, 1976).
[7] Socialist Party of Great Britain, What’s wrong with using Parliament (Socialist Standard, London, 2010).
[8] Naturalmente tale separazione netta e manichea tra “anarchici” (contrari a priori allo Stato e quindi a qualsivoglia partecipazione alla politica istituzionale) e “socialisti” (favorevoli alla democrazia parlamentare basata sul suffragio universale) è una distinzione un po’ di comodo fatta per motivi essenzialmente didattici. Specie nel periodo compreso tra la prima divisione fra marxisti e bakuninisti in seno alla Prima Internazionale (1872) e il congresso di Zurigo (1893) della Seconda Internazionale, che vide l’espulsione di quei socialisti che rifiutavano lo Stato e la partecipazione alla dialettica parlamentare, la situazione è ancora molto fluida in vari paesi, specialmente in Francia, dove fiorì un filone “operaista” anti-intellettuale che è alle radici del successivo sindacalismo rivoluzionario anti-politico (Pelloutier ecc.), ma anche in Russia, in Italia e in Spagna, dove l’influenza di Bakunin era stata molto importante.
[9] A. Pannekoek, L'azione di massa e la rivoluzione (Neue Zeit, 1912, vol. XXX, n. 2, pag. 544) citato da N. Lenin, Stato e Rivoluzione (Ed. Riuniti, Roma, 1965).
[10] N. Lenin, La dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini, (apparso su “Vperëd”, n. 14, 12 aprile 1905 – cal. gregoriano).
[11] Tra i tantissimi suggeriamo un volume completo ma non mastodontico, sicuramente alquanto simpatetico ma senza arrivare ad essere fazioso: Christopher Hill, Lenin e la Rivoluzione russa, (Einaudi, Torino, 1972).
[12] Ecco le opinioni di Lenin nel 1899 sulla SPD e sul programma di Erfurt: «Non abbiamo alcun timore di dire che vogliamo imitare il programma di Erfurt: non c’è nulla di male a imitare ciò che è buono, ed è appunto adesso, quando capita così spesso di sentire una critica opportunistica e ambigua a questo programma, che riteniamo nostro dovere dichiarare apertamente che lo condividiamo» (da V.I. Lenin, ‘Opere complete’, vol. IV, pag. 237, Editori Riuniti, Roma, 1957).
[13] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 1970).
[14] V. I. Lenin, La Lotta socialista nella democrazia. Due tattiche della Socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (Del Bosco Edizioni, Roma, 1973).
[15] La teoria della “rivoluzione permanente” fu elaborata da Trockij a seguito della fallita Rivoluzione russa del 1905, benché venne formalizzata solo negli anni ’20 con l’opera omonima [cfr. L. Trotskij, La Rivoluzione Permanente (Mondadori, Milano, 1979)]. Si tratta di una concezione che generalizza a tutti i paesi non pienamente industrializzati (estremizzandole alquanto) le idee di Marx ed Engels relative alla Germania della metà del XIX secolo. Si sostiene il ruolo intrinsecamente conservatore delle deboli borghesie nazionali e si ipotizza la creazione di un largo fronte rivoluzionario, egemonizzato sì dal proletariato urbano, combattivo sebbene minoritario, ma capace di aggregare anche vasti spezzoni del mondo rurale. Fino a qui la teoria trotzkista non sembra differenziarsi molto dalle concezioni leniniste, se non, forse, per un’enfasi sul ruolo subalterno dei braccianti e dei piccoli contadini rispetto al proletariato. È però negli obiettivi del processo rivoluzionario che compaiono alcuni importanti distinguo: per Trockij, anche a prescindere dalla situazione geopolitica mondiale, una rivoluzione in un paese economicamente arretrato non può in alcun modo arrestarsi alla fase democratico-borghese limitandosi ad eliminare le vestigia pre-capitaliste (feudali o specifiche del cosiddetto ‘modo di produzione asiatico’) ancora esistenti. Al contrario, dovrà necessariamente passare a una fase post-capitalista iniziando ad espropriare e a porre sotto il controllo statale sia le strutture produttive direttamente controllate dal capitale straniero, sia quelle, almeno le maggiori, di proprietà della borghesia nazionale. Una tale visione fu giudicata piuttosto negativamente persino all’interno del movimento comunista internazionale. Per esempio, il teorico bolscevico Nikolaj I. Bucharin la valutò come meccanica, dogmatica e poco dialettica nel suo interessante saggio critico “La Teoria della Rivoluzione Permanente” del 1924
(cfr. https://www.marxists.org/archive/bukharin/works/1924/permanent-revolution/index.htm ), dove sostiene che Lenin non fosse stato conquistato dalle idee di Trockij, ma fosse giunto ad opinioni apparentemente simili, espresse nelle famose “Tesi di Aprile”
(cfr. https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1917/apr/04.htm ), attraverso ragionamenti molto più profondi, in quanto legati sia alla situazione internazionale di estrema debolezza dell’imperialismo sconvolto da tre anni di guerra mondiale, sia alla specificità del rapporto tra proletari e contadini nella Russia zarista.
[16] K. Kautsky, La via al potere (Laterza, Roma e Bari, 1974).
[17] K. Marx, La Guerra Civile in Francia (Edizioni Rinascita, Roma, 1947).
[18] Lenin, La Comune di Parigi (Editori Riuniti, Roma, 1971).
[19] Lenin, L’Imperialismo (Editori Riuniti, Roma, 1974).
[20] Rudolf Hilferding, Il Capitale Finanziario (Mimesis, Milano, 2011).
[21] J. A. Hobson, L’Imperialismo (Newton Compton, Roma, 1996).
[22] Nikolai Bukharin, Imperialism and World Economy, (International Publishers, New York City, 1929) https://www.marxists.org/archive/bukharin/works/1917/imperial/
[23] In effetti non tutti i partiti della Seconda Internazionale scelsero la via del social-patriottismo e dei governi di “Unione Sacra” con la propria borghesia, a cui si riferisce polemicamente Lenin nei suoi opuscoli, dove aveva in mente di certo le nazioni in guerra più importanti: Germania, Francia, Gran Bretagna, Russia, Austria-Ungheria ecc. Ovviamente i partiti dei paesi neutrali (Svizzera, Svezia, Norvegia, Olanda e Spagna) restarono senza difficoltà pacifisti. Come pure la stragrande maggioranza del Partito Socialista italiano, i bolscevichi russi, i laburisti indipendenti britannici e, inaspettatamente, anche i socialisti statunitensi, il cui coraggioso leader Eugene V. Debs venne addirittura arrestato e condannato per “ostacolo al reclutamento”.
[24] Lenin, Il Socialismo e la Guerra (Editori Riuniti, Roma, 1975).
[25] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 1970).
[26] N. Lenin, The Soviets at Work (Rand School Press, New York, 1919).
[27] In realtà gli schieramenti in campo socialista e comunista furono un po’ più complessi della semplice tripartizione da noi citata solo per comodità narrativa: nel 1923 le Internazionali di Ginevra e di Vienna si fusero per dar luogo all’Internazionale Operaia Socialista (IOS), mentre una piccola frazione di massimalisti italiani, francesi e rumeni rifiuterà questa manovra fondando nel 1926 a Parigi il cosiddetto Bureau Internazionale d'Informazione dei Partiti Socialisti Rivoluzionari. Questo intercetterà negli anni ’30 gran parte delle opposizioni espulse dai partiti comunisti europei e, dopo averle amalgamate con altre scissioni della sinistra socialista, darà luogo al celebre Centro Marxista Rivoluzionario Internazionale di Londra dove agiranno partiti di una certa importanza come il POUM spagnolo e l’ILP britannico. Nel campo comunista va invece citata la scissione dell’Internazionale Comunista Operaia del 1922, ad opera soprattutto della Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (Partito Comunista Operaio di Germania, KAPD), ma seguita presto da compagni olandesi, britannici, russi e bulgari. Se le origini della frattura tra la KAPD e il Komintern erano legate principalmente al rigido astensionismo della prima, successivamente l’opposizione tra i due divenne insanabile in quanto andò a investire il ruolo dei consigli operai e il rifiuto dell’egemonia del partito bolscevico.
[28] Lenin, La Rivoluzione Socialista e il Rinnegato Kautsky (Editori Riuniti, Roma, 1972).
[29] N. Bucharin ed E. Preobraženskij, L’ABC del Comunismo (Samonà e Savelli, Roma, 1971).
[30] Julij Martov, Bolscevismo mondiale (Einaudi, Torino, 1980).
[31] Max Adler, La concezione dello Stato nel marxismo (Di Donato, Bari, 1979).
[32] Max Adler, Democrazia e Consigli (Di Donato, Bari, 1970).
[33] Max Adler, Democrazia politica e democrazia sociale, (Astrolabio, Roma, 1945).
[34] Max Adler, Democrazia e Consigli (Di Donato, Bari, 1970).
[35] Lev D. Trotskij, La rivoluzione tradita (Samonà e Savelli, Roma, 1977).
[36] David Bullock, The Russian Civil War 1918-22 (Osprey Publishing, Oxford, 2008).
[37] Vladimir N. Brovkin, Behind the Front Lines of the Civil War: Political Parties and Social Movements in Russia, 1918-1922 (Princeton University Press, Princeton (NJ),1994).
[38] Maurice Brinton, Bolsheviks and Workers' Control 1917-1921 (Black Rose Books, Montreal, 1996).
[39] Volin, La Rivoluzione Sconosciuta (Franchini, Carrara, 1976).
[40] Paul Avrich, Kronštadt 1921 (Mondadori, Milano, 1971).
[41] Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario. Dal 1901 al 1941, (Edizioni De Silva-La nuova Italia, Firenze, 1956).
[42] Volin, La Rivoluzione Sconosciuta (Franchini, Carrara, 1976).
[43] Paul Avrich, Kronštadt 1921 (Mondadori, Milano, 1971).
[44] L. Trotsky, La questione di Kronštadt (gennaio 1938) e Ancora su Kronštadt (luglio 1938). https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1938/1/kronstadt.htm
https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1938/7/kronstadt.htm
[45] Pëtr Arsinov, La rivoluzione anarchica in Ucraina (Pgreco, Milano, 2014).
[46] Paul Avrich, The Anarchists in the Russian Revolution (Thames and Hudson, Londra, 1973).
[47] Nestor Machno, La Rivoluzione russa in Ucraina (marzo 1917-aprile 1918) (La Cooperativa Tipolitografica, Carrara, 2013).
[48] Nel 1925 il Partito Socialista Unitario (PSU) assunse il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), venendo infine ridenominato Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani (PSULI) nel 1927. Nel 1930 si fonderà con il Partito Socialista Italiano per dar luogo al Partito Socialista – Sezione Italiana dell’Internazionale Operaia Socialista.
[49] Vedi nota 27.
[50] Vedi nota 27.
[51] Federico Fornaro, Giuseppe Saragat (Marsilio, Padova, 2003).
[52] Massimo Salvatori, Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi, Torino, 1973).
[53] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 1970).
[54] “Marxismo e Democrazia” è un articolo contenuto oggi in: Giuseppe Saragat, Quarant’anni di lotta per la democrazia (U. Mursia, Milano, 1966).
[55] Giuseppe Saragat, L’Umanesimo Marxista (Baldini e Castoldi, Milano,1998).
[56] Federico Fornaro, Giuseppe Saragat (Marsilio, Padova, 2003).
[57] Nel periodo successivo alla morte di Marx, il marxismo (detto "ortodosso") prese una coloritura filosofica un poco positivista (già leggermente con Engels, ma soprattutto dopo con Lafargue, Kautsky e Plechanov), cosa che non piacque proprio a tutti (ad esempio, dispiacque assai ad Antonio Labriola, che era un filosofo accademico). Quindi, in seguito alla Prima guerra mondiale, in Europa occidentale (ma non in URSS, il cui marxismo ha una storia completamente diversa) fu tentata un’operazione di “depurazione” della filosofia marxista mediante l’immissione di cospicui elementi neohegeliani (anche detti "neo-idealisti") da parte di G. Lukacs, K. Korsch, A. Gramsci, T. W. Adorno ecc. Gli autori austro-marxisti (F. Adler, O. Bauer, M. Adler e K. Renner) non accettarono però questo approccio, preferendo la “contaminazione” filosofica del marxismo con la filosofia neo-kantiana (detta anche "neocriticista"), allora ancora abbastanza in voga nella socialdemocrazia di area centro-europea. Ora, il concetto centrale del kantismo è quello di “trascendentale”, cioè di quanto, pur non essendo riconducibile all'esperienza, la rende però possibile (e da non confonde con il termine metafisico di “trascendente”); da qui il gioco di parole, alquanto sarcastico, del giovane hegelo-marxista H. Marcuse (allievo di Adorno) nei confronti degli austro-marxisti: “marxismo trascendentale”. Lo sgarbo sta anche nel fatto che in ambito cristiano-cattolico si parlava già da tempo di “tomismo trascendentale” come di quel tentativo (essenzialmente fallito) di aggiornare la filosofia scolastica tradizionale con l’innesto, appunto, di elementi kantiani. Si capisce facilmente come il paragone non fosse proprio dei più lusinghieri per i quattro socialisti austriaci...
[58] “Transcendental Marxism?” è un articolo oggi contenuto in: H. Marcuse, Philosophie et révolution (Denoël-Gonthier, Parigi, 1971).
[59] Otto Bauer, Bolscevismo o democrazia sociale? (Società Editrice L’Avanti!, Milano, 1922).
[60] Yvon Bourdet, Otto Bauer et la révolution (Etudes et Documentation Internationales, Paris, 1968).
[61] Antony Crosland, The Future of Socialism (Jonathan Cape, London, 1956).
[62] Per ovvi motivi di brevità non abbiamo neppure accennato a fatti importantissimi nella storia del socialismo mondiale e dei suoi rapporti con la democrazia, quali, per esempio, la Primavera di Praga nel 1968, il governo della “Unidad Popular” (“Unità Popolare”) di Salvador Allende in Cile nel periodo 1970-73, la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo nel 1974 e l’insurrezione dell’Autonomia Operaia in Italia nel 1979.
[63] Karl Kautsky, The labour revolution (Routledge, London, 2012).
[64] Nikolaj Bucharin, Economia del periodo di trasformazione (Jaca Book, Milano, 1987).
[65] Karl Marx, Gründrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (PiGreco, Roma, 2011).
[66] Karl Marx, Il capitale: Libro primo (Editori Riuniti, Roma, 2019).
[67] Jaroslav Vanek, Participatory Economy: An Evolutionary Hypothesis and a Strategy for Development (Cornell University Press, Ithaca (NY), 1970).
[68] Bruno Jossa, Esiste un’alternativa al capitalismo? L’impresa democratica e l’attualità del marxismo (Manifesto Libri, Roma, 2010).
Comments
Post a Comment