La nascita della “Nuova Politica Economica” nella Russia post-rivoluzionaria

 

 

-- Una pagina della storia dell’URSS: 1921-2021 --


1. Introduzione

 

La cosiddetta “Nuova Politica Economica” (“Novaja Ėkonomičeskaja Politika”), meglio nota con l’acronimo russo di NEP, rappresenta un capitolo fondamentale della storia dell’URSS e si situa nel periodo “felice” della società sovietica compreso tra il 1921 e il 1928, ossia dopo la fine della cruentissima guerra civile [caratterizzata dalla politica economica dispregiativamente detta del “comunismo di guerra” (“voennyj kommunizm”)], ma prima della famigerata “Collettivizzazione” (“Kollektivizacija”), episodio iniziale di quella che diverrà poi nota con il nome di “Grande Svolta” o “Grande Frattura” (“Velikij Perelom”) staliniana. Ma perché discutere oggi di eventi accaduti un secolo fa in un paese che non esiste più da quasi trent’anni? Per puro interesse storico? Per malcelata nostalgia veterocomunista? No davvero. Pensiamo che esistano almeno due validi motivi per interessarsi ancora alla NEP:

 

(1) nel dibattito immediatamente precedente, contemporaneo e successivo alla prima (1921-1924) e alla seconda (1925-1928) fase della NEP, quando si discuteva ancora delle sue opportunità e legittimità, furono portati avanti, soprattutto da parte di Nikolaj I. Bucharin [1,2] e di Evgenij A. Preobraženskij [2-4], argomenti di alto spessore teorico relativi al problema della transizione al socialismo che meritano certamente ancora oggi uno studio molto accurato. Si tratta, per esempio, della famosa controversia sulla cosiddetta “accumulazione primitiva socialista” nella Russia post-rivoluzionaria [2].

 

(2) Ma vi è un altro importante motivo per studiare la NEP che riguarda realtà decisamente più recenti: quando alcuni i paesi dell’Estremo Oriente appartenenti al campo del cosiddetto “socialismo reale” (inizialmente la Repubblica Popolare Cinese, seguita poi abbastanza presto da Vietnam e Laos) cominciarono ad introdurre elementi di economia di mercato senza per questo voler minimamente derogare al monopolio del potere politico detenuto dai rispettivi partiti comunisti, la memoria dei quadri teorici di tali partiti non poté non andare alla NEP. È ad esempio il caso delle cosiddette “quattro modernizzazioni” di Deng Xiaoping del 1977 attivate nel campo dell’agricoltura, dell’industria, della difesa e della ricerca scientifico-tecnologica seguite l’anno successivo dalla più ambiziosa politica di “riforma e apertura”. Naturalmente, a parte il fatto che la NEP sovietica riguardava una società profondamente arretrata e devastata dalla guerra civile, non certo confrontabile con l’economia cinese della fine degli anni ‘70 del XX secolo, va comunque precisato che l’idea di Deng Xiaoping, da lui definita nel 1979 come “xiǎokāngshèhuì “ (“società moderatamente prospera”), poco aveva a che vedere con l’attuale modello economico cinese, erroneamente definito come “socialismo dalle caratteristiche cinesi” o come “economia socialista di mercato”. Si tratta in realtà di un normale sistema di capitalismo misto inscritto in un quadro politico autoritario, con un forte ruolo ancora giocato dal settore pubblico, ma in progressiva e irreversibile diminuzione. Ad ogni modo, anche per giustificare il suo ruolo politico, gli attuali teorici del Partito Comunista Cinese ancora diffondono la teoria secondo la quale, una volta raggiunta in un imprecisato futuro un’adeguata fase di altissima maturità economica e tecnologica, la Repubblica Popolare Cinese implementerà una trasformazione socialista dell’economia eliminando gradualmente tutti gli elementi di capitalismo privato attualmente presenti nel paese. Ma in realtà c’è da stare tranquilli: una “Grande Svolta” cinese non è dietro l’angolo, anzi, all’opposto, è assai più probabile che sarà la promessa della futura “socializzazione” ad esser presto rimossa dal programma del partito con buona pace non solo di Mao Zedong, ma anche di Deng Xiaoping.

 

Il resto dell’articolo si svilupperà secondo il seguente schema: nella sez. 2 daremo una sommaria descrizione storico-economica della NEP, seguendola nel suo svolgimento dalla fine della guerra civile fino all’inizio della collettivizzazione forzata. Nella sez. 3 seguiremo il dibattito teorico tra l’ala sinistra del partito comunista rappresentata da Preobraženskij e ostile alla prosecuzione della NEP, e l’ala destra il cui pensatore di riferimento fu senz’altro Bucharin che si distinse per un appoggio incondizionato alla prosecuzione della nuova politica economica; mentre la sez. 4 sarà interamente dedicata alle conclusioni.

 

 

2. Brevissima storia della NEP

 

Il lettore italiano che volesse una descrizione storico-politica completa della NEP non avrebbe che l’imbarazzo della scelta, in quanto i trattati storici sull’URSS disponibili sono numerosi e dei più vari indirizzi politici: dal liberale Andrea Graziosi [5] all’euro-comunista Giuseppe Boffa [6] fino al semi-troskista Edward Carr [7]. Naturalmente esistono anche monografie specifiche sulla NEP, ma non pensiamo che sia il caso di soffermarci su di esse, dato il carattere divulgativo del nostro articolo. Al contrario, in quello che segue forniremo soltanto un succinto sommario storico della nuova politica economica sovietica perché questo sarà necessario a inquadrare nel tempo e nello spazio le questioni discusse nella sez. 3.

 

La decisione di Vladimir I. Lenin d’introdurre la NEP seguì tre lunghi anni di guerra civile accompagnati da sconvolgimenti sociali, privazioni economiche e diffuse carestie. Questi effetti non fecero che aumentare l’opposizione popolare al regime bolscevico il quale, a sua volta, reagendo accrebbe il rischio di ribellioni (come a Tambov) o addirittura di una vera e propria controrivoluzione. All’inizio del 1921 il regime sovietico era stato scosso dalla nota rivolta di Kronštadt, da ribellioni contadine in svariate province, ma anche, più semplicemente, da lunghe code per il cibo di gente arrabbiata nelle città, miriadi di scioperi di operai affamati e delusi, nonché l’esplosione di lotte intestine all’interno del Partito Comunista Russo (bolscevico), il PCR(b). Se le condizioni non fossero migliorate, il regime bolscevico si sarebbe trovato di fronte alla possibilità di un’altra esplosione rivoluzionaria.

Lenin rispose a questi seri problemi spingendo per l’abolizione del cosiddetto “comunismo di guerra” e per l’ammorbidimento della politica economica del momento, anche nota come SEP (“Socialističeskaja Ėkonomičeskaja Politika”). Presentò la NEP al decimo congresso del partito nel marzo del 1921. Il decreto formale che introdusse la NEP era intitolato “Sulla sostituzione della prodrazvërstka (requisizione di granaglie) con il prodnalog [abbreviazione di prodovol’stvennyj nalog (imposta fissa)]”. Sotto il comunismo di guerra e la prodrazvërstka, la quantità di grano requisita era decisa in loco dai comandanti di speciali brigate di approvvigionamento note come prodotrjad. L’entità del prodnalog sarebbe invece stata fissata dallo Stato, consentendo ai contadini di trattenere l’eventuale surplus prodotto. La NEP revocò anche il divieto di tenere mercati agricoli e urbani, consentendo così ai contadini di acquistare e vendere i loro prodotti in eccedenza. Il governo sovietico avrebbe invece mantenuto il controllo delle strutture apicali dell’economia, come le banche, la finanza e l’industria pesante. Il sistema introdotto dalla NEP si sarebbe potuto descrivere oggi come una sorta di economia mista. Conteneva infatti elementi di capitalismo sia pubblico che privato.

La sostituzione della requisizione con un’imposta fissa e la possibilità di tenere mercati agricoli e urbani diedero agli agricoltori russi un forte incentivo a lavorare più a lungo e a produrre di più. Così, aiutata dalla fine della guerra civile e dalla stabilizzazione delle condizioni economiche e politiche, la produzione agricola iniziò a crescere in modo significativo. Inoltre, i contadini che producevano di più iniziarono ad acquistare ulteriori beni di consumo, comprarono altra terra e si misero a dar lavoro a molti braccianti salariati. Cominciò quindi ad espandersi rapidamente il gruppo sociale dei contadini ricchi (kulaki), che negli anni precedenti era già stato in qualche modo demonizzato nella propaganda bolscevica e vessato dall’Armata Rossa e dalla Čeka (la polizia politica sovietica del periodo 1917-1922).

Ma ci fu un altro gruppo, costituito da intermediari opportunisti e rivenditori di varia natura, che emerse nell’ambito della NEP. Soprannominati ironicamente all’inglese i “nep-men” (in russo nėpmany), questi negozianti, bottegai e proprietari di bancarelle nei mercati ottenevano oggetti all’ingrosso o di seconda mano e li rivendevano poi con un cospicuo margine di guadagno. Si noti come questo tipo di profitto capitalistico-commerciale fosse severamente vietato dalla SEP prima del 1921.

 

In termini comparativi, la NEP fu un successo. Tuttavia, non risolse tutti i problemi economici della Russia, né produsse risultati immediati. La produzione agricola russa rimase stagnante per tutto il 1921, l’anno peggiore della grande carestia del Volga (golod v Povolž’e), ma la produzione iniziò ad aumentare significativamente nel 1922 crescendo ancora negli anni successivi. Entro la metà degli anni ‘20, la produzione agricola russa era tornata ai livelli precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Nel 1913 infatti la Russia aveva prodotto circa 80 milioni di tonnellate di granaglie. Nel 1921, il raccolto cerealicolo era sceso a meno di 50 milioni di tonnellate, ma quattro anni di NEP lo videro aumentare a 72,5 milioni di tonnellate. Ci furono anche conseguenti miglioramenti nella produzione industriale e nei salari degli operai, che tra il 1921 e il 1924 raddoppiarono. A novembre del 1921, il regime sovietico introdusse riforme valutarie che avrebbero contenuto l’inflazione e ripristinato la fiducia nella moneta; ciò avvenne soprattutto l’anno dopo mediante la creazione di una banconota con parità aurea, il “červonec”. Ma, ancora più importante dal punto di vista sociale, venne ripristinata la disponibilità di cibo nelle città. Poiché la NEP permetteva elementi di capitalismo privato, i sostenitori della linea dura nella gerarchia del PCR(b) la consideravano una ritirata verso il capitalismo - o almeno un riconoscimento che le politiche socialiste avevano fallito. Lenin rispose giustificando la NEP come una misura temporanea. La NEP, affermò, aveva lo scopo di dare “una boccata d’aria” al popolo russo e alla sua economia che era sull’orlo del collasso dopo sette anni di guerra. Lenin, anche a causa del suo indubbio carisma, evitò le critiche all’interno del suo stesso partito dichiarando che mentre elementi di piccolo capitalismo privato sarebbero riapparsi, il governo sovietico avrebbe mantenuto saldamente il controllo dell’industria e della finanza, soprattutto delle miniere, delle industrie pesanti e, ovviamente, delle banche. Quali che fossero le sue giustificazioni, la NEP sembrava un’ammissione che la politica economica precedente, la SEP, avesse fallito. In aggiunta, l’analogia con le riforme agrarie dell’odiato ministro zarista Pëtr A. Stolypin del 1906-07 era evidente: anche la NEP avrebbe incoraggiato e aumentato le divisioni di classe nelle campagne consentendo ad alcuni contadini di arricchirsi. Per questo la NEP disilluse molti giovani bolscevichi che attendevano con impazienza la transizione al socialismo. Ad esempio, scrivendo nel 1921, così si esprimeva Aleksandr G. Barmin (noto ufficiale e diplomatico sovietico che sfuggì miracolosamente alle purghe staliniane nel 1937 passando al servizio degli USA):

“Ci sentimmo come se la rivoluzione fosse stata tradita e fosse giunto il momento di lasciare il Partito… Dato che il denaro stava ricomparendo, non sarebbero ricomparsi forse anche i ricchi? Non eravamo dunque su una china scivolosa che ci avrebbe ricondotti al capitalismo? Ponevamo queste domande a noi stessi con sentimenti di autentica ansia”.

Tuttavia, anche la NEP non risolse tutti i mali economici della Russia. Nonostante il miglioramento dei salari e delle condizioni di vita, era diventato difficile attirare giovani operai dalle campagne nelle città. Di conseguenza, la ripresa industriale della Russia nei primi anni ‘20 fu molto più lenta della ripresa agricola, una discrepanza che condusse nel periodo 1922-23 alla cosiddetta “crisi delle forbici“ (in russo nožnitsy tsen, ovvero “le forbici dei prezzi”), ossia alla forte divaricazione tra i prezzi dei prodotti agricoli (stabili o addirittura in leggera discesa) e quelli dei prodotti industriali (in forte aumento).

Scrive lo storico Vladimir N. Brovkin a questo proposito [8]:

“I termini in cui Lenin definiva il rapporto tra la vecchia politica economica (il comunismo di guerra) e la nuova (la NEP) erano di ‘offensiva’ e ‘ritirata’, di ‘costruzione’ e ‘pausa’, e non lasciavano spazio a un’accettazione positiva della NEP nelle menti bolsceviche. La NEP non era mai stata concepita come un percorso verso il socialismo, ma come una deviazione, come un ostacolo temporaneo da superare. Il partito bolscevico aveva un disperato bisogno di un ruolo da svolgere; aveva bisogno di riaffermare che stava guidando la Russia e non semplicemente aspettando che si presentassero le condizioni in cui l’offensiva socialista potesse riprendere”.

Come vedremo meglio nella prossima sezione, sarà l’acuto e spregiudicato Bucharin nel 1925, con l’iniziale appoggio di Iosif V. Stalin e del suo apparato, a saldare la nuova dottrina del “socialismo in un solo paese” all’idea della NEP come via, lenta ma praticabile, alla costruzione del socialismo nell’URSS. Al contrario, a partire dalla morte di Lenin nel gennaio del 1924, gli elementi del partito più scettici nei confronti della NEP (e soprattutto della sua prosecuzione) si coagularono intorno a Lev D. Trockij e alla sua Opposizione di Sinistra. Successivamente, dopo la sconfitta di Grigorij E. Zinov’ev e Lev B. Kamenev nel dicembre del 1925, si arrivò nel 1926-27 a un’Opposizione Unificata trotzkista-zinovievista, sempre più fortemente ostile alla NEP. Infine, eliminata politicamente anche questa Opposizione, Stalin prese personalmente a combattere la NEP, appropriandosi in parte delle tesi trotskiste e usandole contro Bucharin e i suoi principali sostenitori (Aleksej I. Rykov e Michajl P. Tomskij) sconfiggendoli. Infatti, con la scusa di una lieve penuria di granaglie nel 1928, Stalin, che probabilmente non era estraneo agli errori commessi nell’approvvigionamento delle città, cambiò radicalmente opinione e propose un programma di rapida industrializzazione e di collettivizzazione forzata, poiché sosteneva che la NEP non stesse funzionando in modo abbastanza efficiente. Si era in effetti convinto, pur senza mai ammetterlo, che nella nuova situazione dell’URSS le politiche economiche dei suoi implacabili oppositori - Trockij, Zinov’ev e Kamenev in primis - fossero essenzialmente corrette. Bucharin invece era seriamente preoccupato dalle prospettive economiche del piano di Stalin che, egli temeva, avrebbero condotto a uno “sfruttamento militare-feudale” della popolazione rurale. Certamente anche lui voleva che l’Unione Sovietica raggiungesse la piena industrializzazione, ma avrebbe preferito un approccio più moderato offrendo ai contadini l’opportunità di divenire benestanti, cosa che avrebbe condotto a una maggiore produzione cerealicola da vendere all’estero in cambio di tecnologie industriali moderne. Bucharin sostenne apertamente le sue opinioni per tutto il 1928 nelle riunioni del Politburo e del XV Comitato Centrale del VKP(b) [l’acronimo russo del nuovo nome del partito a partire dal 1925: “Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico)”], insistendo che le requisizioni forzate di grano sarebbero state controproducenti, così come lo era stato il “comunismo di guerra” nel decennio precedente. Ma il sostegno di Bucharin alla prosecuzione della NEP non era ben visto dagli alti quadri di partito così come non lo era stato il suo slogan lanciato ai kulaki, che mimava ironicamente quello del ministro François Guizot nella Francia del 1840: “Arricchitevi!”. Ovviamente Bucharin voleva dire soltanto che, essendo la costruzione dell’industria di Stato finanziata principalmente dalle entrate fiscali, un arricchimento dei piccoli imprenditori privati avrebbe significato una più rapida industrializzazione dell’URSS. Anche la sua proposta di arrivare al socialismo “a passo di lumaca” lo rendeva vulnerabile agli attacchi di Stalin. In effetti quest’ultimo stava usando esattamente gli stessi vecchi argomenti di Kamenev, che due soli anni prima erano stati neutralizzati proprio perché Stalin e il suo fedele apparato di partito avevano difeso Bucharin mettendo in minoranza l’Opposizione Unificata. Ma ora Stalin attaccava le idee di Bucharin in modo violento e senza scrupoli, dipingendole come “deviazioni capitaliste” e dichiarando che la rivoluzione stessa sarebbe stata in pericolo senza una forte politica che avesse incoraggiato una rapida industrializzazione dell’URSS. Era la fine della NEP e l’inizio della “Grande Svolta” economica dell’URSS con il varo del Primo Piano Quinquennale (1928-32). Ma l’enorme carestia del 1932-33, il Holodmor, con i suoi circa 3 milioni di morti per fame nella sola Ucraina, s’incaricò di dimostrare quanto Bucharin avesse ragione a temere gli effetti nefasti della collettivizzazione forzata e della cosiddetta “dekulakizzazione” delle campagne.

 

Riassumendo in maniera telegrafica quanto riportato in questa sezione, possiamo dire che:

a) La “Nuova Politica Economica”, o NEP, fu una strategia economica concepita, sviluppata e introdotta da Lenin all’inizio del 1921. Questo fu un periodo in cui i bolscevichi affrontarono una crescente opposizione e, in alcuni casi, anche delle vere e proprie ribellioni.

b) La NEP sostituì il “comunismo di guerra” (ufficialmente detto SEP) come politica economica ufficiale del regime sovietico. Pose fine alle requisizioni di granaglie, sostituendole con una tassa fissa da pagare in natura, permise la proprietà privata di piccole imprese, il ritorno dei mercati rurali e cittadini, nonché la vendita dei beni in eccesso.

c) La NEP consentì quindi il ritorno di comportamenti capitalistici privati, come l’acquisto e la vendita a scopo di lucro, e produsse il rafforzamento dei kulaki e l’emersione della nuova classe dei “nep-men”.

d) In termini comparativi, la NEP fu un successo in quanto permise alla produzione agricola russa di riprendersi rapidamente e, nel 1925, di raggiungere livelli simili a quelli precedenti la Prima Guerra Mondiale.

e) Alcuni esponenti del PCR(b) considerarono però la NEP come un tradimento o comunque come un abbandono dei principi economici socialisti. Lenin la giustificò invece come una “boccata d’aria” provvisoria per l’economia russa che era stata messa alle corde dagli anni della Prima Guerra Mondiale, della guerra civile e del “comunismo di guerra”.

f) Tuttavia, dopo la morte di Lenin, gli scontri politici tra le fazioni del partito nella fase detta dell’”interregno” (1924-1928) usarono la questione della prosecuzione della NEP in modo spesso ideologico e non concretamente economico: la sinistra di Trockij (e successivamente anche di Zinov’ev e Kamenev) fu contraria, il centro di Stalin e la destra di Bucharin invece a favore. Una volta liquidata la sinistra, la lotta politica tra Stalin e Bucharin esplose violentemente nel 1928 e vide il primo dei due compiere in pochi mesi una completa inversione, attaccando la NEP e auspicando l’industrializzazione forzata, la collettivizzazione delle campagne e l’eliminazione dei kulaki come classe. La NEP era finita e iniziava la lunga stagione dei Piani Quinquennali.

 

 

3. La NEP e la transizione al socialismo: un dibattito teorico di alto livello

 

3.1 Le premesse di Lenin

 

Prima d’immergerci nel dibattito tra Bucharin e Preobraženskij sulla transizione al socialismo e il ruolo della NEP, dobbiamo necessariamente fare una premessa e compiere una piccola diversione. Entrambi i personaggi che abbiamo appena nominato erano dirigenti di lungo corso del partito bolscevico di cui conoscevano perfettamente la base teorica marxista; tant’è che nel 1919 entrambi avevano ricevuto l’importante incarico di comporre un testo completo ma divulgativo sul comunismo, la sua visione teorica socioeconomica e la sua prassi politica. Ne nacque un libro famosissimo, un vero “catechismo” stampato e diffuso in tutti i nascenti partiti comunisti del globo: “L’ABC del Comunismo”, la cui scomparsa si dovette solo alla damnatio memoriae che seguì la condanna staliniana sia dell’Opposizione di Sinistra (incluso Preobraženskij) che di quella di Destra (diretta proprio da Bucharin). Ma il bolscevismo, a partire dalle polemiche organizzative del 1901-02 riportate nel noto testo del “Che fare?”, era cresciuto e si era fortificato nel solco del pensiero di Lenin, sempre molto abile a estromettere (o comunque a emarginare, come nel caso di Aleksandr A. Bogdanov) chiunque all’interno del partito avesse osato sfidare la sua autorità politica, soprattutto per quanto riguardava la corretta interpretazione del marxismo. L’autorità di Lenin era ovviamente cresciuta a dismisura dopo il successo della Rivoluzione d’Ottobre, raggiungendo quasi il segno dell’infallibilità, un livello poi pienamente attinto con la malattia (maggio del 1922) e infine con la vera e propria apoteosi successiva alla morte (gennaio del 1924). In questo senso, almeno dall’inizio del 1923 in poi, ogni dirigente bolscevico sentì forte il dovere morale di essere un buon “marxista leninista”, ovvero un interprete genuino dell’autentico pensiero di Lenin. Critiche o deviazioni dall’ortodossia leninista (e Preobraženskij, come vedremo, se ne permetterà almeno una) dovevano esser camuffate e mimetizzate con cura e circospezione per non divenire, come nel caso di Trockij e della sua teoria della “rivoluzione permanente”, dei pericolosissimi boomerang capaci di distruggere in pochi mesi gloriose carriere politiche pluriennali.

Eppure, curiosamente, sul tema della transizione dal capitalismo al socialismo, Lenin (come anche Karl Marx nel secolo precedente {A}) era stato molto parco nello scrivere prima del 1918: a parte qualche osservazione sparsa in vari articoli e nella corrispondenza, il nucleo del suo pensiero in proposito era contenuto nel saggio considerato da molti come il testo politico più influente del XX secolo: “Stato e Rivoluzione” [9] del settembre del 1917. Ma chi si aspettasse un dettagliato progetto economico di trasformazione socialista della società rimarrebbe deluso: tanto il testo è meticoloso nella ricostruzione, talora quasi filologica, della concezione marxiana ed engelsiana del processo rivoluzionario, della conquista del potere dello Stato e del suo immediato smantellamento con l’instaurazione della cosiddetta “dittatura del proletariato”, tanto è sbrigativo nella descrizione delle trasformazioni economiche necessarie a condurre la società dal capitalismo al comunismo. Anzi, a voler esser pignoli, Lenin ripete essenzialmente in “Stato e Rivoluzione”, con poche varianti e precisazioni, quanto Marx scrisse nel lontano 1875 in una breve comunicazione privata ai vertici del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori di Germania, la famosa “Critica al Programma di Gotha” [10], pubblicata da Friedrich Engels solo nel 1891.

Vediamo brevemente di cosa si tratta. Qui Marx descrive a grandi linee l’organizzazione di una società socialista appena emersa dal capitalismo (ossia, lo stadio inferiore del comunismo). In essa sarà eliminato lo sfruttamento del proletariato mediante la socializzazione dei mezzi di produzione, ma rimarranno alcune disuguaglianze economiche tra i singoli individui, dovute alla permanenza di frammenti di diritto borghese che attribuiscono agli uomini, che sono di fatto tutti diversi tra di loro, un’eguale quantità di prodotti di consumo in base a un’eguale quantità di lavoro svolto, anziché in base agli effettivi bisogni di ciascuno. Ciò potrà praticamente avvenire mediante l’erogazione di buoni-lavoro nominali e non cumulabili in luogo della moneta circolante, che invece sparirà. Prosegue poi Marx scrivendo che solo in uno stadio superiore del comunismo, quando non ci sarà più contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, quando il lavoro sarà non solo un mezzo per sopravvivere ma il primo bisogno della vita e quando, in fine, con lo sviluppo integrale degli individui saranno cresciute a dismisura le forze produttive, allora “l’angusto orizzonte giuridico borghese” (Marx) sarà oltrepassato e verrà finalmente realizzato il principio base del comunismo: “da ciascuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni” (Marx). Lenin non si discosta molto da questi concetti se non battezzando “socialismo” quello che Marx definisce “stadio inferiore” e “comunismo” quello che Marx definisce “stadio superiore; per il resto la sua attenzione, ancora una volta, lascia le questioni economiche e si volge al problema dello Stato e della sua trasformazione, precisando che nella fase “socialista”, dato il permanere di frammenti di diritto borghese e di una certa forma di coercizione nell’attribuire beni uguali a uguali tempi di lavoro, sarà necessaria la permanenza di un semi-Stato realmente democratico dove la totalità dei cittadini produttori parteciperà all’amministrazione: tutta la produzione verrà presa in mano da tale semi-stato e tutti i lavoratori saranno suoi dipendenti. L’esempio di “Stato e Rivoluzione” è quello, ormai celeberrimo, di una società socialista organizzata come un gigantesco “ufficio postale tedesco”. Ma quando i lavoratori avranno appreso a gestire tale semi-Stato, comincerà a sparire la necessità di qualsiasi amministrazione: “quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua” (Lenin). Si passerà allora allo stadio superiore della società comunista e alla completa estinzione dello Stato.

Questo cambio di punto di vista, dall’economico al giuridico, passando da Marx a Lenin, ha permesso a studiosi come Paresh Chattopadhyay [11] di sostenere, forse in maniera un po’ forzata, la totale divergenza tra le rispettive concezioni del socialismo, e ad altri, come Erik van Ree [12], di portare avanti la tesi anti-trotzkista per cui Lenin, dato il carattere eminentemente legale e politico del suo “socialismo”, non avrebbe affatto escluso a priori l’ipotesi di realizzarlo in un solo paese. Certo è che le differenze, grandi o piccole che si vogliano, tra lo “stadio inferiore del comunismo” marxiano da un lato e il “socialismo” leniniano dall’altro, non possono esser veramente comprese se non si considerano anche altri due libri importanti: “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1916) [13] di Lenin stesso e forse ancora di più “L’economia mondiale e l’imperialismo” (1915-1917) [14] del giovanissimo Bucharin. In queste opere è chiarissimo il meccanismo logico concepito dal leader dei bolscevichi e dal suo pupillo: la Grande Guerra inter-imperialista ha portato i paesi europei più progrediti (Germania, Regno Unito, Francia, Austria-Ungheria) a una vera e propria regia statale del capitalismo nazionale, eliminando anche le ultime vestigia di “anarchia del mercato” stentatamente sopravvissute alla fase imperialista dell’ultimo ventennio. A questo punto le basi sia materiali che organizzative del socialismo sarebbero quasi pronte: il capitalismo bellico di Stato, soprattutto quello tedesco, il più perfetto, rappresenterebbe già l’anticamera del socialismo. Basterà al proletariato conquistare il potere, liquidare la vecchia classe dominante spezzando la struttura militare-burocratica statale e poi espropriare de iure i capitalisti, già de facto resi quasi superflui da un’economia di guerra rigorosamente pianificata. E non si pensi a questa concezione come esclusiva dei bolscevichi. La troviamo esposta in maniera assai simile nel socialista austriaco più moderato e più patriottico di quel periodo, Karl Renner, il quale la discute nel suo interessante volume (sfortunatamente poco noto) “Marxismus, Krieg und Internationale” (“Il marxismo, la guerra e l’Internazionale”,1917) [15], da dove però ne trae una strategia opposta al disfattismo bolscevico: dato che lo sforzo bellico ha già posto le basi economiche del socialismo, conviene ai marxisti vincere ogni titubanza nell’entrare in governi “borghesi” di concordia nazionale in modo da esser pronti, a guerra finita, a prendere il potere nel nome del proletariato e ad istaurare rapidamente e senza indugi la “repubblica socialista”.

Si capisce quindi la vera e propria fissazione di Lenin per le sorti della rivoluzione in Germania nel lungo periodo che va dall’ammutinamento della flotta tedesca del Baltico (4 novembre del 1918), alla sconfitta dei moti spartachisti (12 gennaio del 1919) fino al fallimento dell’ “Azione di marzo” (1mo aprile del 1921): non si tratterebbe tanto di un’astratta idea di rivoluzione mondiale in cui la Russia, anello debole nella catena dell’imperialismo, funga solo da detonatore, come propagandava il Comintern, quanto piuttosto del fatto che, a differenza dell’arretrata Russia, nella Germania appena uscita dalla guerra il “socialismo”, almeno dal punto di vista economico, sarebbe per Lenin essenzialmente già quasi pronto. E questo spiegherebbe anche alcune incertezze e ambiguità di Lenin sulla remota possibilità dell’edificazione del socialismo nella sola Russia [12] durante il periodo del cosiddetto “comunismo di guerra” o SEP (1918-1921).

Ma a questo punto siamo già oltre il momento (maggio del 1920) in cui Bucharin pubblica l’ “Economia del periodo di trasformazione” [1], che verrà criticamente chiosata dallo stesso Lenin, iniziando così il lungo dibattito sulla costruzione delle basi economiche del socialismo, benché l’opera sia del tutto precedente alla NEP (e quindi ignara di essa), generalizzando e assolutizzando invece la prassi politica ed economica del “comunismo di guerra”, il cui valore avrebbe dovuto essere comunque solo transitorio.

 

3.2 Il percorso di Bucharin

 

Nei recenti studi della suddetta opera economica spesso si critica Bucharin per aver fatto della “coercizione extraeconomica” il principale metodo di costruzione del socialismo. Con ciò, tuttavia, si dimentica sempre di sottolineare il radicale mutamento di posizione di Bucharin dopo l’introduzione della NEP, nonché il fatto che lo stesso Lenin tendeva a condividere l’uso di tale coercizione (a condizione, naturalmente, che l’autore ne fosse il partito che a suo dire rappresentava gli interessi generali del proletariato, ovvero quello bolscevico). Altri piuttosto furono gli errori attribuiti da Lenin al testo di Bucharin: un certo scolasticismo terminologico e una supposta anti-dialetticità dei concetti esposti. In effetti questo lavoro buchariniano non dovrebbe interessarci in quanto, come si è visto, è considerato l’espressione più vivace dell’ideologia coercitiva del “comunismo di guerra”, eppure, come osserva lo storico Lars T. Lih [16], è proprio qui che Bucharin esplicita un argomento essenziale intorno a cui verteranno tutti i suoi ragionamenti successivi degli anni ‘20: il corretto rapporto tra città e campagna, tra mondo agricolo e mondo industriale.

Partendo dal riconoscere esplicitamente il pericolo di una crescita senza proporzione reciproca dei due settori, l’autore si pone una domanda a prima vista provocatoria per un comunista: come risolve il capitalismo questo problema cruciale (anzi, qui appare addirittura il termine russo “žizni i smerti”, traducibile con “di vita o di morte”), considerando che la produzione agricola è per sua natura una produzione sparsa e non concentrata, differentemente da quella industriale? Nel capitalismo di stato europeo dei tempi bellici è “il processo organizzativo” a regolare la circolazione, ossia lo scambio tra città e campagna. Tale regolazione avviene mediante cooperative e può includere al suo interno anche piccole imprese agricole. Una volta messo a fuoco quello che si reputa essere l’obiettivo più importante, Bucharin, nel capitolo seguente della sua opera, si domanda: “In che modo possiamo stabilire l’influenza organizzatrice del proletariato cittadino? E come possiamo raggiungere un nuovo equilibrio tra città e villaggi?” La risposta che dà l’autore è ancora più provocatoria della domanda del capitolo precedente, visto che siamo ancora in epoca pre-NEP: “Per la maggioranza della massa di piccoli produttori, il coinvolgimento nell’apparato organizzativo è possibile, principalmente, attraverso la sfera della circolazione, ovvero nello stesso modo in cui ciò avviene nel capitalismo di stato”. Dunque, in circostanze normali le cooperative sarebbero lo strumento fondamentale di tale processo organizzativo.

Gli anni successivi alla promulgazione della NEP furono per Bucharin un tempo di grande attività teorica e di revisione di alcune sue posizioni “estremiste” del periodo precedente. In particolare, sviluppò l’idea leniniana dell’alleanza operaio-contadina come fondamento concreto del potere sovietico e come condizione necessaria all’edificazione del socialismo in URSS, ponendo per primo la questione del contributo teorico innovativo di Lenin al marxismo. Conseguentemente cercò di precisare ulteriormente i concetti alla base della NEP anche in funzione delle concrete condizioni economiche dell’URSS degli anni ‘20. Nel suo opuscolo, sfortunatamente poco noto all’estero, ”Put’ k socializmu i raboče-krest’janskij sojuz” (“La via al socialismo e l’unità operaio-contadina” [17]) del 1925, Bucharin tenta di fondare teoricamente la costruzione del socialismo in un solo paese (in chiara polemica con l’Opposizione di Sinistra) sulla base proprio della NEP, riprendendo ed espandendo le idee di Lenin relative alla necessità dell’introduzione misure di economiche transitorie per condurre verso il socialismo un paese in cui dominava ancora la piccola proprietà contadina. In questo senso Bucharin sosteneva onestamente di condividere in pieno le ultime idee di Lenin sull’argomento (1921-23) secondo le quali: “(...) il regime dei cooperatori inciviliti, data la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, data la vittoria di classe del proletariato sulla borghesia, questo è il regime del socialismo” [18]. Lo schema buchariniano presentava tuttavia un punto non del tutto chiarito e un po’ fideistico, ossia l’ipotesi di base che la NEP avrebbe perso progressivamente terreno spontaneamente e che quindi il socialismo si sarebbe radicato lentamente ma inesorabilmente nell’URSS, senza pericolosi salti o transizioni violente. Proprio questo atteggiamento essenzialmente ottimistico avrebbe prestato il fianco alle dure critiche degli oppositori e, alla fine, l’avrebbe politicamente distrutto.

Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo Bucharin s’era situato dalla parte diametralmente opposta alle posizioni di Preobraženskij e Trockij (sulle quali nel 1925 erano andati a convergere anche Zinov’ev e Kamenev) divenendo così il maggiore esponente teorico della cosiddetta ‘destra bolscevica’ e godendo pure del tacito e momentaneo appoggio di Stalin. Era quindi ovvio che lo scontro politico all’interno del partito avrebbe fatto uso anche delle armi raffinate del dibattito teorico [19].

Quello che più irritava e scandalizzava l’Opposizione era il fatto che Bucharin, pur propagandando il socialismo, scriveva e argomentava come un economista “borghese” di buon senso chiamato a fornire i suoi consigli in vista della crescita economica del paese: auspicava la formazione di un mercato e la libera concorrenza tra le imprese (private o statali che fossero), la stabilità della moneta, la riduzione dei prezzi delle merci mediante l’aumento della produttività del lavoro, lo sviluppo dell’agricoltura, il buon funzionamento delle banche e, in generale, del sistema finanziario. Infatti, era del tutto convinto, come già abbiamo accennato, che nella concorrenza le imprese statali si sarebbero dimostrate superiori a quelle private e con gradualità le avrebbero o assorbite o fatte fallire, senza nessuna coercizione né legale né violenta: quasi spontaneamente l’economia dell’URSS si sarebbe indirizzata verso il socialismo. Bucharin si rendeva ben conto che il suo discorso assomigliava esteriormente a quello dei laburisti e dei socialdemocratici riformisti dell’Europa Occidentale, che auspicavano la lenta avanzata del socialismo mediante l’estensione graduale della proprietà pubblica delle imprese; tuttavia, il nostro autore rimarcava in continuazione la contrapposizione tra gli Stati borghesi dell’Europa Occidentale e la “dittatura del proletariato” nell’URSS esercitata dal partito bolscevico. Quest’ultima avrebbe permesso l’utilizzo di metodologie tipiche delle politiche economiche capitaliste senza per questo intaccare, anzi stabilizzando, la crescita dell’URSS verso il socialismo.

Il pendant di queste posizioni economiche era l’analisi della composizione sociale dell’URSS nel pieno della NEP, visto che sussistevano rapporti di produzione basati sul capitale da un lato e sul lavoro salariato dall’altro. Per schivare l’accusa di voler operare una politica sottilmente contro-rivoluzionaria e restauratrice, Bucharin qui fece la più rigorosa distinzione tra la borghesia reazionaria e soggetta all’imperialismo mondiale precedente la Rivoluzione d’Ottobre (che era stata giustamente sconfitta ed esautorata) e la “nuova borghesia” dei nep-men e dei kulaki, remissiva e senza rappresentanza politica, nata e temporaneamente tollerata all’interno dello Stato sovietico, la quale alla fine avrebbe dovuto ridimensionarsi e scomparire a causa della concorrenza con le imprese statali o con le cooperative. Per segnare più fortemente questa differenza Bucharin (che pure era un fine sociologo) userà sempre il termine di “strato sociale” per i nep-men invece di quello più comune nel marxismo, ma estremamente disdicevole, di “classe sociale”.

In effetti mentre sulla questione dell’estinzione naturale della NEP stava formulando ipotesi alquanto ottimiste, sulla non pericolosità della “nuova borghesia” sovietica aveva argomenti piuttosto solidi: nep-men e kulaki erano una realtà puramente russa sprovvista di forti legami internazionali (se si eccettuano le poche imprese straniere ammesse ad operare in Russia nel periodo della NEP). Avevano accesso al credito solo mediante banche totalmente pubbliche e, soprattutto, erano interdetti dalla vita politica non potendo né iscriversi al VKP(b), né partecipare alle assemblee dei soviet (che comunque dal VKP(b) erano totalmente egemonizzate). Lo spauracchio di un gruppo di “destra” (Bucharin, Rykov e Tomskij) agente come longa manus della “nuova borghesia”, agitato prima dall’Opposizione trotzko-zinovievista e poi da Stalin, era ovviamente una palese menzogna. La questione vera era naturalmente un’altra: fino a che punto è legittimo usare gli strumenti dell’economia politica accademica (ovvero “borghese”) nel tentativo di edificazione di una società socialista, soprattutto se si tratta di paesi enormi e ricchi di risorse ma economicamente molto arretrati? Come è ovvio il nome e le idee di Bucharin caddero nell’oblio più totale dopo che, sconfitto politicamente nel 1928-29 e costretto all’autocritica, nel 1937 fu arrestato, condannato per tradimento e spionaggio nel celebre processo-farsa detto “dei ventuno” e infine fucilato nel marzo del 1938. Eppure, lentamente, la questione del rapporto tra paesi del “socialismo reale” ed economia politica “borghese” tornerà nuovamente a galla nell’URSS dopo la morte di Stalin con gli studi e le proposte di riforma dell’economia sovietica di Liberman, Nemčinov e Trapeznikov (1965), benché la sistemazione teorica più coerente di questo approccio fosse già avvenuta nel 1936-37 in modo del tutto autonomo e riservato agli specialisti ad opera dell’economista polacco Oskar Lange [20]. Naturalmente, a parte una comunanza di strumenti analitici e concettuali, nulla, se non congetture altamente ipotetiche, autorizza a vedere in Bucharin un sostenitore ante litteram del “socialismo di mercato” di marca iugoslava o cinese oppure, addirittura, di un sistema capitalista misto pubblico-privato sul modello scandinavo. In realtà Bucharin è semplicemente un leninista che porta il pensiero del maestro alle sue più logiche conseguenze: se l’impalcatura economica del “socialismo” di Lenin è molto vicina al capitalismo di Stato moderno di epoca bellica, allora un paese grande ma arretrato come la Russia, volendo edificare il socialismo da solo, dovrà far crescere in sé l’economia capitalista utilizzando sia l’imprenditoria pubblica che quella privata. Ma tale crescita presuppone, esattamente allo stesso modo in cui avviene nei paesi retti da governi “borghesi”, la validità completa della legge del valore, così come formulata da Marx ne “Il Capitale”.

 

3.3 La cosiddetta “legge fondamentale dell’accumulazione originaria socialista” di Preobraženskij

 

Preobraženskij fu una figura importante del partito bolscevico appartenente alla generazione dei “giovani”, come anche Bukharin, ossia quella successiva a Lenin, Stalin e Trockij. Studente brillante di materie economiche (anche se non laureato per motivi di repressione politica) fu sempre legato all’ala sinistra ed “estremista” del partito, quella insofferente del trattato di pace con gli Imperi Centrali, ostile al diritto dei popoli all’autodeterminazione ed entusiasta dell’esperienza del “comunismo di guerra” e di ogni pratica politica di stampo volontaristico come la cosiddetta “guerra rivoluzionaria” contro la Georgia e la Polonia. La rivista di riferimento di questa frangia, a cui appartenevano anche Nikolaj I. Bucharin, Karl B. Radek, Valerian V. Osinskij e Vladimir M. Smirnov, era “Kommunist” (“Il Comunista”) che ospitava articoli non sempre perfettamente in linea con le opinioni di Lenin, il quale in più di una circostanza non lesinò critiche a questi giovani impazienti. In questa fase Preobraženskij è assai prolifico e scrive, oltre a vari articoli, il succitato catechismo comunista [“L’ABC del Comunismo” (1919)] insieme a Bucharin e il volume polemico “Anarchismo e Comunismo” (1921). Ma il vero salto di qualità viene compiuto nel marzo del 1920 quando, in concomitanza del IX congresso del PCR (b), viene eletto prima membro effettivo del Comitato Centrale e poi addirittura uno dei tre rappresentanti nel Segretariato dello stesso. Nel 1921 diviene presidente del Comitato Finanziario e membro del Consiglio dei Commissari del Popolo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, nonché Capo del Commissariato del Popolo per l’Educazione. È proprio in questo periodo che Preobraženskij entra in contatto con la NEP (che Lenin stava proponendo in modo piuttosto sorprendente al partito) in quanto il nostro autore è chiamato a prepararne e curarne gli aspetti finanziari.

Anche se inizialmente la difende dalle critiche degli anarchici, presto inizia a diffidarne e nel 1922 dà alle stampe il suo primo testo critico sull’argomento: “Dalla NEP al socialismo” [3], invocando un forte processo di industrializzazione, statalizzata e pianificata, sulla base dello sviluppo prioritario dell’industria pesante. Inizia così il lungo e brillante dibattito (1923-1925) con l’ex-alleato Bucharin, oramai divenuto un avversario conquistato dai ragionamenti leniniani sulla NEP. Alla fine, i suoi principali contributi saranno compendiati nel lungo saggio polemico “La Nuova Economia” [4]. Due anni dopo Preobraženskij, ora politicamente vicino a Trockij, diviene uno dei redattori del prestigioso organo di partito “Pravda” (“La Verità”) ed è confermato membro del Consiglio del Commissariato del Popolo per le Finanze, ma soprattutto affina i suoi concetti in un’affollata conferenza all’Accademia Comunista: “La legge fondamentale dell’accumulazione socialista” [2,4], dove affronta la situazione interna dell’URSS e pone il problema: “di che cosa rappresenti il sistema economico sovietico, in quale direzione si sviluppi, quali siano le sue leggi fondamentali di evoluzione e, infine, quale connessione abbia con le nostre vecchie e tradizionali immagini del socialismo questa prima esperienza che esce, almeno per quanto concerne i suoi elementi fondamentali, dal quadro del capitalismo. Quest’ultimo problema potrebbe essere più correttamente espresso nel seguente modo: alla luce di sette anni di dittatura del proletariato in un paese enorme, come ci appaiono oggi le nostre precedenti idee sul socialismo?”.

In effetti il termine “accumulazione originaria (o primitiva) socialista” era già stato utilizzato precedentemente sia da Smirnov che da Trockij, ma Preobraženskij lo riprese per dare rigore alla sua teoria sulla transizione dal capitalismo al socialismo, che era basata essenzialmente sull’analogia tra lo sviluppo storico del capitalismo e la situazione attuale dell’URSS, in modo tale da trarre ispirazione dal passato (con le dovute differenze) su come procedere più velocemente verso il socialismo [21]. Infatti, dato che, come si è già detto, l’economia sovietica era largamente sottosviluppata e per lo più di natura agricola, il potere sovietico stesso avrebbe dovuto essere l’agente dell’accumulazione originaria di capitale per poter sviluppare rapidamente l’economia. L’idea era quella d’industrializzare l’economia sovietica mediante il capitalismo di Stato dato che era troppo sottosviluppata al momento per riuscire ad attuare una forma completa di socialismo, che oltretutto, come si è visto nel primo paragrafo di questa sezione, nell’ottica leninista dal capitalismo di Stato non si distingueva troppo (se non, ovviamente, per la struttura sociopolitica).

L’idea di accumulazione originaria non era recente: già Adam Smith e altri economisti classici vi avevano fatto riferimento chiamandola accumulazione “precedente”, “originaria” o “primitiva” del capitale per spiegare l’aumento della specializzazione nella produzione e della divisione del lavoro. La produzione specializzata richiedeva una precedente accumulazione di capitale per sostenere gli operai qualificati fino a quando i loro prodotti non sarebbero stati pronti per la vendita. La cosiddetta “accumulazione precedente” avveniva quindi attraverso il risparmio, e il profitto sul capitale investito rappresentava la remunerazione di tale risparmio. Karl Marx aveva parodiato questa tesi piuttosto autocompiaciuta, sostenendo invece che l’accumulazione capitalista primitiva non rappresentava altro che il processo in grado di separare il produttore (cioè il lavoratore) dai mezzi di produzione. Si trattava del processo di creazione delle due istituzioni capitaliste fondamentali, ossia la proprietà privata esclusiva dei mezzi di produzione da un lato e il lavoro salariato dall’altro.

Ora Preobraženskij traslava il concetto di “accumulazione primitiva” dalla Gran Bretagna del XVIII secolo alla Russia post-rivoluzionaria dove il settore statale dell’economia del periodo di transizione avrebbe dovuto appropriarsi del prodotto in eccedenza delle campagne per accumulare le risorse necessarie alla crescita dell’industria. A tal fine i meccanismi principali sarebbero stati il monopolio del commercio estero detenuto dallo Stato e il controllo dei prezzi a favore dell’industria (cosa che in effetti si sarebbe realizzata spontaneamente mediante la citata “forbice dei prezzi” già nel periodo della NEP).

Questa teoria fu criticata politicamente ed associata a Trockij e all’Opposizione di Sinistra, ma in realtà, come si è visto nella sez. 2, fu messa in pratica proprio da Stalin negli anni ‘30, come Stalin stesso disse nel suo celebre discorso ai dirigenti industriali, ossia che l’Unione Sovietica avrebbe dovuto realizzare in un decennio ciò che l’Inghilterra aveva impiegato secoli a fare in termini di sviluppo economico, per essere preparata a un’invasione da parte dell’Occidente.

Ma Preobraženskij andava oltre: questo processo non doveva esser solo un mezzo per raggiungere l’industrializzazione in un paese arretrato, ma bisognava che fosse anche considerato come una parte integrante dello sviluppo di uno Stato socialista. Affermava infatti che: “Man mano che si sviluppa, la legge dell’accumulazione originaria socialista inizia simultaneamente a risolvere sia i problemi di proporzionalità nella distribuzione delle forze produttive esistenti … sia il problema della riproduzione allargata, ma nelle forme socialiste piuttosto che capitaliste” [22]. Così l’accumulazione primitiva socialista era vista come il mezzo attraverso il quale lo Stato poteva soppiantare la piccola produzione borghese e le relazioni capitaliste all’interno dell’economia. Preobraženskij proseguiva tracciando in maniera più accurata il parallelo tra l’accumulazione primitiva socialista e quella che Marx aveva chiamato “accumulazione primitiva capitalista”. Su quest’ultimo processo, Marx affermava nel I libro de “Il Capitale” che la produzione capitalistica presuppone la preesistenza di masse considerevoli di capitale e di forza lavoro nelle mani dei produttori di merci. Lo sviluppo del socialismo richiedeva ora un’accumulazione forzata nelle mani del settore statale (i cosiddetti “produttori socialisti”), proprio come il capitalismo aveva richiesto l’accumulazione nelle mani dei produttori capitalisti. Ed esattamente come nell’accumulazione capitalista, la forza avrebbe dovuto essere anche l’agente dell’accumulazione primitiva socialista, e doveva essere applicata dallo Stato proletario sotto forma di tasse, prezzi e politiche finanziarie per requisire il plusvalore creato nel settore privato e trasferirlo al settore “socialista”, garantendo così la crescita differenziale del secondo rispetto al primo. In quelle che chiamava “condizioni socialiste premature” che caratterizzavano l’URSS, Preobraženskij raccomandava uno scambio non equivalente, cioè una rapida modifica del tasso di scambio a sfavore dei contadini e delle altre piccole imprese private, come mezzo principale per raccogliere e trasferire il surplus tra i due settori. Durante la transizione, i lavoratori delle imprese socialiste avrebbero sperimentato una sorta di “auto-sfruttamento” e poi, in breve tempo, l’accumulazione primitiva socialista avrebbe eliminato il settore privato. Al centro della convinzione di Preobrazenskij che il settore “socialista” debba accumulare risorse a discapito del settore privato c’era il suo argomento clou secondo cui la portata dell’espropriazione deve dipendere dall’interazione antagonistica di due leggi economiche: la legge dell’accumulazione primitiva socialista e la legge del valore. La legge del valore, che governa l’economia attraverso un’espressione spontanea delle forze di mercato, doveva essere sostituita dalla pianificazione e dalla legge dell’accumulazione primitiva socialista. Il contenuto delle relazioni di mercato verrebbe così rimosso e queste relazioni passerebbero sotto il controllo dello Stato. Preobrazenskij sottolineò a più riprese che una legge deve estromettere l’altra: o la forma capitalista eroderà l’economia statale o la forma “socialista” si svilupperà a spese dello strato economico non socialista. L’idea che i due tipi di economia non possano coesistere era ricavata (in modo alquanto sforzato) dall’affermazione di Marx secondo cui “il capitale può essere inteso solo come movimento, non come una cosa a riposo”. Perché il socialismo avesse successo in Russia, la crescita del settore “socialista” doveva superare quella del settore capitalista. Non ci sarebbe potuto essere un equilibrio di lungo periodo tra i due, dove nessuno dei due sistemi economici avrebbe sfruttato l’altro.

 

Si capisce già da questa sommaria spiegazione come il disaccordo tra Preobraženskij e Bucharin e, in generale, tutti i sostenitori dell’idea della NEP “lunga” non avrebbe potuto essere più totale. Per il primo la legge del valore continuava ad esistere anche durante la lunga fase di costruzione del socialismo (“a passo di lumaca”) e l’antagonismo tra economia pubblica e privata era facilmente gestibile dal monopolio politico del potere bolscevico mediante una politica fiscale ragionevole. Alla lunga poi l’impresa pubblica, più efficiente, avrebbe facilmente e gradualmente assorbito quella privata senza traumi. Per il secondo invece la legge del valore, non più del tutto valida nemmeno nell’ultima fase del capitalismo monopolistico di Stato europeo, doveva esser volontariamente abbandonata a vantaggio della legge dell’accumulazione originaria socialista da implementarsi mediante politiche attive e aggressive di requisizione di risorse economiche nelle campagne e nella piccola manifattura privata. I due settori, privato e pubblico, avrebbero dovuto essere in perenne antitesi e, per costruire il socialismo, sarebbe stato necessario depotenziare, e alla fine distruggere, il primo di questi. Ma dato che nella Russia degli anni ‘20 l’impresa privata era principalmente quella rurale, Bucharin accusava Preobrazenskij non solo di sabotare la produzione cerealicola con i suoi suggerimenti di misure predatorie nei confronti dei kulaki, ma quel che è peggio, di mettere a repentaglio il cuore stesso della strategia leninista usata per far trionfare la Rivoluzione d’Ottobre: la cosiddetta “smyčka” (“legame”), l’alleanza tra operai industriali, braccianti agricoli e contadini piccoli e medi. In questo senso l’economista di punta dell’Opposizione di Sinistra trotzkista, al di là delle intenzioni personali, può ben esser visto come l’ispiratore (forse non del tutto involontario) della “Grande Svolta” staliniana degli anni ‘30 di cui abbiamo parlato nella sez. 2. I suoi piani d’industrializzazione statale, anche se non associati al suo nome, ma a quelli dei suoi più fortunati colleghi Stanislav G. Strumilin e Grigorij A. Fel’dman, divennero dottrina di riferimento per la politica industriale dell’URSS, dei paesi dell’Europa Orientale, e poi ancora della Cina Popolare, di Cuba e del Vietnam. Come concluse molto correttamente il marxista americano Joseph Green nel 1998, Preobraženskij è il vero ideologo di quella particolare versione di capitalismo di Stato che è passata alla storia con il nome di “socialismo reale”.

Per quello che riguarda invece la vicenda umana di Preobraženskij va detto che, nonostante l’accettazione quasi totale da parte di Stalin della sua linea di politica economica, pagherà in modo veramente pesante la sua vicinanza a Trockij: dopo il 1927 viene espulso dal partito col pretesto di aver organizzato una casa editrice illegale e scompare dalla vita pubblica essendo trasferito l’anno successivo negli Urali per lavorare in un ente per la pianificazione. Nell’estate del 1929, insieme a due ex-membri dell’Opposizione, Karl B. Radek e Ivar T. Smilga, scrive una lettera di totale abiura del trotzkismo, viene riammesso nel partito ed è assegnato al gruppo di pianificazione per la città di Nižnyj Novgorod. Lentamente sembra riprendere la sua attività dirigenziale divenendo nel 1932 membro del Commissariato del Popolo per l’Industria Leggera e partecipando al XVII Congresso del VKP(b) nel 1934, dove interviene con un celebre discorso in cui, sottolineando gli importanti risultati conseguiti dalla gestione economica staliniana, riconosce gli errori teorici precedenti. Ma è solo un bluff: l’anno seguente è arrestato dalla GPU (la polizia politica), espulso di nuovo dal partito e condannato a tre anni d’esilio. Arrestato nuovamente il 20 dicembre 1936, assieme ad altri ex-trozkisti si rifiuta di confessare. È condannato a morte con rapido procedimento d’ufficio, poco dopo il terzo grande processo di Mosca, quello contro il cosiddetto “centro trotzkista anti-sovietico” (noto anche come processo “Pjatakov-Radek”), e viene fucilato il 13 luglio del 1937, solo nove mesi prima del suo ex-amico e rivale Bucharin.

 

 

4. Conclusioni

 

Scrivere le conclusioni di un articolo divulgativo come quello presente non è mai semplice. In genere è facile commettere uno dei due errori seguenti: o si scrive una specie di sommario che è del tutto inutile per un breve lavoro di una ventina scarsa di pagine; oppure, all’opposto, si vuole convincere il lettore di aver dimostrato qualcosa di non troppo ovvio, che invece è stato citato solo velocemente, magari basandosi sull’autorità di studiosi importanti. Se poi l’argomento del lavoro, come nel nostro caso, riguarda la sovietologia allora la speranza di avere delle conclusioni nette, chiare e succinte sparisce del tutto considerando i fiumi d’inchiostro e gli infiniti disaccordi nell’analisi dei fatti che riguardano i 74 anni di esistenza dell’URSS. Inoltre, l’argomento di questo scritto, ossia la base ideologica della NEP, rende la discussione ancora più ingarbugliata perché, come abbiamo visto, essa si situa nel punto d’intersezione di tre grosse (e difficili) questioni di teoria socialista: la transizione dal capitalismo al comunismo, la possibilità di fuoriuscire dal capitalismo su scala nazionale e non necessariamente planetaria, la questione della necessità di uno sviluppo capitalista nei paesi considerati economicamente arretrati prima di poter giungere al socialismo.

Non c’è neppure bisogno di precisare che non intendiamo minimamente trattare in queste conclusioni i rapporti tra la NEP e le suddette problematiche. Vorremmo soltanto portare brevemente l’attenzione del lettore sul vero “convitato di pietra” di tutto l’articolo: il capitalismo di Stato e il suo ruolo nella transizione verso una società socialista. Si tratta di un concetto fluido e talora anche ambiguo, utilizzato da vari autori marxisti con diverse sfumature. Già alla metà del XIX secolo era noto che, nell’ambito di un’economia capitalista, lo Stato poteva talora decidere di svolgere attività non solo amministrative, repressive, difensive, educative o assistenziali, ma anche propriamente economiche ed orientate al profitto (costruzione e gestione di strade, ponti e ferrovie, produzione di esplosivi, armamenti, naviglio ecc.). Sarà però Engels, nell’ “Antidühring” del 1877, tra i primi a porsi la questione dei rapporti tra capitalismo di Stato e socialismo, nell’ambito di una sotterranea polemica con i socialdemocratici tedeschi vicini a Ferdinand Lassalle, i quali vagheggiavano un’alleanza tra operai e burocrazia statale prussiana in funzione di un’industrializzazione fortemente trainata dalla mano pubblica e orientata ad una sorta d’ipotetico “socialismo nazionale” antiborghese (sulla scorta delle vecchie idee di Louis Blanc nella Francia del 1848). Ma il collaboratore di Marx, che naturalmente parlava in maniera alquanto ipotetica circa grossi sviluppi futuri delle società per azioni e delle imprese pubbliche, entrambe gestite da manager esterni non detentori diretti di capitale, chiarisce che tali sviluppi non elimineranno in alcun modo la borghesia e il capitalismo, in quanto i capitalisti stricto sensu, ovvero i reali possessori di ingenti capitali, continuerebbero essenzialmente la loro attività abituale: speculazioni in borsa, ritiro dei dividendi dalle società per azioni e degli interessi dovuti ai titoli di Stato. Tuttavia, nel mezzo della sua lucida trattazione, Engels fa un’affermazione che ci conduce direttamente nel vivo del nostro argomento:

Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria delle forze collettive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice. Ma giunto all'apice, si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione.

Questa soluzione può consistere solo nel fatto che si riconosca in effetti la natura sociale delle moderne forze produttive e che quindi il modo di produzione, di appropriazione e di scambio sia messo in armonia con il carattere sociale dei mezzi di produzione. E questo può accadere solo a condizione che, apertamente e senza tergiversazioni, la società si impadronisca delle forze produttive le quali saranno sottratte ad ogni altra direzione che non sia quella sua. Così il carattere sociale dei mezzi di produzione e dei prodotti che oggi si volge contro gli stessi produttori, che sconvolge periodicamente il modo di produzione e di scambio e si impone con forza possente e distruttiva solo come cieca legge naturale, viene fatto valere con piena consapevolezza dai produttori e, da causa di turbamento e di sconvolgimento periodico, si trasforma nella più potente leva della produzione stessa” [23] (sottolineatura nostra).

Ma qui Engels indica solo il classico capovolgimento dialettico: il punto più estremo del capitalismo, nella misura in cui mostra sia l’inutilità della classe dei detentori di capitale, sia l’assurdità dell’appropriazione individuale di una produzione sempre più socializzata, è anche il punto in cui può avvenire la trasformazione mediante la socializzazione completa dei mezzi di produzione. Non sta sostenendo che la struttura economica del capitalismo di Stato sia quasi identica quella della fase inferiore del comunismo. Infatti, polemizzando con Karl Kautsky in una famosa lettera del 20 settembre del 1884, spiega chiaramente che tra i due sistemi vi è una profonda differenza dovuta al modo in cui in essi si esplica la legge del valore, dato che nella fase inferiore del comunismo non si ha più produzione di vere e proprie merci mentre nel capitalismo (anche se di Stato) sì:

“Tu fai qualcosa di simile col valore. Il valore odierno è quello della produzione di merci, ma con l’abolizione della produzione di merci, ‘muta’ anche il valore, cioè, il valore in sé rimane, cambia solo la forma. In realtà, però, il valore economico è una categoria che appartiene alla produzione di merci e scompare con essa (cfr. Antidühring, pagine 252-262), come non esisteva prima di essa. Prima della produzione di merci e dopo di essa, il rapporto del lavoro col prodotto non si esprime più nella forma di valore.” (sottolineature originali).

 

Sarà invece Lenin, soprattutto dopo la Rivoluzione d’Ottobre, a calcare molto la mano sulla somiglianza della struttura economica in queste due formazioni economico-sociali cronologicamente vicine ma antagoniste, eliminando così il capovolgimento dialettico suggerito da Engels con la sola giustificazione politica e giuridica che nella Russia, a partire dal 1918, il potere è saldamente nelle mani del partito bolscevico. Scrive infatti nel noto articolo del 1921 che inaugura la NEP, “Sull’imposta in natura”, citando un suo scritto precedente del maggio 1918 (“Sull’economia russa contemporanea”):

“(...) Il capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose nella nostra repubblica sovietica. Se, per esempio, fra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che fra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile. Mi immagino con quale nobile indignazione qualcuno respingerà queste parole. Come? Nella repubblica socialista sovietica il passaggio al capitalismo di Stato sarebbe un passo avanti?... Non è questo tradire il socialismo? (...)” (puntini di sospensione originali nell’articolo del 1921).

E poi ancora, un anno dopo, nella “Lettera alla colonia russa nell’America Settentrionale”:

“Il capitalismo di Stato, che è uno degli aspetti principali della NEP, è, sotto il potere sovietico, una forma di capitalismo deliberatamente consentita e limitata dalla classe operaia. Il nostro capitalismo di Stato differisce essenzialmente dal capitalismo di Stato nei paesi che hanno governi borghesi in quanto lo Stato da noi è rappresentato non dalla borghesia, ma dal proletariato, che è riuscito a conquistare la piena fiducia dei contadini. Sfortunatamente, l’introduzione del capitalismo di Stato da noi non sta procedendo così rapidamente come vorremmo. Ad esempio, finora non abbiamo avuto una sola importante concessione e senza capitale straniero che aiuti a sviluppare la nostra economia, la rapida ripresa di quest’ultima è inconcepibile.”

 

Che nella Russia già arretrata e poi sconvolta dalla Grande Guerra e dalla guerra civile un qualsiasi governo non succube dell’imperialismo straniero puntasse a sviluppare un capitalismo di Stato o meglio, come dirà Amadeo Bordiga nel 1955, un industrialismo di Stato, era del tutto naturale e legittimo; ma l’affermazione che in sei mesi (o un anno) il capitalismo di Stato verrebbe trasformato in socialismo, che per Lenin [9] è la fase inferiore marxiana del comunismo, ci pare una gigantesca “rodomontata”, davvero insolita per un personaggio serio e concreto come il leader bolscevico. Sarebbe come a dire che se Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht avessero guidato gli spartachisti alla vittoria nella Germania (il paese con il capitalismo di Stato bellico più perfetto secondo Lenin) del gennaio 1919, a giugno o al massimo a dicembre dello stesso anno ci sarebbe stato quanto previsto da Marx [10] nella “Critica al programma di Gotha”. Ogni commento è davvero superfluo.

Orbene tutto il complesso dibattito teorico sulla NEP della sez. 3 è in realtà circoscritto da questa “camicia di forza” leninista che nessuno ha il coraggio di strappare: lo scopo è costruire il capitalismo di Stato in Russia; il socialismo è poi dietro l’angolo… Bucharin è un po’ più timido su questa quasi identificazione e si mantiene all’incirca sui livelli leniniani, mentre Preobraženskij, da trotzkista qual è, si fa prendere la mano in un modo tale da cominciare a chiamare addirittura “economia socialista” le porzioni di capitalismo industriale possedute e gestite dallo Stato sovietico. In questo senso sarà solo l’apripista di Stalin che nel 1936, dopo soltanto otto anni dalla fine della NEP e dalla “Grande Svolta”, definirà costituzionalmente che “L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno Stato socialista di operai e di contadini” con buona pace di Marx, Engels e, in qualche modo, dello stesso Lenin.

Quia parvus error in principio magnus est in fine diceva a ragione quel grande filosofo italiano che fu Tommaso d’Aquino, nel lontano 1254…

 

di Dan Kolog

 

Note

 

{A} In effetti un testo di Marx ed Engels piuttosto esplicito circa i provvedimenti economici da prendere a seguito di una rivoluzione proletaria vittoriosa è la celeberrima opera giovanile de “Il Manifesto del Partito Comunista” (1848), per molti aspetti ancora immatura proprio perché precedente allo studio da parte di Marx dei classici dell’economia politica britannica. Per quanto riguarda la Seconda Internazionale (1889-1914) non si ricordano particolari elaborazioni in tal senso: anche il ben noto “Programma di Erfurt” (1891), commentato criticamente da Engels e ampliato da Karl Kautsky nell’opuscolo “La Lotta di Classe” (1892) non è per nulla esauriente. Si pensi solo che la versione kautskiana espansa dedica alle basi teoriche del nostro problema principalmente il paragrafo 3 del capitolo IV, che è intitolato “la produzione socialista”, ma che consta di appena 4 pagine! Eppure, benché la Seconda Internazionale non avesse un vero e proprio programma ufficiale articolato, “La Lotta di Classe” fu considerata per diversi anni una sorta di manifesto politico del socialismo scientifico mondiale. Qualcosa di più si può ricavare invece dal secondo volume, sottotitolato “Il Giorno dopo la Rivoluzione Sociale”, dell’opera di Kautsky “La Rivoluzione Sociale” (1902). Tuttavia, nonostante la maggiore estensione e il tono chiaramente antirevisionista, il testo rimane sempre su linee molto generali e non chiarisce la differenza tra fase transitoria (con la sopravvivenza della forma valore in senso tradizionale) e stadio inferiore del comunismo (ovvero “socialismo”) con una legge del valore ancora esistente, ma, almeno secondo Engels, già ampiamente modificata. Infatti, quando dopo la Grande Guerra Kautsky tornerà dettagliatamente sulla questione in “La Rivoluzione del Lavoro” (1924), lui stesso ammetterà francamente il carattere preliminare e non approfondito de “La Rivoluzione Sociale”, anche se si disinteresserà completamente delle caratteristiche della fase inferiore del comunismo.

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

[1] Nikolaj Bucharin, Economia del periodo di trasformazione [pub. 1920] (Ed. Jaca Book, Milano, 1987).

[2] N. Bucharin - E.  Preobraženskij, L’accumulazione socialista, a cura di Lisa Foa (Editori Riuniti, Roma, 1969).

[3] E. Preobrajensky, Dalla NEP al socialismo [pub. 1922] (Ed. Jaca Book, Milano, 1970).
[4] E. Preobrajensky, La nuova economia [pub. 1926] (Ed. Jaca Book, Milano, 1971).

[5] Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e di Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1917-1945 (Il Mulino, Bologna, 2007).

[6] Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica. Lenin e Stalin 1917-1941, vol. I: dalla Rivoluzione alla Seconda Guerra Mondiale (A. Mondadori, Milano, 1976).

[7] Edward Carr, Storia della Russia Sovietica, vol I: La rivoluzione bolscevica 1917-1923; vol. II: La morte di Lenin, l’interregno 1923-1924; vol. III-A: Il socialismo in un solo paese, La politica interna 1924-1926 (Einaudi, Torino, 1975-1978).

[8] Vladimir Brovkin, Russia after Lenin: politics, culture and society, 1921-1929 (Routledge, London and New York, 2005).

[9] Lenin, Stato e Rivoluzione [pub. 1918] (Editori Riuniti, Roma, 1970).

[10] Karl Marx, Critica al programma di Gotha [pub. 1891] (Editori Riuniti, Roma, 1978).

[11] Paresh Chattopadhyay, Lenin reads Marx on socialism: a brief note, Economic and Political Weekly, vol. 47, no. 50, pages 65-68 (2012).

[12] Erik Van Ree, Lenin’s conception of socialism in one country 1915-1917, Revolutionary Russia, vol. 23, no. 2, pages 159-181 (2010).

[13] Lenin, L’Imperialismo [pub. 1917] (Editori Riuniti, Roma, 1964).

[14] N. I. Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo [pub. 1917] (Samonà e Savelli, Roma, 1966).

[15] K. Renner, MarxismusKrieg und Internationale (Dietz, Stuttgart, 1917).

[16] Lars T. Lih, Political Testament of Lenin and Bukharin and the Meaning of NEP, Slavic Review, vol. 50, no. 2, pages 241-252 (1991).

[17] in traduzione francese nel volume antologico: Boukharine, Le socialisme dans un seul pays, présenté par J. L. Dallemagne (Union Générale d’Éditions, Paris, 1974).

[18] Lenin, Sulla Cooperazione [pub. 1923] (Rinascita, Roma, 1949).

[19] il resto del paragrafo 3.2 deve molto alla lettura dell’interessante articolo: Anonimo, La controversia sull’accumulazione socialista nella Russia post rivoluzionaria, Rivista D-M-D’, no. 6, pag. 67 (2013), benché la gran parte delle conclusioni contenute non siano considerate valide dall’autore del presente saggio in quanto viziate da un approccio pregiudizialmente ostile alle elaborazioni teoriche sovietiche successive al II Congresso del Comintern dell’agosto del 1920.

[20] B. E. Lippincott (editor), On the Economic Theory of Socialism, papers by Oskar Lange and Fred M. Taylor (University of Minnesota Press, Minneapolis, 1938).

[21] Richard B. Day, Preobrazhensky and the Theory of the Transition Period, Soviet Studies, vol. 27, no. 2, pages 196-219 (1975).

[22] E. A. Preobrazhensky, The Crisis of Soviet Industralization (MacMillan Press, London & Basingstoke, 1980).

[23] F. Engels, Antidühring (Editori Riuniti, Roma, 1971).

Comments