Il terrore che il piccolo “patriotta” ha che gli si porti via la “roba”! Quintessenza del fascismo di ieri e di oggi
La chiave di lettura del fenomeno fascista (quando generalizzato) è da ricondurre, secondo me, alla difesa della proprietà privata e al concetto individualista[1] dei diritti del cittadino[2]. Il fascismo come essenza si pone come paladino dell’individualismo glorificato dal diritto della legge naturale, ovvero possedere e arricchirsi, a scapito di alcuni aspetti della libertà borghese stessa; il fascismo esiste per mezzo della sua violenza contro chiunque si ponga da ostacolo alla Fortuna e Gloria della Patria; il fascismo incarica una gerarchia per attuare con rigore totalitario tale difesa.
Il fascismo storico è una espressione di ciò. L'errore che vedo fare spesso è quello di analizzare l'oggi con gli occhi dello ieri. Dove quindi il fascismo di oggi deve avere alcune caratteristiche ripetibili e spesso anacronistiche per essere considerato tale. Emilio Gentile affronta questo problema da storico e denuncia coerentemente la complessità di trarre delle regole generali per descrivere il fascismo come movimento e come regime[3]. Il fatto stesso che egli faccia questa distinzione, tra movimento e regime, aggiunge un ulteriore grado di difficoltà a tale generalizzazione.
Il fascismo storico si basa sulla convergenza di almeno cinque fattori particolari di quel tempo, lo vedremo fra qualche riga, ma, l'essenza del fascismo, cercherò di dimostrare, sta come, scritto sopra, nella difesa della proprietà privata e nel concetto individualista dei diritti del cittadino. Farò un parallelismo quasi inaspettato tra l’homo islamicus, e l’homo fascisticus, varianti idealizzate dell’homo oeconomicus. Varianti che risolvono, o presumono di risolvere, la lotta di classe!
Il fascismo del ventennio origina dalla convergenza di almeno cinque fattori:
1. L’eccesso colposo di difesa della proprietà privata attuato da “manipoli”[4] nazional-reducistici post-bellici a favore dei proprietari agrari e talvolta degli industriali, a danno delle organizzazioni associative dei lavoratori istituite negli anni dalle forze socialiste riformiste, ovvero le varie leghe socialiste, fisicamente riconducibili alle Camere del Lavoro, e altre organizzazioni come le Case del Popolo e le sedi dei giornali socialisti. Questa sproporzionata difesa violenta della proprietà privata fondava le sue radici anche sul risentimento accumulatosi già prima della guerra, soprattutto nelle campagne della Valle Padana[5]. Le organizzazioni socialiste succitate, che avevano dai primi anni del ‘900 contrastato gli interessi dei grandi e soprattutto dei piccoli proprietari o degli aspiranti tali, o di quei lavoratori che per vari motivi non rientravano nelle leghe bracciantili socialiste, venivano ora attaccate frontalmente da un definito gruppo di giovani[6], inquadrati militarmente[7]. Questo spiega perché le Squadre di Azione si svilupparono inizialmente nelle zone dove la tradizione di lotta nei campi era stata lunga e aspra[8]; oppure dove vi erano ancora realtà irrisolte d’irredentismo, come a Trieste.
2. La concomitante, ma più leggendaria che effettiva, “paura rossa”, rintuzzata dal mito della rivoluzione al grido di “facciamo come in Russia!” agitato dai “sovversivi” massimalisti[9]. Il 1919, ma soprattutto il 1920, furono due anni nei quali le rivendicazioni sindacali dei lavoratori si fecero molto pressanti e registrarono importanti successi[10]. Queste lo erano già state anche prima del conflitto, e durante, ma l’inflazione e il carovita non lasciarono scelta ai lavoratori se non scioperare insistentemente per la loro sopravvivenza. In più la Rivoluzione d’Ottobre in Russia era scoppiata poco dopo la disfatta di Caporetto tra l’ottobre e il novembre del 1917. Nel novembre del 1918 era scoppiata quella in Germania e nel marzo del 1919 in Ungheria; quindi, nell’estate del 1920 si era tenuto il II Congresso dell’internazionale comunista in Russia[11]. È ovvio quindi che gli slogan “Viva Lenin!”[12], in voga dal 1917, e “facciamo come in Russia!”, insieme all’idea di occupare e collettivizzare le terre[13] e le industrie non facessero sembrare la rivoluzione in Italia poi così impossibile. In realtà lo era, e il concordato del settembre del 1920 che chetò le occupazioni tra i sindacati e il governo Giolitti, fu il vero e proprio colpo di grazia ad ogni idea rivoluzionaria[14].
3. La presenza di una minoranza rumorosa[15] che sentiva la necessità di riscattare il primato dell’ideologia nazionale[16] in qualche modo “mutilato” e sabotato tanto dal trattato di Versailles quanto dal “nemico interno”. Nemico interno che si vedeva sia nei sovversivi o rossi, sia nel Governo liberale in quanto inetto e irriconoscente. Tra questa minoranza una quota importante consisteva di ex-combattenti, in particolare gli Arditi che provavano un risentimento notevole contro l’irriconoscenza della società civile italiana nei riguardi del loro sacrificio durante la guerra.
4. Un governo liberale che, soprattutto a partire dalle elezioni politiche del novembre del 1919, non era riuscito ad avere una forte maggioranza, a causa dell’ascesa dei socialisti e dei popolari, e quindi era costretto ad esecutivi di compromesso. Questa classe dirigente, che rappresentava principalmente i notabili e non le classi medie emergenti, era vista come parte del problema. Giudicata una vecchia, incompetente e corrotta “casta”, “putrida” per usare un attributo in voga a quel tempo. Ma fu una classe dirigente che da Orlando, per passare a Nitti e quindi a Giolitti, fece uso, legittimandola, della violenza reazionaria dell’emergente arditismo, nazionalista e fascista, conto i lavoratori.
5. La crisi all’interno dell’esercito. L’esercito aveva subìto uno shock sostanziale con Caporetto. La responsabilità di quella disfatta militare era attribuita, dai più fervidi patrioti, ai vari traditori, ai disfattisti, che avrebbero meritato “una bastonata e una bevuta di olio di ricino”. Una sfiducia sostanziale nella capacità delle alte sfere, quindi, di farsi valere. Questo stato d’animo si espresse con il primo grande episodio di “insubordinazione” dell’esercito rappresentato dalla marcia su Fiume[17] nel settembre del 1919. Altri grandi episodi di insubordinazione avvennero nel giugno del 1920 con gli ammutinamenti degli Arditi a Trieste[18], dei bersaglieri ad Ancona[19] e a Brindisi[20]. L’esercito occupato da un processo di smobilitazione molto lungo che aveva favorito a più riprese[21] la partecipazione e l’adesione di molti dei suoi ufficiali ai Fasci di Combattimento, o altre organizzazioni di repressione. Questo timore di non avere il pieno controllo, o fedeltà dell’esercito, fu probabilmente un fattore che giocò un ruolo rilevante durante le ore della non proclamazione dello Stato d’Assedio di Roma[22] il 28 ottobre 1922.
Una succinta analisi, del comunista ungherese Gyula Sas, evidenzia con lucidità quale fosse il “programma” dello squadrismo fascista, il quale “sosteneva di difendere la ‘salvezza della nazione’, gli interessi di ‘tutto’ il popolo, in particolare quelli delle classi medie[23] e dei lavoratori ‘onesti d’idee e sentimenti nazionali’, contro gli interessi della ‘borghesia pezzente’ e dei bolscevichi, ‘nemici della patria’ e ‘traditori della patria’ [24].
Il fascismo si concretizzò quindi tramite l’eccesso di difesa della proprietà privata a scapito di parte della libertà del cittadino, soprattutto via via che si andava a determinare il regime totalitario. Quando spiegato in questi termini, il fascismo, può essere associato ad altre varianti storico-locali[25], risolvendo l’eterno problema di giudicare il passato con gli occhi del presente e, ancor di più in questo caso, il presente con gli occhi del passato. Il fatto che il fascismo storico sia stato una delle tante possibili forme di reazione sproporzionata a difesa della proprietà privata, e dei suoi interessi accessori, e abbia instaurato un regime retorico-protezionista, non vuol dire che altri regimi che limitano la stessa libertà borghese, nel nome della Fortuna e della Gloria prevalenti della loro Patria, Nazione, gente, stirpe, razza, religione, non rappresentino delle varianti dello stesso fenomeno.
Se prescindiamo dagli specifici presupposti storico-ideologici e non ci vincoliamo alla sovrastruttura di facciata, allora è lecito compiere un parallelismo tra il regime fascista ed ogni altro regime, di qualsiasi colore esso sia, che ponga in atto il medesimo meccanismo di difesa della proprietà privata a danno, più o meno accentuato, della libertà del cittadino, egocentrico e individualista[26], per la prosperità della Patria, che questa sia una singola Nazione o una Federazione di Stati, o, uno Stato pan-religioso.
Nel 1990 cinque uomini d’affari turchi, fondarono Müstakil Sanayici ve İşadamları Derneği (MUSIAD) ovvero l’associazione indipendente degli industriali e uomini d’affari. In poco tempo questa crebbe e divenne influente tra i grandi investitori turchi. Il MUSIAD incoraggiava tra le altre cose i connazionali che vigevano all’estero ad investire in progetti che promuovessero il “global muslim business network” per sostenere l’assistenza mutualistica e gli investimenti di joint venture. Ma quel che ci interessa qui è che il MUSIAD promuove un progetto di società alternativa ovvero una società basata su valori “islamici”. Un vero e proprio disegno di costruire l’Homo Islamicus. Il MUSIAD nel 1994 pubblicò The Muslim Person in Working Life: Organizational Behavior in Firms Governed by Islamic Principles. In questo testo l’uomo occidentale ovvero Homo Oeconomicus era criticato per essere egocentrico e individualista. Il modello occidentale risultava fallimentare per aver creato disparità, corruzione, avarizia, crisi, mentre l’Homo Islamicus sarebbe mosso da principi sani e occupato solo in attività produttive, che non siano la speculazione, il gioco d’azzardo, l’accaparramento o la competizione. Il “lavoratore ha l’obbligo religioso a lavorare sodo, a evitare l’ozio, a rispettare il suo datore di lavoro e […] a mostrare la più grande attenzione a non danneggiare i mezzi di produzione. Il datore di lavoro, d’altro canto, deve essere giusto e magnanimo verso i propri dipendenti e deve rispettare i loro diritti prima che il loro sudore si asciughi”. Di conseguenza gli “scioperi sono criticati aspramente perché distruggono l’armonia e la produttività e rendono i lavoratori pigri e sfaccendati”. Il credo di questo tipo di capitalismo islamico perpetrato dal MUSIAD si spinge a predicare una società capitalista islamica senza classi[27].
Se al posto del “buon” mussulmano mettessimo il “buon” fascista e a posto dello Stato Islamico, lo Stato fascista, il Muslim Person in Working Life potrebbe benissimo essere stato il Fascist Person in Working Life; ovvero, un manuale per il fascista provetto. Questa è la vera essenza del fascismo. Che poi il termine fascismo abbia assunto una vita sua, come il termine mafia, e altri termini diventati troppo generici da poter essere usati con precisione, questo è un altro problema. Problema che vale la pena di affrontare, ma che non deve imbrigliarci nella comprensione di quale sia la vera essenza dell’istinto di difesa protezionista e restrittivo puramente funzionale in un contesto capitalista, meglio ancora se di Stato.
In qualche modo il fascismo storico delle classi medie emergenti[28] è collegato a quell’istinto dei bottegai e degli artigiani parigini che nel 1789 si organizzarono per difendere la loro proprietà privata. Questi si erano organizzati in una milizia borghese[29] guidata dalla loro intellighenzia formata da giornalisti e avvocati. In quel caso la milizia si mise a capo del popolino che però non era parte di essa; questo esasperato dalla fame nera fu pronto a decapitare letteralmente le teste degli oppressori, gli aristocratici e il clero, e esporle sulle proprie picche. Il fascio littorio con berretto frigio, ovvero repubblicano, si era dunque posto a difesa dei diritti di uguaglianza, libertà, sicurezza, e proprietà, contro i soprusi del Primo e Secondo Stato. Ma il concetto proprio di cittadino e dei suoi diritti, in opposizione al concetto di suddito, mossero anche nel popolino una, per dirla con Marx, “coscienza di classe” che non poté più tornare in dietro. Popolino urbano e masse contadine non potevano più accettare le loro condizioni di assoggettamento per diritto nobiliare o divino. La grande massa dei lavoratori vide, in molti paesi europei, la possibilità di migliorare le proprie condizioni, contando di più nelle fabbriche e nei mercati agricoli, oppure, occupando le terre incolte. Ma sarebbe un’illusione vedere questa come qualcosa di più che una convergenza momentanea con l’idea di socializzare la produzione. Il socialismo o il comunismo rivoluzionario furono sempre minoritari anche tra i lavoratori, che erano pressoché gradualisti e che in molti casi a causa del manganello fascista di regime diventarono antifascisti dormienti.
Da un lato s’insinua l’idea giacobina che lo Stato sappia cosa sia meglio per i suoi cittadini in assenza della loro consultazione e in assenza di contradditorio. Questa è una idea che accumuna molti movimenti e ideologie. Non è neanche un’idea originale. Il regime fascista così come quello giacobino, o come quello bolscevìco, è pronto a limitare la libertà del cittadino per il “bene” comune. Dall’altro s’insinua la mentalità tipica del proprietario, quello che ha qualcosa da perdere. È proprio lì che il fascismo è sempre attuale. E quando la mentalità della paura di perdere qualcosa pervade grandi masse, allora la reazione sproporzionata di un regime retorico-protezionista è alle porte.
Se nel primo dopoguerra le classi medie emergenti, così come gli agrari e qualche industriale, avevano qualcosa da perdere, ormai, oggi, siamo “tutti” più o meno proprietari, tutti abbiamo qualcosa da perdere. Una casa, una macchina, un’attività commerciale, il lavoro, o addirittura il sogno di averne uno. Qualsiasi attacco a questo “sacrosanto” diritto del cittadino, la proprietà, deve essere respinto dallo Stato Sovrano. Per molti è logico che lo Stato italiano debba avere come motto “prima gli italiani”. Alla stessa maniera negli Stati Uniti hanno come motto “America First”. E se lo Stato non accetta questo motto allora è esso stesso il nemico (populisticamente), la casta corrotta che non protegge la nostra “sacra” proprietà privata. Che negli Stati Uniti si organizzino in milizie pro-trumpiste e suprematiste ha senso proprio in questa tradizione individualista della protezione della proprietà privata. L’invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump, è solo un atto patetico, ma dà l’idea di come l’ideologia del piccolo proprietario borghese funziona. Può questo essere considerato come un atto di squadrismo fascista? Per quello che abbiamo scritto sul caso della milizia borghese e della milizia squadrista, l’istinto di organizzarsi autonomamente anche, ma non necessariamente, in maniera armata per difendere il diritto della proprietà privata è connotabile con una classica reazione che si è anche chiamata fascismo. Ma si potrebbe benissimo chiamare, parafrasando Marx, difesa dei diritti dell’uomo egoista, secondo la definizione della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino (1793) che confina se stesso al di fuori della comunità.
Qualsiasi attacco effettivo o percepito alla proprietà privata mobiliterà i loro protettori. Questi non devono per forza di cose essere ricchi. Anzi i lavoratori salariati e i lavoratori precari sono, oggi, gli ideali protettori della piccola proprietà. Il ladro è colui il quale attacca la proprietà, questo può essere il criminale, il disperato, l’emigrante, il Governo. La monarchia in bancarotta che sperpera denaro, e ruba ai sudditi la loro proprietà, è ladra e va decapitata. Il Governo composto da una casta di corrotti è ladro e va decapitato. Il Governo deve essere il protettore assoluto della proprietà dei governati. Ora possiamo spendere molte parole nel cercare di capire se è consono o no usare il termine “fascismo” per identificare questo senso ancestrale di difesa della proprietà. Ma ciò che conta è che di questo stiamo parlando: lo Stato protezionista e patriota che si ponga come unico interesse la difesa della proprietà e della prosperità dei suoi cittadini, che rispetti i diritti individuali dei propri cittadini nella misura in cui questi siano allineati con l’azione dello Stato. Un fascista che si riconosce in tutti i valori fascisti si considererebbe libero in tale regime, mentre un cittadino che non si riconosce in uno o più valori fascisti si considererebbe prigioniero di tale regime. È lecito pensare che questo sia vero per qualsiasi forma di Stato borghese, quello che cambia è il grado di libertà.
Non è accidentale che uno dei primi usi della parola “socialismo”, in Francia nel 1832, sulla rivista Le Globe[30], sia proprio in opposizione al concetto di individualismo. Il concetto di diritti umani inteso a livello di società deriva dall’idea di eguaglianza, non nel senso che siamo tutti fatti con lo stampino, ma nel senso della capacità di accedere al prodotto sociale; di lavorare come un organismo unico composto da miliardi di singolarità diverse. Chi ha assorbito a fondo questo concetto di contrapposizione tra l’idea di Stato paladino della proprietà privata individuale e di associazionismo socialista può semplicemente indicare il primo, ovvero lo Stato borghese, in qualsiasi forma lui si presenti, ossia più o meno democratico o autoritario, come il nemico dell’eguaglianza effettiva tra gli esseri umani. Vi sono correnti marxiste, quali il bordighismo e l’impossibilismo britannico, che seppure riconoscano il carattere autoritario dei regimi fascisti non vedono la necessità di un antifascismo che voglia esclusivamente abbattere la componente autoritaria dello Stato borghese, senza andare oltre e abbattere qualsiasi forma di Stato borghese. Per questi marxisti è un esercizio alquanto inutile distinguere le varie forme che lo Stato borghese può prendere (liberale, democratico, totalitario). Seppure noi concordiamo con il fatto che lo Stato borghese, paladino della proprietà privata, assuma diverse forme tutte appartenenti alla realtà capitalista (pura o statalista che sia), non possiamo cadere nell’immobilismo generalista. Per noi individuare le varianti autoritarie che limitano la possibilità di espressione è necessario e contro queste varianti autoritarie, e, nel caso, totalitarie, è necessario reagire adeguatamente. Ecco perché per noi è importante capire cosa sia il fascismo, o meglio quale sia la sua essenza.
Oggi, nel 2021, ovvero 100 anni dalla fondazione del Partito Nazionale Fascista, la parola fascista è utilizzata ancora prevalentemente e spontaneamente per indicare un atteggiamento di violenza, intolleranza e protezionismo autoritario contro la paura di un “nemico”. Ecco forse questa è l’interpretazione che giustamente sopravvive, il fascismo ha bisogno di un nemico. Il fascismo è “contro” la casta ma non è per una società di cooperazione al di fuori di barriere nazionali. Sono cambiate molte cose in 100 anni, ma i fascisti i nemici della Patria li trovano come 100 anni fa. Il capitalismo non ha superato le sue contraddizioni e una società più equa che protegga il pianeta è ancora necessaria. Questa non potrà essere una società individualista, dove i diritti dell’uomo egoista, pauroso, diffidente, siano violentemente difesi costi quel che costi, contro il bene sociale della comunità, la solidarietà, la partecipazione.
CESCO
[1] “I diritti dell’uomo e di cittadinanza sono stati a lungo strettamente intrecciati; infatti storicamente condividono simili origini nell’individualismo liberale. Ciò è chiaramente espresso nelle grandi dichiarazioni dei ‘diritti dell’uomo’ nel XVIII secolo, americane e francesi, le quali, avendo clamorosamente puntualizzato che ‘tutti gli uomini sono creati uguali’, e ‘nascono con inalienabili diritti naturali’, procedono nel distinguere, piuttosto chiaramente, che per ‘uomo’ si intende cittadino dello Stato nazionale”. Questa distinzione, e quindi la definizione Universale di Diritti dell’Uomo, è stata fatta solo di recente (Kate Nash Between Citizenship and Human Rights, Sociology, Vol. 43, No. 6 (DECEMBER 2009), pp. 1067-1083). Quindi, solo di recente, l’uomo “ha acquisito” diritti riconosciuti dallo Stato di Diritto in quanto uomo e non in quanto cittadino di una Nazione. In secondo luogo lo status di cittadino attivo sempre nella cultura “occidentale” è stato legato, ed è legato, al concetto di proprietà privata. Questo è tanto vero quanto tutt’oggi si può parlare di super-citizens, e marginal citizens, in base al loro stato di ricchezza, sociale e razziale. Ed è un dato di fatto che i diritti umani tutt’oggi in Europa sono distinti tra diritti civili, diritti economici e diritti sociali (Kate Nash Between Citizenship and Human Rights, Sociology. Vol. 43, No. 6 (DECEMBER 2009), pp. 1067-1083). È importante notare che di conseguenza il fascismo per definizione non può accettare i diritti universali dell’uomo!
[2] Il concetto di cittadinanza è fondamentale in quanto si contrappone al concetto di sudditanza. Da un lato il monarca assoluto, per diritto divino e non naturale, è padrone di tutto e quindi anche della proprietà dei sudditi, dall’altro i sudditi anche nella monarchia assoluta non sono tutti uguali. I sudditi sono divisi in tre Stati, questi sono sudditi attivi, ovvero che possiedono qualcosa, del Quarto Stato, ovvero dei nullatenenti, degli indigenti, dei braccianti, che posseggono solo la loro forza lavoro, non si fa menzione. Quando si passa al concetto di cittadinanza, il legame con la proprietà è ancora ben presente. Il cittadino attivo e colui il quale possiede qualcosa e quindi ha diritto di voto (si veda il concetto di indipendenza di Kant). Come è noto nel Regno d’Italia vi furono due fondamentali riforme elettorali la prima del 1882, legge Zanardelli, suffragio universale allargato ai maschi sopra i 21 anni, alfabeti, che portava l’elettorato dal 3% della popolazione con la vecchia legge basata sul censo al 7%; e la seconda attuata dal quarto governo Giolitti nel 1912, ovvero del suffragio universale allargato a tutti i cittadini maschi sopra i 30 anni, o sopra i 21 anni solo in caso avessero pagato un'imposta diretta annuale, o avessero conseguito la licenza elementare inferiore, o avessero prestato il servizio militare, portando l’elettorato dal 7% al 23% della cittadinanza. Alla fine della guerra nel dicembre del 1918, passò una legge che allargò ulteriormente l’elettorato a ogni ex-combattente anche minorenne. Sta di fatto che il concetto di cittadinanza rimane legato a lungo a quello di proprietà, tributo, o avere accesso all’istruzione e quindi a quello di Patria, ovvero aver prestato servizio militare o aver partecipato alla guerra.
[3] Emilio Gentile, Fascismo, Storia ed interpretazione, 2015.
[4] Fabio Fabbri nel suo Le origini della guerra civile, 2009, riporta il rapporto del Prefetto Pesce, in occasione dell’ordine di rilasciare Mussolini dallo stato di fermo per via della bomba lanciata contro un corteo festante di socialisti all’indomani della vittoria elettorale, il 17 novembre 1919, quindi ben un anno prima dalla presunta ascesa fascista. Rapporto che riporta chiaramente lo “sconcerto” nel avere ricevuto l’ordine di rilasciare Mussolini, dato proprio da Nitti, allora capo del Governo, dove il Prefetto Pesce scrive: “di questi manipoli [che] con una forza temibile e considerevole [conseguono] la violenta repressione armata di ogni anche lieve provocazione […] decisi a ricorrere all’uso delle armi anche sproporzionato alla provocazione […] della reazione eccessiva e violenta contro le provocazioni socialiste anche semplicemente verbali”.
[5] Le lotte tra i proprietari, i piccoli proprietari e gli affittuari mezzadri da un lato, e i lavoratori braccianti organizzati dalle istituzioni socialiste riformiste dall’altro, sono caratterizzanti anche dei primi anni di “fortuna” politica di Benito Mussolini, il quale, quando torna in Romagna alla fine del 1909, si schiera con comizi e articoli su Lotta di Classe (il giornale forlivese che dirigeva) dalla parte dei braccianti sulla questione delle macchine trebbiatrici e dello scambio delle opere. Già in questo periodo, tra il 1909 e il 1910, si vede come una parte dei braccianti “repubblicani” tendono ad accordarsi con i mezzadri e ad organizzarsi in cooperative repubblicane, in contrasto con i braccianti “socialisti” (si veda anche Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, 1965). Il culmine di queste tensioni fu raggiunto agli inizi di giugno del 1914, quando la morte di tre dimostranti ad Ancona fece scoppiare lo sciopero generale in tutta Italia, che si tramutò in una sorta di rivolta soprattutto in Romagna, la quale fu rapidamente controllata grazie all’intervento dell’esercito e della marina. Il ruolo di Mussolini nella Settimana Rossa fu marginale: egli era a Milano e, tranne un discorso all’Arena di Milano e degli articoli sull’Avanti! (atti per altro a gonfiare gli eventi) altro non fece (Luigi Lotti, La settimana rossa, 1965). L’Avanti! in qui giorni per altro non arrivò sui luoghi delle rivolte proprio a causa degli scioperi. Il risentimento da parte degli agrari, soprattutto dei mezzadri, che avevano tutto l’interesse a sottopagare i braccianti per poter massimizzare i proventi che dovevano per metà cedere al padrone, rimase latente fino al primo dopoguerra.
[6] Si veda la lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati sulla parata fascista del 26 marzo 1922. La Kuliscioff descrive il corteo che vede dal suo ufficio in Galleria a Milano e parla di “Tutti quei giovani dai 17 ai 25 anni, gagliardi, agili, bei ragazzi inquadrati militarmente, se non si sapesse a che turpi scopi è rivolta la loro azione, fanno un effetto magnifico di bellezza e di forza. […] la radunata lombarda di oggi sarà un coefficiente di gloria per cingere la crapa pelata del <<duce>>, il quale apriva il corteo fascista baldo e giovane davvero. […] No, no, non è da illudersi: è un vero esercito militarizzato, disciplinato e pieno di ardore che si è costituito in Italia, è un esercito da muovere all’assalto non solo di qualche cooperativa o qualche Camera di Lavoro, ma per colpire molto più in alto. Non mi meraviglierei affatto che fra non molto s’impossessino del potere, creando una repubblica oligarchica, con Mussolini presidente e papa-re d’Italia”.
[7] Matteo Di Figlia ammonisce che vedere lo squadrismo esclusivamente come una reazione a difesa “del potere costituito e della proprietà privata” non sia sufficiente. Secondo Di Figlia, lo squadrismo si sviluppò anche dove gli scontri sociali non erano mai stati particolarmente violenti. Se un pretesto fu la protezione della proprietà privata, lo squadrismo scrive Di Figlia ebbe “un elemento politico, culturale, ideologico, capace di mobilitare le masse e di promuovere nuove identità collettive” (La guerra civile del fascismo, in Meridiana No. 76, GUERRE CIVILI (2013), pp. 85-104). Noi insistiamo sul punto che fu la convergenza di almeno cinque fattori a determinare la nascita dello squadrismo e la sua ascesa al potere, includendo di fatto il ruolo delle nuove identità collettive, o come direbbe De Felice, le nuove classi medie emergenti.
[8] Emilio Gentile, Fascismo, Storia ed interpretazione, 2015.
[9] De Felice scrive, in merito all’atteggiamento della sinistra durante gli anni del consenso, giustamente: “aver agitato parole d’ordine che non potevano assolutamente essere raccolte dalle masse e le facevano addirittura ritrarre da lotte che per esse avevano solo fino economici”, ma questo atteggiamento di vagheggiare una rivoluzione non attuabile fu caratteristica anche del periodo che va dal novembre del 1918 al settembre del 1920, con la differenza che i lavoratori erano molto attivi nelle lotte economiche ottenendo anche risultati importanti (De Felice, Mussolini. Gli anni del consenso, 1929-1936).
[10] La concessione delle otto ore, i nuovi patti colonici, che comprendevano un aumento dei salari, l’imponibile della manodopera, gli uffici di collocamento, ma anche allo stesso concordato tra Governo e sindacati del settembre del 1920. Ivano Granata ha sottolineato come ai miglioramenti delle classi operaie e in qualche modo bracciantili non corrispondevano miglioramenti delle classi medie, come impiegati e bottegai, creando una divisione tra queste due categorie di lavoratori nella quale si inserì il fascismo.
[11] È noto come da un lato Lenin stesso consigliava la calma a Serrati e dall’altro il Partito Bolscevico Russo accusava i massimalisti e quindi apertamente lo stesso Serrati di essere per la rivoluzione solo a parole (si veda Angelica Balabanoff, Lenin visto da vicino, 1959, lettera di Lenin a Serrati, Al compagno Serrati e ai comunisti italiani in generale, Mosca, 28 ottobre 1919).
[12] Grido della folla durante il discorso di Smirnov e Goldenberg, discorso permesso da Vittorio Emanuele Orlando, nell’agosto del 1917 secondo P. Spriano (cfr. «Storia del Partito Comunista Italiano» vol. I) che Serrati riportò nel titolo del suo articolo del 20 agosto “Viva Lenin!” sull’Avanti!.
[13] Le occupazioni delle terre furono frequenti soprattutto al sud nel 1919 e nel 1920, ma furono puntualmente represse col sangue dalle forze dell’ordine, dalla mafia e dalle squadre d’azione (si veda Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, 2009).
[14] I lavoratori furono oggetto di agitazione verso una vera e propria rivoluzione soprattutto dagli intransigenti rivoluzionari, che già ad inizio secolo volevano cacciare quelli che loro chiamavano riformisti, ovvero i “collaborazionisti” parlamentari; nonché dagli anarchici che però erano andati dalla fine dell’Ottocento perdendo seguito. Prima della guerra vi erano accordi tra la CGdL e il PSI per indire uno sciopero “politico” nel caso di eccidi. Con i tre morti di Ancona per gli incidenti scoppiati a causa della ricorrenza dello Statuto Albertino, fu indetto lo sciopero, un po’ spontaneamente un po’ organicamente in tutta Italia. I disordini sfociarono nella Settimana Rossa, la colpa del fallimento dello sciopero, che secondo alcuni sarebbe potuto sfociare in rivoluzione, sarebbe stata data a Rigola, capo dei sindacati. Invero Rigola si attese ai patti col PSI e lo sciopero fu terminato spontaneamente in molti luoghi di Italia e comunicato a Rigola a Milano, mentre Lazzari e Vella a Roma vagheggiavano di una possibile rivoluzione ordinando a Mussolini di ingigantire gli eventi dei disordini di Roma. Una situazione simile avvenne con l’Occupazione delle Fabbriche, che iniziò a Milano e si estese a Torino, a Genova e in molti altri capoluoghi industrializzati d’Italia (158 fabbriche in tutto) nel settembre del 1920. Anche in questo caso vigeva un accordo tra la CGdL e il PSI sul carattere economico o politico dello sciopero. Fu deciso a Milano in una seduta tra vertici del PSI e sindacati che il carattere delle occupazioni fosse economico e tutto si risolse in parlamento con il concordato. Anche in questo caso i sindacati furono accusati di fungere da “pompieri”, ma in realtà anche il PSI ebbe un atteggiamento a dir poco ambiguo sul da farsi. Durante l’Occupazione delle Fabbriche, che furono pressoché pacifiche, si registrarono alcuni episodi di violenza. Dei cecchini uccisero le ronde operaie a guardia delle fabbriche occupate. Vi fu anche il processo sommario da parte di operai dello stabilimento Bevilacqua di Torino di un nazionalista e di una guardia (Scimula e Sonzini). In tutto gli sconti torinesi provocarono 5 morti tra gli operai, 5 tra le forze dell’ordine, due passanti e i nazionalisti processati. Negli stessi giorni i fascisti erano occupati nelle devastazioni xenofobe contro sloveni e croati, sicché già il 24 di settembre 1920 l’Avanti! scriverà: “I fatti di Trieste e Torino e di altre città, nonché quelli recentissimi di Pola, hanno dimostrato in modo irrefutabile che i Fasci di Combattimento sono una vera e propria organizzazione sussidiaria, della quale le autorità si servono per compiere azioni illegali di repressione […]. È dunque evidente non solo la complicità, ma la correità delle autorità” (da Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, 2009). Sempre Fabbri espone un fatto importante, con la testimonianza di C. M. De Vecchi “già nel corso dell’estate [del 1920], gli industriali torinesi, allo «scopo di contrastare l’azione rivoluzionaria dei partiti di sinistra», avevano creato un «surrogato del fascismo». Essi avevano sovvenzionato un’associazione antibolscevica, già dotata di «squadre», alla cui guida era preposto il capitano M. Gobbi, futuro esponente di punta del fascismo torinese. Appena iniziata l’occupazione delle fabbriche, poi, i medesimi industriali torinesi non avevano esitato a barattare «a colpi di biglietti da mille» l’intervento difensivo dell’Associazione Combattenti”. Fabbri, quindi, continua: “L'affermazione di Bonomi – secondo cui il grande episodio «della mancata rivoluzione bolscevica italiana» s'era addirittura svolto «senza che il fascismo fac[esse] anche un solo gesto di difesa e di resistenza» – resta quindi da verificare con gli aspetti, più o meno palesi, che già ne caratterizzavano le origini. In realtà tra il Concordato del 19 settembre e l'amara conclusione dello sgombero delle fabbriche (completatasi a fine del mese), una serie di episodi appare decisiva non solo per interpretare «stati d'animo» contrastanti, ma anche per comprendere le ragioni della saldatura tra lo squadrismo agrario nelle campagne emiliane e le frange della reazione antisocialista nei centri urbani.”
[15] Già al tempo della Settimana Rossa, vi furono gruppi, soprattutto di giovani nazionalisti, tra i quali molti studenti, che avevano organizzato contro-dimostrazioni allo sciopero generale (Luigi Lotti. La settimana rossa, 1965). Poi ancora, nel maggio del 1915, un gruppo di interventisti nazionalisti, tra i quali molti studenti, si organizzarono in spedizioni punitive contro i deputati che con Giolitti erano per la neutralità dell’Italia. Questo continuò nel dopoguerra già a partire dai giorni immediatamente successivi alla vittoria, quindi nel novembre 1918. Si ricordi la gazzarra organizzata dai nazionalisti per impedire a Leonida Bissolati di tenere il suo discorso nel gennaio del 1919. Il 15 aprile 1919 in risposta agli incidenti luttuosi del Garigliano il 13, i lavoratori scesero in piazza. Questi vennero contrastati da 300 arditi guidati da Ferruccio Vecchi, da 500 ufficiali, armati di bombe a mano e revolver, e da studenti nazionalisti, che si spinsero fino alla sede dell’Avanti! per invaderla e incendiarla. Tutti questi episodi reazionari passarono pressoché impuniti o addirittura applauditi dalle alte sfere delle forze dell’ordine e dell’esercito.
[16] Emilio Gentile, Fascismo, Storia ed interpretazione, 2015.
[17] Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, 1965: “L’esercito costituì l’unica vera forza di D’Annunzio”.
[18] L’11 giugno 1920, un reparto di arditi in partenza per l’Albania si rifiuta di partire sostenuto da un corteo di anarchici. L’allarme rientra dopo scontri con l’esercito e le squadre fasciste, da Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, 2009.
[19] Alle 3 di notte del 26 giugno, l’XI Reggimento Bersaglieri destinati a Valona, malati e scarsamente equipaggiati, si erano asserragliati in caserma. I carabinieri in assetto da guerra circondano la caserma, mente i lavoratori di Ancona scendono in piazza. E si impadroniscono di armi istituendo una resistenza civile. Si unirono le associazioni socialiste e anarchiche. Il popolo occupava i porti. In serata ad Ancona si erano concentrati un battaglione di carabinieri, 150 uomini, 215 guardie regie, un reparto di fanteria, il 93 reggimento fanteria, ai quali si univano la mattina dopo, il 27 giugno, 500 guardie regie arrivate in treno, due cacciatorpediniere. Alle ore 16:30 l’artiglieria da monte Cappuccini e la Marina dal mare, aprirono il fuoco sul forte Scrima; alle 17 due colonne iniziarono ad entrare in città. Alle 18 partì l’attacco decisivo. Ne seguirono disordini a Pesaro che fecero 27 vittime quindi a Jesi, ma la repressione delle guardie regie fu preventiva e molto simile a quella delle spedizioni punitive fasciste. Ricostruzione tratta da Fabio Fabbri (Le origini della guerra civile, 2009).
[20] Nuovi casi di ammutinamento si registrarono a Brindisi il 29 giugno e il 30 giugno in Friuli.
[21] Fabio Fabbri (Le origini della guerra civile, 2009) espone diversi episodi dove il Governo e l’esercito attivamente contribuiscono alla formazione delle organizzazioni reazionarie: (1) il 23 maggio 1919 alla richiesta del Comando Generale dei Carabinieri e tutti i Comandi dei corpi d’armata di sopprimere il Corpo degli Arditi, il Ministro della Guerra generale Caviglia dichiara di non volerlo sciogliere, per il valor militare e come ausilio della forza pubblica contro i partiti sovversivi. (2) La circolare Nitti del 14 luglio 1919, in reazione alle agitazioni contro il carovita, dove si suggeriva di «tenersi a contatto con coloro che hanno maggiore seguito e fiducia nel partito liberale […] in un momento in cui autorità non possono tenersi isolate nel contare unicamente sui funzionari e sulla forza pubblica» chiedendo quindi esplicitamente di cooperare con tali organizzazioni di fasci e associazioni di combattenti senza lasciare l’azione autonoma a queste. (3) L’ordine di rilascio di Mussolini da parte di Nitti al Prefetto Pesce dopo la bomba del 18 novembre 1919. (4) Il 22 luglio 1920, all’indomani dell’incendio della tipografia Negri a Roma dove si stampava l’Avanti!, mentre Giolitti, tornato al governo in sostituzione di Nitti, prometteva indagini sui mandanti, il Comandante del Corpo d’Armata di Milano chiamò i fascisti, gli arditi e i nazionalisti ad una adunata in caserma per tenersi pronti in caso di necessità. Se questo non bastasse vedasi Nascita e avvento del fascismo di Angelo Tasca, 1938. Tasca si riferisce alle disposizioni prese dal ministro della Guerra, Ivanoe Bonomi, proprio quello cacciato dal PSI per mezzo dell’ordine del giorno Mussolini al Congresso di Reggio Emilia il 1912, nella smobilitazione dell’’esercito di “60.000 ufficiali alle seguenti condizioni: gli ufficiali furono smobilitati conservando i quattro quinti del loro stipendio; la maggior parte furono inviati nei centri politici più importanti coll’obbligo di aderire ai Fasci di Combattimento. Bonomi negherà la sua responsabilità, dichiarando di essere stato tradito dall’alto comando dell’esercito.”
[22] Vi sono diversi momenti in cui si vede quanto lo Stato liberale e il re avrebbero potuto fare per fermare il fascismo, fra tutti la Marcia su Roma e il delitto Matteotti.
[23] Le classi medie emergenti che prima della guerra non erano necessariamente coinvolte attivamente nella vita politica, come notato d Renzo De Felice e prima di lui dal fascista sansepolcrista Agostino Lanzillo (vedasi Ivano Granata).
[24] Renzo De Felice, Mussolini. Il fascista, I. La conquista del potere, 1921-1925, 1966.
[25] Siamo d’accordo con le considerazioni di Emilio Gentile (Emilio Gentile, Fascismo, Storia ed interpretazione, 2015) il quale denota la difficoltà di arrivare ad una teoria generale di fascismo come movimento e come regime. Emilio Gentile aggiunge: “Altri studiosi non escludono la possibilità di una teoria generale del fascismo come insieme di diversi "fascismi", fondano questa teoria soprattutto sul riconoscimento della novità e dell'originalità del fenomeno fascista come ideologia e movimento politico, insieme conservatore e rivoluzionario, la cui natura non si spiega soltanto in funzione della reazione borghese e del dominio di classe, ma deve essere inquadrata nella storia del nazionalismo emerso durante il processo di crisi e di trasformazione della società e dello Stato iniziato con la rivoluzione francese e proseguito con i radicali cambiamenti prodotti nella cultura europea dalla industrializzazione dalla modernizzazione.”
[26] Vedasi Karl Marx, che riferendosi alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, giacobina, del 1793, scrive: “i così detti diritti del uomo […] altro non sono che i diritti del membro della società civile, e quindi, i diritti dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’altro uomo e dalla comunità”, in Sulla Questione Ebraica, 1843.
[27] Evern Hosgor, Chapter 5, Islamic Capital, in The Neoliberal Landscape and the Rise of the Islamist Capital in Turkey, 2015.
[28] Vedasi anche nota 21.
[29] Alpaugh, M., A Self-Defining "Bourgeoisie" in the Early French Revolution: The "Milice Bourgeoise", the Bastille Days of 1789, and Their Aftermath, Journal of Social History, Vol. 47, No. 3, pp. 696-720 (2014).
[30] Grünberg, C., L'origine des mots ‘socialisme’ et ‘socialiste’, Revue d'histoire des doctrines économiques et sociales, Vol. 2, pp. 289-308 (1909)
Comments
Post a Comment