Le “sette tesi sul controllo operaio” di Raniero Panzieri e Lucio Libertini

 

 

1. Introduzione: il PSI tra destalinizzazione e Centro-sinistra

 

Nel febbraio del 1958, la rivista teorica del Partito Socialista Italiano (PSI), “Mondo Operaio”, pubblica un breve saggio intitolato “Sette tesi sulla questione del controllo operaio” a firma di due giovani intellettuali marxisti, il romano Raniero Panzieri e il catanese Lucio Libertini. Prima di introdurre gli autori e la loro storia politica fino a quella data, è importante ricostruire brevemente il clima di quegli anni soprattutto per quel che concerne le vicende del PSI, il partito socialista più “anomalo” del mondo occidentale in quanto ancora non omologato alla visione socialdemocratica e laburista che in quegli anni imperversava in Europa.

Si tratta di un decennio estremamente interessante quello che scorre tra il 1955 con il XXXI Congresso di Torino e la prima cauta denuncia del mito di Stalin, e il 1963 con il XXXV Congresso di Roma che marca l’inizio dell’esperienza governativa del cosiddetto Centro-Sinistra organico, un’alleanza strategica blandamente riformista con la Democrazia Cristiana (DC), il Partito Repubblicano Italiano (PRI) e il Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). Tra queste due date si dipana il cosiddetto periodo del “Revisionismo Socialista”, in cui da un lato si prendono le distanze in modo via via sempre più marcato dall’esperienza del comunismo sovietico, mentre dall’altra s’avanza una visione originale del marxismo, ricca di riflessioni, che tuttavia verrà progressivamente emarginata e sconfitta dall’approccio europeista e socialdemocratico del segretario Pietro Nenni.

Un’epoca certo molto instabile e travagliata per il PSI, scosso dall’aspro confronto tra le correnti interne, ma non certo più semplice per il Partito Comunista Italiano (PCI) chiamato a gestire il difficile periodo della destalinizzazione, successivo al XX congresso del Partito Comunista dell’URSS e alla denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin, ma ancor di più il trauma dell’invasione sovietica dell’Ungheria e il conseguente abbandono del partito da parte della crème degli intellettuali italiani (Italo Calvino, Delio Cantimori, Ludovico Geymonat, Antonio Giolitti, Eugenio Reale ecc.).

È anche il periodo dello sfortunato esperimento di creazione di una forza politica chiaramente “a sinistra” del PCI: i “Gruppi di Azione Comunista” (1956-1965) che parvero per un momento poter raccogliere e unificare i dissidenti “filo-ungheresi” di Giulio Seniga, i seguaci di Onorato Damen della Sinistra Comunista, i trotzkisti di Livio Maitan e gli anarco-comunisti di Arrigo Cervetto. Ma una delle cause dell’indebolimento di Azione Comunista e dell’espulsione alla fine del 1958 del suo rappresentante forse più noto, lo storico e giornalista Pier Carlo Masini, fu proprio l’idea che il PSI, una volta depuratosi dallo stalinismo, fosse il luogo adatto per formare una maggioranza marxista anti-nenniana distinta sia dal filosovietismo del PCI, che dal socialdemocratismo del PSDI.

In ultimo, è pure la stagione davvero eccezionale della nascita (ma talora anche della fine) di importanti riviste politico-culturali socialiste, parzialmente svincolate dal partito e spesso in grado di anticipare tematiche che troveranno una grande eco nella successiva epoca del sessantottismo. A puro titolo di esempio ricordiamo: “Città Aperta” (1957-58), “Corrispondenza Socialista” (1957-72), “Passato e Presente” (1958-1960), “Tempi Moderni” (1958-77) e “Ragionamenti” (1955-58) [1].

In questo clima particolare Panzieri fu uno dei due codirettori “facenti funzione” di “Mondo Operaio”, ma lo sarebbe rimasto ancora per poco in quanto nel dicembre 1958 lasciò a seguito di divergenze con il segretario Nenni, di cui Panzieri criticò apertamente la politica nel suo intervento al XXXII Congresso di Napoli, appena un mese dopo, nel gennaio del 1959.

Tale congresso, nonostante la vittoria della linea di Nenni e della sua corrente, “Autonomia”, non sciolse il nodo del rapporto con la DC. In effetti la sua relazione non si sbilanciava sulle prospettive, confermando però l’autonomia del PSI dal PCI e, in attesa di un mutamento dei rapporti di forza, escludeva sia la partecipazione socialista al governo con la DC che l’unificazione con il PSDI. La linea dei cosiddetti “autonomisti” (il 58% dei delegati) prevalse su quella della sinistra filosovietica (ironicamente detta “carrista”) di Tullio Vecchietti e Dario Valori (pari al 33% dei delegati) e su quella della sinistra marxista libertaria di Lelio Basso (con il 9% dei delegati). Nenni fu ovviamente rieletto segretario nazionale con Francesco De Martino come vicesegretario. La nuova direzione venne votata solo dagli autonomisti, mentre si astennero i sostenitori di Basso e votò compattamente contro la sinistra di Vecchietti.

Ma chi era veramente Raniero Panzieri e perché si era associato al giovane e inquieto Lucio Libertini per pubblicare sul “suo” giornale le “Sette tesi sul controllo operaio”? Vale a questo punto la pena di presentare in breve la biografia politico-intellettuale dei nostri due autori fino alla pubblicazione delle “Sette tesi”.



2. Gli autori: Panzieri e Libertini fino al 1958

 

Raniero Panzieri [2] (1921-1964) fu un intellettuale marxista che, nonostante la breve esistenza, riuscì a lasciare un’impronta indelebile nella cultura politica della sinistra italiana, tanto da esser definito insieme a Mario Tronti e Antonio (“Toni”) Negri uno dei padri dell’operaismo italiano {A}.

Giovane militante socialista nel secondo dopoguerra, Panzieri fece parte a pieno titolo della cosiddetta “leva morandiana”, ossia quella selezione di nuovi quadri (auspicata soprattutto da Rodolfo Morandi) che avrebbe dovuto far evolvere il partito verso posizioni organizzative meno caotiche e, almeno nell’intento iniziale, più “leniniste”. Si distinse presto per il forte impegno e gli ottimi risultati ottenuti nella riorganizzazione del PSI in un territorio difficile come quello siciliano, dove partecipò attivamente alle occupazioni dei latifondi e alle lotte per la riforma agraria. Per questo motivo nel gennaio del 1951 fu scelto come delegato della Federazione Socialista di Messina al XXIX congresso di Bologna e qui, su proposta di Nenni, fu eletto al Comitato Centrale e alla Direzione, finché, pochi mesi dopo, fu nominato Segretario Regionale della Sicilia.

Nell’aprile del 1953 assunse l’incarico di Responsabile Nazionale della Stampa e della Propaganda che lasciò nel maggio del 1955, passando alla guida del settore culturale del PSI. Nel frattempo, nel luglio del 1953, uscirono per le Edizioni Rinascita (del PCI), i due volumi del secondo libro de “Il Capitale” di Karl Marx, tradotti insieme alla moglie Giuseppina (“Pucci”) Saija (a cui poi seguirono le traduzioni de “La Situazione della classe operaia in Inghilterra” di Friedrich Engels e, questa volta per le Edizioni Avanti!, la “Critica del programma di Gotha” di Marx.

In questo periodo Panzieri curò anche l’organizzazione di alcuni importanti convegni, tra i quali ricordiamo: “In difesa del cinema italiano” (Venezia, 1954) e “Sulla libertà della cultura” (Bologna, 1954). Quest’ultima iniziativa fu anche il catalizzatore di una sessione del Comitato Centrale del PSI sullo stesso tema, nel corso della quale Panzieri svolse la relazione principale sottolineando l’inadeguatezza della cultura di sinistra di quel periodo per comprendere le trasformazioni in atto nella società italiana. Inoltre, attraverso questi convegni, il nostro autore riuscì a creare una rete di rapporti con giovani intellettuali che, semplificando alquanto, si potrebbero definire retrospettivamente come “marxisti critici”. Nell’aprile del 1956 fu uno dei fondatori dell’Istituto Rodolfo Morandi, il cui scopo era quello di pubblicare gli scritti del coltissimo e compianto vicesegretario del PSI, morto l’anno precedente in maniera inaspettata e prematura.

Di fronte all’invasione sovietica dell’Ungheria, nel suo discorso al Comitato Centrale del 16 novembre 1956, Panzieri condannò l’intervento, distinguendosi così dalla “sinistra carrista”, ma criticò l’identificazione tra stalinismo e comunismo compiuta dal liberal-socialista Riccardo Lombardi.

Panzieri, infatti, interpretava il fenomeno dello stalinismo secondo le categorie marxiste come un’aberrazione prodotta dall’aver voluto anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione rispetto all’effettivo sviluppo delle forze produttive. Ciò aveva di fatto attuato la separazione del controllo dei mezzi di produzione dai produttori stessi. La soluzione della crisi dello stalinismo, individuata ma non affrontata da Nikita Khrushchëv, richiedeva quindi, attraverso il recupero della tematica consiliare del primo Gramsci dell’Ordine Nuovo” e anche del giovane Morandi, il ritorno del movimento operaio alla sua autonomia, attraverso la creazione di nuove forme di democrazia diretta da attuarsi al livello delle stesse strutture produttive. Corollario di tale impostazione fu la posizione di Panzieri sulla politica internazionale, dove respingeva completamente la concezione dell’URSS come Stato-guida, mentre auspicava una ripresa dei temi dell’internazionalismo proletario con una particolare attenzione agli sviluppi della rivoluzione cinese e alla decolonizzazione.

Nel gennaio 1957 svolse la relazione introduttiva e le conclusioni al convegno “Azione politica e culturale”, tenutosi al circolo socialista romano “Carlo Pisacane”, riaffermando il suo rifiuto della “partiticità della cultura” se intesa come direzione burocratica che riduce la ricerca culturale a mero strumento tattico dell’azione politica. La polemica contro la concezione togliattiana del cosiddetto “intellettuale organico”, benché non citata, appariva chiaramente tra le righe.  Al XXXII congresso del PSI di Venezia nel febbraio del 1957, Panzieri è schierato tatticamente con la corrente di sinistra guidata da Vecchietti e Valori, ma in realtà appare già assai isolato su posizioni personali e piuttosto critiche verso il partito. Nonostante tutto, venne rieletto nel Comitato Centrale, ma escluso questa volta dalla Direzione. Il mese successivo gli fu affidata la condirezione della rivista ideologica del partito, Mondo Operaio”, che rinnovò profondamente anche grazie all’aggiunta di un supplemento scientifico-letterario che si avvalse della collaborazione di Alberto Asor Rosa (storico della letteratura), Cesare Cases (germanista) e Carlo Muscetta (critico letterario).

Lucio Libertini (1922-1993) [3] nacque a Catania da famiglia nobile e altolocata, ed iniziò giovanissimo a impegnarsi in politica. La prima esperienza, da studente della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma – La Sapienza, la consuma nel “Partito Democratico del Lavoro”, una piccola formazione liberal-progressista fondata da vecchi notabili prefascisti quali Ivanoe Bonomi, Meuccio Ruini e Mario Cevolotto; ma tale apprendistato fu breve e non particolarmente significativo. Entrò quindi a far parte della corrente di “Iniziativa Socialista”, una delle componenti che operavano all’interno del cosiddetto primo “Partito Socialista di Unità Proletaria” (PSIUP), il nome che si diede il PSI dal 1943 al 1947 [da non confondersi con il “secondo” PSIUP (1964-1972), una scissione antisocialdemocratica del PSI]. Nel primo PSIUP, come è ben noto, presto si aprì uno scontro interno fra le varie correnti soprattutto sulla questione del rapporto con il PCI e con l’URSS. A una sinistra frontista e a favore dell’unità a tutti costi dei partiti operai, nonché apertamente filosovietica sul piano internazionale (Nenni e Morandi), faceva da contrasto una tendenza moderata che cercava una linea autonomista e classicamente riformista ispirata ai partiti europei occidentali che si andavano riorganizzando in quegli anni nell’Internazionale Socialista (Saragat e Mondolfo). In questa situazione dicotomica, “Iniziativa Socialista” costituiva un’anomalia dalle coloriture quasi trotskiste: sul piano della politica interna tendeva a collocarsi a sinistra del PCI, di cui criticava la strategia della collaborazione con le forze antifasciste borghesi, in primo luogo la DC; sul piano internazionale era invece in vivace polemica con l’egemonia sovietica nel movimento comunista il quale era accusato di subordinare ogni azione rivoluzionaria agli interessi immediati dell’URSS di Stalin.

Al momento della scissione del PSIUP (detta di “Palazzo Barberini”) nel 1947, “Iniziativa Socialista” si alleò con la componente neo-riformista guidata da Saragat e con quella “turatiana” classica raggruppata intorno alla rivista “Critica Sociale” (Mondolfo e Faravelli), per dar luogo al “Partito Socialista dei Lavoratori Italiani” (PSLI). “Iniziativa Socialista” portò in dote al PSLI la maggioranza dell’organizzazione giovanile del PSIUP, pensando ingenuamente di poter conquistare l’egemonia nel nuovo partito e quindi di condizionare Saragat. L’idea di base era quella di spingere il PSLI verso l’opposizione al governo tripartito di De Gasperi in favore della neutralità dell’Italia nella nascente contrapposizione tra i blocchi occidentale e orientale. Libertini raccontò in seguito [3] di essere stato molto scettico sulla scelta dei suoi compagni di “Iniziativa Socialista” a favore del PSLI, ma che Saragat fu assai abile a convincerli di esser rimasto integralmente marxista e di utilizzare la non pregiudiziale ostilità verso la DC solo come un’ipotesi meramente tattica e temporanea. Ad ogni modo, Libertini e “Iniziativa Socialista” parteciparono inizialmente alla costruzione e alla direzione del PSLI, almeno fino a poco prima delle elezioni del 1948, quando la completa sudditanza di Saragat rispetto ai governi centristi emerse in modo palese e portò alla disgregazione della corrente: Livio Maitan e pochi compagni uscirono formando un minuscolo gruppo, il “Movimento Socialista di Unità Proletaria” (MSUP), che aderì al Fronte Democratico Popolare formato da PCI e PSI proprio per le elezioni del 1948. Presto però il MSUP si decompose spingendo Maitan nella direzione del trotzkismo storico della Quarta Internazionale. Libertini in posizione di completo dissenso con l’orientamento sempre più moderato che prevaleva nel PSLI, vi rimase tuttavia ancora qualche anno perché, inquieto come sempre, non riteneva, a differenza di Gaetano Arfè, di poter rientrare nel PSI in quanto ancora troppo filosovietico, né di seguire Maitan nella formazione di una sezione italiana della Quarta Internazionale, perché quest’ultima era considerata troppo schematica, dottrinaria e settaria.

L’opportunità di partecipare a un’esperienza politica collocata nel campo socialista (e non in quello socialdemocratico), ma ostile allo stalinismo, parve prender luce con la dissidenza dei parlamentari comunisti Valdo Magnani e Aldo Cucchi nel gennaio del 1951, che ruppero con il PCI in polemica con la condanna staliniana del titoismo e delle vie nazionali al socialismo.

I due diedero vita, sempre nel 1951, al “Movimento dei Lavoratori Italiani” (MLI) che poi nel 1953 si trasformerà in “Unione Socialista Indipendente” (USI) dopo aver tentato inutilmente di allearsi con il PSI e con il PSDI.

Lucio Libertini, insieme all’ex membro del PSLI Carlo Andreoni, aderì con entusiasmo alle due organizzazioni di Cucchi e Magnani (ironicamente ribattezzate dai comunisti e dai socialisti come “i Magnacucchi”) e vi svolse un ruolo di primo piano, soprattutto nella direzione del giornale di partito “Risorgimento Socialista”, che gli venne affidata nel 1954. L’MLI (e poi l’USI) non raggiunsero però un numero significativo di adesioni e quindi non minarono mai il consenso di massa del PCI. Al livello internazionale, pur senza essere completamente asservite alla politica di Belgrado, mantennero un rapporto diretto con la Lega dei Comunisti jugoslava, dalla quale ricevettero episodicamente anche qualche piccolo finanziamento, specie nella campagna per le elezioni politiche del 1953, tutta polarizzata sulla cosiddetta questione della “legge truffa”. Nel 1956 i “socialisti indipendenti” guardarono con favore alla destalinizzazione kruscioviana che implicava la possibilità di un riavvicinamento al PCI, ma ciò venne definitivamente bloccato dalla rivolta ungherese e dal successivo intervento sovietico, sui quali PCI e USI ebbero giudizi diametralmente opposti. Per Libertini la bagarre interna al PCI sui fatti di Ungheria era la riprova della sua corretta analisi sulle contraddizioni interne al movimento comunista internazionale. Così, preclusa la riunificazione coi comunisti, per l’USI nel 1957 non restava che confluire nel PSI che aveva condannato la repressione sovietica. Infatti, dopo il 1956 i rapporti di alleanza fra socialisti e comunisti si erano molto allentati e le posizioni più apertamente antistaliniste trovavano maggiore spazio per esprimersi all’interno del partito socialista. Ma dato però che il partito, sotto la guida di Nenni, si stava lentamente ma inesorabilmente spostando in direzione socialdemocratica per aprire il percorso politico del Centro-sinistra, Libertini si trovò ancora una volta collocato in una posizione minoritaria, grosso modo simile a quella vissuta in quel periodo da Lelio Basso: visto con un certo sospetto dai “carristi” della sinistra interna (ancora largamente filosovietica), ma in palese opposizione all’idea di una riunificazione con il PSDI e dell’adesione all’Internazionale Socialista.

 

 

3. Le tesi

 

Le “Sette tesi sulla questione del controllo operaio” nascono, come abbiamo visto, in un momento storico particolare ricco di dibattiti fecondi, rappresentando così un riferimento politico importante ma minoritario. Attilio Mangano, nel suo saggio sulla “nuova sinistra” in Italia [4], scrive che esse avranno il “destino alquanto singolare (...), di essere citate e additate come un piccolo classico della cultura politica del socialismo di sinistra e però, al tempo stesso, di non aver dato luogo ad una continuità ideale e politica di referenti che le assumessero come un punto fermo di valore strategico”.

Analizziamole brevemente separando i sette punti delle tesi:

 



1) Sulla questione del passaggio dal capitalismo al socialismo. Panzieri e Libertini esordiscono negando la teoria tradizionale, supposta non marxista ma socialdemocratica, secondo cui la costruzione del socialismo deve, sempre e comunque, essere preceduta dalla fase di edificazione della cosiddetta “democrazia borghese”. Secondo i nostri due autori la classe lavoratrice non deve limitarsi a condurre le sue lotte con il fine esclusivo di costruire (o di favorire la costruzione) di un modo di produzione capitalista moderno dotato di forme politiche liberal-democratiche tipiche di una società borghese matura ed evoluta (“regime di democrazia borghese compiuta” lo definisce la 1a delle tesi). Fino a qui si odono echi quasi trotzkisti probabilmente dovuti all’influsso di Libertini e alla sua certa conoscenza della “teoria della rivoluzione permanente”. A riprova di ciò vi è la ripetizione della critica di Trockij alla strategia del Komintern in Cina nel 1927 [cfr. L. Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin (Schwarz Editore, Torino 1957)]. Ma la tesi prosegue con una coloritura gramsciana. Infatti, secondo gli autori questa negazione è soprattutto vera in Italia dove la borghesia non è stata mai (e probabilmente non potrà mai essere) una “classe nazionale”, ovvero capace, magari brevemente, di assicurare lo sviluppo della società italiana nel suo insieme. La spiegazione di tale insufficienza storica della borghesia, scritta nel pieno del cosiddetto “boom economico”, ci sembra al giorno d’oggi alquanto schematica e frettolosa, basata com’è sulla permanenza di grosse sacche geografiche di sottosviluppo economico, sul ruolo dello Stato nella difesa del grande capitale monopolistico nazionale e sulla sua subordinazione internazionale all’imperialismo americano, ma forse il carattere schematico delle tesi non avrebbe permesso ulteriori approfondimenti. Fatta questa precisazione si ritorna alla visione precedente, negando quindi, in opposizione alla lettura togliattiana dell’analisi di Gramsci, che “il movimento di classe dovrebbe sostanzialmente sostituirsi alla classe capitalistica e assumere in proprio il compito di costruire un regime di democrazia borghese compiuta”. La forza trainante dello sviluppo democratico in Italia è quindi, secondo Panzieri e Libertini, esclusivamente la classe operaia e solo sotto la sua direzione potrà realizzarsi quel sistema di alleanze rivoluzionarie con i contadini, gli intellettuali e le parti avanzate della piccola e media borghesia. Qui si ritorna a Gramsci, ma letto con lenti certamente non togliattiane, ma forse, come qualcuno ha ipotizzato, “neo-leniniste” {B}. In realtà, come vedremo nella conclusione, non c’è bisogno di scomodare Lenin, in quanto si tratta di tematiche già contenute in nuce nel socialismo di sinistra che troveranno piena fioritura nella prima fase dell’operaismo italiano.




2) La via democratica al socialismo è la via della democrazia operaia. La via italiana al socialismo sarà sicuramente democratica e, auspicabilmente, anche pacifica, in opposizione a concezioni “volontariste” o “crolliste” della rivoluzione. Ma la via democratica non coincide con la via esclusivamente parlamentare, in quanto il Parlamento è il luogo dove si ratificano e si registrano i rapporti di forza tra le classi, non dove essi si sviluppano e si determinano. Certo l’utilizzo dell’istituto parlamentare è uno (ma non l’unico) dei compiti del movimento operaio che dovrà trasformarlo “da sede rappresentativa di interessi meramente, politici, formali, ad espressione di diritti sostanziali, politici ed economici nello stesso tempo”.




3) Il proletariato educa se stesso costruendo i propri istituti. Proprio la necessità di una via democratica e, auspicabilmente, pacifica al socialismo implica che gli istituti del potere proletario non debbano formarsi dopo il salto rivoluzionario, ma, all’opposto, “nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere”. Inoltre (e questo è considerato ancora più importante dai nostri autori) tali istituti devono nascere nella sfera economica dove è situata la fonte reale del potere, ossia, “all’interno delle strutture di produzione”. Naturali sono qui i richiami all’esperienza storica del contropotere della classe operaia: dai soviet russi del ’17, al movimento torinese dei Consigli di Fabbrica del ’20, alle lotte degli operai polacchi e ungheresi del secondo dopoguerra. Prosegue anche qui la polemica con le concezioni “di ingenua derivazione illuministica” che si prefiggono di “genericamente ‘addestrare’ il proletariato al potere prescindendo dalla concreta costruzione dei suoi istituti”. Secondo Panzieri e Libertini ciò non avrebbe senso in quanto “la distanza che separa gli istituti della democrazia borghese dagli istituti della democrazia operaia è qualitativamente la medesima che separa la società borghese divisa in classi dalla società socialista senza classi”.




4) Sulle condizioni attuali del controllo operaio. La rivendicazione del controllo da parte dei lavoratori (operai e tecnici) si collega non solo a quanto detto nella 3a tesi, ma anche a una serie di condizioni nuove che la rendono attuale e la pongono al centro della lotta del movimento di classe, almeno per tre motivi: (a) lo sviluppo della fabbrica moderna e il conseguente asservimento integrale del lavoratore – anima e corpo – implica che l’unico modo per reagire sia quello di rifiutare la cosiddetta “democrazia aziendale” con le sue “relazioni umane” mistificate, rivendicando un ruolo consapevole del lavoratore nella fabbrica, ossia la democrazia operaia; (b) la compenetrazione sempre maggiore tra Stato e monopoli comporta che il potere economico estenda le sue funzioni politiche, per cui, come reazione, la classe lavoratrice dovrà spostare sempre più il centro della sua lotta verso la sfera del potere reale e delegante, più che lasciarla in quella del potere delegato; (c) in aggiunta è posta al centro della questione del controllo anche la difesa dell’autonomia del proletariato, sia contro la subordinazione riformistica sia contro la burocratizzazione e le concezioni di “guida” (Stato-guida, partito-guida ecc.). La democrazia operaia è infatti la garanzia che il partito resti nel suo ruolo di strumento di formazione politica del movimento di classe e non cerchi di imporsi paternalisticamente come “guida”. È l’unico modo serio di rifiutare in maniera non riformista il “socialismo burocratico” di marca stalinista.




5) Il senso dell’unità di classe e la questione del collegamento tra lotte parziali e fini generali. La rivendicazione del controllo operaio e le sue implicazioni teoriche e pratiche necessitano dell’unità delle masse e del rifiuto di una concezione partitica troppo rigida. Scrivono infatti i nostri autori: “Non c’è controllo senza l’unità d’azione di tutti i lavoratori della stessa azienda, dello stesso settore, dell’intero fronte produttivo”. È altresì importante che tale unità non sia solo un adornamento della propaganda di partito, né che le lotte dei lavoratori siano un metodo per rafforzare l’influenza del partito tra le masse. Circa la questione, dibattuta fino alla nausea, su quale sia il legame tra le rivendicazioni (lotte parziali) e i fini generali, l’unica risposta possibile è: la continuità. Infatti, il socialismo non è un ideale astratto, un mistero inconoscibile, ma “un ideale che occorre far vivere giorno per giorno, (…), che nasce e si sviluppa se ciascuna lotta serve a far maturare e avanzare istituti nati dal basso, la cui natura sia per l’appunto già affermazione del socialismo.”




6) Il movimento di classe e lo sviluppo economico. L’ipotesi del controllo operaio e dell’unità nelle lotte di massa porta con sé il rifiuto di una prospettiva catastrofistica (ossia, di crollo automatico del capitalismo) e la piena adesione a una politica di sviluppo economico, che però non dev’essere un adattamento o una rettifica del corso capitalistico, né deve consistere in un’astratta programmazione proposta dallo Stato borghese: “Essa si realizza nelle lotte delle masse e si concreta via via che rompe le strutture capitalistiche e da ciò prende da capo nuovo slancio. Allorché in questo senso si afferma che la lotta del proletariato serve ad acquisire giorno per giorno nuove quote di potere non si intende certo affermare che il proletariato acquisti giorno per giorno porzioni del potere borghese (…), ma che di giorno in giorno contrappone al potere borghese la richiesta, l’affermazione e le forme di un potere nuovo che venga direttamente, e senza deleghe, dal basso”. Il controllo implica una lotta senza quartiere ai monopoli, agli squilibri geografici e sociali da essi generati e allo Stato borghese che sostiene il capitale monopolistico mediante le sue imprese pubbliche. Ma in Italia i vecchi rapporti capitalistici sono divenuti un freno allo sviluppo economico (che è in sé legittimo) il quale ormai deve seguire percorsi diversi dallo sviluppo del capitalismo (ossia, l’economia del profitto, non legittima). Lo sviluppo economico affidato al controllo operaio diverrà quindi anche uno sviluppo tecnico e porterà finalmente alla convergenza, sul piano della lotta, tra operai e tecnici.




7) Le forme del controllo dei lavoratori. Il controllo non si pone come una rivendicazione generica programmatica, magari di un’attività normativa da parte del Parlamento: questo significherebbe una forma più o meno larvata di collaborazionismo, anche se l’azione parlamentare non va a priori rifiutata; soltanto non va intesa in modo paternalistico, ma deve limitarsi a prendere atto dei risultati delle lotte avvenute in ambito economico, ovviamente senza differenze tra aziende private e pubbliche. Il controllo non è neppure un romantico ritorno a forme storicamente superate come, per esempio, le “commissioni interne” e la questione dell’ampiamento del loro potere. In ogni caso, le forme del controllo dei lavoratori non devono essere determinate da un gruppo di “specialisti”, ma direttamente dalle indicazioni dei settori operai. Per esempio, in primis, occorre una Conferenza di Produzione dove il controllo possa muovere i primi passi. Secondariamente, la questione del controllo deve essere posta al centro della lotta generale per la riconquista del potere contrattuale e della libertà degli operai in fabbrica (tramite delle Commissioni Elettive per le assunzioni e contro le discriminazioni). In ultimo, è necessario un collegamento tra le varie aziende e la partecipazione delle rappresentanze territoriali nell’elaborazione dei programmi produttivi.



4. Il dibattito sulle tesi

 

Il lavoro di Dalmasso [1] analizza con cura e dovizia di particolari il dibattito che ebbe luogo nei mesi successivi alla pubblicazione delle “Sette tesi”, mettendo in evidenza le varie linee politiche e culturali presenti nella sinistra italiana dell’epoca. I primi interventi compaiono proprio sullo stesso “Mondo Operaio” per la penna di Francesco De Martino, Livio Maitan, Luciano Della Mea, Pino Tagliazucchi, Valdo Magnani e Luciano Barca.

Per De Martino le tesi sono essenzialmente corrette in quanto non si può identificare la via democratica al socialismo con quella parlamentare, anche se bisogna evitare due errori opposti, sia in Italia che negli altri paesi moderni: o negare l’importanza della lotta parlamentare, oppure, sul lato opposto, confondere la democrazia reale con quella puramente formale.

Maitan invece si richiama alla concezione marxista dello Stato sostenendo che parlare di carattere “democratico e pacifico” della transizione al socialismo potrebbe ingenerare pericolosi equivoci in quanto essa implica, all’opposto, una rottura rivoluzionaria e non un processo continuo.

Anche della Mea è favorevole alle tesi in quanto in polemica con Togliatti, con lo stalinismo e con la sopravvalutazione delle potenzialità presenti nella costituzione repubblicana. È per il rilancio della teoria marxista dello Stato contro tutte le deformazioni socialdemocratiche e opportuniste. In quest’ottica il controllo operaio può essere un elemento di rinnovamento per ricreare l’unità della classe lavoratrice in vista delle lotte future e per favorire la democrazia diretta.

Per Tagliazucchi le posizioni di Panzieri e Libertini hanno il merito di puntualizzare un lungo e frammentato dibattito sulle questioni della democrazia e delle forme di lotta del movimento operaio, ma hanno pure grossi limiti dato che, per esempio, non chiariscono la questione del passaggio al socialismo. Inoltre, mancherebbe del tutto l’analisi dei rapporti tra i nuovi istituti della democrazia operaia, i sindacati e i partiti.

Magnani è sulla stessa linea: proprio la scelta della via democratica, che implica una costante partecipazione dei lavoratori ai compiti direttivi, ribadisce la funzione dirigente del partito. Senza di questa vi è il rischio di rinchiudere il movimento operaio all’interno della fabbrica, privandolo così della capacità di comprendere le connessioni tra i monopoli e la complessa realtà politica e sociale.

Luciano Barca poi, è ancora più critico. Per lui Panzieri e Libertini contrappongono di fatto il sorgere di nuovi istituti nella sfera economica alla funzione del partito. Questa contrapposizione per Barca sarebbe sbagliata, sia prima che dopo la conquista del potere da parte della classe operaia, ed egualmente errata sarebbe l’affermazione delle “Sette tesi”, secondo cui la rivendicazione del controllo deve essere, almeno nel contesto italiano, l’istanza fondamentale, perché fondata su un’interpretazione non condivisibile dell’evoluzione economica del Paese.

Successivamente il confronto si fece più acceso in quanto vennero coinvolti anche i quotidiani di partito: il 5 agosto 1958 Panzieri e Libertini replicarono sull’ “Avanti!” a una lunga nota pubblicata sull’ “Unità” provocando una dura controreplica dello storico Paolo Spriano il 12 agosto, seguita da una nuova risposta dei due autori il 9 settembre. Il dibattito fu momentaneamente chiuso da un’ultima risposta di Spriano il 21 settembre secondo il quale le tesi conterrebbero elementi economicisti, anarco-sindacalisti, trotskisti e liquidatori delle recenti acquisizioni del movimento operaio.

Più mite è invece uno scritto dell’“Unità” che richiama l’elaborazione del PCI sulla strategia delle riforme di struttura, ribadendo il pericolo di scollegare l’esigenza del controllo operaio da questa opzione concreta.  Questa volta Panzieri e Libertini replicano in “Mondo Operaio” sia nell’ottobre del 1958 che nel marzo del 1959. Per loro, le contraddizioni che si manifestano nello stesso schieramento borghese aprono di fatto un nuovo spazio alla lotta di classe e quindi è falsa l’accusa di “operaismo” fatta all’esaltazione delle lotte di massa che stanno in effetti crescendo. Tutto al contrario, la classe operaia deve passare dalle richieste salariali e occupazionali a una rivendicazione del controllo sulla gestione aziendale. Torna poi nell’ultima replica il problema della concezione dello Stato e delle istituzioni politiche: non si tratta di prestare fede alla teoria dello “Stato al di sopra delle parti”, ma è la questione di come si realizza la rottura rivoluzionaria a riproporre le differenze tra riformisti e rivoluzionari.

Un altro nodo centrale nella replica è quello relativo al ruolo del partito. Le posizioni di Barca e Magnani avrebbero il torto, secondo Panzieri e Libertini, di localizzare l’elemento politico cosciente esclusivamente nel partito. Saremmo quindi sul terreno del più schietto “stalinismo” dove fiorisce la teoria e la prassi del “partito guida”, mentre le “Sette tesi sul controllo” vorrebbero proprio esser un contributo alla lotta contro queste concezioni.

Circa la terza questione, ossia il rapporto tra il controllo operaio e la politica di sviluppo economico, la replica non nega che possano esistere pericoli di settorialismo. Sbaglierebbero però, sempre secondo Panzieri e Libertini, quelli che come Lelio Basso e Riccardo Lombardi mettessero in contrapposizione controllo operaio e pianificazione economica, temendo che la lotta per il controllo crei delle “aristocrazie operaie”. Infatti, per i nostri autori, una nuova politica economica parte necessariamente dalla lotta che gli operai combattono all’interno delle loro strutture produttive e non certo dal Parlamento. E quindi è errata la divisione tra rivendicazioni particolari (per il sindacato) e lotta complessiva (per il partito) conciliate ideologicamente solo nel programma. Questo sì che sarebbe il trionfo del più astratto gradualismo e, quindi, del più piatto riformismo. È inoltre del tutto evidente che queste osservazioni non siano solo ipotetiche ma che si riferiscano alle recenti decisioni congressuali del partito socialista. E così la delusione e la sfiducia verso le scelte del PSI, portano Panzieri a lasciare Roma, in polemica con la stessa sinistra del partito, per “ripartire da zero” a Torino. Il 1959 è infatti per lui un anno di profonda solitudine intellettuale, come è testimoniato dal carteggio con Libertini, il quale invece accetta di dirigere il nuovo organo della corrente di sinistra “Mondo Nuovo” (successivamente giornale ufficiale del PSIUP). Si spezzerà così un sodalizio politico unico e originale (anche se molto breve) nelle vicende del socialismo italiano.



5. Conclusioni

 

Molti degli scritti successivi di Panzieri riprenderanno alcuni temi contenuti nelle “Sette tesi”. Per esempio, nella prima fase dei “Quaderni rossi” (1961) il tema del “controllo operaio” sarà riproposto, inquadrandolo come un possibile germe strategico del “dualismo dei poteri”, quindi non solo dal punto di vista di una discussione sul “modello di sviluppo”, ma addirittura nella prospettiva, quasi terzinternazionalista, della conquista del potere. Per questo alcuni autori parlano di una svolta “neo-leninista” di Panzieri in rottura con la cosiddetta “sinistra storica” (PCI e PSI), mentre altri, all’opposto, sottolineano la continuità con le sue precedenti posizioni all’interno della sinistra socialista, o almeno con quelle del periodo ’58-’59, le più chiaramente post-morandiane in quanto svincolate dal presupposto dell’unità politica della classe lavoratrice. Non va poi trascurato nell’evoluzione delle elaborazioni di Panzieri il peso delle lotte operaie che infiammarono l’Italia alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60, le quali spinsero la CGIL a mutare strategia, riducendo l’importanza dei grandi scioperi politici e delle lotte generali, considerate come troppo ideologiche, per focalizzarsi invece sui rapporti di lavoro specifici all’interno delle fabbriche (per esempio, la questione dei tempi di lavoro, del salario, delle qualifiche ecc.), fino a quel momento appannaggio di sindacati meno politicizzati come la CISL. In questo senso la stessa lotta contro il governo Tambroni nel 1960 non appare a Panzieri e ai suoi giovani collaboratori come del tutto riducibile alla generica categoria dell’antifascismo, ma, al pari dei fatti di Piazza dello Statuto del 1962, è vista come l’inizio di un nuovo protagonismo operaio. In questo senso, sempre seguendo Dalmasso [1], ci sembra adeguato considerare Panzieri non tanto come il proponente di una strategia “neo-leninista”, ma piuttosto come il vero padre dell’operaismo italiano, con il suo interesse per la centralità della fabbrica, corredata dalla teoria della valenza politica (e quindi in sé socialista) delle lotte operaie e dunque, in ultima analisi, del prevalere dell’elemento sociale su quello politico. In effetti, proprio per questo motivo, le “Sette tesi” mantengono ancora oggi un certo livello di attualità e costituiscono sia la testimonianza di una fase ricca e vivace del movimento operaio italiano, sia l’espressione del tentativo più organico di elaborare un’alternativa teorica marxista all’egemonia togliattiana e alle ambiguità del PSI in tutte le sue componenti, delle quali si mettono in discussione gli stessi capisaldi: la subordinazione delle lotte di massa alla politica parlamentare, il rapporto tra tattica e strategia, il centralismo democratico e, soprattutto, il disinteresse per le trasformazioni strutturali del capitalismo italiano nel periodo del cosiddetto “boom economico”.

Per quanto riguarda invece Libertini, nonostante che le sue elaborazioni politiche siano abbondanti e in parte ancora poco conosciute [3], la sua strada si dividerà nettamente da quella di Panzieri, passando per un lungo periodo di militanza nel secondo PSIUP [5], dove, insieme a Lelio Basso e Vittorio Foa, animerà una sinistra interna piuttosto critica della politica filosovietica di Vecchietti e Valori e non priva di venature operaiste, terzomondiste e movimentiste. Al termine di questa esperienza, nonostante le forti critiche ricevute da parte di vari esponenti comunisti, deciderà di seguire la maggioranza dei compagni di partito e confluire nel PCI dove svolgerà una lunga carriera parlamentare (1972-1991) fino alla “Svolta della Bolognina” che lo vedrà invece tra i protagonisti di “Rifondazione Comunista”.


DAN KOLOG


Note

 

{A} Si noti come il termine “operaismo” sia qui usato riferendosi esclusivamente all’elaborazione politica marxista effettuata in Italia nel corso degli anni ’60 del XX secolo. Nulla a che vedere quindi con la corrente socialista italiana della fine XIX secolo, radicata principalmente a Milano e rappresentata dal celebre Costantino Lazzari.

 

{B} Il termine “neo-leninista” è stato utilizzato rispettando il lessico originale degli autori che contribuirono al dibattito sulle “Sette tesi sul controllo operaio”. In realtà l’uso è improprio in quanto il filone marxista di riferimento di Panzieri e Libertini sembra essere, almeno in questo caso, abbastanza distante dalla cultura politica dei bolscevichi russi. Va però considerato che negli anni ’60 del XX secolo, data l’egemonia culturale del PCI e del pensiero di Palmiro Togliatti all’interno del movimento operaio italiano, l’uso del termine “leninista” sembra indicare semplicemente l’eventualità della conquista del potere politico mediante un’azione non strettamente parlamentare, ma, ad esempio, attraverso l’utilizzo di strutture costruite dal basso (ossia, consigli di fabbrica e territoriali).

 

 

Bibliografia

 

[1] Utilissima per la scrittura del presente lavoro è stata la lettura dell’articolo “La ricerca di un’altra via. Le 7 tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini” di Sergio Dalmasso, pubblicato nella rivista “Per il ‘68”, numero 7, anno 1995.

[2] Ottimi cenni biografici su Panzieri sono presenti alla voce “Raniero Panzieri” di Giovanni Scirocco contenuta nel Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (Istituto Treccani, 2014), L’autore del presente lavoro se ne è servito largamente.

[3] Un’opera fondamentale su Libertini è senz’altro la seguente: Sergio Dalmasso Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana” (Edizioni Punto Rosso, Milano, 2020).

[4] Attilio Mangano, L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova Sinistra, (Pullano, Catanzaro, 1992).

[5] Aldo Agosti, “Il partito provvisorio. Storia del PSIUP nel lungo Sessantotto italiano” (Laterza, Roma-Bari, 2013).

 

 


Immagine: L’importanza della questione del controllo operaio nella storia della sinistra italiana è testimoniata chiaramente da questo volumetto (Feltrinelli, Milano, 1969) che comprende sia le “Sette tesi sul controllo operaio” di Raniero Panzieri e Lucio Libertini, sia i principali scritti che hanno composto il dibattito politico da esse generato. Si noti come il testo sia stato stampato ben undici anni dopo le tesi, contemporaneamente alle dure lotte operaie del cosiddetto “autunno caldo”.

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