La scissione di Livorno, 1921-2021


 

Che senso politico ha un fenomeno successo cento anni fa?

 

Se alla stessa stregua ci si fosse posti di commemorare nel 1921 un avvenimento politico accaduto nel 1821, prendiamo per esempio, approssimando, la nascita della Carboneria, ci si sarebbe potuti porre la medesima domanda. Quale senso politico avrebbe ancora avuto la Carboneria in un’Italia unificata e per molti versi liberale, come era quella giolittiana. Un certo senso, anche nel 1921, la Carboneria lo aveva, nella misura in cui non vi era ancora un’Italia repubblicana. Certo molto era cambiato, l’Italia era stata fatta, gli Anciens Régimes abbattuti, ma nel 1921 si poteva ancora trovare una fazione ristretta di cospiratori legata politicamente, almeno in modo ideale, alla Carboneria nata cent’anni prima, mentre oggi non avrebbe alcun senso.

 

Tornando a noi, che senso politico ha per noi socialisti marxisti, scrivere nel 2021 della scissione di cent’anni fa avvenuta a Livorno?

 

Ha senso. E per riprendere la formulazione di Antonio Labriola, ha senso nella comprensione «delle cose che divengono» al fine di trasformare la società. Instaurare la società socialista era pur sempre il fine della principale espressione organizzata del movimento dei lavoratori di allora, ovvero il Partito Socialista Italiano (PSI). Allo stesso modo, instaurare la società socialista è il nostro fine, oggi. Quindi comprendere la scissione di Livorno vuol dire imparare da essa e progredire.

 

Per due motivi questo scritto non è un resoconto storico dettagliato degli avvenimenti che hanno portato e son scaturiti dalla scissione. In primis, per necessità di sintesi. In secundis, per il taglio commemorativo di questo breve brano. Il limite del nostro approccio è di dover tralasciare e semplificare oltremodo avvenimenti, pensieri e dinamiche. Cerchiamo altresì di evitare l’errore di giudicare fatti accaduti cento anni fa con il senno di poi.

 

Quando il 15 gennaio del 1921 nella sala del Teatro Carlo Goldoni di Livorno si apre il XVII Congresso Nazionale del PSI, la scissione era più che nell’aria. I cosiddetti “socialisti comunisti unitari” si presentavano già con una forte maggioranza, del resto la avevano già dal congresso precedente. Il tono fu subito impostato. I Partiti Comunisti allineati con i 21 punti del II Congresso della Terza Internazionale tenutosi a Pietrogrado e Mosca dal 19 luglio al 7 agosto del 1920, si erano già formati in Francia e Inghilterra. Talune delegazioni, tedesca (Partito Comunista Tedesco Unificato), svizzera (Partito Comunista Svizzero), austriaca (Partito Comunista Austriaco) e olandese (Partito comunista olandese) avevano salutato l’indirizzo di apertura del Congresso di Livorno, rimarcando il bivio inesorabile ormai esistente tra allineati alla Terza Internazionale, ora identificatisi come comunisti, e non allineati, identificatisi ancora come socialisti. Addirittura, la lettera recapitata dalla delegazione del Partito Comunista Spagnolo esclamava: «Nostro vivo piacere sarebbe che un delegato del Partito comunista spagnuolo potesse combattere a Livorno il “serratismo corruttore” …, ma la situazione economica del Partito non ci permette la spesa del viaggio».

 

A mostrare la complessità di questo periodo di transizione in Italia, ma ogni paese aveva le sue peculiarità spesso non meno intricate, vi sono le varie correnti e frazioni esistenti all’interno del PSI a Livorno. Però anche su questo punto va fatto un inciso: dalla sua fondazione il PSI, infatti, era sempre stato composto da una moltitudine di correnti. Probabilmente la novità del 1921 era che il suo collante naturale, ovvero i padri fondatori riformisti, ne avevano perso pressoché totalmente il controllo.

 

Ad ogni modo a Livorno vi erano i comunisti, che si dividevano in puri (che a loro volta si rifacevano alle varie correnti de Il Soviet di Napoli, attorno a Amedeo Bordiga, Ludovico Tarsia, Rodolfo Fobert, e dell’Ordine Nuovo, attorno a Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, ovvero gli universitari di Torino) e, più genericamente, negli altri intransigenti estremisti (inclusi quelli di Imola, Anselmo Marabini, e Antonio Graziadei) aderenti senza compromessi alla Terza Internazionale, come i vari Nicola Bombacci, Bruno Fortichiari, Luigi Repossi ed Egidio Gennari.

 

C’erano i socialisti comunisti unitari o centristi, anche chiamati, in riferimento alle posizioni prese al XVI Congresso tenutosi a Bologna dal 5 all’8 ottobre 1919, massimalisti unitari, attorno al vecchio operaista Costantino Lazzari, e i massimalisti ‘elezionisti’, attorno al direttore de L’Avanti! Giacinto Menotti Serrati, che aderivano alla Terza Internazionale, ma non si volevano allineare pedissequamente ai 21 punti di Mosca. Serrati, in particolare, già dal convegno di Kienthal nell’aprile del 1916 si era avvicinato molto alla linea estremista di Lenin e all’idea di formare una nuova internazionale.

 

Infine, vi erano i socialisti riformisti, attorno a Filippo Turati, Claudio Treves e Giuseppe Emanuele Modigliani, detti ormai nel 1921 la destra del Partito, redattori della rivista teorica Critica Sociale, attiva dal 1891 e vero e proprio emblema del socialismo riformista turatiano.

 

Nonostante fosse comoda per il PSI di quegli anni l’ipotesi che la scissione venisse imposta dalla Terza Internazionale e più in particolare dalla sua forza determinante, ovvero il Partito Bolscevico Russo, questa semplificazione era errata. Dei 21 punti di ammissione, quello che concerneva l’espulsione dei riformisti dal PSI, il ventunesimo appunto, fu formulato durante il II Congresso della Terza Internazionale tenutosi, come già accennato, nell’estate del 1920 ed è ascrivibile proprio a Bordiga.

 

Per Turati esser minacciato di espulsione non era cosa nuova. Lo aveva già vissuto ai tempi dell’attacco degli intransigenti di Lazzari alla Federazione Socialista Milanese nel 1901 per la polemica sul collaborazionismo dei riformisti con un governo che si era macchiato del sangue dell’eccidio di Berra nel ferrarese. Questi cercarono di espéllerlo già allora, con un referendum, ma non avendo il PSI un’organizzazione gerarchica, la Direzione non ne ebbe l’autorità.

 

Dal 1913 però l’organizzazione del partito divenne più ferma e così anche la disciplina di partito. Certo ancora ben lungi dalla disciplina di un partito centralizzato come quello bolscevico. Sin dalla sua fondazione nel PSI esistevano tre anime: il Gruppo Parlamentare, la Direzione e L’Avanti!, parole del buon vecchio Antonio Labriola. Il Gruppo Parlamentare era per forza di cose riformista, in quanto eletto e sostenuto dalle varie istituzioni popolari, come le cooperative, le leghe degli operai, le leghe dei contadini, i sindacati confederali, i municipi socialisti. Fondava molto del suo sostegno quindi sulle battaglie economiche nel nord Italia. Non è un caso che con la crescita del movimento bracciantile, in generale e al sud in particolare, e degli operai non specializzati, il consenso della base si era spostato verso la frazione rivoluzionaria intransigente. Come vedremo, queste dinamiche non furono secondarie a Livorno e influenzarono non poco la linea tenuta da Serrati.

 

Dopo l’epurazione dei riformisti di destra nel 1912, i quali non credevano più in un partito socialista, considerandolo un ramo secco, ma, tuttalpiù, in un Partito del Lavoro sul modello laburista inglese, i toni si inasprirono nuovamente tra i socialisti della frazione rivoluzionaria intransigente e i riformisti di sinistra, che erano rimasti nel PSI e che venivano ora considerati a quel punto la “nuova destra”, nell’autunno del 1917. Tali contrasti si accentuarono con l’atteggiamento di difesa nazionale assunto dopo la disfatta di Caporetto, sconfessato esplicitamente nella riunione di Firenze del 18 novembre 1917, avvenuta proprio pochi giorni dopo la Rivoluzione d’Ottobre e la rotta di Caporetto. Già a Firenze, come è noto, Bordiga, che affermava «bisogna agire!», e con lui Gramsci, si trovavano in coerenza con l’atteggiamento di Lenin verso la Grande Guerra, quindi contro lo slogan “lazzariano” «né aderire né sabotare!», ma piuttosto per quello «non aderire e sabotare!», al fine di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria. Mentre Lazzari e Serrati si mostrarono prudenti.

 

Il rapporto tra rivoluzionari intransigenti e riformisti s’incrinò ulteriormente durante il periodo di riorganizzazione, difesa e controffensiva dell’esercito italiano sul Piave, quando la posizione di unità nazionale tenuta dal Gruppo Parlamentare, e in particolare da Turati, a nome del PSI, fu duramente processata al XV Congresso Nazionale del PSI, tenutosi a Roma dal 1 al 5 settembre 1918. Il Congresso si tenne a porte chiuse e in assenza dei maggiori elementi della Direzione: Lazzari, Bombacci, Serrati (in carcere) e Bordiga (che stava prestando servizio militare). La sezione romana chiese l’espulsione di Turati per le sue dichiarazioni legittimiste del 16 giugno di fronte al parlamento. L’atteggiamento di Turati al Congresso di Roma fu alquanto paternalistico: giustificava da un lato le espressioni sotto accusa in quanto dettate dalla criticità del momento e le giustificava anche perché, ad ogni modo, avevano riscosso comunque apprezzamenti tra i soldati al fronte. Connotava le posizioni rivoluzionarie dei “giovani” intransigenti come fede in un effetto taumaturgico della rivoluzione tipica degli anarchici, anarchici che, ricordava Turati, il Partito aveva espulso già al I Congresso di Genova nel lontano 1892. Già durante il XV Congresso alcuni esponenti della frazione rivoluzionaria intransigente presenti (Luigi Repossi, Luigi Salvatori ed Elvira Zocca) esortarono alla scissione.

 

Il 29 ottobre del 1918 scoppiò la rivolta dei marinai a Kiel dando inizio alla “Rivoluzione Tedesca di Novembre”. La SPD che, intendiamoci, già alla vigilia del conflitto nel 1914 aveva mostrato la sua componente militarista, reazionaria e collaborazionista, si era finalmente scissa nell’aprile del 1917. Gli antimilitaristi, tra quali il revisionista Bernstein, il centrista Kautsky e la sinistra spartachista, andarono a formare la USPD. Ad ogni modo la SPD si propose come forza d’ordine controrivoluzionaria. Essendo la Lega di Spartaco la componente più rivoluzionaria della USPD si scisse ulteriormente da quest’ultima, alla fine del dicembre 1918, per andare a costituire la KPD, ovvero il Partito Comunista Tedesco. Il 5 di gennaio i berlinesi si riversarono in strada a causa del licenziamento di un esponente di spicco della USPD, Emil Eichhorn, dal ruolo di capo della polizia di Berlino. Frederich Ebert, il leader della SPD, lo aveva fatto rimuovere considerandolo troppo blando nella repressione dei disordini di Berlino. Ebert e il suo ministro della Difesa, Gustav Noske, non esitarono a far uso dei Freikorps (corpi franchi), ovvero squadre paramilitari, per reprimere i dimostranti e assassinare Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i leader del gruppo spartachista. A questo si deve aggiungere la sconfitta della Repubblica Sovietica d’Ungheria nell’agosto del 1919, anch’essa ascritta in qualche modo al tradimento dei socialdemocratici, mentre vi furono chiare responsabilità da attribuire al cattivo regime instaurato da Béla Kun stesso. Ad ogni modo questi fatti altro non fecero che alimentare il parallelo tra Kerenskij e Martov in Russia, Ebert (o Scheidemann) e Kautsky in Germania, Otto Bauer e Friedrich Adler in Austria, Leon Blum e Jean Longuet in Francia, Turati e Serrati in Italia, tutti affossatori della rivoluzione imminente. Una chiara campagna denigratoria era in atto, soprattutto quando divenne chiaro che Serrati non aderiva completamente alle 21 condizioni.

 

Le due tendenze favorevoli all’epurazione dei riformisti italiani, quella interna facente capo ai rivoluzionari intransigenti e quella esterna facente capo ai bolscevichi, andarono a combaciare perfettamente col II Congresso della Terza Internazionale, dove Lenin, nel suo L’Estremismo, malattia infantile del comunismo, da un lato premiava l’azione di Bordiga, ma dall’altro lo accusava di arrivare a «false conclusioni», ovvero all’astensionismo. Bordiga si difenderà da queste accuse distinguendo le ragioni del suo astensionismo, ovvero concentrare tutte le risorse nello sforzo rivoluzionario, da quelle dell’astensionismo della KPAD, ossia disprezzo e sfiducia per l’attività parlamentare.

 

Ad ogni modo, se ce ne fosse davvero bisogno, a riprova che a Livorno i giochi erano fatti, c’è il manifesto-programma dei “Comunisti Scissionisti”, firmato da Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano, Repossi e Terracini, che era stato già pubblicato nell’ottobre del 1920 sia in Italia che all’estero. Tale programma indicava che il partito si sarebbe chiamato “Partito Comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale Comunista)” e avrebbe portato all’esclusione di chi non si sarebbe conformato. Avrebbe anche accentuato la centralizzazione e la disciplina del partito e dato pieni poteri al Comitato Centrale.

 

La vera forza antagonista ai 21 punti e, per quanto disperata, alla scissione era rappresentata da Serrati e dalla sua frazione, che fu nei numeri, come anticipato, maggioritaria a Livorno. Serrati aveva nel 1921 quarantasette anni, era un politico esperto, un uomo di principio, onesto, ne aveva viste di “cotte e di crude” sia in patria che fuori. Nel 1921 la sua vita vissuta sarebbe già stata degna di un libro di avventure ed effettivamente nel 1919 una breve biografia gli venne dedicata. Prese in consegna la direzione de L’Avanti! dopo la cacciata di Mussolini, che Serrati conosceva molto bene, dai tempi della Svizzera del 1904. Serrati fu infatti uno dei primi a denunciarne la deriva. Serrati era un convinto antimilitarista e fu sempre nelle file dei rivoluzionari, fece parte della “Frazione Rivoluzionaria Intransigente” che ruotava attorno a La Soffitta. Titolo che, nel 1911, riprendeva polemicamente la sferzata ironica che Giolitti stesso aveva dato ai riformisti di destra, Bissolati e compagnia, commentando la loro collaborazione col governo, non prima di aver «riposto Marx in soffitta», appunto. Nella frazione degli intransigenti de La Soffitta vi erano socialisti del calibro di Costantino Lazzari, Francesco Ciccotti, Giovanni Lerda e Angelica Balabanoff.

 

È interessante notare che subito dopo la conferenza di Lugano, che voleva essere preparatoria a quella di Zimmerwald, Serrati ricevette nell’ottobre del 1914 una lettera di Lenin: Agli italiani, ovvero un appello per «un’azione energetica, positiva, immediata contro la guerra ... mediante l’azione rivoluzionaria», ovvero un’anticipazione della sua posizione a Zimmerwald e Kienthal. Durante questo periodo di neutralità Serrati si batté come direttore de L’Avanti! nel respingere una campagna diffamatoria dei social-patrioti francesi, quali, per esempio, Gustave Hervé (il Mussolini francese). Come sottolineato da Ragionieri, a Zimmerwald salta all’occhio la perdita progressiva di peso del socialismo italiano in campo internazionale. Anche se il successo della Rivoluzione d’Ottobre probabilmente ne fu il colpo di grazia. È noto che Serrati si avvicinerà alle posizioni di Lenin un anno dopo, a Kienthal. Quindi già a Kienthal i principali esponenti intransigenti del PSI erano a favore dell’entrata in una nuova Internazionale, il cui Congresso costitutivo sarebbe stato poi improvvisato in fretta e furia solo nel marzo di tre anni dopo.  

 

Serrati aderì al mito della Rivoluzione Russa d’Ottobre, senza aderire al pensiero leninista. Un aneddoto colorito è di Serrati che nel tradurre dal francese il discorso di Goldenberg, membro della delegazione dei rivoluzionari russi del Governo Kerenskij, nell’agosto del 1917 a Torino (lì col permesso del ministro Orlando) per parlare in favore della continuazione dell’impegno bellico russo a fianco dell’Intesa, invece infiamma la folla, secondo alcuni travisando il discorso originale, affermando che anche la Russia vuole la pace, inneggiando alla vittoria della Rivoluzione Russa. Tale discorso gli costerà poi il carcere nel 1918, fino al febbraio del 1919.  Il Serrati dichiarerà invece che, non vi fu nessun discorso incendiario ma, che il suo arresto fu manovrato dal Governo una volta che questo si era reso conto che i socialisti italiani non si erano fatti conquistare dalle sue lusinghe non aderendo alla linea del Governo Kerenskij a favore dello sforzo bellico di Italia e Russia contro Austria e Germania.   È emblematico vedere la passione e la fede che egli riponeva nella rivoluzione internazionale. Serrati mostrò una certa prudenza e realismo nei riguardi di un’incombente rivoluzione in Italia, già nel 1917, che poi nel 1920, per non parlare dell’effetto fatto su tutti i rivoluzionari dalle due sconfitte-chiave del 1919, in Germania e in Ungheria.

 

Personalmente Serrati nutriva un profondo rispetto per Turati, lo considerava un po’ come il Jean Jaurès italiano «con un zinzino di superficiale scetticismo». Da queste considerazioni si può capire perché non fosse pronto a “pugnalalo alla schiena”. Serrati però aveva constatato la sterzata patriottico-unitaria dei vari Treves e Turati al grido di «Al Montegrappa è la patria», sicché contemplò anch’egli la possibilità di una scissione nella primavera del 1918. La ragione per la quale Serrati non si sentì di epurare i riformisti è razionale, va trovata nella struttura del consenso del PSI. Come già menzionato, il Gruppo Parlamentare, che era pressoché sempre stato a maggioranza riformista, basava il suo consenso sulle cooperative, i comuni socialisti, le leghe operaie e contadine e i sindacati confederali. Nel 1919 il consenso elettorale del PSI fu il più grande mai visto, raddoppiando i propri voti e passando così al 32.4%. Per Serrati escludere i riformisti avrebbe voluto dire indebolire il Partito perdendo una grande fetta di consenso. Nel maggio del 1921 si tennero le elezioni e il PSI perse circa l’8%, mentre ai comunisti andò il 4%. Considerando le chiare tendenze astensioniste di molti vertici del Partito Comunista d’Italia, non si deve dare troppo credito alla percentuale, ma è comprensibile come un danno molto maggiore sarebbe potuto venire al PSI dalla perdita dei riformisti. Col senno di poi è facile considerare questi ragionamenti come inutili di fronte alla reazione fascista. Non per niente ben più grave è il patto di pacificazione tra PSI e fascisti tentato nell’agosto del 1921. Nel discorso di Bordiga a Livorno, che precedette proprio quello di Serrati, il primo lucidamente colse questo aspetto: le istituzioni operaie descritte sopra, che se nelle mani del Partito, potevano essere rivoluzionarie altrimenti diventano strumenti controrivoluzionari.

 

L’ironia della sorte vuole che a Bologna, al XVI Congresso, la posizione rivoluzionaria elezionista’ prevalse su quella astensionista di Bordiga. Lenin si mostrò apertamente a favore di Serrati, su questo punto e lo scrisse molto chiaramente anche su L’Estremismo. Serrati, che pur aveva contemplato la scissione nel 1918, quando sarebbe stata da tutti i punti di vista prematura, ora, nell’estate del 1920, era (contro Lenin e Bordiga) per l’unità, anticipando per altro la politica del Fronte Unico. Serrati, in merito al problema dell’organizzazione, si pone contro i Consigli di Fabbrica come elemento rivoluzionario inimicandosi anche Gramsci e gli Ordinovisti. Bordiga e Lenin non avrebbero dato torto a Serrati su questo punto. Ora è ironico che tre punti totalmente condivisibili, ovvero: (i) non precludersi lo strumento elettorale come strumento di lotta; (ii) non credere nella minaccia portata dalla presenza dei riformisti italiani, dato che poi l’ordine di Mosca sarebbe stato, già a giugno del 1921, quello di fare il Fronte Unico; infine (iii) non credere ai Consigli di Fabbrica come le cellule costitutive della rivoluzione italiana, crearono il perfetto capro espiatorio di Livorno in Serrati.

 

Un’osservazione molto interessante viene riportata dalla Balabanoff in merito all’atteggiamento di Lenin nei confronti dei socialisti intransigenti e di Serrati che li rappresentava. Dopo la vittoria elettorale del PSI del 1919, Lenin scrive una lettera di congratulazioni dove conclude: «Non fatevi provocare. Evitate moti rivoluzionari prematuri». La Balabanoff telefona subito a Lenin avvisandolo che questa è esattamente la posizione dei riformisti. Lenin ritenne di non dover cambiare nulla di ciò in quanto credeva, giustamente, che con una sommossa rivoluzionaria in Italia, si sarebbe potuta delineare una seconda Ungheria. Ora la Balabanoff correttamente osserva che mentre privatamente i bolscevichi consigliavano prudenza a Serrati, allo stesso momento attaccavano i riformisti e il Serrati stesso, che non li voleva espellere, per la mancata rivoluzione proprio nel settembre del 1920.

 

Altro saggio del machiavellismo bolscevico fu il caso di Paul Levi, il quale in un anno passa da salutare i delegati al Congresso di Livorno in veste di segretario della v-KPD, dove è per la formazione del PCd’I espellendo i riformisti (ma non è per la scissione), a perdere la leadership del v-KPD proprio per la sua posizione contro la scissione di Livorno. Critica poi il “Putsch di Marzo”, che fallirà miseramente, viene quindi espulso dalla Terza Internazionale proprio per il modo con il quale aveva criticato l’azione di marzo. Le stesse posizioni di Levi le prese però effettivamente Lenin dopo il putsch. Il fallimento della teoria dell’offensiva con l’azione di marzo porterà la Terza Internazionale verso il Fronte Unico che, con buona pace di Bordiga, significava riunirsi con i socialisti, come scritto da Lenin, Trotsky, Zinoviev, Radek e Bukharin nella lettera del 24 novembre del 1922.

 

In conclusione, è chiaro che vi fossero dalla sua nascita nel 1892, correnti e fazioni che tendevano periodicamente a rompere l’unità del PSI: la divisione con gli anarchici, molto forti in Italia a fine Ottocento, la scissione dei sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola nel 1907 e l’epurazione dei socialisti riformisti unitari di Bissolati. Turati, il quale mai si volle imporre come capo e/o come segretario del Partito, abituato alle frizioni interne, ebbe però un atteggiamento paternalista. Egli trattò i comunisti puri come gli anarchici di trent’anni prima. Serrati è una figura che sicuramente deve essere rivalutata. Credette da subito nella necessità di una nuova Internazionale, ma non si schierò mai nettamente contro la Seconda Internazionale, pur combattendo con coerenza il riformismo. Fu adulato e calunniato dai bolscevichi, strapazzato dai comunisti puri, incarcerato dal governo, ma fu amato dalle masse, sicuramente, proprio fino al 1921. Serrati si precipitò in Italia durante le occupazioni delle fabbriche del 1920 e si rese conto che le condizioni rivoluzionarie non vi erano, come si legge in una sua lettera a Jaques Mesnil «Mentre tutti parlavano di rivoluzione, nessuno la preparava (…). La famosa occupazione delle fabbriche, che fu un atto sindacale compiuto in concomitanza di interessi colla borghesia giolittiana, fu interpretata come una decisa azione rivoluzionaria e non era invece che un aspetto (…). Ora la borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde e morde sodo. Si difende accanitamente, quasi prima dell’attacco». Seguì del resto il consiglio di Lenin di non fare passi falsi. Bordiga, vero protagonista e forza determinante della scissione di Livorno, era destinato già dal III Congresso della Terza Internazionale a diventare lui il capro espiatorio degli insuccessi dei comunisti contro i fascisti, in quanto rifiutava di piegarsi al Fronte Unico. Il silenzioso Gramsci, secondo Togliatti a causa della mancanza di mezzi per amplificare la sua voce, a Livorno si allineò e successivamente allineò il partito comunista sempre di più portandolo alla sua totale bolscevizzazione nel 1926 a Lione. Ironia della sorte vuole che nel XIX Congresso nell’ottobre del 1922, poco più di un anno e mezzo dopo Livorno, vi fu l’espulsione dei riformisti dal PSI, ma ancora più ironico è il fatto che il PSI non entrò nella Terza Internazionale.

La classe lavoratrice in Italia, ma come nel resto del mondo, non era pronta per una rivoluzione socialista nel 1920 e non lo era nemmeno nel 1921. I riformisti italiani su questo avevano ragione e furono perseguitati. Ciò non toglie che il loro modello gradualista di collaborazione, che aveva mostrato tutti i suoi limiti già dal 1901, giunse fino alla farsa della Prima Repubblica (1948-1994), dove ormai anche il “partitone” nazional-comunista era diventato a tutti gli effetti un ingranaggio nella grande macchina capitalista, ovvero un mero partito riformista.  

 

Cesco

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