Lezioni dall’autogestione jugoslava

 

Immagine di lavoratori jugoslavi in durante la costruzione di un mulino nei pressi di Titovo Užice (oggi Užice in Serbia) nel 1964.







- Grandezza e limiti di un esperimento socialista -






  1. Introduzione, ovvero il senso dell’autogestione jugoslava dopo le guerre di Bosnia e del Kossovo



Ancora più che nel caso dell’URSS o della DDR (Deutsche Demokratische Republik), sulla Jugoslavia della seconda metà del XX secolo è sceso veramente l’oblio a seguito della dissoluzione di questo Paese in concomitanza con le due celebri guerre, quella di Bosnia (1992-1995) e quella del Kossovo (1998-1999). Semmai, ma questa è una peculiarità italiana, a partire dal 2004 ogni 10 di febbraio, durante il cosiddetto “Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, non viene persa mai l’occasione per dipingere a tinte fosche l’”Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia”, il suo leader Josip Broz “Tito” e, in generale, l’intera compagine statale jugoslava uscita dalla lotta al nazi-fascismo. Il tutto in genere condito da larghe dosi di amnesia circa l’aggressione fascista al Regno di Jugoslavia (aprile 1941) e i numerosi crimini di guerra perpetrati dal Regio Esercito Italiano in Slovenia, Dalmazia e Montenegro fino al settembre del 1943. Ma tant’è, proprio questo è il succo del revisionismo storico: enfatizzare selettivamente alcuni eventi e dimenticarne, sempre selettivamente, altri. La contabilità delle vittime, sia militari che civili, è sempre una ragioneria ripugnante, ma come confrontare onestamente i 3.000-5.000 morti italiani nelle foibe [1] e i 250.000-300.000 esuli giuliano-dalmati [1] con il carnaio delle vittime della II guerra mondiale in Jugoslavia, compreso tra 947.000 e 1,8 milioni, secondo le stime dei vari storici [2]? Lo ripetiamo con il rischio di diventare noiosi: la decisione di portare la guerra al neutrale Regno di Jugoslavia va divisa equamente tra la Germania nazista e l’Italia fascista (insieme a una partecipazione marginale di Ungheria e Bulgaria), con l’aggravante per la seconda di averla caldeggiata e preparata già da più di un decennio, per esempio foraggiando in molti modi il movimento indipendentista croato degli Ustaše e i guerriglieri macedoni della VMRO (Vnatrešna Makedonska Revolucionerna Organizacija).


Eppure, non è sempre stato così. A partire dalla metà degli anni ‘60 del XX secolo, con la fine dell’era Kruščëv in URSS in cui addirittura il comunismo sembrava un obiettivo facilmente raggiungibile, una certa sfiducia per il modello sovietico cominciò a serpeggiare tra gli intellettuali marxisti occidentali. Il “collettivismo burocratico” (come lo definì Bruno Rizzi nel 1967 [3]) dell’epoca di Brežnev si palesava ormai a tutti come un sistema stagnante e claustrofobico, incapace di costruire il socialismo in modo efficace completando così quella transizione che moltissimi marxisti andavano attendendo almeno dalla nascita dell’URSS il 30 di dicembre del 1922. Così, la maggior parte di essi si volse verso la Repubblica Popolare Cinese dove, già nel 1966, era iniziato il decennio della Grande Rivoluzione Culturale [4]. Essa fu intesa in effetti in modo duplice ma alternativo: da un lato l’incarnazione della rivoluzione antiburocratica auspicata da Lev D. Trockij, capace di riportare il potere nelle mani della classe lavoratrice cinese, dall’altra la reazione dell’autentica dirigenza marxista-leninista alla deriva “revisionista” mondiale capeggiata dall’URSS e in cerca di un facile accomodamento con l’odiato “imperialismo occidentale”.


Tuttavia, vi fu pure un’altra frangia, certamente minoritaria e variegata ma forse intellettualmente più attrezzata della precedente, che guardò alla Jugoslavia di Tito e di Edvard Kardelj come a un paese-modello per la costruzione del socialismo mediante un approccio di mercato non riformista e interamente basato sul lavoro cooperativo autogestito. In alcune realtà, come ad esempio in Francia dove la forte eredità proudhoniana aveva mantenuto viva a lungo la fiamma del mutualismo socialista, tale interesse fu in effetti alquanto esteso dipanandosi dalla “deuxième gauche” socialdemocratica del Parti Socialiste Unifié fino ai neo-consiliaristi di Socialisme ou Barbarie [5]. È proprio di questa esperienza che vogliamo parlare in modo semplice e divulgativo [6], cercando alla fine dell’articolo di dimostrare come l’autogestione non fu affatto la causa della dissoluzione della Jugoslavia nei gorghi del nazionalismo, ma, all’opposto, fu il fallimento, tutto politico, imposto al modello economico autogestionario a causare la tragica fine di questa sfortunata nazione. In altri termini, furono le scelte politiche fatte dal partito al potere, la “Lega dei Comunisti di Jugoslavia” (Savez Komunista Jugoslavije - SKJ), a strozzare gradualmente l’autogestione, poiché da un lato esse furono ancora troppo influenzate da un certo leninismo autoritario (benché assai meno invasivo di quello degli altri paesi dell’Europa Orientale), ma dall’altro lato si rivelarono eccessivamente prone alle mai sopite rivalità interetniche e al disegno egemonico occidentale.





  1. L’antefatto storico del secondo dopoguerra


Alla fine della II Guerra mondiale nei Balcani, nella primavera del 1945, il Partito Comunista Jugoslavo (Komunistička Partija Jugoslavije - KPJ) si adoperò per ampliare la base del suo sostegno e per indebolire i suoi avversari politici. Poiché i politici appartenenti al governo monarchico in esilio rientrarono in Jugoslavia solo nel marzo del 1945 e l’influente Vladko Maček decise prudentemente di rimanere all’estero, non esisteva in quel periodo un’opposizione politica alla KPJ che fosse ben organizzata. Nell’autunno del 1945 fu formato il “Fronte Popolare della Jugoslavia” (Narodni Front Jugoslavije - NFJ), nominalmente una coalizione di quasi tutti i partiti politici antifascisti del Paese. Un’eccezione degna di nota fu quella del Partito Democratico di Milan Grol, accusato di nazionalismo serbo e quindi respinto dall’NFJ. Oltre alla KPJ, l’NFJ comprendeva diversi raggruppamenti più moderati, generalmente deboli e scarsamente organizzati: il Partito Repubblicano Jugoslavo, il Partito Democratico Indipendente, l’Unione degli Agricoltori, il Partito Socialista Democratico Jugoslavo (JSDS), il Partito Contadino Repubblicano Croato (Hrvatska Republikanska Seljačka Stranka - HRSS), e un nucleo di politici organizzati come gruppo “Avanti” (“Napred”) [7]. Mentre i partiti non comunisti dell’NFJ speravano in un trattamento di parità secondo l’idea prebellica dei Fronti Popolari francesi e spagnoli, Tito vedeva l’NFJ essenzialmente come uno strumento per neutralizzare (o comunque depotenziare) l’opposizione politica legandola strettamente alla KPJ. Infatti, a causa della debolezza dei partiti non comunisti dell’NFJ, la KPJ dominò facilmente tale raggruppamento.


In vista delle elezioni del novembre 1945, il governo provvisorio antifascista, detto AVNOJ (Antifašističko Vijeće Narodnog Oslobođenja Jugoslavije) fu ampliato con l’aggiunta di alcuni membri del parlamento prebellico non compromessi dalla collaborazione con le potenze dell’Asse (ossia, Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria), principalmente ex-politici liberali e di sinistra. Nell’estate del 1945 i diritti civili erano già stati limitati con l’introduzione di una nuova legislazione sui crimini contro il popolo e contro lo Stato, la quale ridusse il diritto di riunione e la libertà di stampa. Nel frattempo, i livelli medi e bassi della burocrazia venivano rinforzati con impiegati provenienti dalle file degli ex-partigiani, in genere fedeli alla KPJ. In seguito alla proclamazione del boicottaggio delle elezioni da parte dei “Democratici” di Grol, le votazioni si svolsero come una sorta di referendum, con un voto a favore oppure contro l’NFJ. La lista dell’NFJ ricevette i maggiori consensi in Croazia, dove la HRSS si era allineata alla KPJ (cioè l’81% dei voti), seguita dalla Slovenia (con il 78% dei voti), nonostante la mancata partecipazione dei partiti regionali prebellici alla lista dell’NFJ, mentre minori consensi furono raccolti in Serbia (con solo il 67% dei voti). Quest’ultimo risultato fu attribuito in parte alla forte tradizione monarchica serba e in parte al boicottaggio da parte dei seguaci di Milan Grol. Alla fine, complessivamente, votò l’88,43% degli aventi diritto e il NFJ venne sostenuto dall’88,69% dei voti validi. Si era trattato di un suffragio universale per tutti i maggiorenni (comprese per la prima volta anche le donne), ad eccezione di coloro che erano stati accusati di collaborazione con le potenze dell’Asse. Gli ex-partigiani però potevano votare anche se minori di 18 anni. La KPJ ottenne 404 rappresentanti su 524 (circa il 77%) nell’Assemblea costituente bicamerale della nuova Jugoslavia [7]. Secondo lo storico e politologo Aleksa Đilas [8] ciò fu assai di più di quanto la KPJ si aspettava di ottenere in una competizione in cui si fosse presentata da sola, ossia il 60-65%, cifra basata realisticamente su una propaganda capillare che batteva sulla convinzione che i comunisti offrissero l’opportunità di vivere in pace insieme a una giusta riforma agraria, nonché sull’orgoglio e l’euforia di un paese che si era liberato da solo dai tedeschi senza attendere l’intervento esterno dei sovietici (come la Polonia e la Cecoslovacchia) o degli Alleati (come la Francia e l’Italia). Nel 1946 la nuova assemblea parlamentare approvò una Costituzione repubblicana che attuava il federalismo etnico, come soluzione alla spinosa questione nazionale, sul modello dell’Unione Sovietica. Nel 1947 la KPJ dichiarò che il suo programma era il programma dell’NFJ e che la KPJ sarebbe stata l’avanguardia dell’NFJ. Tito spiegava in quel periodo il crollo della Jugoslavia prebellica con il caos politico introdotto dal sistema multipartitico, preparandosi così a giustificare l’inevitabile soppressione dei partiti di opposizione nel contesto politico postbellico jugoslavo. In effetti, all’epoca la sua visione era totalmente leninista e quindi un sistema multipartitico gli sembrava del tutto incompatibile con l’ordine socialista e, dato che quest’ultimo era lo scopo della KPJ, assolutamente non necessario. Nell’ottobre del 1948, ai quattro partiti comunisti federati già esistenti (sloveno, croato, serbo e macedone) se ne aggiunsero altri due: il Partito Comunista di Bosnia ed Erzegovina, nonché il Partito Comunista del Montenegro.

Gli obiettivi della politica estera sovietica portarono gradualmente l’URSS a confliggere con la KPJ. I loro rapporti furono abbastanza complicati già nel periodo aprile-giugno 1941 per il fatto che la KPJ conduceva una resistenza armata contro le truppe dell’Asse che avevano invaso il Regno di Jugoslavia, mentre le relazioni sovietiche con la Germania erano vincolate alla cordialità dalle disposizioni del patto Ribbentrop-Molotov, in vigore fino all’inizio dell’Operazione Barbarossa. Successivamente altre tensioni vennero causate dall’avvicinamento dell’URSS agli Alleati occidentali, i quali riconoscevano e sostenevano il governo monarchico jugoslavo in esilio, e ciò durò almeno fino al celebre accordo Tito-Šubašić (nel giugno del 1944), quando il favore degli inglesi abbandonò Ivan Šubašić, Draža Mihajlović e il giovane re Pietro II per volgersi verso i partigiani di Tito. Dopo la guerra, poiché la Jugoslavia non rientrava pienamente nella sfera d’influenza sovietica definita a Jalta, Tito perseguì una politica estera autonoma e spregiudicata volta a integrare l’Albania nella federazione jugoslava, a sostenere la guerriglia comunista greca e ad ampliare i legami tra la Jugoslavia e la Bulgaria, con la possibilità di unificare i due Paesi slavo-meridionali. La conclusione dell’accordo di Bled (agosto del 1947) tra Tito e il leader bulgaro Georgi Dimitrov, che mirava a stringere stretti legami federali tra Jugoslavia e Bulgaria, e l’imminente dispiegamento dell’esercito jugoslavo in Albania, furono i due episodi che fecero esplodere lo scontro politico tra la KPJ e l’URSS. Tale scontro culminò nella rottura completa tra Tito e Stalin e così la KPJ il 28 giugno del 1948 venne espulsa dal Cominform (un’organizzazione internazionale che riunì i partiti comunisti di vari Paesi europei dal 1947 al 1956). Per ragioni politiche tipiche dell’ideologia leninista, la frattura fu presentata come prettamente ideologica (piuttosto che geopolitica) mediante una risoluzione che avvertiva la Jugoslavia di essere sulla via del ritorno al capitalismo borghese a causa delle sue posizioni nazionaliste e indipendentiste, accusando la KPJ stessa di essere divenuta “trotskista”. La KPJ reagì inizialmente alle critiche di Stalin adottando drastiche misure correttive nel campo della collettivizzazione che vari autori hanno descritto come più staliniste di quelle impiegate da Stalin stesso nell’URSS durante il famigerato periodo 1928-40 [8,9]. Era iniziata la difficile, ma importante, stagione detta “periodo dell’Informbiro” (nome serbo-croato del Cominform) che durerà fino al 1955.


In un primo momento il partito comunista jugoslavo rispose alle misure del Cominform con gesti abbastanza concilianti. I ritratti di Stalin, Marx, Engels e Tito vennero appesi l’uno accanto all’altro al quinto congresso della KJP nel luglio del 1948 e i delegati fecero solenni promesse di sostegno a Stalin e all’Unione Sovietica [7,8]. In un lungo e accorato discorso, Tito confutò le accuse sovietiche alla Jugoslavia, ma si astenne dall’attaccare direttamente Stalin. La grande maggioranza degli jugoslavi sosteneva Tito e la stampa nazionale pubblicizzò ampiamente gli attacchi sovietici: Mosca si appellava continuamente alla “lealtà comunista e antiimperialista”, ma nella pratica i suoi appelli erano vanificati dalle nuove e gratuite affermazioni dei suoi leader secondo le quali era stata l’Armata Rossa guidata dal generale Ivan S. Konev a liberare la Jugoslavia dal fascismo. Questo minimizzava il ruolo dell’esercito partigiano di liberazione ed era quindi offensivo e inaccettabile per il Paese. Alcuni comunisti jugoslavi di spicco disertarono passando al Cominform e questo innescò un clima pesante di “accerchiamento”, cosicché per cinque anni (1948-1953) il regime imprigionò migliaia di veri (o sospetti) comunisti filosovietici, sia jugoslavi che stranieri. In realtà, almeno esteriormente, la dirigenza jugoslava si era sforzata di dimostrare la sua fedeltà a Stalin anche dopo il 1948. Rispondeva alle critiche di Mosca sostenendo la politica estera sovietica e, come si è visto, attuando ulteriori misure economiche staliniane nelle campagne: nel 1949 il governo jugoslavo iniziò a collettivizzare l’agricoltura [9] e nei due anni successivi utilizzò un approccio basato sul “bastone e la carota” per indurre circa 2 milioni di contadini ad aderire alle 6.900 fattorie collettive. Tale azione, esattamente come previsto da Nikolaj I. Bucharin nel 1928 in URSS, causò una forte diminuzione della produzione agricola e, inoltre, l’uso della coercizione erose il sostegno al governo da parte del mondo agricolo. La resistenza dei contadini e la siccità del 1950, che minacciò di portare la fame nelle città, bloccarono presto la collettivizzazione, dimostrando come Tito fosse un uomo politico molto più realista e avveduto di Stalin e di Mao che, rispettivamente con la “Collettivizzazione Forzata” (1928-1940) e il “Grande Balzo in Avanti” (1958-1961), provocarono indirettamente centinaia di migliaia di vittime. Così nel 1951 il governo annunciò la cancellazione del programma di collettivizzazione rurale [9].


Dal punto di vista internazionale nel 1949 la Jugoslavia rimase isolata. Le relazioni con l’Occidente peggiorarono a causa dell’aspra disputa con l’Italia per il territorio di Trieste, del rifiuto del regime di risarcire gli stranieri per le proprietà nazionalizzate, del continuo sostegno jugoslavo ai comunisti in Grecia e per altre questioni. I governi dell’URSS e dei paesi dell’Europa Orientale lanciarono un blocco economico contro la Jugoslavia, escludendola dal Consiglio per la Mutua Assistenza Economica (COMECON). I sovietici fecero una dura propaganda contro il “rinnegato trotzkista” Tito con speciali trasmissioni radio in serbo-croato, tentando di sovvertire le organizzazioni di partito jugoslave e cercando di fomentare disordini tra le minoranze ungheresi e albanesi della Serbia [7]. I movimenti di truppe e gli incidenti ai confini con Ungheria e Bulgaria convinsero i leader jugoslavi dell’imminenza di un’invasione da parte del blocco sovietico che richiedeva cambiamenti fondamentali nella politica estera del paese. Nel luglio 1949, per riannodare i rapporti con la Gran Bretagna, Tito chiuse il confine greco-jugoslavo e smise di rifornire i partigiani greci filocomunisti, mentre in agosto i voti jugoslavi alle Nazioni Unite iniziarono ad allontanarsi dalla linea sovietica. Accogliendo con favore la rottura jugoslavo-sovietica, l’Occidente iniziò nel 1949 un flusso di aiuti economici che salvò il Paese dalla carestia del 1950 e coprì gran parte del suo deficit commerciale per tutto il decennio successivo. Gli Stati Uniti iniziarono addirittura a spedire armi alla Jugoslavia nel 1951, concludendo nel 1953 un accordo di sicurezza militare, ma le potenze occidentali non riuscirono mai a far entrare la Jugoslavia nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). La complessa questione di Trieste venne risolta “de facto” nel 1954: l’Italia ottenne dagli Alleati il controllo della zona “A” di Trieste (l’area urbana), mentre il controllo della zona “B” (il circondario) rimase alla Jugoslavia.



  1. La nascita dell’autogestione


Di fronte alla stagnazione economica, all’embargo commerciale del COMECON, al calo di popolarità e a un sistema economico disfunzionale di tipo sovietico, i leader jugoslavi tornarono al cuore della loro filosofia politica, ossia agli scritti di Marx ed Engels. Il loro obiettivo era quello di ridare lustro all’ideologia socialista e di gettare le basi per un nuovo meccanismo economico chiamato “socialismo autogestito” (samoupravni socijalizam) o “autogestione dei lavoratori” (radničko samoupravljanje). Nel 1949 nelle imprese furono formati embrioni di consigli operai e nel 1950-1951 l’Assemblea Nazionale Jugoslava promulgò varie leggi per la piena attuazione del sistema. Come primo atto il 26 giugno 1950 l’assemblea approvò un testo fondamentale, scritto dagli stessi Tito e Milovan Đilas, sull’autogestione [8]. Tutti questi decreti sostituirono la proprietà statale dei mezzi di produzione con la proprietà sociale, affidandone le responsabilità di gestione ai lavoratori stessi di ogni impresa. Le leggi sull’autogestione conferivano ai consigli dei lavoratori delle imprese il potere di fissare obiettivi produttivi di massima e di supervisionare le finanze aziendali, ma i direttori nominati dal governo mantenevano il potere di veto sulle decisioni dei consigli. Il governo aveva anche riformato la pianificazione economica e lasciato che alcuni prezzi fluttuassero in base alla domanda e all’offerta, ma il commercio estero rimase sotto il controllo centrale.


La sostituzione dell’economia di comando con un sistema di autogestione richiese al partito comunista di allentare il suo controllo sui processi decisionali pubblici. Nel clima di lotta contro i “cominformisti” e di introduzione dell’autogestione, nel novembre del 1952 fu tenuto a Zagabria il Sesto Congresso della KPJ [7], la quale decise di cambiare nome in “Lega dei Comunisti di Jugoslavia”, in memoria delle prime esperienze politiche di Marx ed Engels, per segnalare una rottura con il passato stalinista e una revisione del suo ruolo-guida nella vita politica del Paese. Il congresso dichiarò anche che il partito si sarebbe separato strutturalmente dallo Stato. Invece di dirigere il governo e l’attività economica, il partito avrebbe dovuto influenzare il processo decisionale democratico attraverso l’educazione, la propaganda e la partecipazione dei singoli comunisti alle istituzioni politiche, ai consigli dei lavoratori e ad altre organizzazioni. Il libero dibattito all’interno del partito avrebbe determinato la politica dello stesso partito, ma una volta che questo avesse preso una decisione finale, il principio del centralismo democratico avrebbe vincolato tutti i membri a sostenerla. Tuttavia, nella pratica, rifiutando il pluralismo multipartitico, la Lega dei Comunisti mantenne il monopolio dell’organizzazione politica. Tre mesi dopo il congresso, l’NFJ divenne l’Alleanza Socialista dei Lavoratori di Jugoslavia (Socijalistički Savez Radnog Naroda Jugoslavije - SSRNJ), un’organizzazione-ombrello attraverso la quale il partito avrebbe mantenuto questo monopolio. Inoltre, singoli dirigenti e quadri comunisti continuarono a occupare i posti chiave nel governo e nella gestione delle imprese.


Nel 1953 l’Assemblea Nazionale Jugoslava emendò praticamente l’intera costituzione del 1946 per conformarla alle nuove leggi sull’autogestione operaia. Come risultato, il 13 gennaio 1953 la legge sull’autogestione venne posta come base dell’intero ordine sociale della Jugoslavia. A livello federale, gli emendamenti crearono un Consiglio Esecutivo Federale di natura amministrativa e riorganizzarono l’Assemblea Nazionale Jugoslava. Tali emendamenti ridussero anche la già scarsa autonomia politica delle singole repubbliche, mentre i governi locali mantennero effettivamente un certo potere in materia economica e sociale.


Nel marzo 1953 il governo jugoslavo iniziò a sciogliere sia le aziende agricole collettive (simili ai kolchozy sovietici) che quelle statali (simili ai sovchozy sovietici) [9]. Due terzi dei contadini abbandonarono le strutture collettive nel giro di nove mesi cosicché la quota “socializzata” (ossia statale o collettiva) di proprietà della terra scese dal 25% al 9% nel giro di tre anni. Nel tentativo di mitigare il problema della mancanza di terra per i contadini, il governo ridusse il limite legale delle proprietà individuali da 25-35 ettari di terra coltivabile a soli 10 ettari. Questa restrizione sarebbe rimasta in vigore per oltre trent’anni e avrebbe rallentato lo sviluppo delle aziende agricole familiari economicamente più efficienti. Il governo eliminò anche il sistema delle consegne obbligatorie di prodotti agricoli, fissò le tasse in anticipo, incoraggiò i contadini a unirsi in cooperative di acquisto e di commercializzazione ed inoltre aumentò gli investimenti nel settore agricolo. Di conseguenza, la produzione agricola jugoslava crebbe costantemente per tutti gli anni ‘50 e le aziende agricole registrarono raccolti record nel 1958 e nel 1959. Anche se Tito non volle ammetterlo mai apertamente per non destare scandalo nella galassia marxista-leninista, la sua politica agricola era, né più né meno, quella della seconda NEP di Bucharin [10]. La Jugoslavia continuò a concentrarsi sullo sviluppo industriale per tutti gli anni ‘50, anche in virtù del nuovo approccio del governo alla pianificazione economica e alla gestione delle imprese. Il settore industriale ebbe un boom dopo il 1953: le esportazioni manifatturiere raddoppiarono tra il 1954 e il 1960 e il Paese registrò il secondo tasso di crescita economica più alto al mondo tra il 1957 e il 1960 [7].


Le condizioni di vita, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la vita culturale migliorarono notevolmente sulla scia delle riforme economiche e politiche. A metà degli anni ‘50, il governo cominciò a riorientare gli investimenti verso la produzione di beni di consumo e i prodotti stranieri diventarono ampiamente disponibili. Il regime allentò anche le restrizioni religiose, permise un certo grado di critica da parte dell’opinione pubblica, limitò gli abusi e i privilegi dei funzionari di partito e ridusse i poteri della polizia politica. Le restrizioni sui viaggi all’estero si attenuarono e gli jugoslavi ottennero un maggiore accesso alla letteratura e alle idee occidentali. Gli artisti abbandonarono il tetro “realismo socialista” per sperimentare l’astrattismo e altri stili. I registi e gli scrittori, tra cui il premio Nobel Ivo Andrić, produssero opere di prim’ordine. Ma ancora nel 1953 la liberalizzazione era in Jugoslavia un fenomeno disomogeneo e variegato. In quell’anno, una riunione dei leader del partito nelle isole dalmate di Brioni, nell’Adriatico settentrionale, decise di rafforzare la disciplina nel partito, tra le crescenti preoccupazioni per l’apatia che aveva contagiato gli iscritti dopo il Sesto Congresso del 1952. Negli anni successivi, lo SKJ rafforzò il centralismo democratico, istituì organizzazioni di base nelle fabbriche, nelle università e in altre istituzioni, eliminò dai registri i membri inattivi e adottò altre misure per migliorare la disciplina interna.


Tuttavia, Milovan Đilas, uno dei più stretti collaboratori di Tito, non fu completamente d’accordo con le decisioni di Brioni. In una serie di articoli pubblicati sulla stampa estera, criticò la leadership del partito per aver soffocato il dibattito democratico all’interno dell’SKJ. Denunciò anche l’elitarismo nella vita privata dei leader e suggerì che la Lega dei Comunisti cessasse di essere un partito politico monolitico. Queste critiche oltrepassarono la tolleranza di Tito e dei suoi ex compagni, i quali destituirono Đilas dai suoi incarichi e lo imprigionarono nel 1956. Nel 1957 Đilas fece pubblicare all’estero “La nuova classe” (“Nova klasa: analiza komunističkog sistema”) [11], in cui descriveva l’emergere di una nuova élite dirigente comunista che godeva di molti privilegi della vecchia borghesia capitalista. Il libro gli valse la notorietà internazionale ma, ahimè, prolungò la sua permanenza in carcere fino al 1961. La pubblicazione di “Conversazioni con Stalin” (“Razgovori sa Staljinom”) [12] nel 1962, gli valse ulteriore fama, ma anche un secondo periodo di detenzione dal 1962 fino all’amnistia del 1966. Però, ad onore del vero, va anche detto che Đilas non sarebbe mai più stato imprigionato. In effetti, egli continuò a essere un dissidente di stampo “socialdemocratico”, vivendo più o meno tranquillamente a Belgrado fino alla sua morte, avvenuta il 20 aprile 1995.



4) Come funzionava l’autogestione?


Abbiamo visto che l’autogestione jugoslava ebbe molto successo nel periodo iniziale, quando permise tassi di crescita dell’8-10% [13], e poi anche nel periodo tra il 1966 e il 1974, quando lo sviluppo economico del Paese si assestò su un valore medio di oltre il 6% all’anno. Successivamente l’autogestione venne gravemente menomata e ciò fece sì che dopo il 1975 se ne parlasse poco e male, ma la realtà fu molto diversa e, per vari aspetti, largamente positiva. Per tale ragione è opportuno soffermarsi a capire di cosa effettivamente si trattasse [14]. Abbiamo visto nel capitolo precedente come la riforma autogestionaria propriamente detta inizi con la “Legge sulla gestione delle imprese economiche statali e delle organizzazioni economiche superiori” (votata il 26 e il 27 giugno 1950 dall’Assemblea Nazionale Jugoslava) che introdusse formalmente una prima limitata versione di autogestione dei lavoratori nelle imprese. C’è da tenere a mente il fatto che nel paese la proprietà pubblica delle imprese (tranne di quelle familiari) era stata già realizzata dai governi comunisti ed era quindi un fatto compiuto nel 1952, quando si decise in maniera operativa di decentrare l’economia e di avviare praticamente l’autogestione. Però una vera e propria esperienza al riguardo si ebbe solo a partire dal 1960 o addirittura, secondo alcuni [6], con la radicale riforma del 1965.

Nel periodo iniziale (1952-1965) le imprese autogestite godettero di autonomia contabile e amministrativa, inclusa la libertà di vendere sul mercato i loro prodotti. Il sistema di pianificazione di stampo sovietico era stato rapidamente accantonato e il governo si limitava a fissare alcuni prezzi per determinati beni e a porre in atto certi interventi di politica economica tesi a orientare indirettamente le scelte aziendali. Lo strumento principe in questa fase fu il credito, suddiviso tra le varie regioni, tenendo conto in modo bilanciato dell’occupazione, ma anche della redditività delle imprese che lo ricevevano. Esse però, almeno fino ad un certo livello, potevano finanziarsi autonomamente, come pure scegliere le tecniche produttive da usare e selezionare i fornitori più convenienti. I ricavi restavano nella disponibilità delle casse aziendali, dopo, ovviamente, aver pagato una tassa e l’interesse sul capitale prestato dallo Stato, ma la loro ripartizione nei vari fondi (salari, premi, investimenti ecc.) era piuttosto rigida. Dal punto di vista dell’occupazione, assunzioni e licenziamenti erano permessi ma solo con il beneplacito dei sindacati e del Ministero del Lavoro.


Dopo il 1965 però le cose cambiarono radicalmente a seguito di un certo malcontento nella società, in particolare il sorgere di una classe di manager, che tendevano a riprodurre forme di privilegi borghesi. Affermò infatti Kardelj, proprio durante la riforma del 1965, che:


«(...) La società socialista tende a far sì che le funzioni di organizzatore del processo produttivo siano veramente “al servizio” dei produttori associati (...). Ma i conflitti di interesse, l’insufficiente sviluppo del nostro meccanismo di autogoverno e il fatto che la classe operaia è ancora relativamente giovane, con la mentalità ancora gravata della coscienza del piccolo proprietario rurale, fanno sì che le funzioni direttive nelle organizzazioni economiche acquistino (...) una grande autonomia, tanto che, in maggiore o minore misura, assumono le funzioni di rappresentante del collettivo di lavoro. In tali condizioni, accade anche più spesso e facilmente che la forza e l’autonomia del rappresentante favoriscano il soggettivismo tecnocratico, determinati raggruppamenti di interessi, tendenze e privilegi corporativistici, il soffocamento della critica, la degradazione dell’autogoverno ecc. Anche queste manifestazioni sociali creano tra gli uomini rapporti specifici che definiamo “burocratismo”» [15].


Emerge in queste parole la principale critica che lo stesso Kardelj avrebbe fatto al sistema dell’autogestione jugoslava, ovvero il sorgere, in seno alle imprese autogestite, di una “strana borghesia”, ovvero una classe di manager sempre più autoreferenziale, che tendeva a riprodurre nei suoi rapporti con i lavoratori le modalità tipiche del capitalismo manageriale. Le cause di tale deviazione sono, almeno secondo Kardelj, essenzialmente da imputare a un insufficiente sviluppo dei meccanismi di autogestione (da qui la necessità di una riforma più radicale) e a problemi di insufficiente sviluppo dell’autocoscienza dei lavoratori, con la tendenza a delegare eccessivamente.


La riforma del 1965, quindi, arriverà a delineare in modo più compiuto e avanzato il meccanismo di autogestione e può sintetizzarsi nel modo seguente. Viene ridefinita la partecipazione dei lavoratori al processo produttivo sulla base del principio del “lavoro associato”. Questo assume valore giuridico e significa, per i lavoratori, la libera associazione del proprio lavoro con mezzi di produzione di proprietà sociale all’interno di entità economiche di base: le cosiddette “Organizzazioni di base del lavoro associato” (OOUR - Osnovna Organizacija Udruženog Rada). Una OOUR corrispondeva approssimativamente a un reparto d’impresa. Essendo le OOUR le unità minime del lavoro associato, rappresentando cioè solo piccole parti dell’intero processo produttivo, esse erano obbligate a collegarsi tra loro per dare vita alle “Organizzazioni del lavoro associato” (OUR - Organizacije Udruženog Rada), ossia per formare unità produttive corrispondenti, a grandi linee, al concetto occidentale di impresa. Le OUR così costituite avrebbero dovuto presentare, per il modo originale in cui erano organizzate, una certa flessibilità e una capacità di modificare sia la propria composizione sia il proprio orientamento produttivo. L’ultimo livello d’integrazione previsto dal nuovo sistema era l’associazione di più OUR in una “Organizzazione composita del lavoro associato” (SOUR - Složena Organizacija Udruženog Rada). Quest’ultima, essendo costituita da più imprese, corrispondeva in un certo qual modo a un trust (o cartello) oppure a un consorzio produttivo vero e proprio. Le decisioni concernenti gli aspetti correnti della gestione, per esempio l’assegnazione delle posizioni professionali, le condizioni di lavoro, le priorità sociali, la distribuzione dei profitti, le assunzioni e le dimissioni, si potevano risolvere entro i confini delle OOUR. Ogni OOUR risolveva queste questioni in modo assembleare e, sempre in assemblea, ogni OOUR eleggeva un presidente con il compito di rappresentare tale OOUR nel cosiddetto Consiglio dei Lavoratori (Radnički Saviet). Il Consiglio dei Lavoratori era dunque un secondo livello decisionale, ovviamente più generale, ed era formato, oltre che da tutti i presidenti delle OOUR (per gli interessi di reparto), anche dai presidenti delle varie Commissioni, ad esempio per l’occupazione, la distribuzione del reddito, la ricerca e lo sviluppo, la casa, l’assistenza sociale ecc. (per gli interessi generali). Va però precisato che le Commissioni avevano un potere esclusivamente consultivo, con i loro rispettivi presidenti eletti per mezzo di un voto generale, mentre l’inclusione di qualsiasi lavoratore all’interno di una Commissione era libera e volontaria, ossia determinata dalle sue personali attitudini. Tuttavia, le Commissioni, pur avendo un ruolo puramente consultivo, erano assai importanti in quanto consentivano a ogni lavoratore di essere coinvolto praticamente nella gestione per ciò che riguardava la scelta delle decisioni da prendere. Oltre alle Commissioni vi erano anche i Comitati, e il Consiglio dei Lavoratori prendeva le sue decisioni sulla base delle raccomandazioni espresse sia dalle Commissioni che dai Comitati. I Comitati erano generalmente tre: 1) il Comitato Esecutivo, il più importante, la cui presidenza spettava al direttore generale (che riceveva l’incarico dal Consiglio dei Lavoratori) ed era composto dai segretari d’azienda e dai capi-dipartimento; 2) il Comitato di Gestione, strettamente legato al Comitato Esecutivo, che era composto dai dirigenti delle OOUR (i capi-reparto) eletti direttamente in assemblea da ogni singola OOUR; 3) il Comitato di Supervisione, l’organo di controllo dei lavoratori e di supervisione delle attività gestionali. I Presidenti dei Comitati, così come i membri, potevano essere eletti o direttamente con un voto generale o dal Consiglio dei Lavoratori. Dal Comitato di Supervisione dipendevano due Commissioni: la Commissione dei Reclami (a cui si rivolge l’individuo colpito ingiustamente da un’azione della collettività), eletta per mezzo di un voto generale, e la Commissione per le responsabilità di lavoro (dove, all’opposto, vengono attribuite le responsabilità nel caso che il comportamento inappropriato di un individuo abbia leso gli interessi della collettività), eletta dal Consiglio dei Lavoratori. Di norma, il direttore generale ricopriva il suo incarico per quattro anni. Tale incarico veniva assegnato dal Consiglio dei lavoratori previa presentazione di un programma di sviluppo aziendale. Quando il programma proposto veniva accettato dal Consiglio e dalle OOUR, esso diveniva una sorta di legge interna a cui tutti, dal Consiglio ai dirigenti, dovevano rimettersi, mentre il Comitato Esecutivo si assumeva la piena responsabilità della realizzazione di tale programma.

Questo sistema andava a costruire, di fatto, una programmazione dal basso, dalle OOUR fino ai livelli superiori delle aggregazioni produttive, le quali potevano in determinati casi giungere fino a rappresentare l’intero settore produttivo. Era però un sistema di tipo competitivo: le singole OOUR si facevano concorrenza fra loro, anche quando appartenevano a una medesima SOUR, con modalità parzialmente simili a quelle del capitalismo occidentale. Inoltre, è importante ricordare che il sistema delle imprese autogestite conviveva con le imprese dirette e gestite a livello statale (o della singola repubblica) e anche con imprese miste pubblico-private, dove veniva consentita una compartecipazione di determinati investitori stranieri al capitale sociale. In particolare, le imprese pubbliche erano organizzate secondo un modello dirigistico: le imprese economiche statali (DPP - Državna Privredna Preduzeća) dovevano realizzare i piani di produzione preparati, secondo una logica centralizzata, da una agenzia governativa (AOR - Agencija za Operacionalizovanje Rada). Il direttore di una DPP, al quale spettavano tutte le decisioni, rispondeva direttamente alla sua AOR di competenza, mentre tutti gli addetti, dagli operai e i tecnici fino agli impiegati e i funzionari, rispondevano direttamente al direttore. Nel 1978, su una popolazione attiva in Jugoslavia di circa 9.276.000 persone, i lavoratori dipendenti erano 5.385.000, i disoccupati 735.000 e i lavoratori autonomi (principalmente artigiani e contadini) 3.156.000, mentre gli emigrati all’estero erano circa 800.000. Ma dato che una buona parte dei dipendenti (ossia quelli impiegati in imprese statali o regionali oppure nella burocrazia pubblica) erano lavoratori comandati, i lavoratori effettivamente interessati dai processi produttivi autogestiti erano ancora una minoranza della popolazione attiva, approssimativamente compresa tra i 2.500.000 e i 3.000.000.


Fin qui abbiamo visto l’aspetto gestionale-organizzativo delle imprese autogestite successivo alla riforma del 1965 [14], ma per il nostro intento è forse più interessante presentare brevemente il lato economico [6] di tale realtà. I tre punti veramente notevoli che caratterizzarono il socialismo di mercato jugoslavo di quegli anni furono: (i) la liberalizzazione dei prezzi dei prodotti mediante l’eliminazione della maggior parte delle restrizioni precedentemente imposte alle imprese in quest’ambito. (ii) L’ampia discrezionalità nel disporre dei profitti aziendali, sicché i lavoratori furono più liberi di fissare le loro retribuzioni. Questo generò una sana tendenza su scala nazionale al convergere dei salari più bassi verso quelli più alti. (iii) La libertà delle imprese di scegliere la quota di fondi da destinare all’accumulazione e quella da distribuire come redditi ai soci. Ovviamente rimase l’importante vincolo del cosiddetto “ammortamento obbligatorio”: la libertà di vendere i beni capitali dell’azienda solo a condizione che il ricavato di tale vendita fosse reinvestito nella medesima azienda, nonché l’obbligo di rimpiazzare i beni capitali logoratisi durante l’esercizio. Un altro aspetto importante del periodo considerato fu la graduale riduzione dei finanziamenti pubblici alle imprese, detti “fondi sociali di investimento” che andarono dal 60% del bilancio nel periodo 1960-63 al 20% nel 1972. Parallelamente anche le banche vennero formalmente separate dallo Stato, ma non in modo autogestito. Questo, almeno secondo Jossa [6], fu un grave errore perché mantenne una certa opaca collusione tra l’ambiente politico-burocratico, le realtà aziendali e il mondo bancario, privando quest’ultimo del suo carattere di neutralità, necessario per il buon funzionamento del socialismo di mercato. L’effetto tangibile fu l’eccesso permanente di credito che, unitamente al rialzo dei salari, fu la base della successiva inflazione, vera piaga dell’economia jugoslava nei due decenni seguenti.


Nel periodo 1972-74 vi fu una piccola verifica [6] del sistema delle autogestioni inaugurato nel 1965, che però a detta di vari autori non fu molto efficace in quanto ridusse l’autonomia delle imprese e pur essendo, almeno a parole, “anti-burocratica”, “anti-carrieristica” e “anti-corruzione”, praticamente aumentò la gerarchia degli incarichi dirigenziali in modo da orientare meglio gli obiettivi verso una logica politica e sociale piuttosto che verso gli scopi scelti autonomamente dai lavoratori. Il problema principe della costruzione del socialismo in Jugoslavia, ossia la difficile armonia tra piano e mercato, non era ancora stato risolto. Il meccanismo delle OOUR-OUR-SOUR fu comunque esteso e perfezionato, limitando il mandato dei vari delegati a soli due anni. Anche i meccanismi di finanziamento furono rivisti e resi più democratici e trasparenti. Va infine notato che questa revisione dei meccanismi autogestionari aziendali si accompagnò anche a una vasta riforma costituzionale, all’insegna di un moderato pluralismo e di un acceso federalismo. La legge fondamentale del 1974, infatti, confermò e rafforzò i principi degli emendamenti del 1971 alla precedente costituzione jugoslava (1953), secondo i quali i diritti sovrani erano esercitati dalle Repubbliche federali, mentre la Federazione aveva solo l'autorità specificamente trasferita ad essa dalla costituzione [7].




Per concludere questa sezione vale forse la pena riassumere, soprattutto per il lettore meno informato, i due principi-base che regolavano la distribuzione nel socialismo di mercato jugoslavo: (a) ciascuno doveva essere remunerato esclusivamente in base al lavoro svolto, eliminando così ogni forma di rendita e di puro guadagno da capitale. (b) Le regole distributive per ogni attività produttiva dovevano esser stabilite sempre ex-ante (mai ex-post). Tuttavia, il ruolo del mercato, con tutte le sue regole di funzionamento, era fondamentale nel valutare il valore del lavoro svolto complessivamente nelle imprese. Però, una volta che questo era stato stabilito, spettava al collettivo dei lavoratori decidere come ripartire il reddito disponibile (al netto di interessi, tasse e ammortamenti) tra i soci. Tale ripartizione nel periodo 1965-1974 fu regolata dallo Stato in maniera molto generale, in modo che i vari organi autogestionari potessero, se necessario, modificarla largamente, sia al livello di SOUR, sia di OUR, sia, addirittura, della singola OOUR. In pratica si stabilivano criteri oggettivi a “punti” per la valutazione del lavoro basati più sulla performance (specializzazione, responsabilità, sforzo fisico ecc.) e sul tempo di lavoro che sulla qualifica professionale del singolo lavoratore. In ogni caso i livelli salariali minimi esistevano ed erano validi per tutti.




4) Verso un’autogestione sempre più depotenziata



L’esperienza dell’autogestione jugoslava, almeno come delineata nella precedente sezione, si concluse de facto con la riforma legislativa del 1978, con la quale iniziò un graduale processo di decostruzione della struttura, che troverà il suo culmine con un’ulteriore riforma, quella del 1984. Il periodo 1984-88 sarà poi quello della dismissione finale dell’esperienza.


L’economia jugoslava della seconda metà degli anni ‘70 era già caratterizzata da una seria crisi strutturale derivante da certe debolezze del suo modello di sviluppo, il quale mostrava un’ingovernabilità politica ed economica crescente. Inoltre, esisteva una difficoltà peculiare nel gestire correttamente le politiche monetarie e valutarie, che si tradusse in una spirale inflazionistica notevole unita a una certa propensione all’indebitamento estero, il quale finì per mettere il Paese alla mercè delle politiche liberiste e socialmente impattanti del Fondo Monetario Internazionale che acuirono le grosse sperequazioni economiche fra le varie Repubbliche. In effetti, la Legge n. 312 del 1978, pur non mutando sostanzialmente la situazione di modesta affluenza di capitale straniero, creò verso la metà degli anni ‘80 scontri vivaci tra gli organi federali e gli ambienti legati al settore produttivo autogestito, con questi ultimi interessati a una modifica della normativa in vigore nel senso di una liberalizzazione pressocché totale degli investimenti esteri. Tale confronto aveva lo scopo di modificare alcuni aspetti sostanziali della Legge n. 312 per arrivare concretamente alla definizione di un nuovo quadro giuridico in materia. Benché il dibattito riguardasse formalmente solo modifiche da apportare rispetto alla eventuale partecipazione di imprese estere alle imprese autogestite, in realtà la sua portata fu tale da sconvolgere il disegno stesso dell’autogestione jugoslava. Quindi le riforme seguite alla Legge n. 312 si possono considerare a pieno titolo come il canto del cigno dell’esperimento autogestionario. In questo senso i settori manageriali chiedevano le seguenti variazioni della stesura originale di tale legge:

1) L’art.10, che nella Legge n. 312 vietava l’intervento di capitale straniero nelle attività legate al commercio e alla sicurezza sociale, nella proposta per il nuovo disegno di legge sarebbe dovuto sparire.

2) L’art.11 prevedeva che l’ammontare dell’investimento straniero in un’impresa jugoslava autogestita non potesse superare il 49% del capitale complessivamente investito in tale impresa. Ciò per garantire la “proprietà collettiva” dell’impresa stessa. Secondo i manager e i dirigenti aziendali jugoslavi il nuovo assetto giuridico non avrebbe dovuto porre alcun limite agli investimenti di capitale straniero.

3) L’art.15 stabiliva che negli organi amministrativi di un’impresa mista i rappresentanti del capitale straniero investito non potessero essere in numero maggiore rispetto ai rappresentanti jugoslavi dell’impresa stessa o delle imprese che partecipavano all’attività produttiva. La ragione di questa legge si trovava nella difesa del principio dell’autogestione che altrimenti sarebbe stato compromesso in sede amministrativa da una rappresentanza estranea agli interessi dei lavoratori jugoslavi. Anche questo passaggio della Legge n. 312 venne messo in discussione e le ragioni non erano di natura squisitamente economica: con la presenza di rappresentanti stranieri il potere decisionale dei lavoratori sarebbe stato sicuramente diluito ed anche intimorito da un’eventuale fuga dei capitali esteri.

4) L’art.19 stabiliva che qualora venisse realizzato dall’impresa mista un profitto superiore a quello fissato per contratto, la parte di questa eccedenza attribuibile all’investitore straniero sarebbe servita per rimborsargli parte della sua quota societaria. In questo modo, maggiore era l’efficienza dell’impresa, maggiore sarebbe stata la spinta a indebolire la posizione dell’investitore straniero (attraverso il rimborso della sua quota societaria). Nel nuovo progetto di legge veniva invece sancita la piena libertà per l’investitore straniero di disporre del reddito realizzato e di trasferirlo all’estero.

5) Un’altra significativa proposta dei manager era la riduzione di quelle imposte fisse sul reddito dell’impresa destinate alla costituzione di fondi di solidarietà per alloggi, borse di studio, premi assicurativi, che erano percepite come “improprie” e non dovute, in quanto non direttamente collegate alla gestione aziendale congiunta. Appare abbastanza evidente come questo provvedimento sia legato all’idea di espellere le attività di welfare dall’autogestione (accollandole allo Stato) attraverso un intervento illimitato del capitale straniero nelle aziende autogestite (cfr. l’art.11).


Nel novembre 1984, a poco più di quattro anni dalla morte di Tito, l’Assemblea Nazionale Jugoslava approvò una nuova legge sugli investimenti esteri nelle organizzazioni di lavoro associato, le OUR. La nuova legge rispose quasi totalmente alle esigenze liberalizzatrici dei manager emerse dal dibattito sulla vecchia Legge n. 312 del 1978. L’art. 11, che fissava al 49% la soglia massima di partecipazione del capitale estero nelle imprese jugoslave, venne abolito portando tale soglia al 99%. All’investitore veniva inoltre concesso il diritto di veto che di fatto ne aumentava enormemente il potere decisionale. Vennero inoltre previste negoziazioni tra le parti sui parametri gestionali con l’obiettivo di portare la produttività delle imprese miste verso standard cosiddetti “normali”. Venne inoltre stabilito nella nuova legge che il mancato rispetto degli obiettivi pattuiti sarebbe gravato esclusivamente sulla quota di reddito spettante al partner jugoslavo. L’art. 19 fu poi aggirato consentendo all’investitore straniero di trasferire il 100% della sua quota di profitto all’estero. Infine, sempre per rimanere all’interno delle modifiche più significative alla Legge n. 312, gli oneri derivanti dalle imposte destinate alla costituzione dei fondi sociali, oppure per ammortamenti superiori alle quote stabilite dalla legge ecc., ossia tutte quelle detrazioni apportate al reddito finale dell’impresa ma non direttamente collegate alla produzione aziendale, venivano sostenute esclusivamente dal partner jugoslavo. A questo punto però anche gli investimenti direttamente produttivi ebbero limitate ricadute positive sia per i lavoratori e il rilancio dell’occupazione, sia per ciò che riguarda l’economia nazionale jugoslava, e comunque il paese andò incontro in quel periodo a una grave crisi economica e sociale. Sempre più di frequente i nuovi impianti (o i vecchi impianti che da quel momento in poi lavorarono su appalto straniero) erano subordinati alle esigenze del circuito produttivo della multinazionale investitrice piuttosto che alle necessità del tessuto economico della Jugoslavia e alle esigenze del suo mercato interno. Va però rilevato che, in primo luogo, le richieste di modifica della vecchia Legge n. 312, le quali portarono alla nuova legge del 1984, non provennero solo da rigide direttive esterne (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Comunità Economica Europea ecc.) dall’impianto chiaramente neo-liberista, ma furono anche il frutto dello scontro tra il livello politico federale e quelli che potremmo definire gli ambienti manageriali, cioè le rappresentanze economiche e tecniche delle imprese autogestite. Secondariamente, le proposte di modifica della Legge n. 312, che originarono direttamente da tali ambienti manageriali, rappresentanti cioè del sistema-fabbrica (autogestita o pubblica poco importa), spesso non apparvero come l’espressione degli interessi più autentici dei lavoratori (operai, tecnici e semplici impiegati). Ciò, retrospettivamente, significa che i gruppi dirigenti delle imprese autogestite, formalmente eletti dai lavoratori, nella realtà non ne rappresentavano sempre gli interessi e si comportavano per taluni aspetti come veri e propri settori ausiliari dell’imprenditoria capitalista europea (soprattutto, ma non esclusivamente, tedesco-occidentale).




5) Conclusioni critiche: cosa fallì nell’autogestione jugoslava?


In un certo momento l’autogestione jugoslava, già fortemente depotenziata dalle riforme introdotte nella prima metà degli anni ‘80 per attirare investimenti di capitali esteri, si concluse, ma non sembra facile darne una spiegazione univoca [6], dal momento che vari autori hanno fornito motivazioni disparate. Per esempio, Eirik G. Furubotn e Svetozar Pejović [16] sottolinearono già nel 1973 la difficoltà di approvare le decisioni di investimento (come ricorda Jaroslav Vaňek [17]), ma Bruno Jossa [6] considera tali critiche non del tutto fondate dati gli alti livelli di investimento effettivo, solo in parte (15-20%) finanziati dagli utili di impresa, nella cosiddetta “età dell’oro” dell’autogestione jugoslava 1965-72. Altri punti critici evidenziati da differenti autori riguardano gli squilibri economici regionali e le differenze di reddito esistenti nelle diverse imprese. Anche qui lo Jossa non concorda completamente, notando come il risparmio volontario raggiunse la rispettabile cifra del 30-40% e come la disparità retributiva tra massimo e minimo per lavoratori di uguale specializzazione fu mediamente di 1 a 2, con picchi non superiori ad 1 a 4, verificati accuratamente dal “padre” del meccanismo economico dell’autogestione jugoslava, il celebre professor Branko Horvat [18]. Piuttosto Jossa parla [6] di un eccesso di democratismo formale e di assemblearismo, dati i complessi meccanismi elettivi che regolavano comitati e commissioni a molteplici livelli (OOUR, OUR e SOUR), nonché, ma questo già è stato discusso nella sezione precedente, di una terribile miscela di inflazione, disoccupazione, debito estero e conseguenti vincoli finanziari esterni. Inoltre, sempre il nostro economista partenopeo, parla [6] di eccessi di pianificazione, difficilmente conciliabili con il socialismo di mercato, nonché di vincoli di bilancio troppo morbidi e tolleranti. Quali che siano le critiche all’autogestione, è però importante capire come essa ebbe il colpo di grazia dalla graduale dissoluzione della Jugoslavia avvenuta dopo la morte di Tito, e non viceversa. Ossia, stante la crisi economica della prima metà degli anni ’80, innegabilmente grave ma non senza vie d’uscita, fu la dissoluzione politica della Jugoslavia a infliggere una ferita mortale all’economia autogestionaria. E tale dissoluzione fu innescata dal violento conflitto tra le Repubbliche e dal sottosviluppo di alcune aree del Paese. Un conflitto, ci si perdoni la ripetizione, sostenuto e fomentato dagli USA, da alcuni stati mitteleuropei e dalla Turchia.


Lasciando al lettore la possibilità di approfondire la complessa tematica della fine dell’esperimento autogestionario in Jugoslavia nei testi che abbiamo citato, ci piace concludere questo articolo con l’opinione molto qualificata di uno dei padri della teoria delle imprese democratiche “Labour Managed Firms” (LMF) [19], l’economista ceco-americano Jaroslav Vaňek, il quale scrive:


«Gli argomenti usati per criticare la gestione democratica delle imprese basati sul caso dell’autogestione jugoslava, dimostrano più facilmente l’ignoranza dei loro autori anziché il punto che essi cercano di sostenere. (…). Sebbene gli jugoslavi fecero quasi tutto in modo sbagliato [20] nella loro economia autogestita, e nonostante le terribili pressioni nazionalistiche, (…), per trenta dei quarant’anni della sua esistenza la performance economica della Jugoslavia fu tra le migliori al mondo» [17].




Dan Kolog



Note e bibliografia minima



[1] Si veda, per esempio, l’equilibrato saggio di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, “Foibe” (Bruno Mondadori, Milano, 2003).

Questo nostro accenno al revisionismo storico italiano relativamente alla questione delle foibe giuliane e dalmate non va ovviamente inteso come un’acritica assoluzione dell’operato dell’esercito partigiano jugoslavo prima, e delle polizie politiche OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda) e UDBA (Uprava Državne Bezbednosti) dopo. Episodi molto gravi, come l’eccidio di Bleiburg (15 maggio 1945), dove oltre 30.000 collaborazionisti jugoslavi filonazisti furono fucilati senza processo in Austria, o l’esistenza di un duro campo di prigionia per decine di migliaia di cosiddetti “cominformisti” (i comunisti stalinisti) a Goli Otok, sono storicamente documentati e non possono esser semplicemente rimossi. Va però posta una questione, tutt’altro che retorica, relativamente alle vittime di questi due tragici episodi: se invece di Tito, Đilas e Kardelj avessero prevalso i nazisti (nel 1945) o gli stalinisti (nel 1948), come si sarebbero comportati i vincitori nei confronti degli sconfitti? La realtà bestiale e disumana dei lager tedeschi e dei gulag staliniani fa apparire, ci preme dirlo, l’operato repressivo dei “titini” se non moderato, comunque comprensibile…


[2] Eric Gobetti, “Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943”, (Laterza, Roma & Bari, 2013). I tragici nomi di Bakar, Mamula, Molat, Rab e Zlarin, campi di concentramento in Dalmazia e Montenegro interamente gestiti da personale militare italiano e caratterizzati da tassi di mortalità superiori al 20% annuo, stanno ancora lì a ricordarci il carattere terrorista e criminale della guerra di Mussolini contro la Jugoslavia.


[3] Bruno Rizzi, “Il collettivismo burocratico” (Galeati, Imola, 1967). Si tratta di un’interessante raccolta di scritti riguardanti la polemica di Bruno Rizzi con Lev Trockij e Pierre Naville circa la natura sociale dell’URSS.


[4] Si veda, per esempio, il saggio di Roderick MacFarquhar & Michael Schoenhals, “Mao’s Last Revolution” (Harvard University Press, Cambridge [MA], 2008). Per la fascinazione cinese della sinistra extraparlamentare italiana si può anche leggere di Roberto Niccolai, Quando la Cina era vicina. La rivoluzione culturale e la Sinistra extraparlamentare italiana negli anni ‘60 e ‘70” (BFS edizioni, Pisa, 1998).


[5] Frank Georgi, L’autogestion en chantier. Les gauches françaises et le «modèle» yougoslave 1948-1981” (L’Arbre Bleu, Nancy, 2018). In Italia persino gli “Editori Riuniti”, la società libraria legata al PCI, s’interessarono blandamente all’argomento pubblicando, per esempio, una piccola raccolta di articoli e discorsi di Josip Broz “Tito” intitolata “Autogestione e socialismo” (Ed. Riuniti, Roma, 1973).


[6] Abbiamo tratto particolare ispirazione da due brevi articoli di Bruno Jossa apparsi nei volumi “Esiste un’alternativa al capitalismo?” (Manifesto Libri, Roma, 2010) e “Cooperativismo, Capitalismo e Socialismo” (Novalogos, Anzio (RM), 2012), rispettivamente a pag. 114 e a pag. 64.


[7] Josip Krulić, “Storia della Jugoslavia. Dal 1945 ai giorni nostri” (Bompiani, Milano, 1997).


[8] Aleksa Đilas, “The Contested Country: Yugoslav Unity and Communist Revolution, 1919-1953”. (Harvard University Press, Cambridge [MA], 1991).


[9] Melissa K. Bokovoy, “Peasants and Communists: Politics and Ideology in the Yugoslav Countryside 1941-1953” (University of Pittsburgh Press, Pittsburgh, [PA],1998).


[10] N. Bucharin & E. Preobraženskij, “L’Accumulazione socialista”, a cura di Lisa Foa (Editori Riuniti, Roma, 1969).


[11] Milovan Gilas, “La Nuova Classe” (Il Mulino, Bologna, 1969).


[12] Milovan Gilas, “Conversazioni con Stalin” (Pgreco, Sesto San Giovanni (MI), 2017).


[13] Per fare un confronto, nell’Italia di quegli anni, trainata dal cosiddetto “boom economico” del quinquennio 1958-1963, il PIL cresceva a un tasso medio del 6,3% annuo.

[14] Si veda a questo proposito l’interessante articolo di Riccardo Achilli del 4/7/2011 pubblicato on-line sul sito “Bentornata Bandiera Rossa” con il titolo “La parabola dell’autogestione in Iugoslavia”, da cui abbiamo preso alcuni passaggi del nostro scritto divulgativo:

https://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2011/07/la-parabola-dellautogestione-in.html


[15] Edvard Kardelj, “Burocrazia e classe operaia” (Editori Riuniti, Roma, 1969). Importante è anche la sua raccolta di scritti pubblicata con il titolo di “Proprietà sociale e autogestione” (Teti, Milano, 1975).


[16] E. G. Furubotn e S. Pejović, “Property Rights, Economic Decentralization, and the evolution of the Yugoslav Firm, 1965-72”, Journal of Law and Economics, Vol. 16, No. 2, Article 5 (1973); E. G. Furubotn “Bank Credit and Labor-managed Firms” (1974) in E. G. Furubotn e S. Pejović (a cura di) “The Economics of Property Rights” (Ballinger, Cambridge [MA], 1974).


[17] J. Vanek “Toward a Strategy of Political and Economic Democracy in Russia” (1993) in D. L. Prychitko e J. Vanek (a cura di) “Producer Cooperatives and Labour-managed systems” (Elgar, Cheltenham, 1996).


[18] B. Horvat, “The Yugoslav Economic System” (M. E. Sharpe, New York, 1976).


[19] Abbiamo trattato in modo divulgativo l’argomento delle LMF in un recente lavoro apparso su “Adattamento Socialista” e intitolato “Le premesse economiche della transizione dal capitalismo al socialismo: Stato, mercato o qualcosa di diverso? - PARTE II”:

https://adattamentosocialista.blogspot.com/2024/02/le-premesse-economiche-della.html


[20] Qui c’è un punto un po’ tecnico che non possiamo spiegare in dettaglio: Vaňek si riferisce alle grosse differenze economico-gestionali tra il suo modello di LMF, che considera ovviamente il più corretto, e quello ideato da Horvat e alla base dell’autogestione jugoslava (che, naturalmente, Vaňek considera non privo di errori).


























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