La Rivoluzione tedesca 1918-1920 - PARTE VIII -



                                 La foto ritrae Pfannkuch, Bernstein, Louise e Karl Kautsky e un accompagnatore nel 1922, probabilmente a Berlino.

 

 

Considerazioni politiche



Questo lavoro diviso in sette parti ha cercato di riproporre i fatti salienti che hanno caratterizzato la Rivoluzione tedesca dall’ottobre del 1918 al marzo del 1920. Il nostro non è un lavoro di ricostruzione storica e si è principalmente avvalso di ricostruzioni altrui; in alcuni punti abbiamo integrato queste con articoli dell’Avanti! dell’epoca. L’ambizione e lo scopo di questo lavoro non è stato di aggiungere risorse di archivio e nuovi punti di vista. Seppur comprendiamo quanto i lavori di ricostruzione storica siano fondamentali, questi esulano dalla nostra competenza. Ad ogni modo, spesso si nota nel mondo degli storici un fenomeno alquanto curioso: più essi insistono nella loro obbiettività di ricerca e di metodo e più il loro taglio mostra preconcetti siano essi conservatori o progressisti. Quindi anche quando in presenza dell’ultimo ritrovato della scienza della ricostruzione storica venduto come il più imparziale e veritiero, questo non è altro che una sfumatura in più da aggiungere alle altre. Noi invece siamo schierati per il socialismo e perciò dal nostro racconto deve per forza di cose trasparire una certa simpatia per questo.

Ciò ci porta a toccare il problema delle fonti. Le fonti primarie per questo lavoro sono state tre. Quella di Eduard Bernstein1 la quale s’interrompe alla Costituente. Questo volume curato da Ostrowski raccoglie anche lettere e commenti di Bernstein, ma nulla che si possa paragonare alla pregevole ricostruzione della prima parte della rivoluzione. Il taglio di Bernstein è molto sbilanciato verso l’ala progressista dei socialdemocratici maggioritari. Anche quando scrive da “indipendente” non dà mai l’impressione di condividere a pieno la linea intrapresa dalla USPD. La seconda fonte è un libro dell’estrema sinistra tedesca, dei comunisti Paul Frölich, Rudolf Lindau, Albert Schreiner e Jakob Walcher2, questo è ancor più politicamente schierato, nonostante abbia delle ricostruzioni dettagliate, spesso si deve navigare tra invettive e attacchi ai vari maggioritari e indipendenti; non si salva neanche quel “confusionario” del compagno Rühle. Il terzo volume utilizzato è una ricostruzione di accademici più recente edita dai professori Gaard Kets e James Muldoon3. Questo affronta diversi temi con occhi più moderni, talvolta più politicamente corretti, il che può risultare altrettanto fastidioso. In realtà molti altri articoli storici e volumi sono stati utilizzati, ad esempio i lavori di K. Buse su Ebert, nonché quelli di William Maehl sulla socialdemocrazia e diversi altri, ma questi tre libri hanno sicuramente aiutato a fornire l’ossatura principale di questo lavoro.

Dopo questo “disclaimer” è opportuno esplicitare qual è lo scopo effettivo di questa estesa carrellata storica su eventi avvenuti ormai più di cento anni fa. Lo scopo è politico. Come scritto qualche anno fa, la nostra posizione di partenza in merito all’instaurazione del socialismo è che “la necessità di dover ricorrere alla violenza è la prova ultima dell’immaturità di quella che vuole definirsi classe lavoratrice, e altro non è che un’espressione settaria dei socialisti di varie sfaccettature4. Questa sembra in ultima analisi la posizione che Bernstein esprime in un articolo commissionato dall’Izvestia e pubblicato sulla Breslauer Volkswacht nel novembre del 19225. Questa è anche la posizione di Kautsky, ovvero quella per la quale non si può forzare la Rivoluzione. Sarebbe però ingiusto, come ingiusto sembra essere Bernstein, liquidare il sacrificio di migliaia di lavoratori che nella Rivoluzione tedesca hanno perso la vita nel tentativo di far emergere, se non una società socialista, almeno un sistema democratico di Consigli. Per Bernstein tutto ciò che non fosse in funzione della Repubblica democratica era solo una perdita di tempo. D’altronde al Congresso Generale dei Consigli dei lavoratori e dei soldati di Germania del 16-21 dicembre 1918, la proposta di governare la Germania per mezzo di un Rätesystem aveva perso con 344 voti contro e 98 a favore. I numeri sono importanti. Si ricordi che al Congresso la SPD contava da sola già 288 voti e già da sola avrebbe potuto mettere in minoranza la USPD che ne aveva 90 e gli spartachisti che ne avevano solo 10. Ovviamente con l’aggiunta dei 25 delegati democratici e con una parte dei 50 senza appartenenza politica, la SPD mise una ipoteca sulla fine dell’esperimento consiliare e il passaggio alla Assemblea costituente nazionale.

Rimane il fatto che la via russa, ovvero, l’imposizione violenta del Socialismo da parte di una minoranza, ossia di un Partito minoritario, in una società tutt’altro che pronta, anche in Germania avrebbe mostrato tutta la sua inadeguatezza. Gli spartachisti, assieme agli Steward rivoluzionari, consci di essere in minoranza al Congresso Generale dei Consigli, optarono per la strada insurrezionale. Via destinata a fallire, su questo convergiamo verso l’opinione di Bernstein e Kautsky, in effetti condivisa da molti comunisti stessi. Ne fu prova lampante l’azione di marzo del 1921, figlia della teoria dell’offensiva, che non abbiamo affrontato e richiederebbe un approfondimento a parte. Ne fu prova anche la rivolta “spartachista” del gennaio del 1919! Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che, loro malgrado, diventarono il simbolo di questa rivolta si erano chiaramente espressi contro un colpo di mano e a favore della partecipazione degli spartachisti alle elezioni dell’Assemblea costituente nazionale, se non altro per contrastarla e distruggerla dall’interno. Per alcuni versi Lenin aveva fatto una cosa simile. Lenin però aveva già conquistato il potere quando sciolse l’Assemblea costituente. Alla fine del 1918 (il colpo di stato compiuto dai bolscevichi in Russia era avvenuto solo un anno prima) la Russia era attraversata da una furiosa guerra civile. Lenin aveva salvato temporaneamente la Rivoluzione facendo firmare il duro trattato di Brest-Litovsk solo nove mesi prima e Lev Trockij in quel breve periodo era riuscito - e questo probabilmente è uno dei risultati più straordinari e anomali di tutta la Rivoluzione bolscevica - a mettere in piedi un’Armata Rossa in grado di contrastare non solo l’esercito controrivoluzionario russo ma anche le divisioni mandate dalle potenze dell’Intesa e pure dalla Germania. La Russia bolscevica era letteralmente circondata da forze “bianche”. Dalla Finlandia, dal Baltico, dalla Polonia, dalla regione ucraina e dalla Siberia arrivavano attacchi frontali che avrebbero spezzato qualsiasi regime fragile di ricostruzione post-zarista. Quello che Trockij riuscì a fare fu contro tutti i pronostici e questo spiega bene perché nel periodo che va dal novembre del 1918 al marzo del 1920 per molti l’esperimento bolscevico non si poteva dire vincente. Ancora più odio è riversato contro gli Haase e i Kautsky per non aver creduto nella riuscita dei metodi bolscevichi. Ma si vuol sottolineare qui che la capacità organizzativa e strategica mostrata da Lenin e Trockij fu fuori dal comune.

Il putschismo del quale parlava criticamente Paul Levi già dal primo Congresso comunista tedesco, denotava effettivamente tutta l’immaturità di quella avanguardia rivoluzionaria. La quale avanguardia, per molti versi, voleva seguire l’esperimento bolscevico che, come sottolineato, non aveva ancora sconfitto i propri avversari, ed era per molti versi sostenuta anche economicamente dai bolscevichi. L’idea di Lenin, infatti, fu da subito che la rivoluzione per avere successo si doveva estendere in Europa. L’idea che una minoranza spartachista avrebbe potuto prendere il potere come i bolscevichi avevano fatto in Russia era ovviamente errata. Nonostante ciò per Lenin gli spartachisti avrebbero dovuto prendere il potere immediatamente, probabilmente sfruttando la confusione determinata dal vuoto di potere, ma Lenin che stupido non era, aveva riconosciuto che in Germania questo vuoto di potere non si era prolungato: la borghesia tedesca con quella internazionale, grazie alle formidabili forze militari di cui disponeva e grazie all’esperienza russa, che l’aveva messa in guardia, era stata in grado di schiacciare il movimento insurrezionale operaio tedesco, uccidendo decine di migliaia di lavoratori. Lenin biasimava particolarmente la socialdemocrazia tedesca che quel vuoto di potere lo aveva prontamente colmato accordandosi con la borghesia e con i militari, e biasimava con disprezzo quegli “smidollati” di Kautsky e Hilferding che non avevano saputo o voluto agire. Lenin, anche se questo però lo scrive nell’agosto 1921, riconobbe che la via in Germania così come in Italia era quella del fronte unito per vincere il favore della maggioranza delle masse6. Aveva infatti visto come la tattica dell’offensiva, che poi altro non era che il putschismo del quale parlava Levi, avrebbe sortito il risultato opposto e aveva altresì visto come l’unione tra una parte della USPD e del KPD aveva reso il nuovo partito il Vereinigte Kommunistische Partei Deutschlands (VKPD) una forza significativa tra le masse.

Le esperienze di Brema, della Ruhr, del centro della Germania e di Monaco, solo per citarne alcune, mostrano quanto complessa fosse la realtà tedesca: un vero e proprio collage di tante rivoluzioni. In molti casi i lavoratori, anche la parte spartachista, reagì per pura legittima difesa. In molti, troppi, casi la stampa venne utilizzata per giustificare la più dura repressione armata, vedasi l’eccidio di marzo 1919 a Berlino. Quindi la violenza che attraversò la Germania in questo biennio non può essere meramente o solamente liquidata come l’evidente immaturità dell’espressione settaria di alcuni socialisti. Per intenderci, se si facesse una stima dei caduti spartachisti e dei lavoratori in sciopero e delle vittime accidentali, ci si renderebbe conto che queste furono molte più dei caduti da parte delle forze dell’ordine volontarie o meno; il bilancio è molto indicativo della ferocia repressiva del governo. Si riconferma il famoso eccesso di legittima difesa descritto in merito al fenomeno squadrista in Italia. Non a caso Lenin sottolinea questa cosa nella sua lettera ai comunisti tedeschi.

Furono quindi tutte vite sprecate? Tutti vani tentativi?



Una parte della storiografia moderna tende a liquidare gli scontri che vanno dal dicembre 1918 alla repressione degli scioperi in risposta al putsch di Kapp-Lüttwitz e soprattutto gli scontri del febbraio-marzo 1919 per la socializzazione come vani tentativi insurrezionali. Questo secondo noi è eccessivamente omissivo. Probabilmente questa interpretazione riflette un modo di vedere le masse come un elemento tendenzialmente aleatorio che segue ciecamente alcune chimere, ovvero, gli agitatori e sogni del momento. La Germania usciva dalla guerra molto peggiorata, le condizioni lavorative e di vita erano insostenibili e la guerra sul fronte orientale era tutt’altro che finita. Il costo della vita nel 1922, per esempio, era salito di ben 20 volte rispetto al 19137. Nel 1919 vi furono molte dimostrazioni di protesta contro il carovita, così come ce ne furono in Italia, e la risposta repressiva del governo repubblicano tedesco fu molto simile a quella del governo monarchico italiano: mandare le guardie armate che non esitarono ad aprire il fuoco sui dimostranti. Fu un errore cercare di incanalare questi moti per il pane in un contesto di rivoluzione sociale? Errori furono commessi dalla sinistra estrema, caddero spesso nella trappola delle provocazioni, come già sostenuto, ma quello che successe in Germania non furono semplici azioni isolate nello stile della banda del Matese, ovvero, quattro scalzacani alla conquista del nulla. Anche solo la scala, ovvero la dimensione, su cui si estesero gli scontri e la loro durata dovrebbero far pensare a qualcosa di molto serio e sistemico. In Germania vi furono una serie di guerre civili in piena regola e queste continuarono oltre il periodo analizzato arrivando facilmente al putsch di Monaco organizzato dai nazionalsocialisti nel novembre del 1923.



Quella che chiamiamo Rivoluzione tedesca, non fu quindi una rivoluzione socialista, ma avrebbe potuto essere una rivoluzione socialdemocratica?



Sin dall’inizio di questo lavoro abbiamo visto il Partito Socialdemocratico tedesco come uno degli attori principali. Abbiamo visto come una certa storiografia di sinistra abbia attribuito alla SPD tutte le responsabilità del disfacimento della Seconda Internazionale. Quindi la SPD venne e viene dipinta come il principale nemico della rivoluzione socialista. Quella dei socialtraditori (e più tardi socialfascisti) è uno stigma che denota una cicatrice profonda che si è andata a determinare nel movimento dei lavoratori. Con il ripudio da parte della SPD del marxismo negli anni ‘50 del XX secolo per molti il cerchio si è finalmente chiuso. Ma la SPD del primo dopoguerra non può essere paragonata alla SPD degli anni ‘50. La SPD merita sicuramente parte del biasimo per quello che successe alla Germania dopo la Prima guerra mondiale. Per quanto riguarda lo scoppio della guerra, ovviamente, tutti i socialisti della Seconda Internazionale presero un abbaglio. Dopo aver discusso per anni su come agire per sventare una guerra, o boicottarla, o farla cessare e, ovviamente, senza aver raggiunto un accordo unanime, quando questa si presentò le masse lavoratrici coscritte si recarono ubbidienti al fronte e le dimostrazioni non sortirono effetti.

Un’azione unitaria internazionale avrebbe potuto sventare la guerra? La risposta è ovvia. Sì. Ve ne sono almeno due prove palesi. La settimana rossa italiana avvenuta un mese prima circa dello scoppio della guerra tra Austro-Ungheria e Germania contro Serbia, Russia, Francia e Inghilterra, fermò la partecipazione dell’Italia, la quale doveva altresì decidere da che parte stare già nel ‘14. La seconda prova, più scontata, fu il colpo di stato d’ottobre in Russia che portò l’Impero russo fuori dal conflitto. Quindi un’azione ben coordinata di tutti i lavoratori dei paesi coinvolti avrebbe sicuramente messo un freno alla guerra, ma molto probabilmente a costo di lunghe guerre civili interne, questo è anche da ammettere. Dare tutta la responsabilità del crollo della Seconda Internazionale alla SPD non è corretto. La SPD avrebbe potuto optare per lo scontro diretto, ovvero aizzare le masse contro il governo guglielmino, ma questo avrebbe presupposto un’azione coordinata degli altri gruppi socialisti: francesi, inglesi, russi, ecc. La SPD avrebbe potuto dichiararsi per l’astensione nel votare i crediti di guerra. Questo era quello che ci si aspettava. In questo caso non avrebbe optato per lo scontro frontale con il governo militarista e avrebbe lasciato una porta aperta agli altri partiti socialisti. Ciò, ma siamo nel modo delle ipotesi, avrebbe dato la possibilità ai socialisti francesi di astenersi a loro volta. Ironia della sorte volle che entrambi i partiti, SFIO e SPD, votarono nel pomeriggio del 4 agosto a favore dei crediti di guerra per le medesime ragioni di difesa nazionale. Dato che la responsabilità divenne un punto cruciale del negoziato durante l’armistizio iniziato nel novembre del 1918 e culminato con il trattato di pace nel maggio del 1919, alla fine questa responsabilità ricadde solo sui tedeschi, con una parte della vecchia SPD, ora USPD, che ormai ammetteva direttamente tale responsabilità. Al Congresso di Berna, dove si cercò di ripristinare una Seconda Interazionale, Kurt Eisner ammise apertamente questa responsabilità dando una via d’uscita ai maggioritari della SPD i quali si affrettarono a far ricadere la responsabilità esclusivamente sul governo militarista. Eisner pagò questa sfacciataggine con la vita. Accettare la responsabilità in Germania voleva dire accettare le richieste di riparazioni e voleva anche dire ammettere la sconfitta, la quale, per ovvia che poteva sembrare alla classe politica, era tutt'altro che chiara a una parte del corpo militare, ma ancora meno alla massa dei civili, la quale fino a qualche mese prima era stata indottrinata su come la guerra poteva essere ancora vinta. Tornando alla diatriba SFIO-SPD, per la destra patriottica della SFIO (per intenderci i Pierre Renaudel e gli Albert Thomas), la Germania in ultima analisi aveva invaso il Lussemburgo, il Belgio e la Francia, la SPD aveva firmato i crediti, e non solo in occasione del 4 agosto ma durante tutta la guerra; quindi, la SPD aveva affondato la Seconda Internazionale. Ma anche tra i francesi vi era una corrente meno patriottica, ovvero la “minoranza” pacifista rappresentata da Jean Longuet, Paul Faure e Adrien Pressemane che avrebbe potuto assieme agli indipendenti tedeschi e gli zimmerwaldiani ricostruire genuinamente la Seconda internazionale. Questo non avvenne soprattutto per l’avvento della Terza Internazionale, che grazie, o per colpa, dell’acume politico di Lenin, non si limitò a raccattare le frange più estreme dei partiti marxisti.

La SPD, quindi, arrivò all’armistizio avendo perso una parte importante di sé, gli indipendenti. Ma la SPD alla fine del 1918 era comunque il partito dominante, non solo a sinistra, ma in generale. Avrebbe avuto la maggioranza assoluta? Forse no, ma con l’enorme crescita dei sindacati avrebbe comunque rappresentato la fetta numericamente più importante della Germania. Alle elezioni dell’Assemblea costituente ebbe il 37,9% (con la USPD sarebbe salita al 47,3%), sicuramente un successo elettorale molto importante, ma insufficiente in un sistema proporzionale per avere la maggioranza dei seggi. Nonostante ai primi di gennaio del 1919 il neonato KPD(S) fosse numericamente molto piccolo, anche questa piccola percentuale, che non possiamo conoscere per via della loro politica astensionista decisa al I Congresso di Berlino, era venuta a mancare alla originaria SPD. Proiettando, con tutti i limiti che questo comporta, i risultati che il KPD ebbe nelle elezioni del giugno del 1920, la SPD probabilmente sarebbe salita al 49% e quindi forse non avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta neanche nella sua formazione completa, ma ci sarebbe andata molto vicina. Un’altra considerazione storica è che l’apertura del voto alle donne, fortemente voluta dalla SPD fu sicuramente dal punto di vista elettorale controproducente, in quanto l’elettorato femminile si rivelò più conservatore. Senza il suo voto la SPD, quindi, avrebbe avuto il potenziale di raggiungere la maggioranza assoluta, ma questo sarebbe andato contro i valori di inclusività della SPD stessa. Nella realtà l’Assemblea nazionale fu guidata da una coalizione di “centro” allargata, ovvero dalla SPD, di centro-sinistra, dal Zentrum, ovvero il centro cattolico, e dalla DDP, i democratici di centro-destra.

Come sottolinea Bernstein, questo produsse dei compromessi come quelli sulla legge dei Consigli di fabbrica che sfociarono negli scontri di gennaio 1920 a Berlino: per molti lavoratori vicini all’estrema sinistra e per i sindacati questa legge fu una farsa, per Bernstein una significativa concessione della borghesia ai socialisti8. La SPD, comunque, da subito riconosciuta come la forza dominate nella scena politica tedesca, uscendo dalle elezioni del 1912 con il 34,8%, si pose come garante dell’ordine e della stabilità. Quella della divisione insanabile tra maggioritari e indipendenti prima, e tra indipendenti e comunisti poi, non fu una visione condivisa da tutti. Sembrerebbero altrimenti inspiegabili i vari rientri di diversi indipendenti nella SPD o del comunista Paul Levi. È sempre Bernstein che con chiarezza nella sua lettera di addio alla USPD descrive bene quanto questa scissione non doveva essere vista come definitiva, ma una fase temporanea.

Nessuno dei due partiti socialdemocratici di Germania – quello comunista si rifiuta, come è noto, di definirsi socialdemocratico – può rivendicare che in tutto è il solo corretto interprete dell’idea socialdemocratica, e l’infallibile rappresentante della politica corrispondente.9.

Per Bernstein molti maggioritari “fondamentalmente hanno ragione” ma compiono “ogni tipo di errore”, mentre, sempre per Bernstein, il quale scriveva nel marzo del 1919, gli indipendenti “perseguono una politica di negazione e disintegrazione in un periodo in cui consolidare la Repubblica dipende così infinitamente tanto dalla collaborazione costruttiva per mezzo della Socialdemocrazia – il che minaccia di portare molto peggio, molti più effetti infausti nella sua scia che tutti gli errori dei socialisti maggioritari messi assieme.”10. Per Bernstein la divisione tra socialdemocratici, la quale poteva essere risolta proprio grazie alla collaborazione di fatto nel Rat der Volksbeauftragten, aveva invece esacerbato la dipendenza dei maggioritari nei confronti della destra e degli indipendenti nei confronti dei comunisti, e questi ultimi, secondo Bernstein, avevano la pretesa di “costruire un paradiso dalle rovine”. Bernstein appoggia quindi l’idea della provocazione-reazione, secondo la quale la posizione estremista degli spartachisti, foraggiati dai bolscevichi, e di una buona parte degli indipendenti di rompere il sistema anche democratico per avviarsi verso il socialismo, era la principale ragione per cui la classe borghese urbana e agraria si spostava verso la contro-rivoluzione reazionaria. Non è un caso che una simile spiegazione sarà per esempio quella che Clara Zetkin darà del fascismo in Italia. Ovvero l’idea che la mancata rivoluzione socialista portò all’ascesa del fascismo. Visione che almeno per l’Italia è a dir poco facilona. Secondo noi anche nel caso tedesco la tesi della provocazione rossa-reazione nera non spiega sufficientemente la reazione protofascista spinta dai militari e favorita dalla SPD. Di sicuro una larga parte della popolazione non condivideva le idee rivoluzionarie dei militanti spartachisti, i quali probabilmente rappresentavano il 2-5% della popolazione tra il ‘19 e il ‘20, questo prendendo l’esito elettorale del 1920 e aggiustandolo in eccesso considerando la tradizione astensionista e gli eccidi del 1919-20. La sua vera popolarità accrebbe mediante l’unione con la sinistra indipendente nel dicembre del 1920 per andare a formare il VKPD. In fatti nelle elezioni prussiane del febbraio del 1921, al suo picco, la VKPD ebbe il 5.5% dei voti. Altresì quello che Bernstein conosce, ma tende a non enfatizzare, è la sistematica provocazione da parte delle truppe del governo nei confronti delle frange più estreme degli spartachisti, provocazioni che funzionarono il 6 dicembre 1918, nel gennaio 1919 con il caso Eichhorn, quindi successivamente nel marzo 1919. Altra cosa da notare fu la legittima difesa che i lavoratori organizzarono nel febbraio-aprile 1919 per difendere il loro diritto di sciopero per la socializzazione, e nel marzo 1920 in reazione al putsch di Kapp-Lüdwitz e alla richiesta di mobilitazione fatta proprio dalla SPD! È certo che una collaborazione SPD, USPD e KPD avrebbe portato i migliori risultati, questo avrebbe seguito il semplice motto l’unione fa la forza, ma biasimare solo una parte dei socialisti, benché poco lungimiranti e molto influenzati dalla Russia sovietica, non dà il quadro completo e non dà credito a fenomeni concorrenti molto forti presenti in Germania in quel periodo: la riconquistata influenza dei militaristi, molti dei quali non avevano ritrovato una ovvia collocazione nella società post-bellica, la forte pressione dell’Intesa con il blocco navale, le richieste di ingenti riparazioni liquide e in natura, territoriali e militari, la vera e propria smilitarizzazione di un paese nato e cresciuto con Blut und Eisen, il rientro forzato delle truppe dal Baltico dove la guerra non si era mai fermata ecc. Quindi secondo noi il sistema sembrò essere più di provocazione nera-reazione rossa-repressione nera. Dove la provocazione primaria fu fatta dal governo e dalla stampa borghese. Bernstein, che scrive in questo caso nel marzo del 1919, si preoccupava della guerra civile fomentata dalle idee bolsceviche che vogliono sostituire la “democrazia parlamentare con l’onnipotente sistema dei consigli”11, dimenticando la richiesta di socializzazione, già promessa nel dicembre 1918, nella Ruhr e in Germania Centrale. Bernstein tende anche a non ricordarsi che un radicato sistema di Consigli di lavoratori e soldati, spesso capitanati da maggioritari, era emerso in tutta la Germania e non aveva intenzione di sparire in un “puff” non appena fosse stata eletta l’Assemblea nazionale.

Gustav Noske attuò il pugno di ferro per eliminare i Consigli, ma ciò perché in molti casi questi erano operativi e non semplici pagliacciate. Per Noske il mandato era stato chiaro, aveva vinto la democrazia costituzionale e non un sistema di Consigli, questi potevano solo degenerare, sempre secondo Noske, in organi rivoluzionari illegittimi, quindi andavano eliminati. L’azione di smantellamento di queste organizzazioni di lavoratori avvenuta in Germania anticipò, mostrando dei tratti terribilmente comuni, la campagna distruttiva delle squadracce fasciste, che avvenne due anni dopo, contro le Camere del Lavoro e le Case del Popolo. Ma a noi piace raccontarci che il fascismo miliziano è nato in Italia, per qualche motivo di distorto orgoglio patriottico.

Per la sinistra estrema il fatto che la SPD, la quale aveva ereditato le redini del governo dal principe Max von Baden, scelse di far parte del sistema consiliare, che si era andato a determinare dopo il 4 novembre 1918, fu un atto di puro opportunismo politico, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla Rivoluzione. Si cita sempre la frase di Ebert il quale reputava la rivoluzione come il peggiore dei peccati. Questa visione è errata. Considerando che la SPD a quel punto era di fatto il partito con il più grande seguito tra i lavoratori, quello di formare un governo provvisorio con gli indipendenti fu un atto di responsabilità. Furono gli indipendenti a titubare avendo tra le loro fila ancora la parte spartachista che non voleva compromessi con i social-patrioti e vedeva come unica possibilità di governo dare tutto il potere ai Räten, Consigli, o Soviet che dir si voglia. Fu solo grazie all’ala moderata degli indipendenti, gli Haase, gli Hilferding, i Dittmann, i Kautsky, gli “smidollati”, che si andò verso un governo provvisorio tutto socialista!

Non è mistero che per i maggioritari la Repubblica doveva essere una democrazia parlamentare costituzionale, mentre per gli indipendenti poteva diventare una Repubblica consiliare e per i più moderati un misto delle due. Fu proprio questo il nodo principale, semplificato: democrazia, aperta anche alle forze politiche borghesi, o dittatura del proletariato che escludesse tutte le altre forze politiche. La seconda opzione non avrebbe concepito per alcun motivo l’elezione dell’Assemblea costituente nazionale. La SPD molto più chiaramente della USPD difese da subito l’idea che solo attraverso una partecipazione democratica di tutti gli strati della società tedesca si poteva salvare la Repubblica. Repubblica democratica che non si poteva chiamare ancora socialista perché obiettivamente non lo era ancora, ma che, come forma di governo, sarebbe stata l’unica a poter permettere la transizione verso il socialismo. Bernstein era di questa idea e il suo passaggio alla SPD fu motivato principalmente da questo. Gli spartachisti, poi comunisti, erano altrettanto netti: la Repubblica era Socialista, anche se inizialmente solo di nome, e per mantenerla tale, o meglio per realizzarla anche di fatto, tutto il potere doveva essere trasferito ai Räten locali che comunque si erano andati formando piuttosto spontaneamente. Questi Räten, come in Russia, almeno nell’idea degli spartachisti, avrebbero esercitato la dittatura del proletariato. Per poter realizzare questa dittatura l’apparato militare e militarista doveva essere smantellato e con esso anche l’apparato burocratico guglielmino, mentre le armi e l’amministrazione dovevano passare esclusivamente ai lavoratori. Se idealmente questo assomigliava molto ad una rivoluzione socialista di stampo marxista, ma in effetti in stile comunardo e in ultimo bolscevico, il fatto era che la maggioranza dei lavoratori era ancora con i maggioritari e con gli indipendenti. I centristi indipendenti, tra l’incudine e il martello, non volevano gettare il paese nelle mani delle forze borghesi, tra le quali, evidentemente, ce ne erano alcune decisamente reazionarie; quindi, volevano tardare le elezioni dell’Assemblea nazionale. Il loro calcolo non era del tutto errato: sostenere le elezioni a gennaio avrebbe significato una rappresentazione asimmetrica dell’elettorato. È per questo che figure come quella di Haase, vanno riconsiderate e rivalutate. Dall’altra parte i centristi indipendenti non credevano praticabile il passaggio di tutto il potere ai Räten rivoluzionari, in quanto questi non avrebbero rappresentato la maggioranza, non avrebbero avuto la stabilità di governo necessaria e soprattutto non sarebbero stati accettati, come forma di governo ufficiale dalle forze dell’Intesa, le quali non sarebbero state a guardare, ma, come in Russia, sarebbero intervenute. Nel difendere la loro posizione, probabilmente la più equilibrata, i centristi indipendenti fecero la figura dei più ignavi, o, per dirla alla Lenin, degli “smidollati”. Per loro il socialismo, dunque, andava raggiunto senza buttar via gli aspetti positivi del sistema consiliare, che i maggioritari avrebbero volentieri relegato nei Consigli di fabbrica, senza bruciare le tappe ed escludere gli altri strati della società tedesca. Si ritrovarono a difendere una Repubblica democratica che coesistesse con una Repubblica consiliare. Furono per questo bersagliati da destra come da sinistra. La storia, soprattutto quella marxista-leninista li ha condannati perché questi non hanno emulato la via bolscevica, ma i socialisti d’oggi stanno pian piano realizzando che la via leninista non fu poi così più giusta.

Per concludere il bilancio sulla socialdemocrazia tedesca va sottolineato che di fronte alla Storia la SPD si è macchiata di crimini contro i lavoratori, l’aver ingaggiato gruppi paramilitari protofascisti per sedare quelli che potevano essere negoziati sindacali, non può passare in sordina. Noske usò le maniere forti causando migliaia di morti; in Germania ci fu una vera e propria guerra civile e la SPD avrebbe potuto cercare di mitigare queste tensioni, come aveva cercato di fare durante il periodo di co-governo con la USPD. In molti casi il dialogo avrebbe sortito risultati molto più vantaggiosi per la SPD stessa. La SPD nel suo, secondo noi, anche genuino tentativo di ristabilire ordine e condizioni socioeconomiche favorevoli al fine di transire al socialismo, invece determinò, e in molti casi favorì, le condizioni per le carneficine sviluppatesi nel biennio ‘19-‘20. Il coup d’État messo in piedi da una parte dei militari il 13 marzo 1920 diede l’occasione di mostrare la capacità dei lavoratori delle tre fazioni SPD, USPD e KPD di essere in grado di cooperare! Non in tutti casi questa cooperazione fu un successo ma quando lo fu i militari furono neutralizzati. Bernstein, grande sostenitore della Repubblica, scrisse: “I giorni dal 13 al 18 marzo 1920 rappresentano la seconda grande data dell’attuale Repubblica tedesca12. Si riferisce proprio all’unione dei lavoratori contro il golpe militare. La mancata unione delle tre forze socialiste in Germania è da biasimare, tutti e tre i movimenti ebbero le loro colpe per non essere stati in grado di riunirsi in un fronte unito che ha dato sempre dei frutti nella storia, ma per qualche motivo viene regolarmente dimenticato. La nostra considerazione politica è che in un momento così aleatorio, di svolta, le forze progressiste devono per forza di cose unirsi, le divergenze resteranno, ma la classe lavoratrice avrebbe avuto una voce unica, forte e stabile.



La socializzazione fu una chimera?

Un elemento chiave, quindi per nulla trascurabile, quando si parla di Rivoluzione tedesca fu il ruolo che ebbe l’idea di (e quindi il movimento per) la socializzazione. La socializzazione non fu un capriccio isolato di pochi comunisti da strapazzo. I lavoratori, che si rifacevano ai maggioritari, agli indipendenti e agli spartachisti, e probabilmente anche quelli di idee più conservatrici, si aspettavano con la Rivoluzione un naturale avanzamento delle condizioni di vita e di lavoro, nonché grosse socializzazioni delle risorse. Durante il governo esclusivamente socialista che durò dal 10 novembre 1918 al 13 febbraio 1919, le masse avevano conservato questa aspettativa. La fortissima affluenza dei lavoratori nei sindacati stava chiaramente a indicare le forti aspettative di miglioramenti economici. L’accordo che Carl Legien riuscì ad ottenere il 15 novembre (Satzung für die Arbeitsgemeinschaft der industriellen und gewerblichen Arbeitgeber und Arbeitnehmer Deutschlands) ovvero gli Statuti dell'Associazione dei datori di lavoro e dei dipendenti industriali e commerciali in Germania ebbe un impatto immediato, diciamo fu un colpo di concretezza di come il socialismo, nell’idea dei maggioritari, poteva essere instaurato, con forti riforme strutturali. Ma tra queste riforme e la socializzazione, i lavoratori ne erano coscienti, vi era una bella differenza. Come visto nella parte II di questo lavoro, la Commissione per la socializzazione venne nominata il 12 novembre 1918. Sotto la direzione del più eminente teorico marxista, l’allora indipendente Karl Kautsky, vi presero parte gli economisti Carl Ballod, Emil Lederer, Joseph Schumpeter, e Robert Wilbrandt, un membro della Associazione per le Riforme Sociali, Ernst Francke, uno dell’Azienda dei fornitori di metalli bellici, Theodor Vogelstein, il sindacalista Otto Hué, un membro del governo prussiano e sindacalista, Paul Umbreit, il maggioritario Heinrich Cunow e l'indipendente Rudolf Hilferding. Con buona pace di chi vuol far passare l’idea che con l’approvazione dei crediti di guerra del 4 agosto 1914 Kautsky sparì dalla scena politica, notiamo che ora, a guerra finita, Kautsky era occupato con diverse cariche nel governo provvisorio. Come abbiamo visto nella parte III di questo lavoro, i risultati preliminari vennero presentati già in occasione del Congresso dei Consigli l’11 dicembre e pubblicato sulla Deutscher Reichs- und Preußischer Staatsanzeiger, sebbene il rapporto ufficiale venne pubblicato il 7 di gennaio 1919 e quindi il 15 febbraio 191913.

Gli scioperi ripresero già nel dicembre del 1918, ne parlò già Rosa Luxemburg al I Congresso del KPD(S), ma si accentuarono a gennaio. L’8 gennaio iniziò quell’esperimento di repressione dei “moti”, ma in effetti dimostrazioni e occupazioni dei radicali spartachisti e degli steward rivoluzionari berlinesi, per mezzo di forze miste di: esercito Landesjägerkorps, volontari Zeitfreiwillige, polizia pubblica Sicherheitspolizei, milizie civiche Einwohnerwehren e corpi franchi Freikorps. Questa ricetta vincente venne applicata poi sistematicamente per sedare gli scioperi nel 1919 e nel 1920, da molti ricordato come periodo Noske. Il 16 gennaio, il giorno dopo l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, per esempio, scoppiò lo sciopero generale a Mülheim, nel cuore della Ruhr; questo determinò l’uscita dei maggioritari, contrari allo sciopero generale, e l’intervento sanguinoso dei Freikorps, intervento richiesto dai maggioritari stessi. Agli scioperi di dicembre e gennaio nella Ruhr si andarono a sommare a febbraio gli scioperi della Germania Centrale schiacciati dalle truppe del generale Maercker e dai Freikorps. Avendo l’Assemblea nazionale preso servizio il 13 febbraio a Weimar, queste repressioni erano già in corso e, se si ricorda l’attacco alla Repubblica Consiliare di Brema, furono anche l’occasione di eliminare i vari Consigli dei lavoratori e dei soldati che si erano formati nel novembre del 1918. La repressione culminò con la soppressione della Repubblica Consiliare di Monaco nel maggio 1919.

Migliori condizioni di lavoro e la socializzazione furono al centro di questi scioperi. La socializzazione non arrivava, nonostante la Commissione si fosse espressa in favore della nazionalizzazione delle industrie già pronte, come quelle estrattive. Dopo un tentativo fallito a gennaio, il 18 marzo 1919 la Commissione sottopose al Ministero dell’Economia del Reich una proposta di legge per la municipalizzazione delle imprese economiche. La Commissione non poteva suggerire una semplice nazionalizzazione del settore carbonifero, il quale sarebbe stato requisito in blocco dalle forze dell’Intesa come riparazione di guerra. Quindi la Commissione suggeriva l’espropriazione di tutte le imprese minerarie e la formazione di singole cooperative economiche autonome Deutsche Kohlengemeinschaft controllate alla pari da dirigenti, lavoratori, Stato e clienti, per mezzo di un organo direttivo, il Reichskohlenrat (Consiglio del carbone di Stato), formato dalle figure menzionate e guidato da 5 membri eletti (direttorio) per 5 anni. Secondo la proposta della Commissione per la Socializzazione il settore carbonifero avrebbe dovuto essere diviso il 20 distretti. I padroni espropriati sarebbero stati risarciti14. Ma fu l’esito delle elezioni dell’Assemblea nazionale a dare il colpo di grazia alla Commissione per la Socializzazione. Il governo provvisorio si spostò a destra e la Commissione fu ostacolata, soprattutto dal sottosegretario, maggioritario, August Müller, quindi, il 7 aprile 1919 i loro membri diedero le dimissioni15. Dopo il putsch di Kapp-Lüttwitz fu nominata una seconda Commissione per la Socializzazione, i suoi membri furono: l'economista lettone Kārlis Balodis o Carl Ballod, quindi il direttore generale dei sindacati cattolici Friedrich Baltrusch, il presidente delle province orientali prussiane, il principe lituano Adolf von Batocki, il cognato di Victor Adler, il maggioritario e membro del Reichstag Adolf Braun, il sindacalista maggioritario e direttore generale della ADGB Adolf Cohen; quindi, l’indipendente Rudolf Hilferding, il sindacalista maggioritario Otto Hué, Heinrich Kaufmann del Vorläufiger Reichswirtschaftsrat, ovvero il Consiglio economico provvisorio del Reich, il nostro buon vecchio Karl Kautsky, Hans Kraemer sempre del Vorläufiger Reichswirtschaftsrat, il direttore dell’Ufficio di statistica di Schöneberg e socialista Robert Kuczynski, l’economista e accademico Emil Lederer, il professore universitario, nonché maggioritario ministro degli Interni nel governo di Stoccarda Hugo Lindemann, il banchiere, democratico, Carl Melchior, il segretario delle associazioni di commercio Hirsch-Dunker, Franz Neustedt, il presidente della AEG, l’industriale ebreo Walther Rathenau; l’industriale Carl Friedrich von Siemens; il sindacalista Paul Umbreit, il banchiere, democratico, Theodor Vogelstein; il professore di economia all’Università di Heidelberg, fratello minore del sociologo Max Weber, co-fondatore del Partito Democratico (DDP) e attivista nei Freikorps Alfred Weber, il direttore della Federazione dei lavoratori specializzati e degli ufficiali Georg Werner, l’ex Delegato del Popolo per la SPD e attuale membro del Reichstag Rudolf Wissell e infine il celebre economista Joseph Schumpeter il quale dovette rassegnare le dimissioni pochi giorni dopo, in quanto nominato Ministro delle Finanze in Austria. Questa seconda Commissione produsse un rapporto il 3 settembre 1920, contenente due suggerimenti, il primo a favore di una socializzazione graduale di Walter Rathenau e Rudolf Wissell, il secondo per l’immediata socializzazione di Rudolf Hilferding e Karl Kautsky. Nessuna delle due fu seguita dal governo che nel 1923 sciolse la Commissione16.

Le aspettative furono disattese, la socializzazione dell’Industria del carbone non avrebbe risolto i grandi problemi economico-sociali che stavano attraversando la Germania in quegli anni ma avrebbe molto probabilmente mitigato gli scioperi e le reazioni violente dei minatori. In effetti il Kohlensyndikat la faceva da padrona determinando i prezzi del carbone e variandoli in base agli scioperi. Fu proprio grazie all’occupazione dell’edificio del Kohlensyndikat a Essen che il 10 gennaio 1919 nacque la Commissione paritetica e la conseguente Commissione dei nove. La quale già il 13 gennaio si espresse per la immediata socializzazione. Il governo provvisorio, preoccupato per il regolare svolgimento delle elezioni del 19, temporeggiò. Il 20 si impegnò a lavorare con la Commissione, ma al contempo dopo le elezioni dell’Assemblea nazionale molti pozzi vennero chiusi con un pretesto e l’edificio del Kohlensyndikat venne sgomberato già il 22 gennaio. Il negoziato si protrasse fino alla preparazione delle truppe governative ancora occupate a reprimere Brema, le quali intervennero infine il 7 febbraio. Ma queste dimostrazioni si estesero a macchia di leopardo e ci sarebbe voluto uno sforzo consistente per reprimerle. Non è un caso che dopo la repressione del febbraio-marzo 1919, gli scontri, pressoché in tutta la Germania, ripresero nel marzo del 1920 in reazione al putsch di Kapp-Lüttwitz.

Tornando al 1919, in risposta agli scioperi nella Ruhr accentuatisi a gennaio, e a febbraio estesisi alla Germania Centrale, il governo non schierò solo le truppe ma iniziò una azione negoziale e “già” il 5 marzo, promise di affrontare la questione della socializzazione e di regolamentare lo status dei Consigli dei lavoratori nella Costituzione. Il 20 marzo il Ministro del Lavoro del Reich, Gustav Bauer, che sarebbe poi diventato primo Ministro in giugno, presentò una bozza che prevedeva la creazione di Consigli operai di fabbrica e distrettuali, nonché di un Consiglio Economico del Reich per regolare tutte le questioni sociali ed economiche. Nella riunione di gabinetto del 26 marzo furono discusse altre cinque varianti: tre del Ministero del Lavoro, una del Ministero dell’Interno e una del Ministero delle Finanze. La proposta finale fu discussa il 4 aprile.

Da parte sindacale le linee guida per i Consigli di fabbrica furono proposte alla Conferenza esecutiva dei Freien Gewerkschaften, sindacati liberi, il 25 aprile 1919, e adottate al Congresso fondatore della Allgemeinen Deutschen Gewerkschaftsbund, ADGB, ovvero la Confederazione generale dei sindacati tedeschi, tenutasi a Norimberga dal 30 giugno al 5 luglio 1919, dove nonostante l’opposizione della USPD e dei metalmeccanici della DMV, prevalse infine la linea di Theodor Leipart e Adolf Cohen17. Il 15 maggio 1919 un primo "Progetto di legge sui comitati aziendali", elaborato a livello dipartimentale presso il Ministero del Lavoro del Reich, fu discusso con i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Infine, la proposta del governo di fissare il sistema dei consigli nella Costituzione fu approvata dal Comitato degli Stati il 30 maggio. La resistenza posta dalla USPD e dai sindacati comunisti si basava sul fatto che la legge sui Consigli di fabbrica non fosse sufficientemente ampia, poiché li consideravano una sorta di appendice dei sindacati18. Il Consiglio di fabbrica diveniva un mero organo consultivo che doveva supervisionare l’operato e sostenere il raggiungimento degli obiettivi aziendali, ma questa legge apportava tuttavia concessioni in materie sociali e in caso di licenziamento19. Sta di fatto che da questo scaturirono gli scontri del 13 gennaio 1920 di fronte al Reichstag che provocarono ben 42 morti e 105 feriti, ossia quando il generale Lüttwitz comandò il tiro al bersaglio su dimostranti inermi. Tale accadimento fu uno dei trigger per il putsch di Kapp-Lüttwitz. Anche in questo caso per i più realisti o comunque quelli che non avevano creduto in un sistema di Consigli, le concessioni apportate da questa legge furono una conquista per i lavoratori, invece per i più radicali, tra i quali molti operai, questa legge simboleggiò la definitiva sconfitta formale del sistema consiliare e quindi del sogno di socializzazione.



Il braccio violento della legge!



L’altra faccia della risposta agli scioperi di gennaio, febbraio e marzo 1919 fu quella repressiva. Questa è probabilmente quella più raccontata. La reazione violenta che andò a schiacciare i tentativi di autogoverno consiliare e i vari scioperi non fu un fenomeno lineare. Secondo noi molta della sua caratterizzazione può essere capita se si considera la logica con la quale Noske si organizzò per reprimere i moti “spartachisti” di Berlino nel gennaio del 1919. Chiaramente Noske si trovò nella posizione di dover racimolare truppe “fedeli” in grado di ripristinare l’ordine a Berlino. Come è evidente i rivoluzionari davanti alla Siegesalle e al Ministero della Guerra già dal 6 gennaio non ricevettero mai disposizioni dal Comitato Rivoluzionario. Sì, erano stati occupati diversi edifici, ma più che un’azione coordinata per la presa del potere da parte di un’avanguardia rivoluzionaria, quest’azione divenne un tremendo caos, e il 10 gennaio venne spazzata via dal segugio Noske. Noske aveva da un lato l’accordo con il generale Groener, dall’altro, anche se non è bello dirlo, una grande massa di lavoratori, studenti, soldati, i “famigerati” freiwilliger, ovvero, volontari che non volevano nessun tipo di rivoluzione “bolscevica” e a questi andavano aggiunte le milizie paramilitari, Freikorps, formate in molti casi da truppe smobilitate che non avrebbero saputo cosa fare se non continuare la guerra nei Paesi baltici, in Polonia, e in Germania all'occorrenza. In alcuni casi, come raccontato dal capitano Waldemar Pabst, ai soldati non veniva neanche detto di essere stati smobilitati. Sta di fatto che il loro servizio fu richiesto alla bisogna dal governo provvisorio. Anche Gustavo Sacerdote, l’inviato dell’Avanti!, raccontò chiaramente e di prima mano come militari dislocati nelle stazioni ferroviarie si prodigarono a disseminare volantini di reclutamento e di propaganda anti-spartachista. È chiaro che già dal 6 dicembre 1918 con il primo tentativo di putsch, i militari videro solo in un ritorno alla ferrea disciplina militare prussiana la soluzione alla “confusione” che si era andata a creare, confusione, o meglio rivoluzione, che aveva avuto una chiara matrice di ammutinamento militare!

Avere le idee chiare nel caos spesso è un vantaggio determinante. Noske già a Kiel, quindi già pochissime ore dallo scoppio della “Rivoluzione”, si rese conto che questa non aveva nulla a che fare con il bolscevismo! Ma era stata un atto di insubordinazione militare nei confronti di un Comando Supremo ottuso, e di una classe di ufficiali opprimente e violenta. Diversi socialisti, tra i quali il poi dimenticato Emil Barth, insistettero nel denunciare la lentezza della smilitarizzazione, le troppe libertà date ai militari, la necessità di congedo immediato di tutti gli ufficiali e la costituzione di una milizia popolare che andasse a sostituire l’esercito! Questo non è un punto da sottovalutare. Il fatto che a tutti i putsch militari si possa collegare il generale Ludendorff sta ad indicare che quel tipo di élite militare prussiana, la quale aveva guidato il paese alla rovina, era tutt’altro che finita. Quel tipo di Germania riprese il potere con i nazionalsocialisti con buona pace per chi crede ancora nella favola di Hitler creatura del male che d’altronde sono gli stessi che credono che il fascismo in Italia fu una malattia, una fase passeggera. Hitler, personalmente si sarebbe riciclato in qualcos’altro nel caso in cui questa élite miliare non avesse avuto modo di risorgere. Egli non fu altro che un abile oratore, il quale impersonò la volontà di quella Germania guglielmina fondata sul militarismo prussiano che era stata abituata a pensarsi al centro delle sorti dell’Europa, fraintendendo di gran lunga il progetto bismarckiano di stabilità europea. Gli storici che insistono a separare le due guerre e non vedono quanto l’Europa, e in particolare la Germania, fosse stata destabilizzata dalla Prima Guerra Mondiale e dal conseguente nefasto trattato di Versailles, non possono che limitarsi a ricordare luoghi e date.

Sarebbe da analizzare il ruolo in Paesi come Germania, Italia, e Ungheria della smobilitazione in confronto a Paesi come il Regno Unito e la Francia. Probabilmente la capacità di smobilitare un esercito così massiccio in modo ordinato e soprattutto reintegrare i propri elementi nella società ebbe un peso determinate sul controllo della formazione e della proliferazione di milizie private alla ricerca di un pretesto per continuare a combattere. La guerra nel Baltico, in più piccola scala l’impresa di Fiume sono evidenti segni di destabilizzazione all’interno della catena di comando tra Stato e esercito.

La Repubblica di Weimar nacque su basi fragili, non per nulla Bernstein, quasi ossessivamente, insisteva sulla necessità si proteggerla e addirittura accettava di schierarsi con i maggioritari. Ma una cosa è chiara: scendere a patti con i militari che hanno dal primo istante tramato contro questo esperimento repubblicano fu il loro grave errore. Mentre Ebert diceva che il socialismo era ordine e lavoro, frase molto apprezzata dal Mussolini diciannovista, e in virtù di ciò era pronto a giustificare una dura repressione. Noi difendiamo l’idea che vi fu una provocazione governativa alla presunta provocazione rossa dei lavoratori più radicali e che quest’ultima si rivelò nella maggior parte dei casi più una legittima difesa più che una provocazione bolscevica come veniva invece dipinta dai giornali. L’autodifesa dei lavoratori fu sacrosanta, ma venne schiacciata dal risentimento militarista, dalla paura del ceto medio conservatore; conseguentemente l’indebolimento del modello sindacalista maggioritario portò la Germania a uno stato di instabilità dal quale non riuscì più ad uscire né finanziariamente né psicologicamente e questo grande peso diede forza pian piano a movimenti protezionistici di rivalsa sociale patriottica che erano incarnati bene dal nazionalsocialismo.



Il “silenzio” di Kautsky



Ribadiamo che una certa storiografia dimentica il ruolo giocato durante la “Rivoluzione” da quello che prima dello scoppio della guerra era chiamato il “papa del marxismo”. Obiettivamente se lo si paragona ad un Lenin che da zero portò i bolscevichi al potere in Russia o ad un Trockij che da subito venne riconosciuto come il leader del Soviet di San Pietroburgo e quindi il leader dell’Armata Rossa, allora Kautsky non può che fare la figura del “tranquillo impiegato delle poste”. Karl Kautsky, come emerge chiaramente nella nostra modesta ricostruzione, fu protagonista in tutti i momenti salienti della “Rivoluzione”. Fu spesso a capo delle delegazioni per i negoziati tra governo maggioritario e rivoluzionari, fu nominato assistente nel primo governo provvisorio, tutto socialista, guidò la Commissione per la Socializzazione, ecc. Sicuramente non fu uno “smidollato” teorico in attesa di scrivere il suo editoriale di critica sterile contro i bolscevichi. Ciò che invece è come ci è stato riproposto dai leninisti.

Kautsky nel settembre del 1921, quindi appena dopo il periodo coperto da questo lavoro diviso in VII parti, scrisse un ricordo di Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Leo Jogiches, tutti e tre giustiziati sommariamente dai Freikorps. Questo testo è una risposta al necrologio di Karl Radek, il quale secondo Kautsky è deficitario nel descrivere la funzione avuta dai tre esponenti della socialdemocrazia tedesca e quindi del Partito Comunista Tedesco. Qui Kautsky riprende un concetto già espresso relativo all’opposizione dello sviluppo economico-sociale in Inghilterra in confronto a quello in Russia, ciò che spiega in ultima analisi quello che c’è in mezzo, ovvero l’Europa. L’Inghilterra, patria del capitalismo liberale, industrializzata e molto proletarizzata, con una borghesia forte; la Russia agricola, priva di libertà individuali, poco proletarizzata, con una borghesia debole. I vari paesi europei hanno una più o meno grande percentuale di sviluppo inglese e/o sottosviluppo russo, oppure viceversa, e questo giustifica il perché dell’esistenza del pensiero riformista, più adatto all’Inghilterra e di quello rivoluzionario più adatto alla Russia. Kautsky, il “rinnegato” quindi afferma:

Già nel 1872 Marx aveva detto dell’Inghilterra che essa avrebbe potuto realizzare pacificamente la transizione al socialismo. Solo gli sciocchi sognano una rivoluzione violenta lì. In Russia, invece, fino al 1917 non c’era quasi una persona intelligente e di carattere, anche al di fuori della socialdemocrazia, che non considerasse la rivoluzione violenta come inevitabile e indispensabile e come un urgente compito pratico.20.

Per il caso tedesco, Kautsky fa notare che vi era abbastanza influenza inglese mescolata a quella russa, in quanto il proletariato si poteva sviluppare ma vigeva comunque una monarchia militarista, non decadente come in Austria. Kautsky pone l’eterno problema della maggioranza, così criticato da Lenin e Trockij. Kautsky sostiene infatti che se la socialdemocrazia tedesca avesse raggiunta la maggioranza si sarebbe presentata la necessità della lotta per il potere per rovesciare la monarchia. Ma per la corrente “inglese” della socialdemocrazia tedesca, impersonata da Bernstein, questa presa del potere non doveva comunque essere necessariamente violenta. Mentre i tre personaggi che determinarono lo sviluppo della corrente russa in Germania, secondo Kautsky furono proprio i tre spartachisti trucidati nel 1919. Kautsky precisa che l’influenza di Jogiches fu comunque minore. Jogiches, continua Kautsky, aveva una natura dittatoriale, ecco perché non riusciva ad andare d’accordo con Lenin. Per colpa della sua natura cospirativa, Jogiches rimase isolato fino alla fine della Guerra, quando poté guidare l’azione cospirativa della Lega di Spartaco. Karl Liebknecht fu, continua Kautsky, il più conosciuto e influente divulgatore dei metodi russi in Germania. Anche per Kautsky, in accordo con Radek, Karl era proprio il figlio di Wilhelm, soprattutto in gioventù. Pieni di vivacità e passione rivoluzionaria, ottimismo e con un’immaginazione che spesso impediva loro di effettuare una valutazione accurata della realtà21. Ma sempre secondo Kautsky la fortuna del padre Wilhelm, oltre a quella di conoscere Marx e Bebel che ne fecero un grande leader, fu quella di partecipare alla rivoluzione democratica e borghese del 1848 e di spendere diverso tempo in Inghilterra, sicché si abituò a mescolare il suo rivoluzionarismo con uno strano “riformismo” all’inglese. Mentre Wilhelm guardò con un misto di entusiasmo e diffidenza i rivoluzionari russi, il figlio Karl ne diventò assiduo frequentatore e loro avvocato.

Nessun monarca è mai stato accolto così entusiasticamente da una folla immensa a Berlino come Liebknecht al suo arrivo all’Anhalter Bahnhof, da dove si recò direttamente all’ambasciata russa. Ma quando, pochi giorni dopo, credette che fosse un dovere della rivoluzione dichiarare guerra al governo dei Delegati del Popolo instaurato con l’insurrezione del 9 novembre, si scontrò con un atteggiamento ostile non solo da parte della massa dei soldati ribelli, ma anche del popolo dei proletari socialisti. Al Congresso dei Consigli dei lavoratori e dei soldati di Germania, che si riunì il 16 dicembre 1918, i suoi sostenitori formarono una minoranza in via di estinzione. Il fatto che abbia prestato più attenzione alle pressioni russe che alla comprensione della realtà tedesca è stata la sua rovina.22.

Quindi Kautsky passa a quella che fu oltre che una compagna di Partito anche una amica, amica di famiglia e amica personale, ma con la quale vi fu una profonda frattura per motivi politici già diversi anni prima. Kautsky senza ombra di dubbio ritiene che Rosa Luxemburg fu dei tre quella che di gran lunga ebbe l'influenza più profonda sulla vita della socialdemocrazia tedesca. Colta, astuta, arguta, con un forte spessore teorico, maestra di parole, “con un’audacia e una mancanza di rispetto quasi favolose che non si piegavano di fronte a nessuno”, così la ricorda Kautsky. Fu proprio a causa della prima Rivoluzione russa nel 1905 che i due entrarono in “confitto”: Luxemburg era convinta che si potessero forzare i tempi trasferendo i metodi della Rivoluzione russa in Germania.

Così, a partire dal 1906, cominciò gradualmente a crearsi tra noi una certa tensione, che per un certo periodo fu ripetutamente superata grazie all’amicizia personale, ma che alla fine portò ad una rottura nel 1910, quando la mia amica cercò di dare alla campagna prussiana per il suffragio universale una svolta che, a suo avviso, avrebbe portato alla rivoluzione, mentre la mia avrebbe dovuto portare ad una sconfitta sconvolgente. Fu allora che entrammo in aperto conflitto nell’estate del 1910. E allo stesso tempo Rosa Luxemburg ruppe con Bebel per gli stessi motivi. Ciò è stato chiaramente espresso a Jena al congresso del partito del 1911, in cui Bebel affrontò i quattro radicali: Luxemburg, Liebknecht, Ledebour e Lensch. L’antagonismo tra noi fu ulteriormente esacerbato quando scoppiò la guerra mondiale. Negli ultimi anni prima della guerra, Rosa Luxemburg e i suoi amici avevano ritenuto che allo scoppio di una guerra del genere il proletariato avrebbe risposto con una rivoluzione. D’altra parte, io sottolineavo che se il proletariato fosse stato troppo debole per impedire lo scoppio della guerra, non sarebbe certamente stato in grado di rispondervi rovesciando il governo. Al contrario, come prima Engels, anch’io temevo una guerra, ad esempio tra Francia e Germania, che avrebbe riempito di qua e di là le masse di un’estasi nazionalistica, che neppure l’Internazionale avrebbe potuto controllare. Purtroppo, in questo avevo ragione, al punto che, nonostante la mia pessimistica lungimiranza, sono rimasto sgomento. Si può immaginare che terribile effetto debba aver avuto su Rosa Luxemburg l'improvviso crollo delle sue aspettative. Come al solito, sono stato incolpato di quello che temevo perché l’avevo annunciato in anticipo. [...]

Nei suoi scritti Radek fa anche uno sfacciato riferimento ai miei litigi con Rosa Luxemburg e ovviamente pensa che io abbia avuto torto. Ma è uno strano manierismo quello di Radek quando cerca di dimostrate il mio torto con fesserie come queste: «Basti ricordare i risultati della coalizione con la borghesia che Kautsky lamentava in novembre, in cui si poneva come ‘garzone di bottega’ del signor Solf, il Ministro degli Esteri di Guglielmo II», per evitare di dover difendere la correttezza della posizione di Rosa Luxemburg nelle sue lotte contro Kautsky. Radek forse sa anche che nel novembre 1918 una coalizione con la borghesia era fuori discussione. La coalizione che sostenevo era quella dei socialdemocratici indipendenti con i socialisti di destra. Non mi sono sottomesso affatto al signor Solf, tanto meno come ‘garzone di bottega’, ma sono stato invitato dai socialdemocratici indipendenti al Ministero degli Esteri come loro rappresentante, in qualità di Assistente e in nessun caso come sottosegretario di Stato, per controllare il signor Solf, così come Däumig fu assegnato come vicesegretario di Stato al ministro della Guerra Scheuch. Dopo pochi giorni, seppi che non potevo collaborare con Solf e chiesi che Solf fosse destituito o altri nominanti al mio posto. Fui convinto a restante solo dall'assicurazione del Gabinetto che la destituzione di Solf fosse già stata decisa. Non appena fu trovato un successore, Solf effettivamente se ne andò23.

Kautsky è sicuro che se Luxemburg, fosse sopravvissuta, non avrebbe ciecamente seguito la linea di Mosca come andava facendo Clara Zetkin, e comunque ricorda che, come grande esperta delle cose russe, la sua critica nei confronti dei bolscevichi l’aveva già iniziata nel 1904.

Già prima di Levi, e sicuramente in modo più deciso e abile di lui, avrebbe sollevato all’interno del Partito Comunista le bandiere della ribellione contro Mosca”.

Quindi in conclusione per Kautsky: “Dopo il rovesciamento del 1918, non abbiamo più nulla da imparare dalla Russia”.

Quella di Kautsky è sicuramente una figura da rivalutare anche nel contesto della Rivoluzione tedesca. Kautsky quindi non si rifugiò nel silenzio e non venne meno alle sue idee. Le sue idee non erano più funzionali a quelle che stavano lottando con le unghie e con i denti in Russia per rimanere a galla, quindi, Kautsky doveva essere relegato al ruolo di “rinnegato”.



Conclusioni



Un tema ricorrente in socialisti di alto calibro come abbiamo potuto vedere analizzando le biografie di Jean Jaurès24 e Leon Blum25,26 e che troviamo anche in Eduard Brenstein è la difesa della Repubblica. Questo ci fa tornare necessariamente alla così tanto discussa introduzione di Engels alla Lotta di Classe in Francia, 1848-1850 di Marx. Qui Engels pur ripetendo che:

Lo Stato non è nient'altro che una macchina per l’oppressione di una classe ai danni di un’altra, e davvero nella repubblica democratica non meno che nella monarchia”, nonostante ciò: “Il proletariato può solo usare la forma repubblicana, una e indivisibile.27.

Probabilmente è proprio in Kautsky che questo concetto viene elaborato ulteriormente. Vero è che nella Storia un Partito Socialdemocratico marxista, con una netta maggioranza, non ha mai avuto l’opportunità di essere testato. È probabile che un modello kautskiano avrebbe proposto un periodo di transizione ancora controllato da un regime di capitalismo statale. Anche se alcune soluzioni prese dalla Commissione per la Socializzazione forse ci avrebbero potuto smentire. Mentre l’unico modo per uscire dal capitalismo sarebbe stato “abolire l’uso del lavoro salariato28. Poteva il sistema consiliare ambire a tale traguardo? L’organizzazione in stile consiliare avrebbe avuto sicuramente dei vantaggi in termini di rappresentanza, ma sempre con il presupposto che la maggioranza avesse voluto la transizione al socialismo. Altrimenti? Altrimenti il risultato sarebbe stato ben visibile. Il fatto che diversi indipendenti optarono per la convivenza della Costituzione e dei Consigli va proprio in questa direzione. Tramite la Costituzione della Repubblica democratica si doveva stabilizzare il Paese in tutte le sue espressioni e tramite i Consigli si sarebbe potuto iniziare un lavoro di trasformazione radicale. Ma i Consigli furono in grado di attuare questa trasformazione socioeconomica? Evidentemente no. Lo sarebbero stati se avessero avuto tutto il potere? Anche questo è discutibile se si analizza in che realtà erano immersi e se non si tiene contro solo del loro potenziale teorico. Optare per una convivenza sarebbe stato l’unico modo di tenere in vita la speranza di poter socialistizzare la società tedesca ed eventualmente transire al Socialismo. Ma tale sarebbe stata solo una speranza. Le condizioni reali del 1918-1920 avrebbero dato poco scampo a un esperimento radicale socialista in Germania e probabilmente in qualsiasi altra parte del mondo. È triste constatare come ancora oggi stiamo pagando le conseguenze della Prima Guerra mondiale. Non tutte le problematiche di dominio nazionale vennero infatti risolte con la Seconda Guerra mondiale. In più non abbiamo avuto modo di realizzare nuovamente una vera e propria Internazionale dei Lavoratori. Tale Internazionale, morta con lo scoppio della Prima Guerra mondiale, potrà essere l’unica possibilità di ricostruire un movimento forte in grado di tentare il passaggio dal Capitalismo al Socialismo. L’Internazionale dovrà essere inclusiva! Non si potrà più permettere alcun tipo di frammentazione che, come abbiamo visto, non va mai a favore della classe lavoratrice. Ora che il potenziale distruttivo del Capitalismo è sotto gli occhi di tutti non c’è più tempo da perdere. Se possiamo imparare una cosa dal passato e dalla Rivoluzione tedesca è che i lavoratori socialmente coscienti devono unirsi in un Partito, nel quale ci saranno idee diverse, approcci diversi, ma deve formare un muro contro il protezionismo nazionalista e deve lottare a favore dell’internazionalismo.



CESCO

1Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020.


2Paul Frölich, Rudolf Lindau, Albert Schreiner e Jakob Walcher. Rivoluzione e controrivoluzione in Germania 1918-1920. Dalla fondazione del Partito comunista al putsch di Kapp. Titolo originale: “Illustrierte Geschichte der deutschen Revolution”, 1929. Pantarei editore, 2001.


3Various authors.The German Revolution and Political Theory. Edited by Gaard Kets and James Muldoon. Palgrave MacMillan Springer Nature 2019.


4Cesco. Il “Gruppo Socialista Internazionalista” sullo scopo e la modalità del suo attivismo politico. Adattamento Socialista, settembre 2022.


5Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 415.


6V. I. Lenin. A Letter to the German Communists.14 August, 1921. https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1921/aug/14.htm


7Gustavo Corni. Weimar. La Germania dal 1918 al 1933. Carocci editore, 2020, p. 123.


8Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 387.


9Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 375.


10Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 376.


11Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 380.


12Marius S. Ostrowski. Eduard Berstein on the German Revolution. Selected Historical Writings.Palgrave MacMillan, Springer Nature, 2020, p 392.


13Jürgen Backhaus, Günther Chaloupek, Hans A. Frambach. The First Socialization Debate (1918) and Early Efforts Towards Socialization. The European Heritage in Economics and the Social Sciences, Volume 23, Springer Nature Switzerland AG 2019, p 5.


14Jürgen Backhaus, Günther Chaloupek, Hans A. Frambach. The First Socialization Debate (1918) and Early Efforts Towards Socialization. The European Heritage in Economics and the Social Sciences, Volume 23, Springer Nature Switzerland AG 2019, p 7.


15Jürgen Backhaus, Günther Chaloupek, Hans A. Frambach. The First Socialization Debate (1918) and Early Efforts Towards Socialization. The European Heritage in Economics and the Social Sciences, Volume 23, Springer Nature Switzerland AG 2019, p 9.


16Jürgen Backhaus, Günther Chaloupek, Hans A. Frambach. The First Socialization Debate (1918) and Early Efforts Towards Socialization. The European Heritage in Economics and the Social Sciences, Volume 23, Springer Nature Switzerland AG 2019, pp 10-11.


17https://www.gewerkschaftsgeschichte.de/1918-bis-1923-gewerkschaften-55513-das-erste-betriebsraetegesetz-56265.htm


18https://www.dgbrechtsschutz.de/fileadmin/media/0_2015_Media_Neu/PDF/Gesetze/Betriebsraetegesetz_2020.pdf


19https://www.gewerkschaftsgeschichte.de/1918-bis-1923-gewerkschaften-55513-das-erste-betriebsraetegesetz-56265.htm


20Karl Kautsky. Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Leo Jogiches: Ihre Bedeutung für die deutsche Sozialdemokratie.Vorwärts. Charlottenburg, 1 september 1921.


21Ibidem.


22Ibidem.


23Ibidem.


24Cesco. Jean Jaurès: Estratto da The Life of Jean Jaurès di Harvey Goldberg. Adattamento Socialista, luglio 2021.


25Cesco. LÉON BLUM: UN SOCIALISTA “PRIGIONIERO” DELLA REPUBBLICA - PARTE I- (TRATTO PRINCIPALMENTE DA “LÉON BLUM: HUMANIST IN POLITICS” DI JOEL COLTON). Adattamento Socialista, luglio 2023.


26Cesco. LÉON BLUM: UN SOCIALISTA “PRIGIONIERO” DELLA REPUBBLICA - PARTE II- (TRATTO PRINCIPALMENTE DA “LÉON BLUM: HUMANIST IN POLITICS” DI JOEL COLTON). Adattamento Socialista, agosto 2023.


27https://jacobin.com/2020/11/friedrich-engels-revolutionary-republicanism-class-struggles-france-marx


28Dan Kolog. Democrazia parlamentare e democrazia sovietica nel dibattito socialista tra le due guerre mondiali: Oltre la dicotomia riformismo-bolscevismo. Adattamento Socialista, febbraio 2022.




Comments