Giovanni Zibordi e la guerra





Breve introduzione

Abbiamo già menzionato e citato Giovanni Zibordi principalmente in attinenza alla nascita del fascismo nella serie dedicata al “Patto di pacificazione1. Nonostante sia meno discusso e studiato di altri, come Angelo Tasca, Zibordi ha avuto un’esperienza diretta del fenomeno fascista, del quale fu vittima, e riuscì sempre a vederne le cause in modo distaccato e preciso. In questo breve testo cercheremo, probabilmente non in modo esauriente, di seguire il suo atteggiamento nei confronti della guerra. Questo breve lavoro si vuole riallacciare ad una analisi più ampia che abbiamo iniziato studiando l’Armée Nouvelle di Jean Jaurès2.

Giovanni Zibordi è stato uno dei massimi esponenti del socialismo riformista italiano, assieme a Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani, Giacomo Matteotti e Camillo Prampolini3. Fu proprio vicino sia geograficamente che ideologicamente a quest’ultimo. Nacque a Padova nel 1870 da Roberto Zibordi e Giuseppina Sacchetti: la madre in particolare proveniva da una famiglia di stampo fortemente cattolico e lo zio Giuseppe Sacchetti ne era un militante intransigente. Non ancora ventenne perse padre, madre e due dei cinque fratelli. La famiglia si era trasferita a Poggio Rusco nel mantovano, area colpita da una profonda crisi economica e diversi moti di protesta, tra i quali spiccano per notorietà quelli de la boje4 del 1884 e 85.

Nel 1888 Zibordi frequentò la Facoltà di lettere dell’Università di Bologna e tra i docenti ebbe Giosuè Carducci, il quale lo influenzò in alcuni aspetti. Si laureò nel 1892 con una tesi su “La vita di Augusto di Svetonio e la vita di Carlo Magno di Eginardo: considerazioni e confronti”. Durante il periodo universitario entrò a far parte del Circolo radicale di Poggio Rusco e del comitato universitario mantovano. Nel 1894 fu nominato presidente della Società operaia di Mutuo soccorso di Poggio Rusco e, con la repressione di Crispi, Zibordi subì due processi nei quali venne assolto in appello. Questi furono anni in cui Zibordi fu impegnato con l’attivismo locale nelle campagne mantovane. Da questa attività emerse nel 1896 una raccolta “Dialoghi campagnuoli5 e, proprio nel 1896, iniziò anche a collaborare con la Critica Sociale6.



Zibordi contro la guerra

Zibordi era stato uno dei principali protagonisti del XIV Congresso del Partito Socialista italiano tenutosi ad Ancona nell’aprile del 1914, che aveva avuto luogo appena prima della “settimana rossa”, un moto di scioperi che aveva interessato tutta la penisola nel giugno del 1914. Nel frattempo, in agosto, era scoppiata la guerra tra impero l’Austroungarico e il Regno di Serbia e, di conseguenza, tra la Germania prussiana e la Russia zarista insieme alla Repubblica francese e, poco dopo, anche al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, il quale era intervenuto in difesa del Regno del Belgio.

In questo periodo Zibordi è alle prese con il criticare quello che dalla fine del 1912 era l’eclettico direttore dell’Avanti!. In ciò non è solo e già altri riformisti con lui (e anche alcuni rivoluzionari) hanno lamentato divergenze profonde. Secondo Zibordi, il direttore dell’Avanti!, Benito Mussolini, era tuttalpiù il rappresentante di se stesso e non a caso Zibordi si chiede: “rappresenta egli almeno la sua* frazione?7. Zibordi osserva che la folla lo segue, perché gli stati d’animo di Mussolini “rispondo oggi a una condizione che è nella folla”. Ora, con la guerra in procinto di scoppiare, Zibordi esclama: “Quanta psicologia del nazionalismo vi è nel mussolinismo!”. Come abbiamo avuto modo di mostrare8 in un altro lavoro, il cambio di fronte di Mussolini non fu improvviso; infatti, anche questa osservazione di Zibordi data il 25 luglio 1914, quando la guerra sembrava sì inevitabile (e in Italia, come del resto in Germania e in Francia, l’opinione pubblica era pervasa da un crescente sentimento nazionalista), ma di fatto ancora non era scoppiata. Zibordi, quindi, vide lungo insistendo che nonostante Mussolini riuscisse a interpretare il malessere della folla, egli non era seguito neanche da un parlamentare socialista e anche tra i rivoluzionari c’era chi lo criticava. Qui si riferiva alla posizione di Menotti Serrati che a Venezia dirigeva il Secolo Nuovo e guidava la Camera del Lavoro il quale, nonostante fosse stato uno dei protagonisti della “settimana rossa”, non condivideva la posizione anarco-sindacalista presa da Mussolini.

In settembre, quando la guerra imperversava ormai da un mese, Zibordi continuò la sua polemica con l’Avanti! di Mussolini, il quale criticava i riformisti per aver «positivisticamente» esiliato un’era di catastrofi sociali che oramai si stava palesando con lo scoppio della guerra europea. I riformisti, secondo il direttore dell’Avanti! erano rei di credere nella via pacifica al socialismo. Zibordi replicò: “Il fatto è che la dimostrata impotenza dei proletariati tedesco ed austriaco a impedire la guerra ammonisce che la rivoluzione non si fa con le minoranze e con la buona voglia, ma con la forza, con la preponderanza […] capace di trascinare nelle grandi ore storiche la masse dei contadini.9. In ottobre, 1914, Zibordi entrò nel merito del neutralismo: egli era disgustato dall'atteggiamento di alcuni riformisti, ma non esitò a menzionare anche radicali, repubblicani e sindacalisti, che si dichiaravano a favore della neutralità “premeditando di violarla”. “La neutralità dell’Italia (oltre tutte le particolari specifiche ragioni socialiste) aveva un ‘carattere’, una dignità nazionale, a patto d’esser neutralità leale, imparziale, sincera. Era l’Italia, che stava in disparte dalla strage, e rivendicava l'autonomia della sua civiltà. Compiva un grande atto di lealtà e di fierezza […] rifiutando di partecipare al macello delle nazioni […]. L’unico nostro voto, platonico sia pure, ma l’unico vero, come socialisti doveva essere, che il maggior numero possibile di soldati proletari, di tutte le parti, compissero il ‘sabotaggio’ della guerra, fraternizzando, internazionalmente e affrettando la fine dell'eccidio e l’aurora della pace.10.

Si chiede retoricamente Zibordi: “E non basta questo balordo misc-masc11 di Hervé convertito e di D’Annunzio che fa la commedia del cattolicesimo militarista; di sindacalisti e di anarchici guerraioli, di rinnegati venduti, maestri di ‘socialismo’ a noi dalle colonne dei giornali borghesi; di gente senza fede o senza indirizzo, […] non basta questa chiara alleanza di antisocialisti di tutte le rive […] per ammonirci che la via buona è quella che abbiamo scelta e nella quale abbiamo perdurato, con un atto di costanza e di forza che riabilita il nostro Partito?”.

Senza mezzi termini critica la Union sacrée attuata in Francia e la Burgfrieden in Germania; “Menzogna stolta e perniciosa che a certe ore i partiti spariscano e interessi superiori uniscano tutti!”. Quindi Zibordi non può esimersi dall’affrontare la questione della nazione. Secondo Zibordi gli interessi del proletariato, classe più numerosa, dovrebb’essere quelli della nazione, ovvero, se la nazione non fosse governata da un gruppo particolare, la borghesia, l’internazionalismo proletario determinerebbe il rapporto tra le varie identità nazionali. Il 1° ottobre 1914 Zibordi pubblica sull’Avanti! “Ribadendo il chiodo: Classi e Nazioni” in cui critica i riformisti di destra che vorrebbero insegnare ai socialisti ma ne rimproverano la neutralità, critica i democratici borghesi, che dalla neutralità sono passati all’interventismo; quindi, i radicali e sindacalisti nostrani e di oltralpe, come Hervé, che ora vedono in Alceste De Ambris il nuovo Garibaldi. “Io, socialista «evoluzionista», temperato, come usa dire la sciocca nomenclatura avversaria, accessibile a intendere e praticare le collaborazioni di classe in tutto ciò che è conquista di civiltà, sento profondissimamente la lotta delle classi quando si vuol mandare la nazione – e per essa e con essa il proletariato – alla guerra. […]”. Per Zibordi la collaborazione di classe in caso di guerra è imposta al proletariato dalla borghesia anche se, nota, nelle nazioni che si sentono assalite può effettivamente coesistere un grado di collaborazione di sentimenti. Ma, ammonisce Zibordi, “non bisogna dimenticare che quest’armonia non è bilaterale. Se la guerra significa collaborazione di classe del proletariato verso la borghesia, non significa… il viceversa”. Zibordi chiude l’articolo scrivendo: “L’unica forma possibile della sua lotta di classe per il proletariato italiano è di resistere alle forze che vorrebbero spingerlo riluttante nell’onda sanguinosa che allaga ed affoga l’Europa”.12. Su Critica Sociale risponde alle polemiche che i suoi due articoli dell’Avanti! e di Critica Sociale avevano innescato. Ironicamente Zibordi nota che la polemica politica interventista è solitamente fatta da ex, ovvero, ex-socialisti, ex-anarchici e “non di rado ex-galantuomini” aggiunge13. Zibordi ammette che il suo pensiero non risulta conclusivo (non consiglia né la rivolta né la diserzione) e di non saper consigliare nulla di pratico, ammette quindi che il suo è uno stato d’animo condiviso da migliaia di lavoratori, ovvero di mandare all’inferno “tutti quanti; la Germania militarista e la Francia banchiera nonostante il berretto frigio; l’Inghilterra coloniale e la agricola Russia; il Kaiser non meno che il signor Caillaux; le monarchie autocratiche e le repubbliche plutocratiche; il monopolio industriale che genera le guerre; il latrocinio militarista che ci mangia sopra, e la grande stampa che le prepara, che imbroglia il suo pubblico di allocchi, e fa perfino nei giorni più gravi, la sua piccola vile politichetta per cambiar qualche uomo nel Gabinetto o qualche Ministero al Governo, e non riesce a levarsi più in alto.”. “Il mio programma [replica Zibordi] è […] gridare, di ripetere queste cose; di smascherare i trucchi meditati e le inconsce incoerenze e menzogne; di dire la parola della ragione, della civiltà, della verità nuda e dura e sgradita; di sviscerare e mostrare questo corpo della società borghese […] alla gente, perché ci vada dentro, ne conosca i meccanismi, e intenda e impari e provveda almeno per l’avvenire”.

Zibordi è uno dei pochi, insieme ad altri riformisti come Turati, Kuliscioff, Treves e Modigliani, e a pochissimi rivoluzionari, come Serrati, a potersi fregiare di non essere per nulla sorpresi del cambio di fronte di Mussolini. “Stupore e sgomento degli ingenui ed ignari, ira dei più accaldati, sospetto e invettive nei più fanatici, capogiro nei mediocri, sogghigno negli scettici” scrive pochi giorni dopo, l'articolo è del 11 novembre, le dimissioni di quello che era stato il direttore per la corrente rivoluzionaria intransigente14. Zibordi correttamente definisce Mussolini un individualista che in linea con il suo temperamento romagnolo preferisce l’azione e che questo suo tratto era già emerso in precedenza, quindi non c’è da sorprendersi. Noi siamo contro la guerra, insiste Zibordi, anche perché siamo riformisti che non credono nei colpi di mano, “siamo contro alle guerre […] per un alto rispetto che abbiamo della vita del popolo […]. Sempre lui, sfruttato, calpestato, ucciso o suicida, questo popolo inconscio di sé, del suo valore sociale, del prezzo della sua vita! 15. Zibordi, preoccupato, conclude che il Partito è pur sempre controllato dalla frazione estrema della quale Mussolini era uno degli esponenti più in vista, e che pochi in questa possono definirsi rivoluzionari veri.

Molto interessante l’analisi che Zibordi fa dell’atteggiamento interno al Partito in merito alla guerra, soprattutto quando analizza il rapporto tra patria e classe. “Questa strana confusione fra patria e classe, fra amor di patria e lotta di classe” la chiama Zibordi. Egli constata che le due tendenze permangono anche su questo argomento: ci sono quelli che “concepiscono il proletariato del tutto fuori delle realtà attuali. Il suo mondo, e il mondo borghese sono distinti in tutto e diversi ed avversi. La guerra? è affare della borghesia: non riguarda il proletariato. Un’invasione? Tocca la patria di lor signori: il popolo non ha patria, perché nulla ha da difendere”, e poi vi sono quelli che mostrano sentimenti per-socialisti di irredentismo, latinismo, francofilismo16. Nell’appello ai lavoratori di Montecchio per le elezioni amministrative Zibordi dice: “Il nostro voto deve significare che la nostra avversione alla guerra non è egoistica e monca, non è figlia d’opportunismo o di viltà, ma nasce da profondi sensi umani e civili, dalla cura degli interessi dei lavoratori, dalla visione di una vera «patria», più grande non in armi ma in civiltà, dalla piena coscienza che le guerre crescono sul terreno del sistema borghese; e che l’unico grido sincero e logico, che completa l’abbasso la guerra, è il viva alla fraternità internazionale dei lavoratori, è il viva il Socialismo!17.

Intanto in maggio, 1915, il Regno d’Italia entra in guerra a fianco dell’Intesa: Francia, Regno Unito e Russia. Zibordi insiste che il fatto che l’Italia è in guerra non deve alterare la politica del Partito Socialista, che non deve stare in disparte, ma non per questo collaborare così come non deve andare “a rimorchio, ma dominar […] le iniziative e le azioni”. Quindi no alla politica del “tanto peggio tanto meglio”, ma neanche per una unità sacra18. Questo della classe e della nazione è un tema centrale per Zibordi che lo aveva affrontato prima dell'intervento e che lo riprende anche nell’ottobre del 1915. “[...] si va ripetendo da molti che, sotto l’influsso possente della guerra, la nazione ha assorbito, le classi e i partiti; […]. Classi e partiti sono morti nella concordia nazionale”19, ovviamente per Zibordi questa cosa è ridicola ma molto insidiosa ed è per questo motivo che gli dedica molto spazio. In un interessante articolo di fine ottobre, 1915, Zibordi anticipa i tempi affrontando un argomento che diventerà un punto cruciale del primo dopo guerra, ovvero l’accoglienza dei reduci: da un lato la speranza è che la guerra duri poco, dall’altro Zibordi mette in guardia che quando i lavoratori, che sono stati chiamati alle armi, torneranno a casa pretenderanno riforme! “Questi soldati torneranno alle loro case con una coscienza accresciuta dei loro diritti, in ragione dei sacrifici sofferti e delle imprese compiute.20. Allo stesso tempo Zibordi rileva il rischio che i proletari una volta tornati dal fronte siano spinti dall’opinione pubblica borghese ad esigere compensi per una ideale nazionalista. Questo sarà esattamente il meccanismo messo in atto dal fascismo. Nonostante ciò, Zibordi crede che la guerra funzionerà come antidoto contro tale idealismo nazionalista: “è inspiegabile invero come si possano intonare i deprofundis alla nostra idea, […]”21. In questo articolo inconsciamente Zibordi riporta sia il prevedibile moto di protesta del proletariato identificabile con il biennio rosso ma anche, come già accennato, uno dei cardini essenziali su cui fece leva il fascismo, ovvero il senso di rivalsa degli ex-combattenti contro gli imboscati e i pescecani e il loro esigere di rifare l’Italia. Se Zibordi non può ancora prevedere che quel neoidealismo nazionale diventerà una minaccia concreta, lo denuncia già come tendenza pubblicistica nell’ottobre del 1915! Quindi in chiusura del 1915 Zibordi, rigoroso neutralista, ribadisce la sua contrarietà alla concorda tra partiti o «unione sacra». Da far notare quanto una posizione simile in Francia sarebbe stata difficile da sostenere all’interno della SFIO, e solo grazie a uomini come Jean Longuet, Paul Faure, Adrien Pressemane e Henri Barbusse della Fédération de la Haute-Vienne che alcune frange dei socialisti francesi si discostarono dalla ancora indiscussa Union sacrée. In questo articolo Zibordi fa anche una lucida costatazione che la Democrazia cristiana, così chiama i popolari, “nacque dal bisogno della concorrenza al Socialismo.22, e questo si palesò aggiungiamo noi soprattutto durante il secondo dopoguerra.

Il discorso alla Camera tenutosi il 2 dicembre 1915 da Caludio Treves diede adito a pesanti polemiche per via della singola frase che i soldati nelle trincee: «fanno il loro dovere». Zibordi aveva già denunciato il giornalismo parlamentare per la strumentalizzazione che faceva dell’informazione usando già da esempio il discorso di Treves23, quindi, a febbraio 1916, si concentra sul tema, altamente delicato, della accettazione o meno dei socialisti italiani nei confronti della guerra. Zibordi disquisisce sull’uso della parola dovere24. In sintesi, Zibordi spiega che se fare il proprio dovere ha un’accezione di apprezzamento, la moltitudine di operai e contadini al fronte sono stati mandati dalla classe dominate in guerra e alla guerra neanche ci pensavano; quindi, si ritrovano a dover fare la guerra. Che poi la facciano bene perché sono abituati a far il loro dovere è comprensibile, per via del loro spirito di sacrificio e di solidarietà. Zibordi concede forse per la prima volta che: “le classi proletarie di tutti i paesi, chiamate alla guerra, simultaneamente fraternizzassero: questo è il voto di ieri, e l’auspicio di domani. Non basta a rispondere al quesito dell’oggi. Il quale è complesso fino al paradosso. Ciascun partito socialista, in casa sua accetta – checché ne dica – la necessità dell’ora e i «doveri» creati dalla necessità, ed è, in fatto, anche se non a parole, con la sua nazione; e, al tempo stesso, guarda fuori e tende la mano cercando se incontri una mano fraterna, per instaurare via via una situazione che chiuda l’universale eccidio in virtù precisamente di energie internazionali che sappiano imporsi a tutti senza sopprimer nessuno.

L’Avanti! non tarda di notare e commentare questa presa di posizione di Zibordi e la critica perché: “il dovere del proletariato in tutte le ore non è quello di farsi istrumento degli altrui interessi, ma di continuare a lottare per i propri, in tutti i modi”. Zibordi riprende le parole di Serrati che al Congresso dei socialisti biellesi, presentando il manifesto di Zimmerwald, afferma che i lavoratori non avevano nulla da guadagnare dalla guerra alla quale “danno per forza i corpi”, e aggiunge che i socialisti dovevano evitare che i lavoratori dessero alla guerra anche l’anima. Secondo Zibordi le parole di Serrati non sono poi così dissimili dalle sue, e aggiunge che una condotta rettilinea durante la guerra era impossibile altrimenti: “Chi è a destra, dovrebbe, coerentemente, andare fino a conseguenze estreme, e confondersi coi partiti «nazionali». Chi pende a sinistra, dovrebbe, coerentemente, spingersi fino all’herveismo; e tuttavia ciò non accade, perché mille ragioni, di partito, di disciplina, o di responsabilità, di realtà, trattengono, infrenano, contengono dentro una strada, larga assai, tortuosa, o percorsa a zig-zag, ma che però ha dei margini oltre i quali non si sconfina [...]”25. “A cose finite, quando si farà il bilancio, si vedrà che tutti hanno dovuto concedere qualche cosa; e il più degno di lode sarà quello che ha fallato meno, proprio come, in guerra […] il miglior generale è quello che fa meno errori26.

In un articolo pubblicato nel maggio del 1916 Zibordi sposta la sua attenzione su un tema sempre attinente alla guerra ma molto diverso dalla polemica sul dovere. Partendo dalla esperienza del Comune, socialista, di Bologna, Zibordi insiste sul conflitto tra Comuni e Stato, e in particolare Comuni socialisti e Stato che fa la guerra. “Il Comune è contro lo Stato, sorge contro lo Stato, impreca contro lo Stato, denuncia alle popolazioni lo Stato, eppure reclama dallo Stato, attende dallo Stato, sente che solo la potenza dell’esponente della collettività nazionale può arrivare là, dove la piccola forza locale è inadeguata!27. Zibordi si chiede: sono i Comuni contro lo Stato per assediarlo e influenzarlo e quindi trasformarlo, o vogliono i Comuni ignorarlo e fare per conto loro? In Psicologia di guerra28 Zibordi tocca nuovamente il tema del discredito che si fa in Parlamento, ma anche sui mezzi di informazione, dei socialisti che, poiché antiinterventisti, vengono dipinti come “parricidi”, ovvero contro la patria, e quindi come nemici interni, inoltre freddi nei confronti dei combattenti. Quest’ultima accusa sarà poi attribuita come uno dei fattori determinanti l’adesione al fascismo da parte degli ex-combattenti. In chiusura del 1916 Zibordi constata che: “L’Italia, nazione a sé, antica e giovine a un tempo, non fatta per classificarsi né fra le grandi Potenze, né fra le minori, doveva sentire un particolare suo orgoglio ed ufficio, una sua forza storica e una virtuale energia d’avvenire, da collocarsi fuori e sopra del conflitto, sola e con tutti ad un tempo […]”29, ma una volta entrati in guerra i più fanatici sostenitori ed emulatori della Germania erano diventati germanofobi a tuttotondo rigettando anche arte e scienza che arrivava da quel paese, per Zibordi questo era sintomo della pochezza intellettuale di questi servili intellettuali, politici e giornalisti italiani.



Il 23 maggio 1917 Zibordi scrive un importante articolo, che abbiamo già riportato altrove30, dove analizza l’avvicinamento fra Bissolati e Mussolini, ovvero, fra i destri e i sanculotti: “In fondo, essi si sono sempre somigliati, per vari aspetti […]”, osserva Zibordi. “Dividerli per categorie, tutti costoro che stanno per formare il gran fascio dei socialisti nazionali, […] analizzare distinguere le origini, la genealogia del loro «socialismo», i motivi psichici che li spinsero a questa foce; le intricate e contraddittorie cagioni per cui il professore latte e miele, uscito dal partito nel 1912 per r[i]pugnanza e paura – vera paura fisica – di Mussolini e del Mussonilismo, si trova ora ad essere, con berretto frigio in capo e sciabolone a tracolla al seguito del Generale comunardo […] tutto ciò sarebbe dilettevole ed istruttivo, ma troppo lungo31. Zibordi esamina la situazione interna al partito sottolineando che l’atteggiamento del Partito nei confronti della guerra era ed è di non aderire e non sabotare; ogni azione per combattere la guerra «europea», e per affrettare la pace, si svolgerà internazionalmente, in concordia coi proletari socialisti degli altri paesi”. Nota che una corrente guidata da Amadeo Bordiga, trova questa linea poco classista, al Convegno di Roma tenutosi a febbraio. Osserva Zibordi: “Non è offesa ai compagni di sinistra supporre che non molti di loro penetrassero a fondo le formule alquanto algebriche dell’ing. Bordiga, ma le volessero con entusiasmo in quanto significavano critica a una azione troppo tiepida […]”. Bordiga non concordava con questa linea, del non aderire e non sabotare, dall’entrata in guerra dell’Italia e vi erano altri, spiega Zibordi, che solo ora vogliono cambiare la formula. Quindi vi erano i fuoriusciti come Leonida Bissolati, Arturo Labriola e Benito Mussolini che accusavano il Partito socialista di non essere in grado di far cessare la guerra32. Zibordi riporta l’ordine del giorno approvato dalla Sezione di Reggio Emilia che voleva che la pace fosse raggiunta grazie ad una azione internazionale “pur prescindendo da qualche preoccupazione ideologica sulla patria”; “il socialismo ha sempre inteso a inspirare l’azione propria a una valutazione positiva della realtà delle forze proletarie […] che neppure la guerra […] ha valso a deviarci da questa concezione, e farci accedere alle illusioni circa la possibilità di realizzazione dei fini massimi, prima che l’ambiente economico e la preparazione del proletariato ne abbiano reso matura la attuazione. […] Il maturarsi del Socialismo richiede tali e tali condizioni: ed esse non si superano, non si saltano, neppure per virtù della guerra33. È forte il riferimento a quello che sta succedendo in Russia.

Nel primo numero di novembre 1917 di Critica Sociale esce il controverso editoriale di Treves e Turati: “Proletariato e resistenza”. Qui i due leader del socialismo riformista italiano affermano chiaramente che: “[…] quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale sembrano passare in seconda linea, per lasciar campeggiare nell’animo soltanto l’atroce dolore per il danno ed il lutto e la ferma volontà di combattere, di resistere fino all’estremo”. Secondo i due riformisti questo era pur sempre in coerenza con la linea di Partito: “aderire alla guerra no; sabotarla giammai!”. Si giustificano spiegando che l’invasione andrebbe a soffocare la tribuna parlamentare dalla quale parla anche il Socialismo, e solo per difendere queste “proletarie libertà” che si deve resistere34. Questa presa di posizione non tardò di risuonare nella stampa borghese come in quella socialista35. A seguire questo editoriale, in qualche modo scioccante, c’è proprio l’articolo di Zibordi, che però data 28 ottobre 1917, quindi quando l’offensiva austro-tedesca che portò alla disfatta di Caporetto era iniziata da quattro giorni ma non si era ancora conclusa, e precedente la rivoluzione bolscevica del 7 novembre. In questo articolo Zibordi seguita, quindi ribadisce, che il proletariato non vive fuori dalla società, fuori dal capitalismo, ma è prigioniero di questo, quindi quando si deve decidere per l’assistenza civile durante la guerra, nonostante la sinistra estrema non ne voglia sapere, questo vorrebbe dire non tener conto: “che la classe vive dentro nella nazione, nello Stato, nel mondo borghese […]”, “L’operaio che dà la sua fatica al capitalismo, accertandone le ferree leggi economiche – pur continuamente lottando per limare, quelle catene, fino ad infrangerle – non «collabora» forse col suo padrone?”. Qui Zibordi si riferisce alle critiche mosse dalla Avanguardia che accusava i riformisti reggiani di fare propaganda da “borghesi”, dicendo ai lavoratori di “stringere la cintola36.

Treves e Turati, che peraltro sono già coinvolti in una forte polemica con l’Avanti! nella quale è intervenuto Camillo Prampolini, nell’editoriale del secondo numero di novembre del 1917 di Critica Sociale tornano doverosamente sul tema della resistenza, trovando singolare che proprio il partito socialista debba difendere il nome dell’esercito quando, a causa delle dichiarazioni di Cadorna, si crede che la disfatta di Caporetto sia frutto della viltà dei soldati, piuttosto che degli errori tecnico-strategici compiuti proprio dal Comando Supremo. Quindi si rifanno a una frase di Prampolini, punto di riferimento anche per Zibordi, che recita: “disciplinata fortezza dinanzi a tutte le imposizioni della realtà”. Specificano i due che la filosofia marxista non è la filosofia tolstoiana di non uccidere e non resistere al male, ma continuano che, come scritto nel Manifesto Comunista:ogni proletario deve agire nazionalmente per difendere, mantenere ed accrescere le condizioni materiali, economiche, della sua esistenza di classe, base delle condizioni politiche in cui può esplicare contro la stessa borghesia la propria missione rivoluzionaria37. Anche questa volta a seguire c’è il pezzo di Zibordi, “Intorno agli ultimi eventi militari: Fronte e paese”, il quale continua sulla falsa riga dell’editoriale osservando che la stampa “ortodossa”, che ora dà tutta la colpa ai soldati, è la stessa che prevedeva la guerra dei tre mesi; tuttavia Zibordi non fa riferimenti ancora agli editoriali di Treves e Turati 38. Il 22 dicembre 1917 Turati tiene un celebre discorso alla Camera, al quale farà seguito quello ancora più celebre del 16 giugno 1918, che Critica Sociale riporta come: “Dopo la disfatta e perché non si rinnovi!”. Qui Turati attacca i nazionalisti, si indigna per l’apologia del gruppo degli Arditi e per la politica dittatoriale del Fascio nazionale, ma precisa “non saprò mai essere così parricida, nemmeno se si tratti di difendere il mio Partito e me stesso”. Dopo aver attribuito la responsabilità della disfatta al Governo di guerra, passa alle ragioni militari, quando ancora la responsabilità della disfatta è data ai soldati, esponendo gli errori madornali fatti dal Comando Supremo39. Ad ogni modo Turati si esprime per la salvezza della Patria, cosa che susciterà non poche polemiche nel Partito40.

Zibordi, in un articolo scritto nel Natale 1917, si concentra sulle divisioni tra centri urbani e campagna e le ripercussioni di queste sul Partito dove, secondo lui, tre Sezioni urbane sembrano dominarne la linea politica, ovvero, Milano, Torino e Firenze. Quasi in sordina fa una costatazione importante, ovvero, presumendo che la classe operaia urbana italiana sia comunque piuttosto giovane ed inesperta e guardando quella dei Paesi dove la classe operaia industriale è più matura come in Germania ed Inghilterra, la coscienza di classe “si matura solo o prevalentemente nel salariato industriale”, questo porta le masse operaie a solidarizzare con i capitalismi dei loro Stati “per salvare a questi quella egemonia dei mercati a cui esse sentono strettamente legata la propria sorte e il livello delle proprie mercedi”. Continua Zibordi: “Vi è dunque ragione di modestia per i «centri maggiori» [riferendosi alla supremazie di Milano, Torino e Firenze]; vi è motivo a confortarci in una concezione meno assoluta e meno meccanica del Socialismo; in una fiducia più serena anche nella buona, verace, sana propaganda dei principi, la quale fa, del lavoratore, un socialista, non tanto secondo la forma del suo sfruttamento, quanto secondo la coscienza, ch’egli ha, di essere uno sfruttato; [...]”41. Di molte analisi del perché i lavoratori avessero in qualche modo accettato l’entrata in guerra e talvolta ne fossero stati volontari partecipi la spiegazione data da Zibordi sembra essere di gran lunga più semplice ed efficace.

In “Costumi e atmosfera da Messico” nel febbraio del 1918 Zibordi denuncia l’azione di una parte politica, dopo i tumulti di Torino nell’agosto del 1917 e la disfatta di Caporetto nel novembre dello stesso anno, di additare il nemico interno, ovvero i socialisti, chiamati anche disfattisti come vero ed unico responsabile di questi fatti. Zibordi chiama la confusione di poteri un fenomeno “messicano”, ovvero il mandato assoluto dato al generale Cadorna e lo smarrimento per la fallita dittatura a causa della disfatta di Caporetto. Ancor più “messicana”, ovvero irrispettosa del Parlamento, secondo Zibordi è la formazione dell’Unione parlamentare del Fascio d’Azione. Zibordi parla già, nel febbraio del 1918, e non nel novembre del 1922 quando vi si era giunti al bivacco di manipoli, che i fascisti (d’Azione) tentano di prendere in ostaggio il Governo fuori e dentro la Camera e si costituiscono dichiaratamente in manipolo “disposto a tutto”, citando l’on. De Marco. E un’altra prova di lungimiranza Zibordi la dà rivolgendo la sua attenzione a quello che diventerà un problema sociale primario: “Confusione di poteri e di funzioni. I reduci di guerra, i mutilati, cui è dovuto rispetto e riconoscenza in ogni caso, e ammirazione quando il loro sacrifico è effetto accertato del loro valore, ed è da essi sopportato con consapevole letizia; i mutilati che, in un paese adulto e civile, potrebbero esercitare, con tacita dignità, tanta suggestione d’esempio, vengono adoperati, non pur all’incitamento sereno della resistenza, ma al rinfocolamento di passioni politiche; la loro sventura gloriosa è messa, con ricatto indecoroso, nel gioco delle fazioni e degli odi; essi intimano, nei Comizi, gli ostracismi o le condanne ai membri e ai partiti del Parlamento. E non vi è alcuno che avverta che mutilati ve n’è in ogni ordine, su ogni riva, e che certi esempi sono a doppio taglio, e che dopo l’oggi viene il domani.

In uno Stato bene ordinato, maturo, la guerra la delibera chi può, e la fa chi deve: né alcuno si sognerebbe di asserire che i reduci dal campo saranno gli assoluti e soli padroni dopo la pace. Qui, un po’ per un sentimento goffo, un po’ per paura e per calcolo, si è persino creata la parola ‘trincerocrazia’, non avvertendo neppure la contraddizione con ciò. Che si proclama di continuo, una guerra moderna essere fatta e sopportata da tutto il paese! V’è insomma tutt’una demagogia, tra stolta e criminosa, che semina vento42.

In aprile affronta ancora il tema del rapporto tra politica e i soldati al fronte, dopo aver ribadito le responsabilità di chi vendeva la guerra in modo retorico e con fanatismo nazionalista, sottolinea quanto male faccia al tessuto sociale italiano, e i risultati deleteri non tarderanno ad arrivare, la propaganda che indica i socialisti disfattisti come il nemico interno43. Continua la sua polemica sul “disfattismo”. Sembra si diverta un po’ a citare i vari giornali che si accusano a vicenda di disfattismo. Come spesso fa Zibordi, anche in questo articolo è premonitore: “Mentre si prepara, abbastanza visibilmente, sotto il nome riorganizzazione del dopo guerra, una vera militarizzazione statale di numerose categorie di lavoratori; si coltiva e si titilla, di sottomano, un torbido spirito di rivoluzione, si lascia il varco a una demagogia losca, che è incaricata di lusingar appetiti non di classi sane e consapevoli, ma di gruppi, di bande, che dalla guerra si ripromettono un bottino, come le milizie mercenarie d’altri tempi” [sottolineatura nostra]. “la politica intensificatasi, auspice il «Fascio», complice e connivente il Governo, dopo Caporetto, è quanto può immaginarsi di più adatto a screditare, presso la parte più sana delle popolazioni, la causa della guerra, attraverso coloro che protervamente vogliono imperare non solo sulle cose, ma sulle coscienze. Questa politica inquisitoria e persecutoria, in cui ogni idiota fanatico o ogni cialtrone truccato da patriota può parlare e tuonare, denunciare e far processare i galantuomini, porta un vero disfacimento dei valori morali [...]”44. Zibordi nota che la divisione all’interno del partito è quella che lo ha caratterizzato per molti anni: ci sono gli intransigenti che negano la realtà della patria per “annegarla” nell’Internazionale e i transigenti “dondoloni”, quelli che a tratti diventano patrioti, poi “In mezzo Lazzari, Prampolini o il sottoscritto, molti altri. […] Eh! Turati, Treves, Graziadei, ne avranno fatta una delle loro!” commenta Zibordi. Gli intransigenti, l’ala estrema del Partito, condannano ogni tipo di accordo con altre forze politiche, sia che questo sia per lavorare ad una intesa di pace, sia che questo sia inteso per rispondere al fascio dei fautori della guerra. Zibordi critica questo atteggiamento dei massimalisti che risulta molto fatalista, mentre il Partito dovrebbe cercare di influire sul “più immane dramma dei secoli45.

Zibordi non nasconde il suo dissenso nei confronti di alcune parti del discorso di Turati del 16 giugno 1918, e lo rende esplicito nella nota all’articolo di luglio “Nell’imminenza del Congresso: Il Paese delle parole.”. In questo articolo continua la sua polemica con gli intransigenti, ma allo stesso momento rende esplicita la sua disapprovazione nei confronti di alcune parti del discorso di Turati, “alcune lacune, per il tono, per la impressione che ne sarebbe venuta, per la industrializzazione che se ne sarebbe fatta e per una ragione logica più forte di tutte; che, qualunque sia l’angoscia o l’augurio intimo di fronte all’attacco nemico[…], il voto per l’esito di vicende di una guerra, che non s'è voluta, è sempre infirmato dalla condizione di «non libero arbitrio» in cui siamo posti46.

Nella “Postilla” che Turati dedica a Treves spiegando le ragioni che lo volevano a favore della Commissione del dopoguerra, aggiunge anche una nota di risposta a Zibordi che, non solo con la nota su Critica Sociale, ma anche con un articolo uscito sulla Giustizia di Reggio Emilia, ne criticava la tempistica. Turati sostiene che partecipare alla Commissione, che certo non nasconde insidie, sarebbe una occasione per esercitare una influenza sulla situazione politico-economica, sia nazionale che internazionale: “Provvedendo a questo dopoguerra, deve anche provvedere, per la parte sua allo sforzo che il mondo è chiamato a fare per la radicale abolizione delle guerre. Chi si apparta da tali compiti, rinuncia a vivere nella storia del suo tempo” e aggiunge una nota per Zibordi: “E con ciò ho risposto di passata all’amico Zibordi […]. Pensa egli che il problema mondiale del dopoguerra sia una bazzecola, come sarebbe una qualsiasi ‘bega’ nel Consiglio provinciale di Reggio Emilia, o che, ad ogni modo, vi sia sempre tempo ad occuparsene, in qualunque tempo del tempo?”47.

Zibordi replica con “Conversazioni in famiglia: buone anche pel Congresso”; insiste che Turati nel discorso del 16 giugno è stato anacronistico “da Cinque Giornate”, mentre la situazione, dopo Caporetto, nonostante che gli austro-tedeschi fossero sul Piave, questa non fosse un’arbitraria invasione dell’Austria. Zibordi riprende la «disciplinata fortezza» di Prampolini alla quale faceva riferimento Turati e spiega che non è per l’indifferenza alle vicende del Paese, ma: “L’invasione o la minaccia d’invasione del suolo del proprio Paese è un episodio – doloroso e tragico per quello dei Paesi, che la subisce – ma è un episodio del grande dramma della guerra dell’Intesa. Non si può quindi applicare ad esso la mentalità e il sentimento del 1848, quando la guerra era, o pareva, solo tra noi e l'Austria. […] è evidente che, in una grande guerra molteplice a fronte unico, l’esito, e vittorioso, di essa per uno dei due blocchi-belligeranti, è indipendente dal risultato parziale di ciascuno dei componenti; e lo sgombro delle terre invase in questo o quello dei vari Stati è subordinato ai risultati generali e alle conclusioni e ai compensi che, delle vicende alterne e diverse della guerra sui vari punti di un fronte unico, saranno per derivare”. Coglie anche l’occasione per esprimere il suo dissenso nei confronti della partecipazione alla Commissione del dopoguerra48.

Segue l’immediata replica di Turati.: “[…] che cosa sostiene l’amico Zibordi? Forse che non si dovesse auspicare e incoraggiare la resistenza?”. Zibordi non voleva fare il contrario, spiega Turati, ovvero parlare contro la resistenza, quindi il suo auspicio per la resistenza, insiste Turati, non gli fu contestato neanche dai “più estremi”, e comunque “Prampolini, dopo Caporetto [lo] aveva già fatto!”. “Ma insomma: la resistenza sul Piave si doveva incoraggiare, sì o no? L’amico Zibordi è supplicato di decidersi.” perché con la “«passività disciplinata» le battaglie non si vincono”. In merito alla Commissione Turati perde le staffe perché non vede nella critica di Zibordi delle ragioni solide, Turati non vede, ovviamente, la partecipazione come collaborazione ma piuttosto come lotta politica49. Arriva in ottobre, 1918, l’epilogo della polemica, scrive Turati: “La conclusione di Zibordi è la nostra: «occorre ricordarci di essere (nel senso migliore) riformisti». Tutto sta, evidentemente nell’applicazione.”. Turati precisa che se Zibordi pensa che il discorso del 16 fu la causa del successo dei massimalisti, a settembre a Roma, e se ebbe l’effetto contrario nelle trincee, egli è “un tantino ingenuo”. I massimalisti avrebbero comunque trovato un qualsiasi appiglio, sostiene Turati, che a sua difesa sottolinea che il suo discorso fu «arso, non confutato», e nelle trincee vi sono le testimonianze dei reduci a smentirlo50. Zibordi è fermo sulla posizione della «passività disciplinata», perché, facendone un punto di principio, egli sostiene che la guerra fu una coercizione e “La più gran parte dei soldati che sono al fronte, al fronte vero, nella immanenza e imminenza del combattimento e del pericolo, pensano poco, e agiscono (o agiscono male, o non agiscono) – indipendentemente dalla loro fede politica o religiosa, se ne hanno una – per effetto di elementi materiali e morali prevalentemente immediati: vitto, trattamento, ascendente degli ufficiali, esercitato con la parola e più con l’esempio. La loro passività, se son male tratti e male condotti, può diventare indisciplina senza della mia formula e malgrado le tue ‘fascine’ oratorie, amico Turati; e può mutarsi in vivida e efficace attività, quando su una base generica di disciplina di necessità – la sola che possa farsi intendere, alla gran massa, ed essere il comune denominatore che è accettato da tutti, senza le dispute o le riottosità che dividono e indeboliscono – si aggiunga, specificamente, l’opera tecnico-morale (ma militare, non politica) di capi valorosi, suggestivi, sagaci”. Zibordi, non a torto, vede che l’automatismo della trincea imposto alle masse ha delle sue dinamiche forti e in sostanza, forse esagerando un po’, considera che le parole di esortazione di Turati abbiano fatto più male che bene51. Dopo aver chiuso la polemica ricordando a Turati di tornare ad essere un riformista, scrive nel numero di dicembre “L’ora del vero ‘Riformismo’”. Qui riprende uno Scampolo di Serrati di molto tempo prima, gennaio, dove si affrontava il vecchio discorso dell’importanza delle rivoluzioni per innescare il socialismo, ovvero i famosi salti della Storia. Ovviamente Zibordi non poteva essere d’accordo, la guerra non aveva di certo messo un’ipoteca sul riformismo. Coglie l’occasione per dare una bella definizione di riformismo il quale: “Era un metodo di lavoro, di azione, di vita politica e socialista, continua, organica, conseguente, concatenata; penetrazione in mezzo alla massa, per destarla, associarla, darle coscienza e forza di classe, ed educazione di cittadino e di uomo; per accrescerne il valore e la capacità mediante lotte e conquiste non pur di salari migliori, ma anche di strumenti e organi economici, amministrativi, politici penetrazione nel modo circostante, per trasformarlo secondo un programma di ricostruzione socialista; creazione di «qualche cosa», nel grande ambiente nazionale e piccolo ambiente del villaggio, che dia ai lavoratori una loro funzione, una loro linea di classe, una unità, e ne faccia un nucleo di aggregazione nuovo entro la società attuale: «qualche cosa» che ne fermi e ne fissi l’attività, che li volga, dal frasaiolismo infecondo e dal «gesto» saltuario, all’operare costante; che li chiami, dalle apatie inerti e dalle inerti illusioni nel prodigio, alla salda fede in sé stessi e nel proprio sforzo…”. Chiude Zibordi la sua rievocazione del vero riformismo: “dove non si volle, o non si poté praticarlo, e il Circolo socialista ha dietro di sé il vuoto, né un Comune, né una Cooperativa, né un fatto vivo, oltre della sua fede e della sua speranza e il proletariato non ha null’altro che il suo spirito di sacrificio per la jacquerie […]”52. La guerra era oramai finita e gli occhi attenti di Zibordi si rivolgevano già alla ricostruzione del dopoguerra.

Considerazioni

Un primo insegnamento che ci sentiamo di cogliere da Zibordi sicuramente è che i lavoratori sono immersi nella realtà borghese e da questa sono condizionati e resi prigionieri. Non possono quindi far finta di vivere in un’altra dimensione, aspettando il cataclisma, ovvero il tracollo della società capitalista stessa. Questo li farebbe vivere nell’anarchicheggiante tanto peggio tanto meglio e precluderebbe loro ogni possibilità di proporre e costruire un’alternativa socialista, poiché resterebbero fermi nella migliore delle ipotesi nel puro impossibilismo attendista.

Tornando al periodo storico che abbiamo deciso di analizzare, a nostro modesto parere, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, ebbe fine della fase internazionale del socialismo propriamente detta. Oggi come socialisti marxisti possiamo individualmente, o in piccole comunità, fare delle considerazioni di classe, ma non come o all’interno di un movimento internazionale organizzato, il quale è ancora così scosso e diviso da quello che fu il tracollo della Seconda Internazionale prima e del marxismo-leninismo poi, da rendere inimmaginabile un movimento pre-agosto 1914. Eppure, sempre per tornare agli attendisti duri e puri, abbiamo avuto crisi economiche, condizioni lavorative terribili e in via di peggioramento, altre guerre, ma un forte movimento marxista internazionale che organizzi la classe lavoratrice manca, e manca eccome! Manca così tanto da aver diluito, confuso e spesso annientato l’idea di classe, soprattutto tra i lavoratori delle economie dominanti. Zibordi coglie questo aspetto nel suo scritto del Natale del 1917, quando nota che nei paesi più industrialmente avanzati i lavoratori industriali appunto, o almeno una parte di loro, si sentono di dover fiancheggiare le loro borghesie nella guerra per poter preservare quelle conquiste economico-sindacali caratteristiche, soprattutto in Germania ed in Inghilterra, del periodo denominato della belle époque53. Questo, insieme alla divergenza tra i lavoratori e il loro attivismo nei vari partiti socialisti, caratteristica degli anni fra le due guerre, determinò la fine della simbiosi Partito-classe che si era intravista proprio con la Seconda Internazionale.

Tornado all’argomento principe, che purtroppo anche oggi non ci dà tregua, ovvero la guerra, abbiamo grossomodo analizzato il punto di vista di Zibordi. Grossomodo, perché in realtà Zibordi nello stesso periodo scriveva sull’Avanti! così come sulla Giustizia, e di Zibordi è la “Storia del Partito Socialista italiano attraverso i suoi congressi” edito dalla Giustizia nel 1923. Quindi questa è una visione parziale, ma crediamo sufficiente, per capire il suo approccio. Zibordi, a più di cento anni di distanza, ci parla ancora in modo comprensibile; egli si collocava alla sinistra del gruppo riformista, non è un caso che entrò in polemica con Turati e Treves, che ne rappresentavano il centro. Zibordi era visceralmente contro la guerra e sugli inizi, quando l’Italia era ancora neutrale, non avrebbe disdegnato il sabotaggio! “fraternizzando, internazionalmente e affrettando la fine dell'eccidio e l’aurora della pace”. Incastrato tra sentimenti personali di sincera ripulsione per la guerra e la posizione di Partito del non sabotare, Zibordi, a fine ottobre 1914, nel suo articolo su Critica Sociale manda all’inferno tutti quanti, questo è probabilmente lo Zibordi più genuino e “libertario” che si possa leggere. È anche il più affine al nostro pensiero. “Abbasso la guerra, e viva alla fraternità internazionale dei lavoratori” scrive.

In questo senso era sulla posizione di Jaurès, il quale sarà rievocato nella polemica con Turati dopo Caporetto. Zibordi dovrà però smussare la propria posizione una volta che il Regno d’Italia entrò nel conflitto; il Partito aveva assunto la posizione del non aderire né sabotare e questo ultimo dovette essere il suo compromesso. Per Zibordi i soldati, che per la maggior parte erano contadini sradicati dalle loro terre, si troveranno al fronte a fare quello che si ordinava loro e questi, abituati ad obbedire, lo avrebbero fatto bene. Ora questo era anche un modo per voler mettere a tacere la stampa che martellava i socialisti per il loro lavoro disfattista, ovvero, quando obbligati alle armi, i lavoratori, anche quelli socialisti, avrebbero fatto il loro dovere. Non c’è più spazio per mandare al diavolo la guerra. Quindi Zibordi dopo la disfatta di Caporetto fa un altro passetto di compromesso, ovvero muove verso la passività disciplinata, che è proprio l’applicazione più coerente del non aderire né sabotare. Gli austro-tedeschi hanno sfondato sono sul Piave, Zibordi non perde la testa, ma ammette che il non disertare è il massimo che si può chiedere ora ai lavoratori al fronte.

Il non sabotare è difficile da mandar giù e su questo si ritrova a polemizzare con Bordiga che ritiene l’approccio riformista troppo tiepido. Per Zibordi l’azione deve avvenire à la Zimmerwald, ovvero tramite un discorso internazionale tra socialisti. Per Zibordi la soluzione vera della questione nazionale è in fin dei conti l’internazionalismo proletario.

Zibordi è un attento osservatore e vede il pericolo del neoidealismo nazionalista del dopoguerra così come descrive quell’atmosfera reducista del “rifacciamo l’Italia a suon di manganello”, già nel suo articolo del maggio del 1918. Zibordi vede l’avanzare di “un torbido spirito di rivoluzione” che ovviamente non è quella socialista, il quale “si lascia il varco a una demagogia losca, che è incaricata di lusingar appetiti non di classi sane e consapevoli, ma di gruppi, di bande, che dalla guerra si ripromettono un bottino, come le milizie mercenarie d’altri tempi”! Un anno prima della fondazione dei fasci di combattimento e due anni e mezzo prima il dilagare dello squadrismo fascista, Zibordi aveva la descrizione più sagace che abbiamo incontrato.

Chiudiamo con la polemica con il Turati e cerchiamo di contestualizzarla. Zibordi e Turati sono molto vicini, ma a Zibordi non va giù il rischio di concedere troppo a chi la guerra l’ha voluta, di cedere al sentimento risorgimentale. Zibordi del resto vede, in accordo con Turati, la disfatta di Caporetto come un madornale e iterato errore del Comando Supremo, il quale tramite Cadorna vuol fare ricadere le colpe sui soldati e sulla loro presunta pochezza pratica e morale, dove i socialisti diventano un facile bersaglio. Al contrario di Turati però non crede né opportuno né necessario incitare i soldati a resistere; in primis perché i soldati al fronte sono mossi dalle dinamiche del fronte, ovvero se non eseguono gli ordini sono fucilati e se si impegnano in atti eroici è per senso di responsabilità nei confronti dei loro commilitoni, secondo una presa di posizione socialista che non sia la non adesione metterebbe a rischio i principi del socialismo come intesi da Zibordi, ma anche da Turati. Visto con gli occhi di oggi, l’affare Turati sembra eccessivo, ma la eco che le sue parole ebbero all’interno del Partito fu effettivamente considerevole. Zibordi lo sapeva ed è per questo che si permise di dissentire. I riformisti avevano perso il controllo del Partito dal 1912 e non lo riacquisteranno mai più. Le organizzazioni riformiste però erano ancora il vero e proprio fulcro del Partito, queste, le Leghe, le Camere del Lavoro, le Case del Popolo, erano state costruite nel tempo proprio dalla politica riformista e contro di questi si scagliò la violenza fascista. La divergenza con Turati fu anche sulla Commissione del dopoguerra. Molti gridarono allo scandalo. Si ricordi che in Francia i socialisti avevano collaborato al Governo di Guerra così come in Germania e nel Regno Unito, mentre i socialisti italiani resistevano ancora su posizioni intransigenti. Tutto questo verrà spazzato via nel secondo dopoguerra quando socialisti e comunisti collaborarono a scrivere la Costituzione. Quindi oggi risulta un po’ difficile da comprendere, ma l’intransigenza, che poi portò avanti così dogmaticamente Bordiga, in quell’epoca non era stata ancora sdoganata. È divertente leggere il Bordiga del secondo dopoguerra perché forse si riesce a capire come gente del calibro di Zibordi avrebbe visto e commentato il nuovo mondo, quello dei partitoni nazional-comunisti. Nel 1917 e 1918 però il clima era assai diverso: gli intransigenti pensavano si potesse provare a fare la rivoluzione, i riformisti vedevano il loro mondo sgretolarsi tra sanculotti e jacquerie.



Cesco



1Cesco. Il patto di pacificazione: tra calcolo politico e commedia - Parte I - , Adattamento Socialista, settembre 2021.

2Cesco. Il socialismo ha bisogno di un’Armée Nouvelle?, Adattamento Socialista, giugno 2024.

3Camillo Vittorio Prampolini (1859-1930): nato a Reggio Emilia da una famiglia agiata si laureò a Bologna in giurisprudenza nel 1881. Tornato a Reggio Emilia iniziò a frequentare ambienti anarco-socialisti e a collaborare con Lo Scamiciato. Collaborò più tardi con Reggio Nuova organo della cooperativa di consumo di Reggio Emilia. Nel 1886 fondò il settimanale La Giustizia. Prampolini attuò una tipo di propaganda che prese il nome di «socialismo evangelico»; usando la morale del Vangelo per diffondere la dottrina socialista. Nel 1889 fu eletto consigliere comunale e provinciale e nel 1890 fu eletto deputato. Nel 1892 fu chiamato a Milano da Turati alla redazione di quello che diventerà l'organo del Partito Socialista, Lotta di Classe. Fece parte della delegazione italiana al Congresso dell’Internazionale socialista di Zurigo del 1983. Durante il periodo della repressione crispina a danno degli anarchici e dei socialisti, fu condannato a tre mesi di confino, sentenza sospesa in appello. Nel 1899 sempre a causa di un altra ondata repressiva e della sua opposizione parlamentare fu detenuto a Regina Coeli per due mesi circa. Con l’avvento del Goveno Zanardelli aperto al dialogo con la sinistra Prampolini si espresse a favore della collaborazione. Intanto grazie alla sua opera Reggio Emilia divento’ un esempio dei risultati del riformismo socialista, municipalizzando molti servizi. Nel 1904 Zibordi, divenuto il suo braccio destro, prese la direzione del quotidiano La Giustizia, mentre Prampolini rimase direttore del settimanale. Con lo scoppio della guerra Prampolini fu una voce coerente per la pace e nel 1916 partecipò alla Conferenza di Kienthal. Si espresse quindi contro la violenza e contro i metodi bolscevichi suscitando le critiche di Gramsci dall’Ordine Nuovo. Nel 1919 fu eletto a Parma, e a Livorno, mentre era uno dei riformisti da epurare secondo Lenin, si espresse per l’unità di Partito. Sempre nel 1921 fu vittima insieme a Zibordi di aggressioni fasciste. Nell’ottobre del 1922 insieme agli altri riformisti Turati, Matteotti, Treves e Modigliani, ormai espulsi dal PSI, fondò il Partito Socialista Unitario (PSU). Nel 1926 a causa della repressione fascista dovette cessare la pubblicazione de La Giustizia e riparare a Milano dove morì quattro anni dopo a causa di un tumore. (https://www.treccani.it/enciclopedia/camillo-vittorio-prampolini_(Dizionario-Biografico)/ )

4La boje! De boto la va fora! Ovvero, bolle! E di colpo esce fuori!

5Luigi Cavazzoli. La formazione culturale e politica di Zibordi. In: Giovanni Zibordi: le idee e l’opera di un riformista a cura di Luigi Cavazzoli. Pietro Lacaita Editore, 2012.

6Maurizio Punzo. Giovanni Zibordi e la “Critica Sociale”. In: Giovanni Zibordi: le idee e l’opera di un riformista a cura di Luigi Cavazzoli. Pietro Lacaita Editore, 2012.

7Giovanni Zibordi. Continuando a discutere di cose interne di famiglia. Critica Sociale, anno XXIV, n. 15, 1-15 agosto 1914. * Sua è riportato in italico proprio per indicare la forzatura nel definire quella rivoluzionaria la frazione di Mussolini, il quale non ne era il leader.

8Si vedano i lavori su Adattamento Socialista dedicati a Mussolini nella sua fase socialista.

9Giovanni Zibordi. Delle catastrofi, dello sciopero generale e d’altre cose. Critica Sociale, anno XXIV, n.17, 1-15 settembre 1914.

10Giovanni Zibordi. Nella Babele di partiti d’avanguardia. Critica Sociale, anno XXIV, n.19, 1-15 ottobre, 1914.

11Ossia miscuglio, guazzabuglio in dialetto mantovano.

12Giovanni Zibordi. Ribadendo il chiodo: Classi e Nazioni. Avanti! 1° ottobre 1914.

13Giovanni Zibordi. Intermezzo di critica polemica. Critica Sociale, anno XXIV, n.20, 16-31 ottobre, 1914.

14Giovanni Zibordi. La logica di una crisi. Critica Sociale, anno XXIV, n.22, 16-30 novembre, 1914.

15Ibidem.

16Giovanni Zibordi. I nodi al pettine in casa nostra. Critica Sociale, anno XXV, n.4, 16-28 febbraio, 1915.

17Giovanni Zibordi. Introno alla vittoria di Montecchio: La lotta nostra e la lotta degli avversari. Critica Sociale, anno XXV, n.8, 16-30 aprile, 1915.

18Giovanni Zibordi. Chiacchiere estive: II. Il Partito Socialista durante la guerra. Critica Sociale, anno XXV, n.14, 16-31 luglio, 1915.

19Giovanni Zibordi. A proposito di certe profezie: La guerra e i partiti. Critica Sociale, anno XXV, n.19, 1-15 ottobre, 1915.

20Giovanni Zibordi. Socialismo, proletariato e borghesia: Dopo la guerra. Critica Sociale, anno XXV, n.20, 16-31 ottobre ,1915.

21Ibidem.

22Giovanni Zibordi. I partiti politici: Meditazioni sul Carattere. Critica Sociale, anno XXV, n.23, 1o-15 dicembre, 1915.

23Giovanni Zibordi. Disciplina di partiti e giornalismo in Italia (A proposito delle ultime sedute parlamentari). Critica Sociale, anno XXV, n.24, 16-31 dicembre, 1915.

24Giovanni Zibordi. In tema di “dovere e di soldati socialisti. Critica Sociale, anno XXVI, n.3, 1o-15 febbraio, 1916.

25Giovanni Zibordi. Discussioni amichevoli in sordina. Critica Sociale, anno XXVI, n.5, 1-15 marzo, 1916.

26Ibidem.

27Giovanni Zibordi. Comuni e Stato: Moto centrifugo e centripeto nella necessità della situazione di guerra, e nell’atmosfera di intransigenza da essa cerata. Critica Sociale, anno XXVI, n.9, 1-15 maggio, 1916.

28Giovanni Zibordi. Psicologia di guerra nel Paese e alla Camera. Critica Sociale, anno XXVI, n.14, 16-31 luglio, 1916.

29Giovanni Zibordi. Per la personalità della nazione italiana. Critica Sociale, anno XXVI, n.23, 1-15 dicembre, 1916.

30Nota 23 in Cesco. Il patto di pacificazione: tra calcolo politico e commedia - Parte IAdattamento Socialista, settembre 2021.

31Giovanni Zibordi. L’allacciamento dei “destri” e dei sanculotti. Critica Sociale, anno XXVII, n.11, 1-15 giugno, 1917.

32Giovanni Zibordi. Correnti ed elementi della situazione del Partito. Critica Sociale, anno XXVII, n.19, 1-15 ottobre, 1917.

33Giovanni Zibordi. Illusioni nuove e ritorni antichi. Critica Sociale, anno XXVII, n. 20, 16-30 ottobre, 1917.

34Claudio Treves e Filippo Turati. Proletariato e resistenza. Critica Sociale, anno XXVII, n. 21, 1-15 novembre, 1917.

35I dettagli della polemica tra l’Avanti! e in particolare Serrati contro Treves e Turati sono riportati in Luigi Cortesi, Le origini del PCI, vol. II., Universale Laterza, 1977.

36Giovanni Zibordi. Seguitando il discorso. La tendenza della verità e quella dell'illusione. Critica Sociale, anno XXVII,n. 21, 1-15 novembre, 1917.

37La Critica Sociale. La resistenza socialista. Critica Sociale, anno XXVII, n. 22-23, 16-30 novembre e 1-15 dicembre, 1917.

38Giovanni Zibordi. Intorno agli ultimi eventi militari: Fronte e Paese. Critica Sociale, anno XXVII, n. 22-23, 16-30 novembre e 1-15 dicembre, 1917.

39Filippo Turati. Dopo la disfatta e perché non si rinnovi! Discorso di Filippo Turati alla Camera dei Deputati, 22 dicembre 1917. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 1, 1-15 gennaio, 1918.

40Filippo Turati. Dopo la disfatta e perché non si rinnovi! Discorso di Filippo Turati alla Camera dei Deputati, 22 dicembre 1917. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 2, 16-31 gennaio, 1918.

41Giovanni Zibordi. Per un contributo alla revisione di alcuni nostri valori. Critica Sociale, anno XXVIII, n.2 16-31 gennaio, 1918.

42Giovanni Zibordi. Costumi e atmosfera da Messico. Critica Sociale, anno XXVIII, n.5, 1-15 marzo, 1918.

43Giovanni Zibordi. Il disfattismo antisocialista. Critica Sociale, anno XXVIII, n.7, 1-15 aprile, 1918.

44Giovanni Zibordi. Appunti sulla resistenza morale. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 9, 1-15 maggio, 1918.

45Giovanni Zibordi. Una disputa vecchia per una materia nuova. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 12, 16-30 giugno, 1918.

46Giovanni Zibordi. Nell’imminenza del Congresso. Critica Sociale, anno XXVIII, n.14, 16-31 luglio, 1918.

47Filippo Turati. Postilla. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 15, 1-15 agosto, 1918.

48Giovanni Zibordi. Conversazioni in famiglia: buone anche pel Congresso. Critica Sociale, anno XXVIII, n.17, 1-15 settembre, 1918.

49Filippo Turati. Replica a: Conversazioni in famiglia: buone anche pel Congresso. Critica Sociale, anno XXVIII, n.17, 1-15 settembre, 1918.

50Filippo Turati. Cappello a: Intorno agli eventi del Partito, (seguito di conversazioni… intime). Critica Sociale, anno XXVIII, n. 20, 16-30 ottobre, 1918.

51Giovanni Zibordi. Intorno agli eventi del Partito, (seguito di conversazioni… intime). Critica Sociale, anno XXVIII, n. 20, 16-30 ottobre, 1918.

52Giovanni Zibordi. L’ora del vero ‘Riformismo. Critica Sociale, anno XXVIII, n. 23, 1-15 dicembre, 1918.

53Nonostante che riteniamo l’osservazione di Zibordi molto azzeccata dobbiamo riconoscere che vi siano delle dinamiche più complesse attorno alla nazionalizzazione delle masse, ma l’argomento esula da questo lavoro.

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