Perché non possiamo in alcun modo definirci “anarchici”
Il principe russo Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921), rappresentato qui sopra, è forse il pensatore anarchico più profondo e conosciuto e, anche per questo motivo, fu soprannominato il “Marx dell’anarchismo”. Nei suoi scritti muove critiche molto acute al cosiddetto “darwinismo sociale”, ma anche a una certa vulgata marxista, eccessivamente semplicistica e schematica, tipica del periodo della II Internazionale. Il lettore resta però stupito di come, a fronte di tanto acume teorico, la prassi strategica avanzata da Kropotkin sia invece improntata a un ingenuo fideismo intessuto di constatazioni politiche dal tono prettamente idealistico. Ciò venne denunciato in modo molto esplicito dall’arcinemico di Kropotkin, il socialista marxista russo Georgij Valentinovič Plechanov (1856-1918), la cui immagine è riprodotta qui sotto. Plechanov fu tra i fondatori del Partito Operaio Socialdemocratico Russo nel 1898 e lottò per tutto il resto della vita contro l’anarchismo.
(nonostante la nostra totale opposizione a ogni forma di capitalismo di Stato spacciata per un improbabile “socialismo”)
Brevissima introduzione storica al problema dell’anarchismo
Perché interessarsi dell’anarchismo 1 oggi? In effetti, dopo la debacle del movimento anarchico spagnolo a seguito della presa del potere di Francisco Franco nel 1939, tale corrente politica sembrava irreversibilmente condannata a entrare nel museo dei “cimeli storici” a fianco, per esempio, del manicheismo, del catarismo o dell’hussitismo. Invece, dopo il crollo dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” nel periodo 1989-1991, l’anarchismo ha vissuto una seconda primavera nel mondo dell’opposizione radicale al capitalismo, non solo per il suo intransigente antistatalismo, ma soprattutto per il carattere quasi profetico di alcune sue critiche iniziali al bolscevismo. Scriveva, per esempio, l’anarchico italiano Errico Malatesta nella sua lettera al compagno Luigi Fabbri del 30 giugno 1919:
«Anche il generale Bonaparte servì a difendere la Rivoluzione francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trotsky e compagni sono di sicuro dei rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non tradiranno, ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone» [grassetto nostro].
Oppure il teorico anarchista russo Pëtr A. Kropotkin nella chiusa della sua penultima missiva a Lenin del 4 marzo 1920:
«Per uscire dal disordine attuale, la Russia deve tornare al genio creativo delle forze locali che, a mio avviso, possono essere un fattore di creazione di una nuova vita. E quanto prima si capirà la necessità di questo, tanto meglio sarà. Le persone saranno allora più propense ad accettare nuove forme di vita sociale. Se la situazione attuale continua, la parola stessa “socialismo” si trasformerà in una maledizione. È quello che è successo alla concezione di “uguaglianza” in Francia per quarant’anni dopo il governo dei giacobini» [grassetto nostro].
Vale quindi la pena, soprattutto nei confronti dei lettori più giovani, di ripercorrere in modo semplice e divulgativo le tappe della decennale polemica marxista contro l’anarchismo, mostrando come la critica anarchica al socialismo, benché suggestiva e a tratti quasi profetica, si basi invece su argomenti non molto originali e, invero, piuttosto generici.
La parola “anarchismo” designa in modo molto generale un movimento politico, il quale deriva il suo nome dal termine “anarchia” che è la traduzione italiana di un neologismo greco: “an + arché”, ovvero “senza” + “principio, origine, autorità, governo”, secondo l’ambiguità semantica così caratteristica della lingua ellenica classica. L’origine del pensiero politico anarchico è molto dibattuta e viene talora collocata nella Francia del XVI secolo, paese sconvolto da violentissime lotte politico-religiose, dove visse per un solo trentennio il giovane giurista Étienne de La Boétie (1530-1563), amico del più celebre aforista e politologo Michel de Montaigne. Ebbene, a soli 22 anni, ancora studente universitario a Orléan, de La Boétie compone un breve saggio intitolato Discours de la servitude volontaire ou le Contr’un (pubblicato postumo nel 1576) 2, che è una coraggiosissima dissertazione retorica sull’arbitrarietà di ogni forma di potere e di autorità. Tale pamphlet godrà negli anni a venire di una certa fortuna, ma inizialmente in forma anonima, essendo stato utilizzato dai calvinisti per legittimare la loro causa contro i monarchi cattolici, ripreso poi da Jean Paul Marat nel suo Les Chaînes de l’esclavage del 1774 e, infine, riscoperto e correttamente attribuito al suo vero autore dal teologo cattolico-liberale Félicité de La Mennais (1782-1854).
Ma se l’anarchismo di de La Boétie è essenzialmente un brillante esercizio retorico tutto nutrito di quelle antiche filosofie stoiche, scettiche ed epicuree che il Rinascimento aveva appena riscoperto, bisognerà allora attendere la seconda metà del XVIII secolo perché tale corrente di pensiero politico assuma una forma più rigorosa e sistematica, dovuta alla lettura radicale dei celebri testi di Jean Jaques Rousseau. Ciò avverrà in Gran Bretagna ad opera del filosofo William Godwin (1756-1836), il vero padre dell’anarchismo moderno, che nel 1793 diede alle stampe il suo famoso trattato An Enquiry Concerning Political Justice and its Influence on General Virtue and Happiness 3, concepito come un sostegno a “I diritti dell’uomo” di Thomas Paine e come una critica a “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia” del conservatore Edmund Burke. Godwin è essenzialmente un pacifista, ma sostiene le ragioni di fondo e i meriti della Rivoluzione francese, condannando però lo statalismo dei giacobini di Maximilien de Robespierre, il principale artefice del Terrore, e condividendo gran parte delle idee radicali e protosocialiste di Jacques Roux e François-Noël Babeuf, ma non i loro metodi violenti. Godwin sosteneva che le condizioni economiche, e in particolare l'eccessivo accumulo di proprietà privata sotto forma di mezzi di produzione, avessero minato la “giustizia sociale”, e che la funzione dello Stato fosse essenzialmente quella di sostenere l’ingiustizia economica attraverso leggi inique, la forza e la coercizione. Rimuovendo lo Stato, pensava Godwin, si sarebbe aperta la strada al ripristino di un’equa distribuzione della proprietà privata. Come per altri autori illuministi (ad esempio, il già menzionato Rousseau, o Claude-Adrien Helvétius, secondo cui “l’uomo morale è tutto educazione e imitazione”, oppure gli enciclopedisti francesi Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert), i ragionamenti di Godwin partivano da una concezione astorica e largamente ottimista della natura umana. È anche tipica del XVIII secolo la sua affermazione secondo la quale “la società non è altro che un aggregato di individui. Le sue pretese e i suoi doveri devono essere l’insieme delle loro pretese e dei loro doveri, gli uni non sono più precari e arbitrari degli altri” 4, un dogma che sarebbe diventato, a dispetto di Godwin, il presupposto fondamentale del pensiero economico, sociologico e politico del XIX secolo, tutto volto a sostenere e giustificare il modo di produzione capitalistico ormai imperante.
Friedrich Engels, in “Il Socialismo dall’utopia alla scienza” 5 del 1880, liquidò come “utopisti” i vari autori illuministi del calibro di Godwin (benché non lo nomini mai direttamente) per il loro uso di astrazioni filosofiche idealistiche quali “la Giustizia” e “la Ragione”: i socialisti utopisti si appellavano, infatti, in modo alquanto ingenuo alla superiorità morale e ai vantaggi di una società alternativa a quella presente, invece di dimostrare scientificamente che il socialismo era un processo storico che avrebbe avuto origine proprio dal capitalismo attraverso lo sviluppo della lotta di classe tra proletari e capitalisti. Più tardi, nel 1895, il marxista russo Georgij V. Plechanov (nel suo celebre pamphlet “Anarchismo e socialismo” 6) definì gli “utopisti” con le seguenti parole, brevi ma molto calzanti:
«L'utopista è colui che, partendo da un principio astratto, cerca un’organizzazione sociale perfetta. Il principio astratto che fungeva da punto di partenza per gli utopisti era quello relativo alla Natura Umana. Naturalmente ci sono stati utopisti che hanno applicato tale principio indirettamente, attraverso l’intermediazione di concetti derivati da esso. Così, ad esempio, nel cercare una “legislazione perfetta”, un’organizzazione ideale della società, si può partire dal concetto di Diritti dell’Uomo. Ma è evidente che nella sua analisi finale questo concetto derivi da quello di Natura Umana» [grassetto originale] 7.
In contrasto con queste speculazioni utopistiche, noi sappiamo come Marx, all’opposto, formulò tre teorie, tra loro strettamente interconnesse, sulla società capitalistica: un metodo storico noto come concezione materialistica della Storia (o, in breve, materialismo storico), una teoria economica fondata sul valore-lavoro e, infine, il concetto politico di conflitto tra le classi sociali (o, in breve, lotta di classe). Queste tre teorie furono applicate in modo congiunto al capitalismo, mostrando, tra le altre cose, che la produzione generalizzata di merci e il loro scambio in vista della realizzazione di un profitto non avrebbero mai potuto funzionare nell’interesse comune di tutta la società. L’esito rivoluzionario di tali conclusioni fu quindi il seguente: la classe lavoratrice avrebbe dovuto intraprendere un’azione politica autonoma e consapevole tramite un partito socialista per abolire il capitalismo e sostituire questo sistema basato sul profitto con il socialismo. Una simile ipotesi politica fu (ed è) ovviamente invisa a tutti i filoni dell’anarchismo, che, come si è detto, rifiuta l’impegno politico-partitico per la conquista delle istituzioni. Tutto all’opposto, Marx ed Engels, nel “Manifesto del Partito Comunista” 8, avevano affermato già nel 1848 che:
«Ogni tanto i lavoratori riescono a vincere, ma solo per un breve periodo. Il vero frutto delle loro battaglie non sta nel risultato immediato, ma nell’unione sempre più estesa dei lavoratori. Questa unione è favorita dai migliori mezzi di comunicazione creati dall’industria moderna, i quali mettono in contatto i lavoratori di diverse località. Proprio questo contatto era necessario per centralizzare le numerose lotte locali, tutte dello stesso carattere, in un’unica lotta nazionale tra le classi. Ma ogni lotta di classe è una lotta politica. E quell’unione, per raggiungere la quale i borghesi del Medioevo, con le loro misere strade, avevano bisogno di secoli, i proletari moderni, grazie alle ferrovie, la realizzano in pochi anni» [grassetto nostro] 9.
In ultima analisi, la differenza fondamentale tra socialisti e anarchici è dunque la concezione marxista del ruolo classista dello Stato. Poiché lo Stato è nato nell’antichità per proteggere la proprietà e gli interessi dei possidenti, e la funzione principale dello Stato capitalista moderno è proprio quella di difendere gli interessi della classe capitalista, se il socialismo, che è la negazione del sistema delle classi, è possibile, allora può essere raggiunto solo se un partito genuinamente socialista (o comunista) ottiene il controllo dell’apparato di governo, comprese la polizia, le forze armate ecc. Solo così si potrà garantire che queste forze non saranno utilizzate per schiacciare il movimento socialista e riportare indietro le lancette dell’orologio della Storia.
Critica alle principali tendenze dell’anarchismo
Non esiste un’unica dottrina anarchica. Tuttavia, l’anarchismo non è neppure concepibile senza riferimenti al capitalismo dentro cui esso è nato. L’anarchismo, nonostante il suo alto grado di idealismo, affonda le sue radici storiche e materiali nella reazione dei piccoli contadini, dell’aristocrazia feudale decaduta, dei pionieri attivi in lande semi-inesplorate, nonché dei piccoli artigiani e commercianti allo sviluppo del capitalismo, alle imprese capitaliste operanti su larga scala e, in generale, all’ascesa della classe lavoratrice urbana. Di seguito abbiamo riportato un breve elenco con una selezione delle posizioni anarchiche (e semi-anarchiche) più comuni che i socialisti marxisti hanno dovuto periodicamente affrontare e criticare. Non è affatto esaustivo dato che le posizioni anarchiche sembrano, in un certo qual modo, essere tante quanti sono gli anarchici: tot capita tot sententiae avrebbero detto i latini.
a) Anarco-individualisti. Il loro capostipite fu senz’altro il filosofo neohegeliano Max Stirner con il suo lavoro più celebre: “L’unico e la sua proprietà” del 1845 10. Secondo Stirner l’unica realtà autentica è l’individuo e infatti egli afferma:
«(…). Allo stesso modo io fondo la mia causa su me stesso, che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico. (…). Non c’è nulla che mi importi più di me stesso» 11.
Ossia, il filosofo tedesco non concepisce né legge, né morale, né famiglia, né religione, né Stato. Stirner, a dispetto dei suoi chiari propositi liberatori dell’individuo, ha in effetti anticipato il banale consumismo di oggi, con la sua celebrazione del godimento individuale delle merci visto come una serie infinita di atti privati autonomi senza alcuna connessione con il resto della società. C’è poi anche parecchio Stirner in alcuni movimenti anarchici (o semi-anarchici) del XX secolo, ad esempio in Francia c’è stato il cosiddetto Poujadisme, negli Stati Uniti il noto libertarianism di certe organizzazioni, come il Cato Institute. E che dire poi della “mitologia della frontiera” dei cosiddetti “patrioti”, che equiparavano lo Stato federale addirittura a una costruzione diabolica? Marx criticò spietatamente la dottrina di Stirner ne “L’ideologia tedesca” (1846) 12, la cui “Premessa” consiste proprio in una parafrasi ironica, ma totalmente calzante, delle argomentazioni stirneriane:
«Sinora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell’uomo normale ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all'essenza dell’uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi» 13.
Plechanov, seguendo Engels, nota invece nella sua opera sull’anarchismo già citata 14 che:
«Stirner traduce in tedesco il Traité d’économie politique di J. B. Say e, sebbene abbia tradotto anche Adam Smith, non è mai riuscito ad andare oltre la ristretta cerchia delle comuni idee economiche borghesi. La sua “Lega degli egoisti” è solo l’utopia di un piccolo borghese in rivolta. In questo senso si può dire che abbia pronunciato l’ultima parola dell’individualismo borghese» 15.
Tale aspetto rivoltoso dell’anarco-individualismo verrà ripreso da vari autori, per esempio dal noto romanziere esistenzialista francese Albert Camus nel suo lavoro del 1951 dall’emblematico titolo di “L’Uomo in rivolta”.
b) Anarchici piccoli proprietari (o anarchici mutualisti). Il loro capostipite è senz’altro Pierre-Joseph Proudhon, autore del celebre saggio “Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria” (1846) 16. Però il pensiero di Proudhon sullo Stato appare, almeno a prima vista, piuttosto vario. A volte ne fu il più strenuo oppositore, chiedendone l’abolizione totale. Per esempio, nel 1848, durante la Seconda Repubblica, si domandò: “Perché crediamo nel governo? Da dove viene, nella società umana, questa idea di Autorità, di Potere; questa finzione di una Persona superiore, chiamata Stato?” 17. Tuttavia, nel 1861 sostenne che “lo Stato, come lo ha concepito la Rivoluzione, non è una cosa puramente astratta, come alcuni, tra cui Rousseau, hanno supposto, ovvero una sorta di finzione giuridica; esso è una realtà positiva come la società stessa, come l’individuo” 18. Proudhon arrivò quindi in tarda età a descrivere lo Stato come “una specie di cittadino”, con diritti e doveri, diventando quindi di fatto solo un semi-anarchico. Tuttavia, una costante generale del suo atteggiamento fu il rifiuto della lotta politica; un diniego al quale Plechanov rispose parafrasando le celebri parole di Marx ed Engels del “Manifesto” che abbiamo già visto 19, secondo cui: “Ogni lotta di classe è una lotta politica. Chi ripudia la lotta politica, con questo stesso atto, rinuncia a qualsiasi parte e sorte nella lotta di classe” 20,21. In effetti, sempre secondo Plechanov, nel 1848 Proudhon “predicava la riconciliazione tra le classi” 22, un concetto, mutatis mutandis, non molto lontano dalla “collaborazione tra le classi” sostenuta oggi, per esempio, dai vari governi socialdemocratici occidentali. Marx vedeva nell’anarchismo di Proudhon null’altro che una teoria della piccola borghesia e gli rispose di conseguenza in modo molto duro nella sua “Miseria della filosofia” (1847) 23, in cui mostrò la totale lontananza di Proudhon dalle posizioni della classe operaia rivoluzionaria dotata di propri interessi e di un proprio obiettivo socialista. L’anarchismo di Proudhon era per Marx, in fin dei conti, solo un’utopia conservatrice ammantata di pseudo-socialismo che copriva gli interessi degli artigiani e dei piccoli contadini francesi incapaci di confrontarsi seriamente con lo sviluppo del capitalismo moderno, della concorrenza e della lotta di classe. Per questo, al di là dell’integrità morale personale di chi la proponeva, tale dottrina andava combattuta con ogni mezzo, essendo molto più pericolosa e pervasiva del ridicolo anarco-individualismo di Stirner. E Marx non ebbe torto: le influenze mutualiste proudhoniane durarono in Francia e in Spagna almeno fino al crollo della Comune di Parigi nel 1871. In Italia esse furono lungamente difese da Giuseppe Ferrari (1811-1876), un repubblicano ex-discepolo di Cattaneo convertitosi al “socialismo” già nel 1842.
c) Collettivismo anarchico attraverso l’insurrezione armata spontanea. Qui è necessario confrontarci subito con l’ingombrante figura di Michail A. Bakunin (1814-1876). Bakunin si oppose per tutta la vita tanto alle varie Chiese quanto a qualsiasi Stato, affermando che il potere politico fosse comunque oppressivo sia che venisse detenuto dalla classe capitalista (cosa che in effetti riconosceva anche lui) sia che, in modo puramente ipotetico, venisse esercitato dalla classe lavoratrice. A differenza dei socialisti marxisti, i quali credevano nella necessità di conquistare il controllo dell’apparato governativo per usarlo come strumento di emancipazione, Bakunin sosteneva l’immediata abolizione dello Stato, slogan questo ancora oggi difeso da chiunque si professi “socialista libertario”. Ovviamente Marx ed Engels polemizzarono a lungo con Bakunin e i suoi sostenitori durante e dopo l’esistenza della “Associazione Internazionale dei Lavoratori”, cioè la cosiddetta “Prima Internazionale” (1864-1876).
Plechanov, che era russo come Bakunin e quindi conosceva molti dettagli della sua vita e del suo atteggiamento non facilmente decodificabili dagli occidentali, cita a lungo l’importante libro di Bakunin “Stato e Anarchia” (pubblicato in Russia nel 1873) 24, sostenendo poi che Bakunin compendi tutta la sua distanza da un mal compreso comunismo, confuso con lo statalismo, in questo breve intervento, pronunciato al congresso di Berna della “Lega per la Pace e la Libertà” nel 1869, dove un certo delegato proudhoniano, Gustave Chaudey (poi vittima innocente del blanquismo della Comune di Parigi), lo rimproverò per la sua ipotetica propaganda “comunista”:
«Poiché chiedo l’equiparazione economica e sociale delle classi e degli individui, poiché, con il Congresso dei Lavoratori di Bruxelles, mi sono dichiarato a favore della proprietà collettiva, sono stato rimproverato di essere un comunista. Che differenza c’è, mi è stato chiesto, tra comunismo e collettivismo? Sono davvero stupito che il Sig. Chaudey non capisca questa differenza, lui che è l’esecutore testamentario di Proudhon! Detesto il comunismo, perché è la negazione della libertà, e io non posso concepire nulla di umano senza libertà. Non sono comunista, perché il comunismo concentra e fa sì che tutte le forze della società siano assorbite dallo Stato, perché finisce necessariamente con la centralizzazione della proprietà nelle mani dello Stato, mentre io desidero l’abolizione dello Stato – l’estirpazione radicale di questo principio di autorità e della tutela dello Stato, che, con il pretesto di moralizzare e civilizzare gli uomini, li ha finora resi schiavi, oppressi, sfruttati e depravati. Desidero che l’organizzazione della società e della proprietà collettiva o sociale avvenga dal basso verso l’alto, per mezzo della libera associazione, e non dall’alto verso il basso per mezzo di una qualche autorità. Desiderando l’abolizione dello Stato, desidero l’abolizione della proprietà individuale ereditaria, che non è altro che un’istituzione dello Stato. Questo è il senso, signori, in cui sono un collettivista e non un comunista» 25.
Bakunin, seguendo almeno in questo Proudhon, si dichiarò quindi contrario al ricorso dei lavoratori alla politica, credendo in modo preconcetto che i loro rappresentanti si sarebbero immediatamente imborghesiti per effetto dell’influenza nefasta degli ambienti politici statali. A una tale constatazione così categorica Plechanov rispose ribaltando l’obiezione: “Ma l’ambiente degli elettori, l’ambiente di un partito operaio, consapevole del suo scopo e ben organizzato, non avrebbe forse anch’esso un’influenza sugli eletti del proletariato?” 26. Inoltre, Plechanov osserva che le tesi di Bakunin, qualora fossero vere, renderebbero “assolutamente impossibile una vittoria del proletariato” 27 perché i “bakunisti” si troverebbero in un vero e proprio circolo vizioso, sostenendo da un lato che i lavoratori, essendo al momento moralmente schiavi, non potrebbero sollevarsi contro la borghesia, ma dall’altro predicando la necessità di una rivoluzione economica proprio per spezzare le catene di tale schiavitù. Nota chi scrive che da una tale impasse teorico se ne uscirebbe solo con una concezione totalmente avanguardista della rivoluzione, comune curiosamente sia agli anarchici di Malatesta sia ai loro acerrimi avversari, i bolscevichi di Lenin e Trockij.
Una costola dell’anarchismo di Bakunin è stata la “propaganda del fatto”, che ha avuto i suoi sostenitori a partire dalla fine del XIX secolo fino a tutti gli anni ‘70 del XX secolo con le gesta del terrorismo “di sinistra” delle Brigate Rosse italiane e del gruppo Baader-Meinhof tedesco. Due gruppi sedicenti marxisti-leninisti, ma in realtà molto prossimi alle dottrine “bakuniste”. L’azione diretta violenta attraverso “i fatti”, che comprendeva atti di terrorismo come il lancio di bombe in luoghi pubblici ecc., al giorno d’oggi prosegue, mutatis mutandis, nel jihadismo di matrice islamica con i suoi attentatori suicidi, gli shuhadā, la cui strategia consiste proprio nell’uccidere il maggior numero possibile di uomini, donne e bambini. La “propaganda del fatto” divenne famosa negli Stati Uniti e nel resto del mondo anglosassone con l’esplosione della bomba di Haymarket a Chicago il 4 maggio 1886. Per questo motivo Eleanor Marx Aveling (nella sua bella prefazione all’edizione inglese di “Anarchismo e Socialismo” di Plechanov) sottolinea già correttamente che tale sciagurata “propaganda del fatto” ha l’effetto di giustificare misure di polizia sempre più severe e osserva, inoltre, che tali elementi anarchici violenti, se venissero tollerati all’interno dei partiti socialisti, renderebbero le riunioni dei lavoratori “un campo da gioco per la reazione e lo spionaggio internazionale”. Pure ai giorni nostri constatiamo quanto lei avesse ragione: l’eclatante azione terroristica dell’11 settembre effettuata dal jihadismo permise al presidente J. W. Bush negli USA di calpestare per anni molte libertà civili e diritti legali costituzionali, in precedenza garantiti nella società statunitense.
d) Anarco-comunisti. Qui ci troviamo, per la prima volta e a differenza delle tre tendenze appena esaminate, di fronte ad un’elaborazione programmatico-teorica di un certo spessore, che origina da un pensatore abbastanza colto e raffinato (filosofo, militare, geografo, zoologo, sociologo ecc.), il principe russo Pëtr A. Kropotkin (1842-1921), autore di almeno tre volumi importanti: “La conquista del pane” (1892) 28, “Campi, fabbriche e officine” (1898) 29 e “Il mutuo appoggio” (1902) 30, dove appaiono anche alcune critiche all’analisi marxista del capitalismo tutt’altro che prive di spessore. Quella che invece ci sembra, tutto sommato, la parte più debole del pensiero di Kropotkin è la sua strategia politica, così lapidariamente condensata dall’anarco-comunista contemporaneo Alain Pengam 31:
«L’espropriazione come obiettivo e lo sciopero generale come mezzo per paralizzare il mondo borghese in tutti i paesi del globo allo stesso tempo».
In effetti, l’idea dello sciopero generale rivoluzionario è molto precedente a Kropotkin e venne elaborata per la prima volta negli anni ‘30 del XIX secolo in Gran Bretagna da William Benbow (1787-1864), noto esponente dell’ala più radicale del Cartismo. Ma la posizione del socialismo marxista sullo sciopero generale, ovviamente non come arma di lotta in sé, ma come metodo per giungere direttamente al socialismo, è sempre stata abbastanza chiara (eccettuati alcuni tentennamenti da parte di Daniel de Leon, Rosa Luxemburg e Antonie Pannekoek): essa è una tattica impraticabile e politicamente alquanto pericolosa. Nessuno sciopero generale ha mai raggiunto il fine desiderato, né a San Pietroburgo nell’ottobre del 1905, né a Belfast nel 1907, né in Spagna nel 1917. I vari scioperi generali di tutta Europa nei periodi del primo e del secondo dopoguerra non hanno in alcun modo condotto al socialismo. In particolare, lo sciopero generale in Germania nel 1920 ha fallito i suoi obiettivi rivoluzionari, così come lo sciopero generale francese del 1936, quello della Germania Orientale del 1953, quello dell’Ungheria del 1956, quello del Belgio del 1961 e quello della Francia del 1968. Uno sciopero generale come quello immaginato dagli anarco-comunisti porterebbe solo alla confusione e al caos. In una società fortemente integrata come quella odierna, come si potrebbe isolare o prendere di mira l’apparato statale con un’azione politico-economica (scioperi, blocco dei trasporti, picchettaggi ecc.) in modo da renderlo inefficace senza interrompere contestualmente la produzione e la distribuzione per il resto della società? Truppe ben armate e addestrate insieme a squadre speciali di polizia si impossesserebbero delle merci necessarie, isolerebbero gli scioperanti e, attraverso la violenza immediata oppure mediante una lunga guerra psicologica di logoramento, riporterebbero gli scioperanti al lavoro prendendoli essenzialmente per fame. Questo è davvero il nocciolo che Kropotkin sembra non comprendere: mentre sul versante teorico sosteneva che il suo anarchismo non fosse assolutamente utopico in quanto “non ricorre a concezioni metafisiche (...)” 32, egli vi ricorreva eccome nella pratica aderendo a tutta una serie di ipotesi, formalmente legittime, ma altamente idealistiche. Ecco, ad esempio, cosa disse all’assemblea generale della Federazione del Giura, nel 12 ottobre 1879, a La Chaux-de-Fonds:
«C’è stato un tempo in cui si negava agli anarchici persino il diritto di esistere. Il Consiglio generale dell’Internazionale ci trattava come faziosi, la stampa come sognatori e quasi tutti ci trattavano come sciocchi. Questo tempo è passato. Il partito anarchico ha dimostrato la sua vitalità, ha superato ostacoli di ogni genere che ne impedivano lo sviluppo: oggi è accettato. Per arrivare a questo, è stato necessario, prima di ogni altra cosa, che il partito s’imponesse nel campo della teoria, che stabilisse il suo ideale di società del futuro, che dimostrasse che questo ideale è il migliore, che facesse di più - che dimostrasse che questo ideale non è il prodotto dei sogni degli studiosi, ma scaturisce direttamente dalle aspirazioni popolari, che è in accordo con il progresso storico della cultura e delle idee. Questo lavoro è stato fatto».
Ma, come nota malignamente Plechanov 33: “Questa caccia all’ideale migliore della società del futuro non è forse il metodo utopistico per eccellenza?”. E poi prosegue esponendo le contraddizioni esistenti tra l’insistenza anarchica per la libertà assoluta dell’individuo e le minuziose idee di Kropotkin su come il cibo, il vestiario ecc. saranno prodotti e distribuiti una volta abolito lo Stato.
e) La traiettoria dei comunisti dei consigli (o consiliaristi). Nonostante le grosse differenze sia teoriche che pratiche tra il socialismo scientifico di scuola marxista e l’anarchismo in tutte le sue sfumature, dato il fine comune delle due tendenze, ossia l’instaurazione su scala mondiale di una società senza classi né Stato, non pochi sono stati i passaggi di singoli militanti (o di interi spezzoni di organizzazioni) dall’uno all’altro campo, anche successivamente alla scissione tra marxisti e “bakunisti” del 1872. Ricordiamo a puro titolo di esempio l’olandese Ferdinand Domela Nieuwenhuis (1846-1919), prima socialista e poi dal 1894 anarchico o, all’opposto, l’italiano Andrea Costa (1851-1910), prima “bakunista” convinto e poi dal 1879 socialista. La storia dei consiliaristi tedesco-olandesi degli anni ‘20-‘50 è invece molto diversa da un semplice cambio di campo tra socialismo e anarchismo, in quanto si tratta di una complessa rimeditazione delle principali tematiche marxiste (derivate principalmente tramite l’intermediazione di Rosa Luxemburg) alla luce di un sempre più radicale rifiuto dell’avanguardismo bolscevico, in modo tale da sfociare in un approccio anti-sindacale e anti-politico tale da giustapporsi (senza però mai confondersi del tutto) con molte delle posizioni pratiche che il movimento anarchico aveva nel frattempo sviluppato autonomamente nell’alveo del cosiddetto “anarco-sindacalismo”. Così, quando un noto militante consiliarista tedesco, Paul Mattick (1904-1981), sul finire degli anni ‘20 si trasferì a Chicago negli USA, questi trovò assolutamente naturale interagire in modo preferenziale con gli anarco-sindacalisti della I.W.W., piuttosto che con i marxisti deleonisti del S.L.P., verso i quali ostentò sempre commiserazione e disprezzo. Ma cerchiamo di capire meglio in cosa consiste la critica consiliarista al cosiddetto “vecchio movimento operaio”, un disinvolto amalgama che raggrupperebbe socialisti marxisti, socialdemocratici, leninisti e trotzkisti di varia natura, ma anche, più semplicemente, i fautori dei sindacati di categoria.
Benché piccoli gruppi politici che si richiamano ai comunisti dei consigli esistano ancora oggi, la gran parte della loro costruzione teorica si situa tra la fine della Prima guerra mondiale, con l’opera di Herman Gorter (1864-1927) “La Rivoluzione Mondiale” 34 del 1918, e la Seconda guerra mondiale con il celebre lavoro di Antonie Pannekoek (1873-1960) “I Consigli Operai” 35, composto tra il 1941 e il 1947. Poi però, dopo un certo periodo di semi-oblio con la notevole eccezione di “Socialisme ou barbarie” in Francia, i consiliaristi diverranno assai di moda tra gli studenti universitari francesi e tedeschi della fine degli anni ‘60: le loro opere saranno ripubblicate ottenendo un’ampia diffusione in Europa continentale prima di essere importate negli USA e in Gran Bretagna nel decennio successivo. I consigli dei lavoratori a cui facevano continuamente riferimento i consiliaristi e gli anarco-comunisti di Volin nei loro scritti, ovviamente, non erano dello stesso tipo di quelli, detti “soviet”, che venivano caldeggiati dai vari comunisti bolscevichi sostenitori di Lenin e di Trockij, anche se entrambe le strutture, alla base, condividevano lo stesso duplice preconcetto politico: il rifiuto aprioristico dell’idea (a) che il Parlamento possa esser egemonizzato da un partito genuinamente socialista e venir usato per scopi rivoluzionari; (b) che l’obiettivo della lotta di classe sia il controllo da parte della classe lavoratrice dell’apparato statale e non una serie di scontri militari sempre più violenti con la polizia e l’esercito.
Concentrandoci su uno degli autori consiliaristi più preparati, Antonie Pannekoek, ricordiamo che questi fu un celebre astronomo olandese che scrisse la gran parte dei suoi lavori politici sotto una serie di fantasiosi pseudonimi. Rappresentava una tendenza inizialmente nota come “comunismo di sinistra tedesco-olandese” che Lenin equiparava sprezzantemente a un disagio, passeggero ma fastidioso, del comunismo internazionale nel suo celebre pamphlet “Estremismo, malattia infantile del Comunismo” 36. Oggi invece, dato anche il discredito che ha investito il leninismo nel suo complesso, Pannekoek è addirittura venerato da vari intellettuali semi-anarchici del calibro di Noam Chomsky (il quale ha persino scritto una corposa introduzione alla riedizione del 2002 dell’opera più famosa di Pannekoek, “I Consigli Operai” 37). Però i marxisti hanno sempre sostenuto l’idea che la lotta di classe possa essere portata avanti solo attraverso un partito politico di rigorosi principi socialisti. E proprio su questo Pannekoek, da un certo momento in poi a metà degli anni ‘20, non fu più d’accordo, arrivando nel periodo 1936-41 addirittura ad affermare che: “Il vecchio movimento operaio è organizzato in partiti. La fede nei partiti è la ragione principale dell’impotenza della classe operaia” [grassetto nostro] 38. Da questo punto in poi la politica di Pannekoek rappresentò un percorso molto pericoloso da seguire. Egli escludeva esplicitamente ogni partito politico (di qualsiasi tipo) come mezzo per raggiungere il socialismo. Eppure, senza un partito politico la classe operaia non può conquistare la struttura di governo, lo Stato capitalista mantiene il dominio di classe e il socialismo non può essere in alcun modo instaurato. Ma perché allora far rivivere un rappresentante, sebbene colto, onesto e in buona fede, di una politica fallimentare, come quella della Sinistra Comunista Tedesco-olandese, che all’opposto dovrebbe esser lasciata all’interesse esclusivo degli storici? Per capirlo conviene tornare a “Partito e classe” 39 dove Pannekoek scriveva la frase antipartitista appena riportata (ossia “La fede nei partiti è la ragione principale dell’impotenza della classe operaia”) leggendone però tutto il seguito:
«Perciò evitiamo di formare un nuovo partito, non perché siamo troppo pochi, ma perché un partito è un’organizzazione che mira a guidare e controllare la classe operaia. In contrapposizione a ciò, sosteniamo che la classe operaia può raggiungere la vittoria solo quando affronta autonomamente i propri problemi e decide il proprio destino. I lavoratori non devono accettare ciecamente gli slogan degli altri, nemmeno quelli dei nostri gruppi, ma devono pensare, agire e decidere da soli. Questa concezione è in netta contraddizione con la tradizione del partito come mezzo più importante per l’educazione del proletariato. Per questo molti, pur ripudiando i partiti socialisti e comunisti esistenti, ci resistono e ci osteggiano. Ciò è dovuto in parte alle loro concezioni tradizionali: dopo aver visto la lotta di classe come lotta di partiti, diventa difficile considerarla come pura lotta della classe operaia, come lotta di classe. Ma in parte questa concezione si basa sull’idea che il partito svolga comunque un ruolo essenziale e importante nella lotta del proletariato» 40.
È qui evidente l’enorme equivoco pannekoekiano tra partito socialista e partito avanguardista: un vero partito socialista marxista basato su principi rigorosi non fa nulla di quello che temeva Pannekoek. Un partito socialista senza capi carismatici, basato su una pratica democratica e su deleghe revocabili in qualsiasi momento, non mira in alcun modo a guidare o, peggio, a controllare la classe lavoratrice. Un partito socialista dovrebbe piuttosto prefigurare il sistema sociale che vuole instaurare e, dunque, deve essere controllato da tutti i suoi iscritti. Inoltre, va anche ricordato che un partito socialista non può guidare una classe lavoratrice passiva perché i lavoratori devono convincersi autonomamente che il capitalismo non possa essere riformato e riorganizzato nel loro interesse. La classe lavoratrice non può essere quindi costretta ad accettare supinamente le tesi socialiste per la semplice ragione che il socialismo si baserà proprio su una libera associazione di uomini e donne che parteciperanno attivamente a tutti gli affari della società. Purtroppo, questi semplici concetti, già esposti in nuce da Marx nell’ “Indirizzo inaugurale dell'Associazione internazionale degli operai” (1864) 41, sembrano esser stati dimenticati e il movimentismo antipartito insito nelle idee di Pannekoek è ritornato a galla: la politica associata all’azione diretta extraparlamentare e al rifiuto dei partiti politici sembra in effetti tornata in auge nei cosiddetti movimenti “anticapitalisti” degli ultimi anni come testimonia il bestseller del 1999 Two Hundred Pharaohs, Five Billion Slaves del situazionista Adrian Peacock 42. Le lezioni del passato (anni ’20, anni ’60 e ’70 ecc.) non sono state apprese a dovere e di fronte ai cannoni ad acqua, alle pallottole di gomma della polizia, ai manganelli e ai gas lacrimogeni ecc. nuove generazioni di attivisti “anticapitalistici” stanno ripetendo gli stessi errori del secolo scorso. Per portare a termine una rivoluzione socialista, come sempre sostenuto dai marxisti, la classe lavoratrice deve conquistare l’apparato statale, mentre limitarsi ad allestire dei consigli di lavoratori (i cosiddetti “collettivi”, in sé certamente dotati di una certa utilità) all’interno dei luoghi di lavoro e a scontrarsi con le forze dell’ordine (se non addirittura con l’esercito…) è solamente una ricetta per l’ennesimo disastro. La storia tragica dell’Autonomia Operaia nell’Italia degli anni ‘70 ne rappresenta veramente un esempio da manuale 43. Ogni tentativo di questo genere si è concluso infatti con la pura e semplice distruzione di tali consigli da parte dello Stato, oppure più raramente, come in Russia o in Germania, con la loro usurpazione da parte di fazioni politiche organizzate (ad esempio, i bolscevichi o i socialdemocratici “ufficiali”) per i propri fini di potere.
f) Il “situazionismo” e l’anarchismo accademico contemporaneo. All’origine vi fu il curioso movimento situazionista (cfr. “La società dello spettacolo” 44 di Guy Debord del 1977) composto in gran parte da intellettuali, artisti e architetti di ascendenza chiaramente dadaista o surrealista. Lo stile letterario dei loro testi era volutamente aforistico ed ermetico, quindi di difficile fruizione; i loro slogan apparivano alquanto provocatori in modo tale che l’impatto sociale delle loro idee spontaneiste, consiliariste e semi-anarchiche fu del tutto trascurabile al di fuori del milieu intellettuale europeo. Se il situazionismo è spesso acuto nella critica all’aspetto capitalistico di una società sempre più fondata sulla comunicazione, politicamente e storicamente esso è discutibile se non addirittura grossolano. Per esempio, ne “La società dello spettacolo” 45, si dice che in Spagna: “Nel 1936 l’anarchismo portò davvero alla rivoluzione sociale, creando il modello più avanzato di potere proletario mai realizzato”. Ora, con tutto il dovuto rispetto per i martiri anarchici della guerra civile spagnola, come l’eroico Buenaventura Durruti (ucciso dai franchisti) o il teorico italiano Camillo Berneri (assassinato a sangue freddo dagli stalinisti), dobbiamo però chiederci onestamente: dov’è che l’anarchismo sindacale (CNT) o politico (FAI) hanno portato alla rivoluzione sociale in Spagna? I documenti storici mostrano, ahimè, tutta un’altra realtà: la traballante alleanza degli anarchici con i socialdemocratici, gli stalinisti e la borghesia “progressista”, mentre il fascismo di Franco sconfigge tale blocco molto rapidamente (1936-1939). Come spesso accade per vari scrittori anarchici, vi è un enorme divario, sintomo di una forte carica di idealismo, tra il pensiero teorico astratto e la realtà storica concreta. Ma se il situazionismo vero e proprio ha avuto vita breve (1957-1972), l’influsso anarchico e semi-anarchico sul mondo accademico è vivo e vegeto e ha una forte influenza, non sempre positiva, su molte case editrici (ad esempio, AK Publisher in California o Freedom Press in Gran Bretagna) e perfino su riviste di grande tiratura. Un esempio tipico è quello dello statunitense Murray Bookchin (cfr. il suo saggio Remaking Society del 1990 46). Bookchin, influenzato chiaramente dal filosofo post-marxista Herbert Marcuse, rifiuta esplicitamente l’idea che la classe operaia possa essere attualmente l’agente del cambiamento rivoluzionario. In New Social Movements 47 del 1989 ha perfino avuto il coraggio di sostenere, con buona pace della rapida industrializzazione delle “Tigri Asiatiche”, che oggi “il proletariato non solo è meno suscettibile alle idee rivoluzionarie di quanto non lo fosse in passato; ma peggio, il proletariato stesso sta diminuendo in numero e in potere economico”. Evidentemente Bookchin è un sociologo da strapazzo e ha una visione superficiale e stereotipata della classe lavoratrice, degna forse della gauche caviar più elitaria, autoreferenziale e spocchiosa di cui fa senz’altro parte. In pratica, secondo lui, i lavoratori sarebbero tutti maschi con bassa scolarità, che indossano tute blue e berretti di tela grezza lavorando piegati per ore nelle fabbriche e nelle miniere! Bookchin è anche ostile all’analisi e all’azione politica dei partiti socialisti marxisti, rifiutando la strategia di usare il parlamento (o qualche suo equivalente) come mezzo per porre in atto la rivoluzione sociale. E si oppone anche all’idea che una maggioranza di lavoratori utilizzi l’apparato governativo come un agente di emancipazione sociale. In somma, nonostante le sue grandi pose da intellettuale critico e illuminato, il pensiero di Bookchin è teoricamente molto inferiore, pur considerando i loro limiti e i loro errori, alle elaborazioni politiche che abbiamo appena discusso di Kropotkin o di Pannekoek.
Infine, ci sarebbero anche gli intellettuali anarchici movimentisti, come Chomsky o quelli associati alla Freedom Press britannica. La rivista di questi ultimi, Freedom, dichiara senza mezzi termini di opporsi a “ogni tipo di istituzione coercitiva, compresi gli Stati, gli eserciti, la schiavitù, il sistema salariale, le prigioni, i gangster, le bombe nucleari, il denaro, il patriarcato, il matriarcato, la teocrazia e i governi rivoluzionari”. Anche in questo caso, l’approccio è totalmente e irrimediabilmente utopistico perché si fa un gran calderone di istituzioni coercitive (reali o immaginarie) senza confrontarsi politicamente con la realtà concreta del capitalismo contemporaneo. Sono anche a favore dell’abolizione del sistema dei salari (tra le altre cose…), ma non avrebbero comunque mezzi politici pratici per raggiungere un tale obiettivo. Qualcuno li ha paragonati ironicamente a degli uomini che credono che si possa arrivare sulla luna soltanto pensandoci, quando, in realtà, per giungere sulla luna servono scienza, tecnologia, missili e astronauti. Sebbene alcuni di loro, come Reed, Walford, Comfort, Waters ecc., erano di orientamento non violento e non avevano nulla a che fare con i filoni dell’anarchismo muscolare “anti-globalizzazione” legato ai famigerati “Black Block” o a “Reclaim the Streets”, tuttavia il loro approccio anarchico era altrettanto idealista, impraticabile e utopistico, in quanto rifiutava la necessità di un’azione politica consapevole attraverso un partito socialista teoricamente coerente e proteso alla conquista dell’apparato statale.
g) L’anarco-capitalismo nasce dalla fusione tra l’anarco-individualismo e il liberismo economico “austriaco” operata dal filosofo ed economista Murray Newton Rothbard ne “Il Manifesto Libertario” 48, celebre saggio del 1977. Oggi quasi tutti gli anarco-liberisti, ossia gli anarchici sostenitori del libero mercato, fanno riferimento a una manciata di organizzazioni e fondazioni quali il già nominato Cato Institute, lo Heritage Institute o la Mises Foundation. Si tratta di un anarchismo molto sui generis sostenuto da alcuni grandi capitalisti e dai loro consulenti accademici. Auspica un mondo utopico fondato sul libero scambio e su zero tasse, in cui non esiste lo Stato e in cui ogni relazione sociale è essenzialmente una sorta di compravendita tra privati. Va però notato che gli anarco-capitalisti si differenziano completamente dagli anarchici mutualisti associati a Proudhon e ai suoi successori contemporanei sostenitori di qualche forma di mutualismo.
Gli anarchici “mercatisti” sono ovviamente a favore delle multinazionali su larga scala e non vedono nulla di male nella distruzione dei piccoli imprenditori mediante una spietata concorrenza. Anzi, pensano che questo sia un fenomeno assolutamente naturale e osteggiano perfino la blanda legislazione antitrust oggi esistente. Uno di questi ideologi ha dichiarato una volta che se anche l’aria pulita fosse proprietà privata, non ci sarebbe nulla di criminale in tutto ciò! Da un punto di vista marxista l’errore fondamentale degli anarco-capitalisti è duplice. In primo luogo, ritengono che i mercati siano meccanismi naturali, perfetti e infallibili. Questo “dogma” è ovviamente falso come dimostrato dalle periodiche depressioni del capitalismo con periodi di alta disoccupazione, quando il presunto “equilibrio economico generale” (dove la domanda e l’offerta di ogni merce, approssimativamente, si equivalgono) fallisce in modo eclatante. Ovviamente c’è anche chi difende il ruolo positivo delle crisi cicliche come “spazzini” delle imprese inefficienti e delle tecnologie ormai obsolete, ma sembrerebbe un’idea piuttosto strampalata applicare meccanicamente questo concetto schumpeteriano, per esempio, alla grande crisi finanziaria del 2007-2009. Il loro secondo errore consiste invece nel supporre che i problemi del capitalismo si verifichino solo a causa dell’interferenza dello Stato che andrebbe a perturbare i mercati. Questo li porta alla ridicola posizione secondo cui si possa tornare a un capitalismo manchesteriano “puro e vergine” senza la presenza dello Stato capitalista moderno. Al giorno d’oggi questa posizione, che era già abbastanza discutibile nell’ultima parte del XIX secolo, non è più nemmeno minimamente sostenibile dato l’intreccio sempre maggiore tra gli Stati, la finanza e i grandi monopoli. In questo senso, anche l’anarco-capitalismo è solo un’utopia reazionaria in nessun modo migliore del mutualismo proudhoniano o del capitalismo di Stato leninista che pure esso critica spietatamente.
L’irriducibile distanza tra gli anarchici e i socialisti.
Ai socialisti viene spesso rammentato che alcuni gruppi anarchici o semi-anarchici, in particolare gli anarco-comunisti, i comunisti dei consigli e i situazionisti, difendono un’idea di organizzazione sociale simile a quella prevista dai socialisti marxisti dopo l’instaurazione del socialismo mondiale. Si chiede quindi ai socialisti di riservare loro una considerazione speciale in modo tale da non includerli nella stessa categoria infamante della cosiddetta “sinistra filocapitalista”. Ma c’è un errore logico in questo ragionamento. L’oggetto stesso della politica socialista dipende da un processo dialetticamente correlato di analisi, di comprensione e di rifiuto del capitalismo. A partire da questa coscienza di classe, la classe lavoratrice intraprende un’azione politica attraverso un partito socialista saldamente ancorato ai principi marxisti. Una maggioranza socialista invia poi dei delegati in Parlamento con l’esplicito mandato di assicurare che l’apparato statale non protegga più la proprietà privata, consentendo così di sostituire la produzione e lo scambio di merci finalizzati al profitto con la produzione e la distribuzione esclusivamente per uso sociale. Gli anarchici rifiutano questo processo politico. Quindi come possono gli anarchici condividere l’oggetto stesso della politica socialista? Come possono cambiare la società?
Per quanto riguarda i principi marxisti del partito, partiamo dalla coscienza di classe che il capitalismo non potrà mai funzionare nell’interesse della classe lavoratrice e che la compagine statale ha come funzione principale la possibilità di proteggere gli interessi della classe capitalista. Ne consegue che, per realizzare il socialismo e porre fine al sistema di sfruttamento classista, è necessario che il movimento socialista ottenga il controllo dell’apparato governativo. Senza di ciò, la polizia e le forze armate verrebbero certamente utilizzate per schiacciare la minaccia agli interessi di classe, al potere e ai privilegi dei capitalisti. Non basta quindi proporre la “proprietà comune” come una bella idea, come un ideale utopico. È sicuramente meglio capire perché il socialismo sia necessario e come possa essere praticamente realizzato attraverso un’azione politica conscia e consapevole della classe lavoratrice. Eppure, ci viene detto che il socialismo sarebbe raggiungibile anche attraverso altri processi e percorsi, ossia quelli proposti dai situazionisti, dagli anarco-comunisti e dai consiliaristi. Logicamente non può essere così. Questi gruppi non analizzano correttamente il capitalismo. Sono pregiudizialmente ostili ai partiti politici. Non credono che il Parlamento possa essere usato per uno scopo rivoluzionario. Inoltre, hanno una visione errata del Parlamento e dell’apparato statale, ritenendo che questi possano essere associati solo a politiche di oppressione di classe o, al massimo, riformiste. Gli anarchici ritengono che, partecipando alle elezioni, i socialisti debbano necessariamente corrompersi, contaminarsi e diventare parte del sistema borghese. Gli anarchici dimenticano però che non sono dei generici “rappresentanti socialisti” ad essere mandati in parlamento da una maggioranza socialista, ma dei veri e propri delegati socialisti con l’esplicito mandato di assicurare che la produzione capitalistica ceda il passo a quella socialista e che l'apparato statale non sia usato per impedire l’esecuzione della volontà della maggioranza. Una volta che il socialismo sarà stabilito e consolidato, ovviamente non ci sarà più bisogno né di un partito politico socialista, né di delegati socialisti, né di una struttura di governo.
Non c’è capitalismo senza gli effetti del capitalismo
Cosa dire poi degli anarchici mutualisti che vorrebbero mantenere il capitalismo ma senza gli effetti negativi del capitalismo stesso? Oltretutto non sarebbe necessario rivolgersi a tali anarchici per trovare l’idea di un’organizzazione economica locale, democratica e cooperativa. Ci sono stati decine (o addirittura centinaia) di tentativi di creare piccole comunità utopiche, di fatto autosufficienti, basate su una produzione cooperativa e democratica. Sono tutti falliti. Nel 1817 Robert Owen fu il primo a elaborare le idee di base per il movimento cooperativo, il quale poi degenerò nelle moderne cooperative economiche sempre a caccia di loro lucrosi dividendi legati al profitto. Ma questa ovviamente non era affatto l’idea originale di Owen. Egli voleva piuttosto che i suoi seguaci creassero delle “oasi di produzione” socialiste in opposizione all’industria capitalista. Tuttavia, c’è un difetto fatale in questa idea, sia che essa provenga da Owen, sia che origini invece da Proudhon, da Bakunin, da Kropotkin o dai vari sindacalisti e cooperativisti spagnoli del XX secolo. Il difetto di questa teoria essenzialmente anarchica è che essa non riesce a fare i conti con il fatto che la società capitalistica è dominata e difesa da coloro che controllano l’apparato governativo (che include le forze armate). Nessuna forma di organizzazione sociale non capitalistica potrà mai esistere e prosperare perché coloro che controllano la struttura del governo, comprese le forze dell’ordine e l’esercito, non lo permetteranno se non alle loro condizioni, ossia l’essenziale mantenimento del loro potere e dei vasti privilegi della classe capitalista. E nessuno dei sostenitori dell’autogoverno locale di comunità “oweniste” non-capitaliste ha una soluzione a questo problema. Certo, in teoria ci sarebbero due modi in cui si potrebbe tentare di aggirarlo: quello legale e quello illegale.
La via legale era proprio quella di Robert Owen: le comunità si stabiliscono legalmente, prosperano e alla fine rimpiazzeranno l’industria capitalista. Poi i mutualisti proudhoniani sostituirono le comunità di Owen con le loro “cooperative di produzione” e sostennero che la creazione di tali cooperative sarebbe servita da modello per il funzionamento di un socialismo libertario. Ma per iniziare, le comunità (e anche le “cooperative di produzione”) devono prima trovare il capitale monetario con cui acquistare le materie prime, i semilavorati, i macchinari, i fabbricati ecc., tutti necessari per produrre e scambiare le merci all’interno del sistema capitalistico. E questo è impossibile. La loro convinzione è che si possano creare “isole” di relazioni sociali non capitalistiche, basate sul baratto o sulla produzione soltanto per l’uso, all’interno di una società capitalistica, con una produzione per il mercato, per lo scambio nell’ambito di un’economia monetaria. Questa convinzione è assai ingenua e tali esperimenti, anche se tollerati ai margini della produzione capitalistica, falliscono invariabilmente. La classe lavoratrice, che possiede collettivamente meno di un decimo della ricchezza mondiale, non può competere con i capitalisti che ne possiedono quasi il 90%. Owen pensava che i piccoli nuclei di produzione cooperativa potessero gradualmente sostituire l’industria capitalista avendo più successo pratico. Era un sogno ed essi non possono farlo. Per 170 anni le unità produttive formate da cooperative autogestite non sono mai state in grado di competere seriamente con le grandi imprese capitaliste.
Rimaneva quindi la via illegale. Questa via ha spesso condotto gli anarchici alla rivolta armata contro la macchina statale capitalistica. Un esempio moderno è quella monotona farsa inscenata dagli anarchici del cosiddetto movimento “antiglobalista e anticapitalista”, i quali caricano i poliziotti ben armati che, invariabilmente, li atterrano, li malmenano, li arrestano e infine li spediscono in prigione. Ciò ormai non ci stupisce molto se ricordiamo le parole di una dichiarazione congiunta rilasciata nel 1936 dalla Confederazione Nazionale del Lavoro (la CNT), dalla Federazione Anarchica Iberica (la FAI) e dalla Federazione Iberica della Gioventù Libertaria (la FIJL): “Il proletariato deve rifiutare lo Stato, a prescindere dai partiti politici ed economici che gli si mettono di fronte” 49. Ma proprio in Spagna, tra il 1936 e il 1939, come si è visto, gli anarchici iberici, non potendo farcela da soli, si unirono al Fronte Popolare ponendosi al fianco di tutti i loro ex-nemici (socialisti, comunisti, radicali, catalanisti ecc.), come essi stessi ammisero, tradendo così i loro stessi principi (cfr., per esempio, il noto romanzo “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell). Gli anarchici hanno sempre fallito nel loro tentativo disperato di usare le armi e la violenza contro chi controlla la forza pubblica (dell’ordine o, addirittura, armata). Negli Stati Uniti, in Francia e in Italia, gli anarchici che attaccavano lo Stato venivano rapidamente imprigionati dalla polizia e talora anche giustiziati. In Russia gli anarchici sono stati addirittura schiacciati con la forza militare, prima dal governo dello zar e poi anche dai suoi successori, i bolscevichi.
Conclusione: l’inutilità dell’azione diretta (sia violenta che pacifica)
I veri partiti socialisti marxisti non hanno mai sostenuto la politica dell’azione diretta per fini rivoluzionari, ma hanno sempre insistito sulla necessità di ottenere il controllo dell’apparato statale (incluso quello governativo). Quindi, anche se fosse vero che alcune idee anarchiche sull’organizzazione sociale successiva all’instaurazione del socialismo sono simili a quelle proposte dai socialisti, esse non avrebbero alcun mezzo pratico per poter esser realizzate, perché nel modo come sono formulate appaiono sterili e irrimediabilmente utopiche. Abbiamo visto che le varie forme di anarchismo che si sono venute a creare nel corso del tempo contengono dottrine che sono estremamente deleterie per quella parte della classe operaia che le prendesse seriamente in considerazione. Sappiamo inoltre che quando la maggioranza dei lavoratori diventerà socialista, non ci sarà alcun bisogno di rivolte armate. I lavoratori ritireranno il loro sostegno ai partiti capitalistici e appoggeranno convintamente un vero partito socialista, in modo che il Parlamento, che controlla le forze armate, sia composto a larga maggioranza da delegati socialisti rivoluzionari. Se poi alcuni capitalisti cercassero di organizzare una qualche forma di resistenza, essi si rivelerebbero come una sparuta minoranza, priva del minimo sostegno popolare, la quale cerca di creare il caos per promuovere i propri interessi settoriali contro la volontà esplicita della maggioranza della società. Sarebbero quindi destinati a fallire miseramente. In molti paesi liberal-democratici come la Gran Bretagna o l’Italia, il Parlamento (e il Governo che da esso dipende) hanno un forte controllo, completo e sicuro, sulle forze armate: purtroppo gli interventi dei governi occidentali negli scioperi e durante i vari disordini avvenuti degli ultimi decenni hanno dimostrato chiaramente da che parte stanno per ora queste istituzioni. Gli “anticapitalisti” fautori di tali azioni dirette hanno fallito miseramente, così come altre tipiche manifestazioni di immaturità politica non hanno raggiunto il loro scopo. Questi fallimenti sono stati un’efficace dimostrazione di quanto sia necessario che i lavoratori ottengano il controllo del Parlamento per poter rovesciare il sistema capitalistico in modo rivoluzionario. E l’unica maniera per ottenere tale controllo è quello d’inviare delegati socialisti in Parlamento con l’esplicito mandato di ottenere il potere sull’apparato governativo in modo tale “che esso possa essere trasformato da strumento di oppressione in agente di emancipazione e di rovesciamento del privilegio, sia aristocratico che plutocratico”, come già recitava il programma “impossibilista” del Partito Socialista della Gran Bretagna nel lontano 1904.
DANKOLOG
Bibliografia Minima
1Il presente lavoro divulgativo s’ispira largamente all’articolo anonimo The Practical and Logical Impossibility of Anarchism contenuto nel sito Socialist Studies (https://www.socialiststudies.org.uk/), traducendolo in italiano, ampliandolo e depurandolo dalla polemica politica più spicciola.
2 Étienne de La Boétie, “Discorso sulla servitù volontaria” (Ed. Chiarelettere, Milano, 2011).
3William Godwin, “La giustizia politica” (Ed. Trimestre, Sambuceto (CH), 1990).
4William Godwin, “La giustizia politica” (Ed. Trimestre, Sambuceto (CH), 1990).
5F. Engels, “L’evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza” (Ed. Riuniti, Roma, 1970).
6G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
7idem
8K. Marx e F. Engels, “Il Manifesto del partito comunista” (Ed. Riuniti, Roma, 1977).
9Idem
10Max Stirner, “L’unico e la sua proprietà” (Adelphi, Milano, 2016).
11Idem
12K. Marx e F. Engels, “L’Ideologia Tedesca” (Ed. Riuniti, Roma, 1967).
13Idem
14G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
15Idem
16Pierre-Joseph Proudhon “Sistema delle contraddizioni economiche - Filosofia della miseria” (Ed. Anarchismo, Milano, 2016).
17Pierre-Joseph Proudhon, Les Confessions d’un révolutionnaire (Editions FB, Paris, 2015).
18Pierre-Joseph Proudhon, Théorie de l’impôt (Editions L’Harmattan, Paris, 2000).
19K. Marx e F. Engels, “Il Manifesto del partito comunista” (Ed. Riuniti, Roma, 1977).
20G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
21K. Marx e F. Engels, “Il Manifesto del partito comunista” (Ed. Riuniti, Roma, 1977).
22G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
23Karl Marx, “Miseria della filosofia. Risposta alla filosofia della miseria di Proudhon” (Ed. Riuniti, Roma, 1996).
24Michail Bakunin, “Stato e anarchia” (Feltrinelli, Milano, 2008).
25G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
26Idem
27Idem
28Pëtr Kropotkin, “La conquista del pane” (Ed. Clandestine, Massa, 2018).
29Pëtr Kropotkin, “Campi, fabbriche e officine” (Ed. Elèuthera, Milano, 2015).
30Pëtr Kropotkin, “Il mutuo appoggio, un fattore dell’evoluzione” (Ed. Elèuthera, Milano, 2020).
31Alain Pengam, Anarcho-communism, in Non-Market Socialism in the Nineteenth and Twentieth Centuries, editori M. Rubel e J. Crump (Macmillan Press, London, 1987).
32Pëtr Kropotkin, “Lo Stato e il suo ruolo storico” (Ed. Anarchismo, Milano, 1981).
33G. V. Plechanov, “Anarchismo e socialismo” (Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1971).
34Herman Gorter, The world revolution (Socialist Information and Research Bureau, Glasgow, 1920); https://www.marxists.org/archive/gorter/1918/world-revolution.htm
35Anton Pannekoek, “Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai” (Feltrinelli, Milano, 1970).
36V. I. Lenin, “Estremismo malattia infantile del comunismo” (Ed. Riuniti, Roma, 1970).
37Anton Pannekoek, “Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai” (Feltrinelli, Milano, 1970).
38Anton Pannekoek, Party and Class apparso su Modern Socialism, n. 2, pp. 7-10, inverno 1941; https://www.marxists.org/archive/pannekoe/1936/party-class.htm
39Idem
40Idem
41Karl Marx, “Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai” (1864);
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1864/indirizzo.htm
42Adrian Peacock, Two Hundred Pharaohs Five Billion Slaves (Ellipsis, London, 2002).
43Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (a cura di). “Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie” Voll. 1-2-3. (Ed. DeriveApprodi, Roma, 2007 e 2008).
44Guy Debord, “La società dello spettacolo” (Ed. Dalai, Milano, 2008).
45Idem
46Murray Bookchin, Remaking Society: A New Ecological Politics [AK Press, Chico (CA), 2023].
47contenuto in D. Goodway (ed.), For Anarchism: History, Theory, and Practice (Routledge, London, 2013).
48Murray N. Rothbard, “Per una nuova libertà. Il manifesto libertario” (Ed. Liberilibri, Macerata, 2004).
49Autori Vari, Three Years of Struggle in Spain (Freedom Press, London, 1939).
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