L’altra via: la transizione dal capitalismo al socialismo secondo i “comunisti dei consigli” tedesco-olandesi
Introduzione e traduzione dell’articolo di Hermann Lueer intitolato: “Die Übergangsperiode zum Kommunismus: eine intellektuelle Verwirrung”
(“Il periodo di transizione al comunismo, una confusione intellettuale”)
Breve premessa storica relativa ai “Grundprinzipien”
Nei due articoli precedenti apparsi sul sito di “Adattamento Socialista” abbiamo affrontato in modo divulgativo il complesso problema economico della transizione dal capitalismo al socialismo. Nel primo di essi è stato mostrato come sia una semplice “statalizzazione” delle imprese capitalistiche, sia un più complicato (e più arduo) sistema di economia collettivistica centralmente pianificata, falliscano entrambi nell’organizzare la fuoriuscita dall’economia capitalista, concentrandosi essenzialmente sull’eliminazione della figura storica del “capitalista investitore”. Tale fallimento può essere motivato da molteplici fattori, alcuni dei quali già noti agli economisti accademici del XX secolo, ma a nostro parere si situa soprattutto nella permanenza della categoria del lavoro salariato e quindi della classe sociale dei cosiddetti “proletari”. La sola possibilità pratica di stabilire un rapporto di lavoro basato su una retribuzione prefissata perpetua senza limiti l’esistenza del capitale, il quale, benché spersonalizzato, continua quel suo processo di autovalorizzazione il quale, almeno secondo Marx ed Engels, caratterizza in modo scientifico l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico.
Nel secondo articolo si è discusso invece di come sia teoricamente possibile una radicale eliminazione del lavoro salariato mediante uno speciale tipo di imprese cooperative auto-gestite dai lavoratori, le quali operino nel quadro di un’economia di mercato, dove sopravvivano, almeno temporaneamente, lo Stato, la moneta e talune istituzioni finanziarie. In questo contesto, più tipico della tradizione mutualistico-libertaria che di quella marxista, sono state discusse alcune legittime critiche a un socialismo di mercato di tal fatta, il quale potrebbe mantenere per lungo tempo taluni aspetti spiacevoli del sistema capitalistico, tra cui: l’alienazione, le crisi economiche, le esternalità ambientali, la divaricazione tra città e campagna ecc., generalmente riconducibili a ciò che in ambito marxiano è noto come “l’anarchia del mercato”. Inoltre, benché solidamente fondato dal punto di vista microeconomico, questo sistema di cooperative democratiche autogestite presenta a nostro parere anche un problema di tipo evolutivo: mancando un vero e proprio conflitto di classe, non vi è alcun meccanismo interno che lo spinga a mutare, neppure lentamente, nella direzione di un socialismo maturo (“comunismo”), senza più denaro né Stato, con il libero accesso di tutti ai beni e ai servizi e, ça va sans dire, con un lavoro privo di qualsivoglia coercizione.
Per questa specifica ragione vogliamo presentare nelle poche pagine che seguono un’altra via che conduca alla transizione dal capitalismo al socialismo, completamente diversa da quella di mercato, ma tipica della Weltanschauung dei “comunisti dei consigli” (Rätekommunisten) della Sinistra Comunista Tedesco-Olandese. Lasciando le lunghe peripezie storico-politiche di tale corrente, avvincenti ma complesse, alla letteratura specializzata 1, vogliamo passare direttamente al saggio che sviluppa in modo dettagliato le concezioni “consiliariste” sul problema della transizione. Si tratta del lavoro collettivo, coordinato da Jan Appel 2 e intitolato “Grundprinzipien kommunistischer Produktion und Verteilung” (nella versione tedesca) oppure “Grondbeginselen der communistische productie en distributie” (nella contemporanea versione olandese), un titolo che potrebbe esser reso in italiano come “I principi basilari della produzione e della distribuzione comuniste”. Fu pubblicato per la prima volta in queste due lingue nel 1930 dal “Groep van Internationale Communisten” (Gruppo dei Comunisti Internazionali, GIC, 1927-1940 3), basato nei Paesi Bassi, insieme alla Allgemeine Arbeiter-union Deutschlands (Unione Generale dei Lavoratori di Germania, AAUD, 1920-1933), ma incontrò subito grossi problemi con la censura tedesca che lo confiscò e lo distrusse. Lo stesso gruppo politico olandese lo revisionò e lo espanse notevolmente nel periodo tra il 1931 and 1935, anno quest’ultimo in cui apparve una seconda edizione dei “Grundprinzipien”, sempre in tedesco e in olandese. Ma tale seconda versione è stata tradotta in inglese 4 solo di recente, nel 2020, cosa che ha portato subito a un nuovo moto d’interesse per questo ambizioso lavoro teorico così poco conosciuto. Buona parte del merito di questa operazione culturale va al marxista tedesco Hermann Lueer, che ha riscoperto ed attualizzato non solo i “Grundprinzipien” 5, ma anche altri contributi del GIC. Riportiamo in quel che segue un suo breve articolo in cui è messa a fuoco la visione dei “Rätekommunisten” relativa al problema della transizione da capitalismo a comunismo in forte contrapposizione sia con i bolscevichi che con gli anarchici.
Ci riserveremo un brevissimo commento solo alla fine dell’articolo di Lueer contenuto nell’interessante sito di Arbeiterstimmen (“Die Übergangsperiode zum Kommunismus: eine intellektuelle Verwirrung”).
Hermann Lueer: “Il periodo di transizione al comunismo, una confusione intellettuale”
Nella misura in cui i fondamenti economici di una società comunista sono stati trattati seguendo gli scritti di Marx ed Engels, le idee-base relative a una tale società sono solitamente solo determinazioni negative: niente denaro, niente valore di scambio, niente mercato, niente lavoro salariato, oppure superficiali, cioè frasi corrette ma che non sono approfondite nei termini del loro contenuto, come ad esempio: socializzazione dei mezzi di produzione, o lo slogan popolare tra gli anarchici, ma anche presso Lenin e persino, ipocritamente, presso Stalin: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Di conseguenza le idee di base sul periodo di transizione sembrano, tutto sommato, simili a quelle sul comunismo che abbiamo appena riportato. Poiché gli aspetti cruciali della trasformazione rivoluzionaria (ossia, i principi economici fondamentali di un rapporto di produzione comunista) non sono in gran parte chiari, la sfida della transizione verso una società comunista sembra risiedere essenzialmente nella forma politica dell’organizzazione. La parola-chiave è quindi il ruolo-guida del partito in opposizione a ogni cessione di potere ai consigli operai.
Ma senza la consapevolezza delle basi economiche della trasformazione rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo, le idee sul periodo di transizione diffuse nelle correnti della sinistra radicale diventano, sebbene in modi diversi, un’involontaria porta d’ingresso per la controrivoluzione.
A. I principi basilari della produzione e della distribuzione comuniste
Il periodo di transizione dal rapporto di produzione capitalista a quello comunista non è nient’altro che la ben nota “rivoluzione”, ovvero il capovolgimento dei rapporti di produzione, che corrisponde, come periodo di transizione politica, alla “dittatura rivoluzionaria del proletariato” di marxiana memoria.
Lo scopo della rivoluzione proletaria non può che esser quello di stabilire un nuovo rapporto tra il produttore e il prodotto sociale. Per superare i rapporti di lavoro salariati, prevalenti nel capitalismo, occorre abolire la separazione tra il lavoro e il prodotto del lavoro, affinché ritorni ai lavoratori il diritto di disporre di tale prodotto del lavoro e, quindi, anche dei mezzi di produzione. Questa è l’essenza della produzione comunista.
In altre parole:
«Per il proletario lo scopo della rivoluzione sociale non può essere altro che quello di determinare, attraverso il suo lavoro, il suo rapporto con il prodotto sociale. Questo significa: “Abolizione del lavoro salariato! Il lavoro è la misura dei consumi!”
Si tratta dell’unica condizione per rimettere la gestione e l’amministrazione della produzione sociale nelle mani dei lavoratori stessi» 6.
Con l’introduzione del tempo di lavoro individuale quale misura della quota di prodotto del lavoro sociale spettante a ciascuno, la transizione dai rapporti di produzione capitalistici a quelli comunisti è completa. L'introduzione del tempo di lavoro individuale come parametro per la ripartizione del prodotto del lavoro sociale implica anche la socializzazione dei mezzi di produzione, impedendo così l'appropriazione del lavoro altrui. Insieme alla proprietà privata dei mezzi di produzione scompare anche lo scambio di merci basato su tale proprietà, e con esso il valore di scambio e la sua forma materiale generale, ossia il denaro. Gli esseri umani farebbero tutto con molta semplicità, senza l'interferenza del tanto decantato “valore”. Invece di valutare il lavoro individuale alle spalle delle persone attraverso la concorrenza sui mercati o attraverso l’esplicita pianificazione operata dal potere statale mediante la regolamentazione dei prezzi dei beni e del lavoro, la gente userebbe il tempo di lavoro come misura della propria attività lavorativa. Il controllo comunitario e pianificato della produzione da parte dei liberi produttori sulla base del calcolo del tempo di lavoro costituisce l’essenza stessa della società comunista.
Su questa base, secondo la quale il rapporto tra l’impegno lavorativo e il rendimento è aperto a tutti i membri della società, è possibile una pianificazione della produzione in cui le persone decidano da sole cosa vorrebbero avere in base al loro equilibrio individuale tra impegno e rendimento. Ciò significa che ognuno può decidere autonomamente il proprio tempo di lavoro e i propri consumi. I bisogni individuali vengono valutati rispetto ai loro costi sociali e sono quindi incorporati nel processo di pianificazione sociale attraverso il desiderio di consumare e la disponibilità a lavorare. Dal punto di vista contenutistico, i “certificati di lavoro” non sono altro che una riconciliazione della divisione del lavoro determinata nel processo congiunto di pianificazione. Attraverso il calcolo del tempo di lavoro la questione della distribuzione viene ricondotta alla pianificazione della produzione. Progettare il contesto sociale della riproduzione non significa, in definitiva, altro che combinare il tempo di lavoro sociale necessario per soddisfare i bisogni con la somma del lavoro individuale disponibile. Su questa base le singole organizzazioni cooperative di lavoro sono in grado di collegarsi in rete orizzontalmente e verticalmente in relazione alle esigenze dei membri della società, ovviamente nell'ambito dei loro rapporti con i rispettivi fornitori, per formare un tutt’uno pianificato e per organizzare razionalmente il processo di produzione e di riproduzione.
La rivoluzione si gioca tutto sull’implementazione del tempo di lavoro individuale come parametro per la ripartizione del prodotto sociale. La forma politica del periodo di transizione corrisponde alla trasformazione rivoluzionaria del rapporto di produzione capitalistico nei principi economici fondamentali della società comunista, e non viceversa! La portata dell’attuazione dei principi economici, cioè la capacità di considerare il tempo di lavoro come punto di riferimento dell’intera vita economica, corrisponde al cambiamento della forma politica: il deperimento della dittatura del proletariato.
Tutti i diritti di proprietà derivano dall'occupazione e dalla violenza e diventano leggi quando vengono fatti rispettare. La differenza essenziale tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e quella socializzata è che, a differenza della socializzazione, la privatizzazione si basa sulla violenza di pochi contro la maggioranza. Imponendo il tempo di lavoro individuale come misura della propria quota di prodotto del lavoro sociale, la società comunista non riconosce il diritto allo sfruttamento e, allo stesso tempo, assoggetta l'intera vita economica alle regole comuniste di produzione. La loro “dittatura” sociale consiste essenzialmente nel realizzare una contabilità pubblica delle ore di lavoro come base generale per la produzione e per la distribuzione. Le organizzazioni aziendali tengono pubblici registri delle scorte di materie prime, di semilavorati e di mezzi di produzione a loro affidati dalla società nell'ambito dei rapporti di fornitura e dei tempi di lavoro sociale ivi contenuti. Il tempo di produzione sociale medio (come unità della produttività) si rivela essere il “controllore” nella cooperativa di produzione. “Controllore” non solo in relazione ai singoli rapporti di fornitura, ma anche in relazione al processo di riproduzione nella società vista come un tutto, il quale è aperto ad ogni persona nel tempo sociale medio di produzione per singola unità. Però questo “controllore” non è né un soggetto superiore alle persone, né un vincolo imposto da una legge economica che opera alle loro spalle, ma è piuttosto il loro stesso contesto cooperativo, che le stesse persone possono governare in accordo tra loro per un mutuo vantaggio. Effettuando la produzione e la distribuzione di beni e di servizi sulla base del tempo di lavoro, eliminando la concorrenza, il governo sulle persone viene sostituito dall’amministrazione delle cose e dalla gestione dei processi produttivi. Le funzioni statali che si sviluppano a partire dall’antagonismo insito nel sistema dei redditi non vengono abolite, ma si estinguono. L’abolizione del rapporto di produzione capitalistico attraverso l’introduzione del calcolo del tempo di lavoro e l’estinzione delle funzioni statali sono soltanto due aspetti della medesima azione.
In altre parole:
«L’unica via d’uscita da una situazione insostenibile per le masse operaie che, in quanto costituite da lavoratori salariati, sono esposte all’impoverimento assoluto, è che i lavoratori salariati s’impadroniscano essi stessi dei mezzi di produzione. Ma possono farlo solo se, uniti nei Consigli, diventano una potenza sociale e, allo stesso tempo, utilizzano congiuntamente, ossia su base comunista, i mezzi di produzione per soddisfare i bisogni sociali.
La promozione economica del calcolo del tempo di lavoro si esprime politicamente nel dominio della società da parte dei lavoratori. L’una non può esistere senza l'altro. Se la classe operaia non è in grado di calcolare il tempo di lavoro, ciò non significa altro che non è in grado di abolire il lavoro salariato e, quindi, non è in grado di assumere la direzione e l’amministrazione della vita sociale. Se il tempo di lavoro non è la misura del consumo individuale, allora il lavoro salariato resta l’unica soluzione.
Ecco perché eleviamo come slogan diretto del potere operaio il seguente programma:
“I lavoratori conducono tutte le funzioni sociali sotto la loro gestione diretta. Nominano e rimuovono tutti i funzionari. I lavoratori prendono in mano la produzione sociale unendosi in organizzazioni aziendali e in Consigli operai. Essi stessi integrano le loro imprese nell’economia comunista calcolando la loro produzione in base al tempo di lavoro sociale medio. Ciò significa che l’intera società passa alla produzione comunista”.
Questo è il programma politico ed insieme economico dei lavoratori salariati. In questo senso i loro Consigli trasformeranno l’economia. Queste sono le richieste più alte che possiamo avanzare relativamente a tali questioni, ma allo stesso tempo sono anche le più basse, perché riguardano l’esistenza o la non esistenza della rivoluzione proletaria» 7.
A questo non c’è nulla da aggiungere per quanto riguarda il periodo di transizione dalla società capitalistica a quella comunista, perché l’ampia trasformazione da ciò che il capitalismo ha prodotto nel corso dei secoli a ciò che le persone vogliono sulla base del rapporto di produzione comunista è una cosa che solo esse possono decidere per se stesse.
Naturalmente la società comunista a questo punto si riorganizzerà nel corso di un lungo periodo di tempo secondo i propri criteri: sia in relazione all'ambiente, sia nei termini del grado di automazione del lavoro, sia nel rapporto tra città e campagna, nonché tra lavoro mentale e lavoro manuale, sia nei termini del sistema educativo, della famiglia ecc. Ma questa ristrutturazione avverrà nel modo tipico di una società comunista liberata dal lavoro salariato, nella quale il diritto di disporre del prodotto del lavoro (e quindi anche dei mezzi di produzione) torna ai lavoratori. La base di questa vasta trasformazione sono i rapporti di produzione comunisti stessi.
B. La fase superiore del comunismo come porta d’ingresso della controrivoluzione
In effetti Marx menziona un periodo di transizione: la rivoluzione. Questo è tutto. Oltre a ciò, per lui non esiste altro periodo di transizione verso la società comunista.
L’idea di una fase superiore della società comunista nel senso per cui “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, la quale viene volentieri fraintesa come la forma avanzata del comunismo, è in realtà la porta d’ingresso della controrivoluzione.
I marxisti-leninisti confidano nella “dittatura del proletariato”, nel cui lontano orizzonte s’intravede la “fase superiore della società comunista”, dopo che il “regno della necessità” sarà stato superato, sotto la direzione del partito, attraverso il lungo e complicato cammino dello sviluppo delle forze produttive. I “comunisti libertari” (anarchici) si affidano invece alla morale socialista, che fluttua al di sopra dell’economia per stabilire il “regno della libertà” già nel “regno della necessità”, senza la misura del calcolo del tempo di lavoro, che, al contrario, secondo Marx è inevitabile.
Il Marxismo-Leninismo
La nazionalizzazione dei mezzi di produzione in nome del popolo non significa l’abolizione del lavoro salariato. Una socializzazione dei mezzi di produzione che non abolisca contemporaneamente la separazione tra il lavoratore e il prodotto del lavoro non centra l’obiettivo perché mantiene il rapporto di sfruttamento associato al lavoro salariato. Manca la base economica della società comunista che consenta ai membri della società di decidere autonomamente riguardo al proprio orario di lavoro e al proprio consumo, cioè riguardo a cosa vogliono e come vogliono lavorare secondo il loro equilibrio individuale tra impegno e ricavo.
L’abolizione del lavoro salariato può avvenire solo se viene abolita la separazione tra lavoratore e prodotto del lavoro e se, come conseguenza dell’istituzione del tempo di lavoro come punto di riferimento nell’intera vita economica, il diritto di disporre del prodotto del lavoro, come anche dei mezzi di produzione, ritorna ai lavoratori. Contrariamente a quanto crede la maggior parte dei marxisti, che dicono di basarsi su Marx, ciò non richiede una transizione lunga e complicata sotto la guida del partito. Per i partiti marxisti-leninisti in lotta per il potere, invece, è del tutto evidente l’idea che i lavoratori delle imprese conquistino il potere solo per consegnarlo all’avanguardia degli intellettuali affinché quest’ultima possa poi creare la nuova società “a nome e a beneficio della classe operaia”:
«Per la famosa transizione al comunismo è necessaria non una mistica “organizzazione razionale” delle forze produttive, ma la crescita ininterrotta dell’intera produzione sociale con un aumento prevalente della produzione dei mezzi di produzione» 8.
«Una - come insegnava anche Lenin - transizione lunga e complicata dalla società capitalista (…) per raggiungere soltanto uno degli stadi preliminari della società comunista» 9.
Perché, scrive Trockij nella sua introduzione alla “Rivoluzione (ipoteticamente) Tradita”:
«Il prerequisito materiale per il comunismo è un livello così alto di sviluppo del potenziale economico umano che il lavoro produttivo cessa di essere un peso e una difficoltà e non ha più bisogno di incoraggiamento. La distribuzione dei beni di consumo, che sono sempre abbondanti, allora (…) non richiederà altro controllo che quello dell’educazione, delle abitudini e dell’opinione pubblica» 10.
Secondo i marxisti che si rifanno a Lenin, sarebbe ingenuo aspettarsi l’abolizione del lavoro salariato e dello Stato a seguito della rivoluzione sociale. Il lavoro salariato e lo Stato scompariranno, ma solo nel lontano orizzonte della Storia umana.
Con questo sedicente programma “comunista”, i critici marxisti-leninisti del capitalismo in effetti stringono la mano ai sostenitori dell’ordine economico capitalista. Secondo tali sostenitori il sistema economico capitalista, in definitiva, riguarda la prosperità di tutti. Nulla ha cambiato il mondo negli ultimi due secoli tanto quanto il trionfo del capitalismo. Certo, la miseria è compagna del progresso e la disuguaglianza è parte del capitalismo, ma a lungo termine il capitalismo porterà una maggiore prosperità per tutti.
Questa è la famosa, lunga e complicata transizione verso “il paese dove scorrono latte e miele”, quando “l’avanguardia della classe operaia” attuerà il suo programma “comunista” negli “interessi della classe operaia”, ma al di sopra delle teste della classe operaia. Questo valore più elevato, il cosiddetto “interesse della classe operaia”, nella sua astrazione dai bisogni degli individui ad esso subordinati, contiene già un potenziale di brutalità contro le persone di cui, pur sostenendo di agire nel loro nome, in realtà esso si disinteressa. Questa terribile astrazione aumenta ulteriormente la sua spietatezza e la sua brutalità nei confronti dei singoli individui quando la realizzazione dell’“interesse della classe operaia” viene contemporaneamente dichiarata “una missione storica”, cioè un’astrazione dagli interessi immediati e concreti degli individui proiettata nel corso delle successive generazioni. Quindi la “ricchezza” può essere prodotta anche sotto il socialismo, per il quale le condizioni di lavoro e i salari sono un fattore di costo. Dunque, anche nella cosiddetta “fase di transizione al comunismo”, la funzionalità e la qualità delle merci, così come le condizioni di vita dei lavoratori, devono essere degradate da fine a mezzo secondo quello standard del valore che è il denaro. Quindi, anche nella “prima fase della società comunista”, la produttività del lavoro può essere aumentata nel corso di decenni sfiancando i lavoratori, ossia nell’”interesse della classe operaia”, ma in effetti a spese della popolazione lavoratrice. Dunque, nella costruzione di una “società comunista” – similmente ai cinici sostenitori delle condizioni capitalistiche – i sacrifici delle attuali generazioni prima o poi varranno, ma solo per le generazioni future.
Sul piano economico, questo programma marxista-leninista dovrebbe essere attuato contrastando l’anarchia dei mercati con l’applicazione consapevole e sistematica della legge del valore. Invece di valutare il lavoro individuale alle spalle dei produttori attraverso la concorrenza sui mercati, una valutazione equa del lavoro, che allo stesso tempo stimoli lo sviluppo delle forze produttive, dovrebbe essere effettuata attraverso il potere regolatorio dello Stato.
Ma volere applicare consapevolmente la legge del valore in condizioni in cui non esiste più la concorrenza capitalistica, attraverso la quale la legge del valore stessa viene ad affermarsi, significa voler determinare il prezzo “obiettivamente corretto” di una grandezza inesistente.
Non abolendo la proprietà dei mezzi di produzione, il lavoro salariato, le merci e il denaro, ma tentando di usarli in modo pianificato nella “cosciente applicazione della legge del valore” per l’attuazione degli obiettivi di politica economica del “socialismo reale”, i bolscevichi hanno sostituito i conflitti d’interesse causati dalla concorrenza sul mercato con altrettanti conflitti di interesse imposti dallo Stato. Le conseguenze di questa pianificazione della produzione, assai contraddittoria, orientata al valore e al profitto sono ben note: sulla base dei prezzi fissati dalle autorità statali e del mandato di realizzare profitti, le aziende del “socialismo reale” operarono di conseguenza in modo “creativo”. L'ottimizzazione dei principali indicatori di piano richiesti da tali autorità – cioè il superamento delle quantità e dei profitti stabiliti – fu conseguentemente implementata con una spietata gestione dei fattori di produzione materiale e di lavoro. Laddove il profitto veniva fissato in base a prezzi di acquisto e di vendita predeterminati, i tentativi di ottenere più prodotto dal materiale fornito erano all'ordine del giorno. Così la scarsa qualità dei prodotti e i conseguenti blocchi nelle forniture spesso vanificavano gli sforzi volti a garantire una produzione ordinata. Il risultato fu la tendenza delle singole aziende verso l'autosufficienza, l'accaparramento volto a immagazzinare importanti prodotti intermedi e la transizione verso la cosiddetta “economia sommersa”. Dato che le vendite erano garantite dai prezzi fissati dallo Stato, anche la produzione di beni inutili poteva essere un mezzo per rispettare il piano. Oltre agli oggetti di uso quotidiano superflui o difettosi, la distruzione dell'ambiente e le cattive condizioni di lavoro sono andate di pari passo con il raggiungimento (e talora il superamento) degli obiettivi di un piano economico orientato al profitto. La principale conquista del “socialismo reale” – “l’applicazione consapevole delle categorie di valore”, cioè l’uso dei prezzi e degli obiettivi di profitto per controllare la produzione e la distribuzione – alla fine si è rivelata un ostacolo pratico ad un’adeguata offerta di beni di consumo.
L’impresa di Michail S. Gorbačëv è stata in definitiva quella di voler superare le conseguenze della “cosciente applicazione della legge del valore” e del “cosciente sfruttamento dei rapporti tra merce e denaro”, settant’anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, secondo lo slogan “Più mercato nel socialismo a vantaggio di quest’ultimo". E così il periodo di transizione del socialismo reale si è concluso con l’elogio senza riserve della libertà economica, che è il principio fondamentale dei rapporti di produzione capitalistici.
ii) I critici libertari del capitalismo
Anche i “critici libertari del capitalismo” non credono alla base economica dell’“associazione di persone libere ed eguali” illustrata da Marx ed Engels. Essi vorrebbero vivere in una società comunista e allo stesso tempo essere liberi da essa. Attraverso il loro ideale di una società autodeterminata basata sul principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, il quale ignora le esigenze economiche, i libertari sognano una transizione immediata verso una società di persone libere ed uguali, per le quali qualsiasi base economica vincolante appare come una contraddizione.
Poiché i “critici libertari del capitalismo” non sono interessati ai principi economici fondamentali di una società comunista, non capiscono che una distribuzione senza un’adeguata misurazione economica non significa “prendere secondo le necessità”, ma, in definitiva, soltanto una distribuzione controrivoluzionaria da parte di una qualche autorità superiore.
In questo contesto, un’illusione diffusa tra le correnti della sinistra radicale, in passato come oggi, è l’idea che si possa sostituire nell’economia comunista il calcolo monetario con un’economia in natura (“in kind”). Questa idea venne confutata dettagliatamente dall’economista borghese Ludwig von Mises nel 1922 nella sua critica al socialismo 11 e anche il GIC vi fa riferimento nella sua critica.
In casi molto semplici potrebbe essere possibile esaminare l’intero processo economico dall’inizio della produzione fino al suo completamento e valutare se eventuali processi alternativi richiedano meno sforzo o forniscano più prodotto per uno sforzo fissato. Ciò non è però fattibile nel caso di processi più complessi basati sulla divisione del lavoro. Se, ad esempio, si vuole decidere tra l’energia solare e quella eolica per la produzione di elettricità, i singoli processi di produzione e i loro possibili sostituti sono così diversi tra loro che le stime vaghe non sono più sufficienti. Sono necessari calcoli più precisi per formarsi un’opinione corretta sulla sostenibilità economica di un simile progetto energetico.
Ma si possono formulare calcoli solo mediante unità omogenee che si rapportino tra loro attraverso una medesima scala. Se si elimina il calcolo economico, non c’è più modo di fare una scelta razionale tra le varie alternative in termini di rapporto tra sforzo e rendimento. L’economia in natura è quindi l’abolizione della razionalità nell’economia. Considerazioni economiche di tipo puramente fisico possono quindi mostrare come determinati obiettivi tecnici siano raggiungibili utilizzando vari mezzi. Tuttavia, esse non forniscono alcuna informazione sul rapporto tra sforzo e rendimento. Gli schemi e i progetti degli ingegneri rimangono quindi incompleti se gli input e gli output non possono essere confrontati su una base comune.
Parlando di produzione è ovviamente chiaro alla maggior parte delle persone che la pianificazione e l’organizzazione razionale dei processi produttivi richiedono l’uso di un termine di misura astratto. Tuttavia, l’idea che si possa separare a tale riguardo la produzione dal consumo è sbagliata. La produzione e il consumo sono collegati. Si produce per consumare e per poter consumare è necessaria una produzione corrispondente. Se per un certo desiderio di consumo fosse irrilevante la quantità di lavoro necessaria per soddisfarlo, allora sarebbe anche irrilevante, dal lato della produzione, che un processo di produzione sia o meno più costoso di un altro.
I bisogni non rappresentano di per se stessi una misura: solo quando il lavoro non è più richiesto per soddisfare un bisogno, tale bisogno diventa di per sé stesso una misura. Come nella famosa utopia biblica della “terra dove scorrono il latte e il miele”. Finché il lavoro sarà necessario per soddisfare i bisogni, i bisogni saranno sempre proporzionali al lavoro sociale richiesto per soddisfarli, cioè alla disponibilità individuale a partecipare alla produzione volta a questo scopo. Nell’interesse della razionalità di un’economia basata sulla divisione del lavoro, le persone devono essere in grado di valutare se i loro bisogni valgano o meno lo sforzo richiesto. Senza informazioni sullo sforzo collettivo associato agli oggetti necessari per dar soddisfazione ad un bisogno, risulta impossibile valutare ragionevolmente se lo sforzo sia proporzionato al beneficio. Se i membri della società non sapessero nulla dello sforzo richiesto per ottenere i vari prodotti e i vari servizi, avrebbero solo i loro bisogni soggettivi come misura del loro desiderio di qualcosa. Senza lo standard economico del tempo di lavoro, la domanda relativa a quanto le persone vogliano lavorare non potrebbe essere risolta in termini di rapporto tra lavoro e prodotto, ma esclusivamente in base al desiderio volontaristico di lavorare. Così le persone necessitano, oltre che al loro bisogno soggettivo di questo o di quello, anche di uno standard oggettivo che possa mettere in relazione il semplice bisogno con il lavoro richiesto per soddisfarlo.
Il tempo di lavoro come parametro della quota di prodotto sociale da consumare individualmente non è quindi in contraddizione con il soddisfacimento dei bisogni, ma è, al contrario, un mezzo di valutazione razionale. Solo con l’aiuto del calcolo economico i mezzi possono essere messi economicamente al servizio dei fini. Ciò vale sia per l'organizzazione della produzione, che non può fare a meno di determinare il tempo di lavoro socialmente necessario, sia per la valutazione razionale di come distribuire i risultati della produzione comune. Anche per i servizi infrastrutturali necessari a tutti, come l’acqua e l’elettricità, sarebbe inutile cercare di fare a meno di queste informazioni.
Il contrasto tra il bisogno e il lavoro necessario non è però creato dai certificati orari di lavoro (labour voucher), ma dalla natura stessa: il regno della libertà inizia solo dove finisce il bisogno di lavorare. Svelando sistematicamente la connessione tra bisogni e lavoro socialmente necessario, la società non dà origine a una contraddizione. Anzi, una società libera non potrà fare a meno di svelare ai suoi membri il nesso tra impegno e reddito, che è basato sul calcolo del tempo di lavoro nonché sulla loro quota individuale di lavoro e di consumo, se i membri di tale società vogliono decidere da soli sul lavoro e sul consumo, secondo le loro specifiche esigenze. L’“Associazione degli Esseri Umani Liberi” non sarebbe all’altezza del suo nome se ignorasse la base materiale che le consente di dirigere e di gestire la produzione e la distribuzione da se stessa. La distribuzione senza una misura economica non significa “prendere secondo le necessità”, ma piuttosto implica, come si è detto, un’allocazione controrivoluzionaria da parte di un’autorità esterna superiore.
Non è quindi sufficiente limitarsi a diffondere la rivoluzione sociale, ma bisogna anche studiare come essa debba esser portata avanti economicamente.
Qualche breve commento conclusivo
Come il lettore avrà sicuramente notato, l’articolo di Hermann Lueer che abbiamo appena proposto in traduzione italiana illustra in modo assai coinvolto e partecipato la posizione dei “comunisti dei consigli” degli anni ’30 del XX secolo relativa al problema della transizione dal capitalismo al comunismo. Anzi, possiamo dire che Lueer la sposa in toto e il suo recente volume 12, non a caso, porta lo stesso titolo dell’opera del GIC del 1930-35 13. Infatti, il primo vuole essere essenzialmente una spiegazione e un’attualizzazione della seconda nell’epoca del capitalismo finanziario e globalizzato. Dunque, per comodità espositiva e, soprattutto, per brevità non distingueremo in questo nostro commento le idee di Jan Appel da quelle di Hermann Lueer, anche se, da un punto di vista squisitamente scientifico, amalgamare posizioni espresse da due autori distinti a 88 anni di distanza è una prassi scadente… Ci si perdoni quindi questa mancanza metodologica grave con un surplus di indulgenza, soprattutto considerando il carattere divulgativo del presente scritto. L’articolo che abbiamo riprodotto ha un tono volutamente polemico, anzi addirittura militante, e purtroppo lascia in sospeso le questioni di politica economica a mio modesto parere più interessanti 14: in una società senza denaro, fondata sull’uso estensivo di certificati orari di lavoro (labour voucher), non cedibili né tesaurizzabili, come si deciderà quali beni di consumo produrre e in che quantità? Chi sceglierà i processi produttivi da utilizzare e i relativi mezzi di produzione da fabbricare? Ahimè, in vano si cercherebbe una risposta a questi quesiti nella densa ma schematica “Critica al programma di Gotha” 15 di Marx, da cui i Grundprinzipien traggono palesemente e orgogliosamente ispirazione! Il lettore curioso dovrà necessariamente confrontarsi con il testo completo del GIC oppure con la sua moderna parafrasi curata da Lueer.
In effetti non è questo il punto centrale dell’articolo, che non vuole essere tanto una spiegazione quanto soprattutto un ammonimento: al di là dei Grundprinzipien non c’è altra via al comunismo (o, intercambiabilmente, al socialismo). Leninisti ed anarco-comunisti (ma anche gli “impossibilisti” del Socialist Party of Great Britain vorremmo sommessamente aggiungere 16), sebbene in modo del tutto involontario e opposto tra di loro, opponendosi ai labour voucher pavimenterebbero la via alla medesima “controrivoluzione” capitalistica. Ora, se la critica al modello leninista di mancata transizione al socialismo (ma di effettiva transizione al capitalismo di mercato…) è quasi un esercizio di stile dopo i noti eventi del 1989-1991, risultando largamente condivisibile, la polemica di Lueer contro tutti i “negatori della fase transitoria” crea qualche problema teorico di non poco conto. Però, invece di esprimere le nostre perplessità relativamente alle idee del consiliarista tedesco contemporaneo sui Grundprinzipien, sarà sicuramente meglio lasciare la parola a due dei massimi teorici del “Rätekommunismus” del XX secolo: Antonie Pannekoek (1873-1960) e Paul Mattick Sr. (1904-1981) dei quali condividiamo, almeno in questo caso, le opinioni.
Il primo, un raffinato pensatore marxista privo di qualsivoglia complesso d’inferiorità e ugualmente critico sia di Kautsky che di Lenin, è sulle prime piuttosto indifferente ai Grundprinzipien, dei quali rifiuta di scrivere la prefazione. Tuttavia, dopo un’attenta lettura della prima edizione del lavoro, sembra mutare opinione reputandolo “meritevole di attenzione” 17. Effettivamente, la posizione di Pannekoek su queste questioni venne espressa solo dopo circa 15 anni nel suo celebre libro “I Consigli Operai” 18 e non fu molto lontana dalle conclusioni teoriche dei Grundprinzipien, pur essendo maggiormente ancorata alla realtà storica. In buona sostanza anche Pannekoek era favorevole a un sistema di contabilità basato sul tempo di lavoro; tuttavia, come nota acutamente Bourrinet 19, criticava implicitamente il GIC su due punti importanti:
1) L’inizio del periodo di transizione da capitalismo a comunismo sarebbe segnato dalla scarsità, data la necessità di ricostruire un’economia rovinata dalla guerra civile o da una crisi economica mondiale (“I Consigli Operai” sono incerti al riguardo). Sarebbe ancora un’economia di guerra e di penuria, in cui la giustizia nella distribuzione dei beni di consumo non si baserebbe su un meticoloso conteggio delle ore di lavoro, ma sul principio coercitivo – qui moralmente accettabile – di obbligare tutti a lavorare per la comunità:
«All’inizio del periodo di transizione, quando l’economia sarà in rovina, il problema essenziale sarà quello di istituire un apparato di produzione e garantire la sopravvivenza immediata della popolazione. È molto probabile che in queste condizioni le scorte alimentari di base saranno distribuite in modo uniforme, come sempre avviene in tempo di guerra o di carestia post-bellica. Ma è più probabile che in questa fase di ricostruzione, nella quale verranno impiegate a pieno tutte le forze disponibili e in cui i nuovi principi morali del lavoro comunitario prenderanno forma solo gradualmente, il diritto a consumare sarà legato all’esecuzione di qualche tipo di lavoro. Il vecchio adagio popolare “colui che non lavora, neppure mangi” esprime un istintivo sentimento di giustizia» 20.
2) La contabilizzazione delle ore di lavoro svolte da ciascun lavoratore non implicherebbe che ogni individuo consumi proprio l’esatto equivalente delle ore di lavoro che ha svolto. La distribuzione dei beni di consumo non sarebbe fondata su un rigido principio egualitario valido per ciascun individuo: tante ore di lavoro, tanto consumo; poiché in questo modo essa sarebbe ancora basata su una disuguaglianza de facto anche se non de iure, dato che i lavoratori non sono tutti uguali tra loro. Il consumo dovrebbe invece essere un processo sociale generale, che elimini il rapporto diretto tra produttori e prodotto. Questa è in effetti una critica implicita al GIC:
«(…) Ciò non significa che tutta la produzione sarà distribuita proporzionalmente tra i produttori a seconda del numero di ore di lavoro svolte da ciascun individuo, o, in altre parole, che ciascun lavoratore riceverà sotto forma di prodotti l'esatto equivalente del tempo trascorso a lavorare. In realtà, una parte molto considerevole di lavoro dovrà essere dedicato alla proprietà comune, al perfezionamento e all'ampliamento dell'apparato produttivo (…). Inoltre, sarà necessario destinare una parte del tempo lavorativo complessivo ad attività improduttive ma socialmente necessarie: l’amministrazione generale, l’istruzione, i servizi sanitari (…)» 21.
Riassumendo, possiamo dire che l'analisi di Pannekoek negli anni ’40 del XX secolo, alla luce dei suoi brevi excursus teorici riguardanti il periodo di transizione, appare alquanto più nutrita da esperienze storiche concrete (per esempio, la prima fase della Rivoluzione russa e il conseguente “comunismo di guerra”) rispetto alle elaborazioni un po’ astratte del GIC. Il rifiuto pannekoekiano dell’“equità assoluta” nella distribuzione di beni di consumo sembra in effetti essere assai vicino all’analisi di Marx della “Critica del programma di Gotha” 22, dove si dimostra che una distribuzione dei beni di consumo basata rigorosamente sul tempo di lavoro porterebbe immediatamente a nuove disuguaglianze tra i produttori, dato che essi necessariamente differiscono tra loro per capacità lavorativa, condizione familiare, prestanza fisica ecc. Però anche il teorico olandese, almeno sul piano economico, ignora completamente la questione decisiva per il passaggio dalla fase inferiore del comunismo a quella superiore, ossia se l’abbondanza di beni di consumo renderebbe prima o poi inutile la registrazione del tempo di lavoro individuale. Sembra quindi che il “comunismo dei consigli” degli anni ’30 e ‘40 abbia avuto serie difficoltà a concepire una società comunista pienamente realizzata e dunque basata non sulla scarsità ma sull’abbondanza. Cioè quella che Lueer chiama ironicamente “il paese dove scorrono latte e miele” e alla quale oggigiorno, a quasi un secolo dagli scritti di Appel e Pannekoek, egli non sembra assolutamente credere.
Per concludere l’analisi delle posizioni pannekoekiane sui Grundprinzipien è utile riportare per esteso un breve sommario della questione scritto dall’autore stesso per la rivista britannica Left nell’ottobre del 1947 e contenuto nell’articolo “The Crisis in Socialist Theory: the Group of International Communists in Holland” 23:
«Il GIC, studiando il problema principale del socialismo, ossia di come si possa coniugare libertà e organizzazione, si accorse che bastava continuare sulla linea di pensiero tracciata da Marx in brevi note occasionali, per esempio ne “Il Capitale” e nelle sue osservazioni sul Programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca. Lì Marx non parlava di socialismo di Stato, al quale si opponeva fortemente, ma di una “associazione di produttori liberi ed eguali”, che dirigevano da se stessi il loro lavoro. Inoltre, egli sottolineava che invece del valore e del denaro, il “tempo medio di produzione”, misurato in ore di lavoro, costituirà la base del nuovo sistema economico. Queste idee, che gli scrittori “marxisti” avevano completamente abbandonato, furono elaborate dagli autori del GIC in un importante opuscolo: “Principi di produzione e distribuzione comuniste” che nel 1930 apparve in tedesco e in olandese. Qui si dimostra che con la contabilità di ogni impresa, completata dalla registrazione e dalla contabilità dei processi di produzione sociale, sulla base delle ore utilizzate, i lavoratori sono in grado di controllare e dirigere la produzione e la distribuzione. Gli organi delegati, i “consigli operai”, sono gli strumenti per organizzare le singole imprese in un insieme sociale. Si dimostra che questa non è semplicemente una forma possibile e migliore rispetto al socialismo diretto dallo Stato, ma che è l’unica forma possibile di socialismo. Non è concepibile che una burocrazia centrale di funzionari ed esperti accerti tutte le necessità, prescriva tutto il lavoro e supervisioni tutti i processi nei loro dettagli. Tutti gli altri sistemi proposti portano all’arbitrarietà nella distribuzione da parte di una minoranza dominante. L'autogoverno dei produttori liberi ed eguali, d’altro canto, è in grado di gestire senza difficoltà la produzione e la distribuzione, essendo le regole e i rapporti imposti dalle realtà economiche. Le difficoltà sorgono interponendo un potere statale tra produzione e consumo. Così le aspirazioni all’autodeterminazione sorte nei lavoratori, da mero sentimento e da programma politico, sono state trasformate nell'incarnazione di una necessità economica. In tal modo è stata posta una base scientifica per il compito di autoliberazione della classe lavoratrice» 24.
Come si può notare, qui Pannekoek, presentando i contributi della Sinistra tedesco-olandese al pubblico anglosassone, non sente alcuna necessità di palesare i suoi distinguo rispetto ai Grundprinzipien che invece sembra accettare in toto. Ne ignoriamo la ragione.
Ma qual è, d’altro canto, l’opinione di Mattick, che scrive un’introduzione 25 ai “Grundprinzipien” nel 1970, a ben quarant’anni dalla loro prima stesura? Ebbene, benché il consiliarista tedesco-americano difenda da subito e in modo chiaro gli intenti e i metodi del lavoro collettivo del GIC, egli comincia anche a manifestare qualche cautela e una certa dose di freddezza:
«I “Grundprinzipien” costituirono il primo tentativo da parte del movimento dei Consigli in Europa occidentale di affrontare il problema della costruzione del socialismo sulla base dei Consigli stessi. (…). Essi dimostrano meticolosamente l'applicazione pratica di questo metodo [la registrazione del tempo di lavoro (nota del traduttore)] di calcolo e di contabilità pubblica ai due momenti della riproduzione sociale [produzione e distribuzione (nota del traduttore)]. E nella misura in cui si tratta di utilizzare alcuni metodi per ottenere risultati particolari, il loro ragionamento è perfettamente logico. La precondizione necessaria per l'utilizzo di questo metodo è la volontà di realizzare un sistema di produzione e di distribuzione di tipo comunista. Una volta ammesso questo presupposto, nulla ostacola questo metodo, anche se potrebbe non essere l’unico adatto al comunismo» 26.
Dopo qualche periodo, seguendo abbastanza da vicino il lavoro di Pannekoek sui consigli operai 27, Mattick comincia a palesare più chiaramente i suoi distinguo con un ritorno al Marx della “Critica al programma di Gotha” 28:
«Gli autori sottolineano il fatto che già altri avevano proposto il tempo di lavoro come unità di calcolo economico. Però considerano queste proposte come inaccettabili perché erano basate esclusivamente sulla produzione e non sulla distribuzione e, in questo senso, erano ancora legate al capitalismo. Dal punto di vista del GIC, il tempo di lavoro sociale medio deve essere valido sia per la distribuzione che per la produzione. A questo punto però incontriamo una difficoltà e una debolezza nel calcolo del tempo di lavoro, difficoltà di cui anche Marx aveva preso coscienza e, non trovando altra risposta oltre all’abolizione dello stesso calcolo basato sul tempo di lavoro per la distribuzione, propose il noto principio comunista “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Nella “Critica al programma di Gotha del Partito Socialdemocratico Tedesco”, Marx evidenziò il fatto che una distribuzione proporzionale al tempo di lavoro implicherebbe una nuova disuguaglianza, poiché i produttori sono generalmente caratterizzati da diverse capacità lavorative e da diverse situazioni personali. Alcuni lavorano più intensamente di altri in uno stesso periodo di tempo. Alcuni hanno famiglie da mantenere, altri no. Pertanto, l’uguaglianza nella distribuzione in base al tempo di lavoro causerebbe una disuguaglianza nelle condizioni di consumo. Marx scrive che “(…) in effetti, a parità di lavoro effettuato e quindi con pari accesso al fondo sociale di consumo, uno ottiene più di un altro, uno è più ricco di un altro, ecc. Per evitare che si verifichi questa ingiusta situazione, la legge deve essere ineguale anziché uguale”. Pur ritenendo questo inconveniente inevitabile nella prima fase della società comunista, Marx non lo considerava un principio comunista. Quando gli autori dei “Grundprinzipien” affermano che la loro proposta è “solo l’applicazione coerente del pensiero marxiano”, ciò è vero soltanto nella misura in cui questo pensiero viene applicato a una fase dello sviluppo socialista all’interno della quale prevale ancora il principio dello scambio di equivalenti, un principio che finirà nel socialismo. (…) Gli autori dei “Grundprinzipien” sottolineano semplicemente il fatto che i produttori devono avere la massima possibilità di controllare la loro produzione, ma che ciò richieda necessariamente una forma di distribuzione secondo il tempo di lavoro è tutta un'altra questione» 29.
È evidente che Mattick, pur senza voler denigrare esplicitamente il lavoro dei consiliaristi tedesco-olandesi, si trova a disagio con l’idea di rinunciare in modo definitivo al principio-cardine del comunismo, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, a vantaggio di una società statica basata sul motto neotestamentario “chi non lavora neppure mangi”. Ci si trova davanti a una differenza programmatica (e non solo strategica) essenzialmente ineliminabile. Per Jan Appel e Henk Canne-Meijer 30, e ancora di più al giorno d’oggi per Hermann Lueer, il sistema dei labour voucher è il vero ed unico socialismo, in quanto elimina lo sfruttamento e contemporaneamente permette la massima libertà di scelta tra impegno e consumo al singolo lavoratore. All’opposto, il libero accesso ai beni e ai servizi, unito al lavoro su base esclusivamente volontaria, sarebbe nella migliore delle ipotesi un’illusione e un mito (“la terra dove scorrono latte e miele” 31, “il paese di Cuccagna” 32 ecc.); mentre nella peggiore sarebbe una trappola reazionaria. Per i bolscevichi rappresenterebbe quel sostituto laico dell’Aldilà collocato in un futuro indefinito in grado di giustificare qualsiasi nefandezza perpetrata dal capitalismo di Stato. Per gli anarco-comunisti invece, sarebbe una comoda giustificazione per il loro approccio “volontarista”, spontaneista, cronicamente privo di qualsiasi forma di programmazione e destinato quindi alla sicura sconfitta. In effetti Mattick percepisce bene che per gli autori dei Grundprinzipien, i labour voucher sono permanenti e scrive polemicamente:
«Ma i “Grundprinzipien” presuppongono un sistema economico comunista “normale”, cioè un sistema che è già stato stabilito e che funziona secondo le proprie condizioni di riproduzione. In tali condizioni, una forma di distribuzione legata al tempo di lavoro sembra superflua» 33,
aggiungendo dopo qualche rigo:
«Anche nella produzione nazionale, da una prospettiva più generale, si possono scoprire modalità organizzative che coordineranno queste istituzioni [i Consigli (nota del traduttore)] al di sopra del livello di fabbrica, sotto il controllo dei produttori. Ma una tale soluzione della contraddizione tra centralismo e federalismo, peraltro auspicata nei “Grundprinzipien”, non potrà essere risolta così facilmente attraverso una “registrazione del processo economico nella contabilità sociale generale” e richiederà molto probabilmente altre istituzioni, integrate nel sistema dei Consigli, che saranno specificatamente dedicate all'organizzazione economica» 34
e terminando con una valutazione finale dei Grundprinzipien che suona sì come un plauso, ma anche come una parziale stroncatura:
«Basteranno queste brevi osservazioni per far capire che nei “Grundprinzipien” non viene presentato un programma completo, ma solo un primo tentativo di affrontare il problema della produzione e distribuzione comuniste. E, sebbene i “Grundprinzipien” parlino di un’organizzazione sociale futura, essi sono allo stesso tempo un documento storico che fa luce sullo stadio raggiunto nel corso dei dibattiti passati. Gli autori affrontano le questioni della socializzazione che erano attuali più di mezzo secolo fa e alcuni dei loro argomenti forse non sono più pertinenti. I “Grundprinzipien” furono un intervento nel dibattito tra i teorici dell'economia “in natura” e i rappresentanti dell'economia di mercato, dimostrando le posizioni errate di entrambi. (…). Qualsiasi siano i punti deboli dei “Grundprinzipien” nel quadro della situazione attuale, oggi come domani essi costituiranno comunque il punto di partenza per tutte le discussioni e gli sforzi seri per la realizzazione di una società comunista» 35.
DANKOLOG
1vedasi, per esempio, il lungo lavoro di Philippe Bourrinet, The Dutch and German Communist Left (1900-1968) (Haymarket Books, Chicago, 2018), dove le coraggiose lotte di questi militanti operai, prima solo contro il governo di Weimar e la Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) che inizialmente lo appoggiò, poi anche contro la Kommunistische Partei Deutschlands (KPD), accusata di opportunismo ed elettoralismo, ed infine addirittura contro il Comintern moscovita, sono descritte in grande dettaglio.
2Una breve autobiografia dello storico militante tedesco, della Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (KAPD) prima e del Groep van Internationale Communisten (GIC) poi, Jan Appel (1890-1985), si può trovare a questo URL: https://libcom.org/article/appel-jan-1890-1985
3Nota 1.
4Group of International Communists, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution a cura di Hermann Lueer (Red and Black Books, Amburgo, 2020). L’edizione italiana sul testo del 1930 è invece: Gruppo dei Comunisti Internazionali, Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista (Jaca Book, Milano, 1974).
5Hermann Lueer, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution (Red and Black Books, Amburgo, 2018).
6Group of International Communists, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution a cura di Hermann Lueer (Red and Black Books, Amburgo, 2020). L’edizione italiana sul testo del 1930 è invece: Gruppo dei Comunisti Internazionali, Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista (Jaca Book, Milano, 1974).
7Group of International Communists, Workers’ Councils and Communist Organization of the Economy in: Group of International Communists, From Each According to His Ability, To Each According to His Needs (Red & Black Books, Amburgo, 2021).
8Giuseppe Stalin, Sugli errori del compagno L.D. Jarošenko in Problemi economici del socialismo in URSS (Ed. Rinascita, Roma, 1952).
9V. I. Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei Dipartimenti di Educazione Politica, rapporto scritto da Lenin per il II Congresso Panrusso dei Dipartimenti di Educazione Politica tenutosi il 17 ottobre 1921. Il rapporto spiega il significato della Nuova Politica Economica e i motivi dell'introduzione della stessa nel sistema sovietico (il grassetto nella citazione è stato aggiunto da H. Lueer).
https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1921/oct/17.htm
10Lev Trockij, La Rivoluzione Tradita (Rizzoli, Milano, 1982).
11Ludwig von Mises, Socialismo (Rusconi, Milano, 1989).
12Hermann Lueer, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution (Red and Black Books, Amburgo, 2018).
13Group of International Communists, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution a cura di Hermann Lueer (Red and Black Books, Amburgo, 2020). L’edizione italiana sul testo del 1930 è invece: Gruppo dei Comunisti Internazionali, Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista (Jaca Book, Milano, 1974).
14Per una critica costruttiva all’ipotesi dei labour voucher formulata da chi scrive e basata sul permanere di un fondo di accantonamento per lo sviluppo economico, rimandiamo il lettore alla parte I dell’articolo “Le premesse economiche della transizione dal capitalismo al socialismo: Stato, mercato o qualcosa di diverso?”, apparso sul sito di “Adattamento Socialista” il 23 gennaio 2024.
15Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo (Editori Riuniti, Roma, 2021).
16Per una severa stroncatura dell’uso dei labour voucher (come ipotizzato, per esempio, nei Grundprinzipien) formulata dal Socialist Party of Great Britain, si veda il volume di A. Buick and J. Crump, Alternatives to Capitalism (Scholastic; 3rd ed., New York, 2018).
17Nota 1.
18Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai (Feltrinelli, Milano, 1969). L’opera fu pubblicata originariamente ad Amsterdam in olandese con il titolo "De arbeidersraaden" dalla Communistenbond Spartacus nel 1946. L’autore appariva sotto lo pseudonimo di P. Aartsz. Il capitolo finale “De vrede” (“The Peace”) fu aggiunto nel 1947 e compare per la prima volta nell’edizione in lingua inglese, “Workers’ Councils”, del 1950 curata da J. A. Dawson.
19Nota 1
20Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai (Feltrinelli, Milano, 1969).
21Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai (Feltrinelli, Milano, 1969).
22Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo (Editori Riuniti, Roma, 2021).
23Anton Pannekoek, “The Crisis in Socialist Theory: the ‘Group of International Communists’ in Holland”, Left, no. 132, ps. 225-228, Oct. 1947.
https://www.marxists.org/archive/pannekoe/1947/gik.htm
24Anton Pannekoek, “The Crisis in Socialist Theory: the ‘Group of International Communists’ in Holland”, Left, no. 132, ps. 225-228, Oct. 1947.
https://www.marxists.org/archive/pannekoe/1947/gik.htm
25Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
26Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
27Anton Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai (Feltrinelli, Milano, 1969).
28Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo (Editori Riuniti, Roma, 2021).
29Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
30Hendrik (“Henk”) Canne-Meijer (1890 – 1962) è stato prima un operaio metalmeccanico e poi un insegnante. Attivista marxista olandese, insieme ad altri comunisti consiliaristi fondò nel 1927 il celebre “Groep van Internationale Communisten” dei Paesi Bassi. Dopo la II Guerra Mondiale fu brevemente nell’organizzazione della Communistenbond Spartacus fino al 1947.
31Hermann Lueer, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution (Red and Black Books, Amburgo, 2018).
32Group of International Communists, Fundamental Principles of Communist Production and Distribution a cura di Hermann Lueer (Red and Black Books, Amburgo, 2020). L’edizione italiana sul testo del 1930 è invece: Gruppo dei Comunisti Internazionali, Principi fondamentali di produzione e di distribuzione comunista (Jaca Book, Milano, 1974).
33Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
34Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
35Paul Mattick, “Introduction to ‘The Fundamental Principles of Communist Production and Distribution’” (February 1970).
https://libcom.org/library/introduction-paul-mattick
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