Le premesse economiche della transizione dal capitalismo al socialismo: Stato, mercato o qualcosa di diverso? - Parte I -
Le premesse economiche della transizione dal capitalismo al socialismo: Stato, mercato o qualcosa di diverso?
--- Parte I ---
Introduzione storica all’idea di “transizione”
È ben noto a tutti gli studiosi del pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels che, differentemente dai cosiddetti “utopisti”, i due fondatori del socialismo scientifico scrissero pochissimo relativamente agli aspetti economici del periodo di transizione dal sistema di produzione capitalistico a quello socialista (e comunista), con limitate eccezioni: il celeberrimo scritto giovanile de “Il Manifesto del Partito comunista” (1848) 1, la “Critica al programma di Gotha” (1875) 2, più qualche citazione sparsa all’interno dei tre volumi de “Il Capitale” (1867-1894) 3, due dei quali pubblicati postumi.
Successivamente però, con la rapida crescita dei partiti socialisti europei e la conseguente nascita della II Internazionale nel 1889, quando la “rivoluzione sociale” cominciava a presentarsi come un’alternativa concreta, il massimo teorico marxista dell’epoca, Karl Kautsky, si rese conto che il vecchio adagio marxiano di non “prescrivere ricette (comtiane?) per l’osteria dell’avvenire” 4 non era più soddisfacente. Il celebre socialista austriaco si era gradualmente convinto che la stagione rivoluzionaria fosse davvero alle porte, come scrisse esplicitamente ne “La via al potere” del 1909 5, ma già da alcuni anni si era sforzato di abbozzare un programma economico per la “rivoluzione sociale” 6 e, soprattutto, per il periodo immediatamente successivo a tale evento 7. Non che tali trascrizioni di conferenze tenute nel 1902 contenessero i dettagli minuti della politica economica della transizione al socialismo, ma sicuramente rappresentarono per molti militanti della II internazionale un faro su quello che comunque andava necessariamente fatto nel crogiolo di una rivoluzione reputata imminente.
Dopo la catastrofe della Prima guerra mondiale, quando i moti rivoluzionari in Germania e in Austria portarono al crollo dei rispettivi imperi e all’instaurazione di repubbliche democratiche con governi di coalizione inizialmente guidati dai locali partiti socialisti, sia Karl Kautsky che Otto Bauer tornarono sulla questione, nell’ipotesi che si potesse effettivamente innescare una transizione dal duro “capitalismo di guerra” all’autentico socialismo. Anche se gli eventi politici s’incaricarono rapidamente di smentire i due eminenti socialisti, portando all’opposizione sia la SPD che la SDAPÖ (rispettivamente in Germania e in Austria), tuttavia lo sforzo concettuale di immaginare una politica economica di transizione che fosse plausibile nel quadro di un capitalismo maturo (ma duramente segnato dalla guerra) rimase, come è testimoniato da opere importanti quali “La via al socialismo” (1919) 8 di Bauer e la “La rivoluzione proletaria e il suo programma” (1922) 9 di Kautsky, la seconda delle quali, alleggerita della parte strettamente relativa alla Germania, venne tradotta e pubblicata all’estero sotto il nome de “La rivoluzione dei lavoratori” (1924) 10, dove godette di notevole fortuna. Infatti, anche se la fama di Kautsky nel primo dopoguerra non era certamente paragonabile a quella prebellica, “La rivoluzione dei lavoratori” restò per molto tempo l’unico tentativo compiuto di disegnare un quadro completo (e a più fasi) di passaggio dal capitalismo al socialismo nella cornice di un regime politico di rigorosa democrazia parlamentare in cui un partito socialdemocratico di massa godesse stabilmente della maggioranza dei consensi elettorali. Viceversa, la seria attività teorica di Kautsky, pur inserita nell’ambito delle velleitarie “Commissioni per la Socializzazione” dei primi governi della Repubblica di Weimar e condensata nel breve opuscolo “Cos’è la socializzazione?” (1920) 11, passò quasi del tutto sotto silenzio benché contenesse una serie di osservazioni su problemi tutt’altro che banali. Certo, è ben noto che soprattutto la seconda di tali Commissioni, animata dal celebre esponente democratico (nonché grande imprenditore) Walter Rathenau e dal socialdemocratico Rudolf Wissell, in cui sedevano i rappresentanti delle parti politiche e sociali, non aveva davvero lo scopo di avviare una collettivizzazione (e nemmeno una semplice statalizzazione) dei maggiori settori produttivi, quanto, piuttosto, di coinvolgere i soggetti economici, ossia principalmente gli imprenditori e i lavoratori, nella cogestione delle imprese private. Purtuttavia, anche con queste fortissime limitazioni, i dibattiti sulla socializzazione del 1918-19 in Germania e Austria furono molto importanti 12 e videro la partecipazione di vari sociologi, filosofi ed economisti che negli anni a seguire sarebbero divenuti nomi famosi: Rudolf Hilferding, Emil Lederer, Karl Pribram, Karl Korsch, Joseph Schumpeter, Otto Neurath ecc.
A questo proposito, vale la pena di aprire una piccolissima parentesi sulla querelle del cosiddetto “calcolo socialista” che inevitabilmente si venne a saldare con la questione della “socializzazione” nel corso del primo dopoguerra. Tralasciando i lavori pioneristici di Enrico Barone (1908) 13, fu il celebre economista liberista austriaco Ludwig von Mises ad innescare il dibattito su questo tema nel 1920. Infatti, in quell’anno von Mises pubblicò un articolo dal titolo “Il Calcolo economico nella comunità socialista” 14, in cui sosteneva che le economie a panificazione centrale (come quelle che i marginalisti chiamavano un po’ frettolosamente “socialiste”, ossia dove la proprietà dei mezzi di produzione è essenzialmente pubblica) sono condannate all’inefficienza e quindi, presto o tardi, alla bancarotta. In questo articolo, l’economista austriaco spiega che l’assenza di un mercato per i fattori produttivi impedirebbe il formarsi dei prezzi ad essi relativi. L’assenza dei prezzi, a sua volta, renderebbe impossibile l’individuazione di quali metodi di produzione siano i più efficienti dal punto di vista economico. L’assenza di informazioni affidabili sull’economicità dei metodi di produzione, infine, renderebbe impossibile effettuare il calcolo economico sulla base del quale orientare la produzione futura, ovvero la determinazione di quali merci produrre, di come produrle, e a quali prezzi offrirle sul mercato ai consumatori. Secondo von Mises, i personaggi fondamentali che permettono di effettuare praticamente un tale “calcolo economico” razionale sono, in modo del tutto inconscio, gli imprenditori. Questo dibattito andò avanti per tutti gli anni ’20, ’30 e ‘40 del XX secolo, interessando eminenti economisti liberisti come Friedrich von Hayek e Trygve J. B. Hoff, nonché socialisti (o comunque possibilisti circa il socialismo) quali Oskar Lange, Maurice Dobb e Abba Lerner 15. In linea teorica si potrebbe dire che Lange e Lerner uscirono vincitori dalla disputa benché il loro approccio fosse essenzialmente una versione piuttosto complessa di “socialismo di mercato”, alquanto lontana dalla realtà economica delle forme socialiste (o presunte tali) effettivamente realizzate. A rendere più complicato l’argomento fu poi il sorgere di una diramazione laterale del problema, ossia il cosiddetto “calcolo socialista in natura”, il quale, forse più ossequioso nei confronti della tradizione marxiana, eliminava tout court l’idea stessa di denaro (e quindi di prezzi). Proposto dal citato sociologo austriaco Otto Neurath nel 1919, il concetto di “calcolo in natura” 16 precedette addirittura lo scritto polemico di von Mises ed attrasse l’attenzione del grande economista matematico russo Leonid V. Kantorovič, che negli anni ’30 ne dimostrò la fattibilità teorica mediante i metodi della programmazione lineare.
Le questioni a cui abbiamo velocemente accennato non sono però interamente comprensibili al di fuori dal contesto dell’esperienza sovietica che si sviluppò in Russia con il successo della Rivoluzione d’Ottobre (1917) e che portò, tra le altre cose, a una scissione insanabile del movimento operaio e socialista a livello mondiale (1919). Non possiamo riassumere nemmeno per sommi capi la complessa storia dell’URSS (1922-1991), rimandando il lettore a una delle numerose opere storiche sull’argomento 17. Potremo però rapidamente periodizzare la politica economica sovietica fino al 1936, anno cruciale in cui venne annunciato dai dirigenti dell’URSS il pieno raggiungimento del socialismo, inteso à la Lenine come fase inferiore del comunismo. La costituzione 18 che sancì questo raggiungimento recitava tale annuncio testualmente proprio nel suo incipit:
“Art. 1. L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è uno stato socialista di operai e contadini.
Art. 2. La base politica dell'URSS è costituita dai soviet dei deputati dei lavoratori, che sono cresciuti e si sono rafforzati in seguito al rovesciamento del potere dei proprietari terrieri e dei capitalisti, e alla conquista della dittatura del proletariato.
Art. 3. Tutto il potere nell'URSS appartiene ai lavoratori delle città e delle campagne, rappresentati dai soviet dei deputati dei lavoratori.
Art. 4. La base economica dell'URSS è l'economia socialista e la proprietà socialista degli strumenti e dei mezzi di produzione, che sono state stabilite a seguito della liquidazione del sistema economico capitalista, l'abolizione della proprietà privata degli strumenti e dei mezzi di produzione, e l'abolizione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Art. 5. La proprietà socialista in URSS ha la forma di proprietà statale o la forma di proprietà agricola collettiva cooperativa (proprietà di singoli kolchoz, proprietà di associazioni cooperative).”
Naturalmente da parecchi ambienti politici, anche molto distanti tra loro, pervennero feroci critiche all’idea stessa che un paese economicamente così arretrato come l’Impero Russo, sconvolto poi per un decennio dalla Prima guerra mondiale (1914-1918) subito seguita dalla Guerra civile (1918-1923), potesse giungere, in così breve tempo e solo tra tutte le nazioni, al socialismo. Non possiamo qui analizzare le varie posizioni critiche sulla natura sociale dell’URSS proposte dai socialisti democratici, dagli anarchici, dai trotzkisti, dai bordighisti, dai comunisti dei consigli ecc., rimandando il lettore a testi specializzati 19, ma siamo certamente in grado di notare come tali analisi siano state globalmente perdenti: l’idea che l’URSS fosse una società “socialista” divenne di dominio pubblico, non solo per la maggior gloria del movimento comunista internazionale, ma, soprattutto, a vantaggio dei governi filocapitalistici, finalmente in grado di costruirsi un avversario di comodo, piuttosto carente proprio dal punto di vista della qualità della vita della classe lavoratrice. Naturalmente tutte le nostre riserve sul “socialismo” sovietico non possono impedirci di apprezzare lo studio scientifico dell’evoluzione economica della Russia prima (e dell’URSS poi) iniziato a partire dalla presa del potere dei bolscevichi nell’ottobre del 1917. Certo, il passaggio nel 1921 dal cosiddetto “comunismo di guerra”, mera economia di sopravvivenza nelle temperie della Guerra civile basata su requisizioni cerealicole forzate nelle campagne, alla NEP (acronimo russo di “Nuova Politica Economica”), fondata invece su una certa liberalizzazione economica, specie per i commerci e per la media proprietà contadina (dove si applicò con successo l’imposta in natura), non ebbe molto a che fare con la transizione al socialismo, in quanto il gruppo dirigente bolscevico coltivava ancora la speranza nel dilagare della rivoluzione o nell’industrializzata Europa Centrale o nelle popolose compagini cinesi e delle colonie britanniche. Ma quando, dopo il 1923 in Germania (e ancora di più, dopo il 1927 in Cina) tali speranze naufragheranno completamente, allora si assisterà a un rapido cambio di passo: emergerà in modo veloce la “teoria del socialismo in un solo paese”, ipotesi alquanto azzardata per un marxista “ortodosso” come Nikolaj I. Bucharin 20, e si comincerà a discutere animatamente proprio su come costruire il “socialismo” nell’URSS. Ovvero, o prolungando la NEP (secondo Bucharin) oppure statalizzando rapidamente anche le piccole imprese industriali e commerciali nonché, soprattutto, la media proprietà contadina (secondo Lev D. Trockij ed Evgenij A. Preobraženskij). Sappiamo che la Storia dell’URSS vide il prevalere delle idee dei secondi due, anche se nessuno gliele ne riconobbe mai la primogenitura, ad opera del gruppo di potere maggioritario legato a Iosif V. Stalin che, dal il 1928 al 1936, procedette con modi estremamente violenti e brutali alla cosiddetta “collettivizzazione forzata”. Anche se, come nota acutamente Bordiga 21, l’attività agricola non fu interamente statalizzata ma, al contrario, mantenne sempre grosse quote di natura puramente cooperativa (i succitati “kolchoz”). Ebbene, per molto tempo la collettivizzazione forzata verrà intesa nel movimento comunista internazionale come l’unico paradigma della “costruzione del socialismo”, ovvero, nel nostro linguaggio, della transizione da un capitalismo arretrato, o anche estremamente arretrato (cfr. l’Europa Orientale, la Cina, la Corea del Nord, Cuba, il Vietnam ecc.), al socialismo. Una breve serie di parole-chiave diverrà un vero mantra, valido più o meno in tutte le situazioni, per porre in atto la trasformazione sociale secondo i dettami comunisti: nazionalizzazione dei mezzi di produzione, monopolio del commercio estero, moneta non-convertibile, primato dell’industria pesante su quella dei beni di consumo, pianificazione economica centralizzata mediante piani quinquennali ecc. Solo la Jugoslavia, a partire dal 1948, si distanzierà almeno in parte dal modello “socialista” sovietico, per seguire una sua via particolare con non trascurabili elementi di autogestione e di socialismo di mercato.
Non seguiremo però oltre i complessi sviluppi dell’economia dell’URSS o della Cina, i reciproci dissidi e i tentativi di riformare i rispettivi sistemi “socialisti” mediante l’introduzione di elementi di mercato e di concorrenza, i quali, a partire dall’inizio degli anni ’80, hanno gradualmente condotto entrambi i paesi ad economie capitaliste “normali” anche se caratterizzate da una certa dose di dirigismo statale e da una proprietà mista (pubblica e privata) ancora abbastanza rilevante. Sinceramente proviamo davvero poco interesse per questi sistemi politici, sia prima che dopo il 1989, in quanto, quale che sia il giudizio che si possa dare su di essi, non ci sembrano esser stati in grado di andare oltre le “10 ricette” 22. di due brillanti (ma ancora acerbi) socialisti del 1848, i quali, non ancora trentenni, si sforzarono di escogitare una politica economica atta a sviluppare il capitalismo nell’Europa continentale dopo un’ipotetica presa del potere da parte un partito proletario. No, secondo la nostra modesta opinione il socialismo, anche nella sua fase inferiore, è ben altra cosa!
Nella seconda metà degli anni ’60 dello scorso secolo, in seguito ad alcuni eventi internazionali particolarmente rilevanti, quali, per esempio, lo scontro politico tra URSS e Cina (1964-1969), l’inizio della Rivoluzione culturale cinese (1966) e la brutale repressione sovietica della Primavera di Praga (1968), il prestigio dell’URSS e della sua versione di “socialismo” cominciarono gradualmente ad appannarsi, specie presso i circoli intellettuali più progressisti. Così quando tra il ’68 e il ’80 vi fu nel mondo occidentale un vero e proprio rifiorire di studi marxisti (la cosiddetta “Nuova Sinistra”), alcuni autori tornarono ad affrontare seriamente il tema della natura sociale dell’URSS e della transizione da capitalismo a socialismo. Tra essi vanno sicuramente menzionati il belga Ernest Mandel 23 e il francese Charles Bettelheim 24, il primo di evidente impostazione trotzkista, mentre il secondo, formatosi in modo molto personale alla scuola marxista strutturalista di Louis Althusser, mostrava chiaramente una propensione per la versione maoista del marxismo-leninismo. In effetti, al di là del valore intellettuale delle opere di questi due studiosi, non possiamo non notare come il tallone d’Achille dell’intera esperienza della “Nuova Sinistra” fosse nell’accettazione quasi acritica delle lotte antimperialiste nei paesi ex-coloniali e del loro carattere “socialista”; atteggiamento che rasentava quasi l’adulazione nei casi cinese, vietnamita e cubano. Soprattutto il conflitto di potere in Cina tra l’ala maggioritaria della burocrazia dello Stato e del partito comunista da un lato, e quella minoritaria legata a Mao Zedong e ai potenti quadri militari dell’Esercito Popolare di Liberazione dall’altro, venne decodificato dalla “Nuova Sinistra” in modo veramente mitologico e fuori dalla realtà dei fatti 25: la Rivoluzione culturale sarebbe stata una sorta di “terza rivoluzione”, quella mancante alla grigia, oppressiva e burocratica URSS di Leonid Brežnev, che instaurava dal basso, con le sue giovani Guardie Rosse, un socialismo vero, egualitario, basato sulle comuni di produzione e su una nuova cultura proletaria che tagliava completamente i ponti col passato, forgiando così l’uomo nuovo socialista. È quindi evidente come anche la “Nuova Sinistra”, benché si fosse in parte emancipata dalla vulgata marxista-leninista della Terza Internazionale, non potesse ancora discutere in modo spassionato e scientifico il difficile problema della transizione visto il carattere quasi salvifico che attribuiva alle esperienze cinesi, vietnamite e cubane, assai discutibili sul piano della costruzione di un’economia socialista.
Fu, paradossalmente (ma non troppo paradossalmente…), proprio il crollo del sistema sovietico, prima in Europa Orientale (1989) e poi nella stessa URSS (1991), a liberare il dibattito sulla transizione al socialismo dagli ostacoli politici e dai detriti ideologici accumulatisi nel corso del XX secolo. Se un pugno di paesi (Cina, Corea del Nord, Laos, Vietnam e Cuba) continuarono a dichiararsi ufficialmente “socialisti” e ad esser guidati da un “partito comunista” d’ispirazione marxista-leninista, era evidente che l’attrazione da parte di questi modelli nel ventennio a cavallo dell’anno 2000, diminuì fortemente, anche perché i maggiori tra queste nazioni, ovvero la Cina e il Vietnam, optarono per una serie di riforme economiche che, sebbene garantirono loro una crescita davvero rilevante, introdussero però larghe concessioni all’economia di mercato e alla proprietà privata delle imprese. Non stupisce quindi che molti degli economisti (soprattutto marxisti, ma non solo) che in questo periodo parteciparono al dibattito sui modelli di un “socialismo possibile”, fecero largamente tabula rasa delle precedenti esperienze storiche o, addirittura, in alcuni casi le utilizzarono come paradigmi negativi. Tra questi studiosi, per la maggior parte statunitensi, vanno sicuramente citati Alexander Nove 26, John Roemer 27, Michael A. Lebovitz 28, Michael Albert 29, Richard D. Wolff 30, Robin Eric Hahnel 31 e David Schweickart 32. In particolare, insieme all’esplorazione di nuovi modelli di socialismo, rinacque, ma a livelli teoricamente più elevati di prima, il dibattito sui rapporti tra socialismo (almeno nella sua fase iniziale) e mercato, producendo una spaccatura tra “socialisti mercatisti” ed “socialisti anti-mercatisti”. Il lettore interessato ad un dibattito a quattro voci sull’argomento trarrà sicuramente beneficio dalla lettura dell’ottimo saggio collettivo “Market socialism: the debate among socialists” 33 del 1998. Per quello che ci riguarda, invece, dato il carattere puramente introduttivo del presente saggio, dovremo rimanere a un livello di divulgazione, iniziando con il fissare, almeno approssimativamente, il senso dei termini principali della questione 34.
I termini della questione: “socialismo”, “comunismo” e soprattutto “capitalismo”…
Per le definizioni comunemente intese delle tre parole nel sottotitolo, ossia capitalismo, socialismo e comunismo, possiamo rivolgerci a un dizionario economico qualsiasi 35, dove leggeremmo certamente qualcosa di simile:
“Capitalismo: sistema economico caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. (…).
Socialismo: dottrina diffusasi nel XVIII secolo, secondo la quale era necessario un rinnovamento dell’organizzazione sociale ed economica allo scopo di far prevalere l’interesse generale su quello privato. (…).
Comunismo: regime economico che mira ad abolire ogni forma di proprietà privata dei mezzi di produzione e a mettere in comune i patrimoni materiali di tutte le persone appartenenti a una società; tali patrimoni saranno distribuiti a ciascun componente del nucleo sociale secondo i propri bisogni, realizzando in tal modo la vera eguaglianza sociale, l’armonia e la cooperazione tra gli uomini, e l’abolizione di ogni differenza di classe. (…)”.
Non riteniamo che quanto appena riportato sia in sé scorretto, ma purtroppo non ci sembra abbastanza chiaro e coerente da permettere di comprendere i termini della questione presenti in una discussione sulla transizione dal capitalismo al socialismo. Dovremo quindi prenderci un po’ di spazio per fare ordine e sgombrare il campo dagli equivoci.
Iniziamo dal caso più semplice, ossia dal termine “socialismo”. Il dizionario appena citato non si riferisce al “socialismo” come ad un modo di produzione alternativo al capitalismo, ma al “socialismo” quale movimento ideale e politico storicamente determinato. Ma non è questo l’uso che ne faremo nel resto del nostro breve lavoro, in quanto per noi, come per Marx ed Engels (ma non per Lenin, Trockij e Bucharin), “socialismo” e “comunismo” sono largamente sinonimi, se intesi in modo corretto.
Passiamo dunque al termine “comunismo”. Tra le tre definizioni accademiche appena citate, questa ci sembra la più accettabile, benché il vocabolo “patrimonio” non sia certo di chiarezza adamantina. Ci permettiamo quindi di ripetere la migliore definizione di socialismo/comunismo che conosciamo, ossia essenzialmente quella del 1904 dovuta al Partito Socialista della Gran Bretagna: “Il socialismo sarà un sistema sociale basato sulla proprietà comune e sul controllo democratico dei mezzi e degli strumenti atti a produrre, trasportare e distribuire la ricchezza (ossia i beni e i servizi) per tramite e nell’interesse dell’intera comunità”.
La definizione di “capitalismo”, che paradossalmente dovrebbe esser la più semplice visto che è il modo di produzione che attualmente abbraccia l’intero pianeta, ci pare invece molto carente in quanto la proprietà privata dei mezzi di produzione era già presente in vari sistemi socioeconomici precapitalistici. Per esempio, nel modo di produzione antico (o “classico”) terra e schiavi erano i principali fattori produttivi ed essi erano posseduti dalle grandi famiglie aristocratiche, le quali potevano venderli oppure passarli in eredità ai successori. Non può esser quindi questa la specificità del capitalismo. D’altro canto l’economia politica accademica tende a far coincidere il termine “capitalismo” con quello di “economia di mercato”, descrivendolo quindi come un sistema economico dove vige una completa liberalizzazione del mercato in cui l’equilibrio tra produzione e consumo è realizzato attraverso l’incontro tra la domanda di tutti i consumatori e l’offerta globale delle imprese; tale equilibrio è però assicurato soltanto nell’ipotesi in cui le forze di mercato siano libere di agire senza alcuna interferenza da parte dello Stato. Il ruolo di quest’ultimo sarebbe solo quello di definire le “regole del gioco” ed assicurarsi che esse vengano rispettate. Notiamo sommessamente che è assai curioso definire una compagine socioeconomica con un modello teorico che probabilmente non è mai esistito per davvero, risultando forse parzialmente valido esclusivamente nei primi anni di sviluppo della società capitalista… Inoltre, la coincidenza temporale (e a fortiori causale) della nascita di vasti mercati con quella del capitalismo è un argomento complesso e ancora controverso circa il quale autorevoli opinioni favorevoli (del sociologo Karl Polanyi, ad esempio 36) sono contrastate da altrettanto autorevoli opinioni contrarie (come quelle dello storico economico Fernand Braudel 37).
Di altro tono è invece la nozione di capitalismo nell’ambito della scuola economica marxista, dove l’accezione del termine “modo di produzione capitalista” (Marx 38 non usò mai la parola “capitalismo” …) è fondata sulla completa separazione tra i possessori dei mezzi di produzione (i capitalisti), i quali li utilizzano in vista del conseguimento di un profitto da reinvestire parzialmente nel processo produttivo, e coloro che usano tali mezzi di produzione nell’ambito del loro lavoro (i lavoratori salariati) a fronte di un salario orario prefissato. Naturalmente la versione accademica e quella marxista non sono in totale opposizione reciproca, in quanto i profitti si possono concretamente realizzare (ovvero, assumendo una forma monetaria) solo attraverso la compravendita delle merci prodotte nella cornice di un mercato, dove i possessori di beni e di servizi, che sono i capitalisti, lì venderanno a qualsiasi consumatore solvibile, sia esso un altro capitalista, un lavoratore salariato o chiunque altro. Riassumendo, potremmo fornire una definizione, schematica ma comprensiva, del termine “capitalismo” mediante un processo diviso in tre momenti successivi: investimento (D), produzione (M), realizzazione (D’). Più in dettaglio:
Il capitalista, ovvero il possessore di un capitale D in forma monetaria (per esempio, denaro non destinato al consumo personale), decide di investire tale capitale in vista di un ritorno D’>D, ossia di un profitto positivo P=D’-D>0.
Per far ciò il capitalista spende D e acquista o affitta determinati beni capitali, comprendenti sia capitali costanti C (materie prime, macchinari, ecc.) sia ore di forza-lavoro V (anche dette ‘capitale variabile’), in modo tale da combinarli insieme in un determinato processo produttivo che gli fornirà beni o servizi M, di cui sarà l’esclusivo proprietario.
In ultimo il capitalista venderà la merce M sul mercato realizzando un ricavo monetario D’, che sottratto del capitale investito D, darà luogo proprio al profitto atteso P.
È del tutto evidente, osservando per esempio lo schema appena presentato, che ben cinque elementi sono (quasi) contemporaneamente necessari affinché abbia luogo un ciclo di produzione capitalista: i capitali, i capitalisti, i lavoratori, le merci e i mercati. Si badi bene, che questa affermazione è del tutto indipendente dalla teoria marxiana del valore-lavoro, che non abbiamo ancora voluto introdurre. Ciò significa che quanto stiamo scrivendo continuerebbe ad esser valido anche nell’ottica della cosiddetta “economia volgare”, basata, per esempio, sulla teoria “milliana” del mark-up (sovrappiù) o su quella difesa in ambito socialista da Antonio Graziadei 39. L’unica, ovvia richiesta, è che D, il prezzo di C+V, sia sempre maggiore di D’, il prezzo di M.
Prima di analizzare più da vicino i cinque elementi-chiave della produzione capitalista è però necessaria un’altra precisazione che, sebbene possa apparire pedante, è in realtà piuttosto seria. Nel ciclo tripartito appena mostrato, seguendo il I libro de “Il Capitale” 40, si assunta l’identità (tipica del periodo “manchesteriano” del capitalismo britannico) tra il capitalista e l’imprenditore. Ossia, tra il possessore di capitale monetario e l’organizzatore del processo produttivo. Ora, questa assunzione semplificatoria è molto meno innocente di quanto possa apparire, in quanto confina la moneta in un ruolo totalmente passivo di comodo equivalente generale, ovvero di pura unità di conto (numeraire). In questo modo viene cancellato con un solo tratto di penna l’intero lato finanziario del sistema capitalistico, tramite il quale, in parole men che povere, potremmo dire che anche i capitali monetari (così come i mezzi di produzione, i beni di consumo e la forza-lavoro) si affaccino su un mercato. In tale mercato gli imprenditori sprovvisti di capitali possono ottenere prestiti (D) dai capitalisti, prestiti che andranno restituititi dopo un intervallo temporale concordato, ma sempre maggiorati di un interesse I. È appena il caso di ricordare che in un sistema capitalista anche solo approssimativamente all’equilibrio, il tasso di profitto (r = P/D) e il tasso d’interesse (i = I/D) saranno in stretta relazione tra loro 41.
Lasciando da parte per ora il mercato dei capitali, torniamo ai nostri cinque “ingredienti” del ciclo capitalista, i quali ci interessano in questa sede per un semplice ed unico motivo: qualsiasi politica economica atta a stimolare la transizione da capitalismo a socialismo dovrà per forza di cose tendere a modificare almeno uno di essi (ma, molto probabilmente, più di uno).
Iniziamo con il capitale, vero “carburante” della produzione capitalista, in assenza del quale non è possibile neppure ipotizzare l’inizio di un ciclo economico. Esso può assumere due forme: quella monetaria (in passato trattavasi di riserve auree o argentee) che rappresenta una quantità di denaro in eccedenza, la quale può essere distolta dall’acquisto di beni di consumo o di servizi alla persona, e quella materiale, ovvero mezzi di produzione (materie prime, macchinari, costruzioni, impianti ecc.) oppure ore di forza-lavoro. Il passaggio dalla forma monetaria a quella materiale avviene però sul mercato; più precisamente sul mercato dei mezzi di produzione e su quello del lavoro. Dato il ruolo fondamentale del capitale, la scuola marxista ha scritto migliaia di pagine per analizzarlo in ogni minimo dettaglio, ponendosi, per esempio, il problema della sua origine storica, visto che la nascita del capitalismo ne presuppone già l’esistenza. Ciò ha dato origine alla complessa nozione di “accumulazione originaria del capitale” che entrò prepotentemente nei dibattiti degli anni ’20 in URSS nel contesto della polemica tra Bucharin 42 e Preobraženskij 43 sulla costruzione del socialismo in un paese economicamente arretrato.
Tralasciando il complesso problema della finanza, possiamo dire che il capitalista è colui il quale ab origine è giuridicamente possessore del capitale in forma monetaria. Ossia egli vive in una società dove tale diritto di possesso gli viene unanimemente riconosciuto e dove una compagine statale potrebbe anche usare la coercizione violenta se tale diritto fosse insidiato e messo in discussione, salvo casi eccezionalissimi (per esempio, gli espropri di pubblica utilità), da chicchessia. In quanto imprenditore egli deve invece assumere un rischio (il rischio d’impresa) trasformando il suo capitale monetario D in un’opportuna combinazione di capitale costante C e capitale variabile V. Per far ciò dovrà divenire compratore sui mercati, rispettivamente, dei mezzi di produzione e della forza-lavoro. Al rischio d’impresa corrisponderà, ovviamente, la speranza di un profitto finale P, vera molla dell’intero ciclo di produzione capitalista.
A questo punto della trattazione entrano in gioco i lavoratori, che rappresentano la realtà biologica e antropologica velata dal termine astratto di “forza-lavoro”. È il classico esempio di “feticismo delle merci” denunciato da Marx: dietro la parvenza di una merce particolare, la forza-lavoro appunto, che si acquista sul mercato in forma anonima e già parcellizzata in ore, si nascondono uomini e donne, subito intruppati dai processi produttivi stessi in classi sociali ben precise, le quali stabiliscono rapporti, spesso conflittuali, tra loro. Ora, almeno secondo la teoria del valore-lavoro di Ricardo e la sua scuola, nonché mutatis mutandis di Marx, Engels e della maggior parte degli economisti marxisti, è proprio l’acquisto e l’uso della forza-lavoro a costituire l’origine profonda e occulta del profitto. Il meccanismo suggerito da tale teoria è semplice e ingegnoso al contempo, ma si basa su un passaggio ardito e abbastanza controverso: l’aggregazione del lavoro presente in un sistema economico capitalista al fine di formare per ogni merce una corrispondente quantità di lavoro astratto socialmente necessario a produrla: il valore, appunto. Non ci dilungheremo ulteriormente su questo punto rimandando il lettore alla copiosa letteratura specializzata sull’argomento 44. In effetti, come intuito già da Graziadei 45 ma dimostrato rigorosamente solo dalla scuola neoricardiana di Piero Sraffa e Michio Morishima 46,47, non vi è la necessità di ricorrere alla teoria del valore-lavoro per localizzare nella classe lavoratrice l’origine di ogni profitto. Immaginando, ma solo per semplicità di ragionamento, i lavoratori salariati di tutto il globo come semplici consumatori (ovvero considerando trascurabile la quota di capitale da essi indirettamente investita tramite il circuito bancario e obbligazionario), possiamo ben dire che al livello generale la quantità di beni e servizi prodotta annualmente da tali salariati, M, è sempre largamente maggiore di quella V consumata da essi e dalle loro famiglie (cibo, vestiario, trasporti, spese per l’alloggio ecc.) sommata a quella utilizzata C, sempre dai medesimi lavoratori salariati, nel corso delle varie attività produttive svolte (materie prime, semi-lavorati, usura dei macchinari ecc.). Tale è la semplice origine del profitto P, che è banalmente solo l’espressione monetaria di M-C-V, ovvero del plus-prodotto: la quota della produzione di ogni determinata impresa di cui si appropria il capitalista-imprenditore in virtù del capitale da lui investito in tale realtà produttiva. Trattasi di un concetto molto generale che corrisponde esattamente a quello marxiano di plusvalore una volta che si sia accettata la controversa teoria del valore-lavoro.
Veniamo a questo punto al concetto di merce M, che include qualsiasi bene o servizio risultato di una produzione capitalistica e destinato ad esser venduto sul mercato. Abbiamo già visto che la suddivisione principale delle merci è quella tra mezzi di produzione da un lato e beni di consumo e servizi alla persona dall’altro. Nel primo caso gli acquirenti saranno (almeno nel nostro modellino iper-semplificato di capitalismo) esclusivamente altri capitalisti-imprenditori, mentre nel secondo saranno coinvolti sia lavoratori che capitalisti. I primi esauriranno l’intero loro salario nell’acquisto dei prodotti necessari per la loro sopravvivenza e la loro riproduzione, mentre i secondi, di norma, utilizzeranno per il medesimo scopo solo una frazione dei loro profitti (1-g) P. Questa differenza è d’importanza enorme, come già scoperto da Marx nel libro II de “Il Capitale” 48 con il concetto di “riproduzione allargata”, e svela un altro “mistero” del capitalismo, quello della crescita economica. In ultima analisi, come poi confermato rigorosamente dai raffinati modelli econometrici del neoricardiano Luigi Pasinetti 49, l’intuizione marxiana è ragionevole e corretta: la crescita economica è guidata dalla frazione di plus-prodotto non direttamente consumata dai capitalisti, i quali, dopo averla trasformata monetariamente in profitto (g P), la reinvestono nel successivo ciclo economico in modo da aumentare sia il parco del capitale costante (più materie prime, più macchinari, più capannoni, più uffici ecc.) sia il monte dei salari (più lavoratori occupati). Tale processo è anche noto in ambito economico come accumulazione capitalistica 50. Va però detto che questa semplice modellizzazione, condivisa anche dagli economisti accademici neoclassici, sembra essere particolarmente sgradita ai keynesiani più ortodossi i quali criticano, anche a lungo termine, la dipendenza degli investimenti dai risparmi, postulando piuttosto il contrario. Non entreremo, dato il carattere divulgativo del presente lavoro, in questa complessa questione 51. All’opposto, se i capitalisti consumassero del tutto i loro profitti in beni di lusso, sarebbero esclusivamente in grado di iniziare un nuovo ciclo economico con le stesse quantità di capitale costante e variabile del ciclo precedente. Avremmo quindi un sistema capitalista in stato stazionario, capace sì di riprodursi, ma non di crescere. È proprio la situazione, piuttosto irrealistica, che Marx indicava con il nome di “riproduzione semplice” 52.
Terminiamo questa breve carrellata sui fondamentali logico-economici del capitalismo dedicando qualche riga al concetto di “mercato”, che in realtà è già comparso varie volte nella nostra breve trattazione: gli imprenditori si riforniscono, proprio sul mercato dei mezzi di produzione, delle quantità di capitale costante necessarie per portare avanti le loro produzioni, nonché, su quello della forza-lavoro, delle ore di lavoro indispensabili ad utilizzare il suddetto capitale variabile. Inoltre, abbiamo spiegato come i salariati utilizzino la (quasi) totalità delle loro entrate per la loro sopravvivenza e quella delle loro famiglie, che, ça va sans dire, comprendono anche la prole che permetterà in futuro la sostituzione dei lavoratori “usurati”, ossia ormai troppo anziani. In questo caso è il mercato dei beni di consumo e dei servizi alla persona ad essere interpellato, il quale, come si è detto, è anche utilizzato dai capitalisti per il soddisfacimento dei loro bisogni, sovente mediante l’acquisto di beni di lusso largamente inaccessibili ai lavoratori salariati (grandi ville, automobili sportive, panfili e yacht, aerei ed elicotteri privati, gioielli preziosi, vacanze in località esclusive, l’uso di inservienti, autisti e domestici ecc.). Però tutto questo è stato presentato fino ad ora solo dal lato dell’acquirente, ossia da quello della domanda. Vi è, in ogni mercato possibile e immaginabile, sempre anche l’aspetto complementare, ovvero il lato del venditore (o dell’offerta). Quando le domande e le offerte si pareggiano sia dal punto di vista delle quantità di merci disponibili che dei loro prezzi unitari, un mercato è detto “clear” (ossia, “sgombro”, nel senso di privo di merci invendute o di ordini insoddisfatti). Se poi tutti i mercati sono clear si ha il ben noto equilibrio economico di generale di cui l’economia politica, specie quella marginalista, ha discettato lungamente 53. Il lato dell’offerta (noto in inglese come supply side) è cruciale anche per l’analisi della scuola economica marxista, in quanto rappresenta la cosiddetta “realizzazione del profitto”, ovvero la trasformazione monetaria della merce M prodotta in ricavo D’ = D + P. Se questa fase venisse bloccata, anche solo parzialmente, per un qualsiasi motivo (tipicamente, o per sovraproduzione, o per una riduzione dell’acquisto dei beni di consumo, o per un calo degli investimenti nei mezzi di produzione), vi sarebbe di certo una mancata realizzazione del profitto, se non addirittura una perdita secca, qualora si avesse D’ < D. In questo caso, se le perdite fossero protratte per un certo numero di cicli economici, si parlerebbe di bancarotta e di fallimento aziendale. Al livello di singola impresa questo meccanismo è funzionale all’eliminazione delle produzioni obsolete e inefficienti dal sistema economico e quindi va visto come un fattore positivo, ma quando si generalizza a un intero ramo aziendale o, addirittura al sistema economico nella sua totalità, si ha a che fare con una crisi economica vera e propria. Con questo non vogliamo dire che la sovraproduzione o il sottoconsumo siano necessariamente le cause prime delle crisi economiche che ciclicamente si abbattono sul sistema capitalistico (l’argomento è estremamente complesso e controverso, costellato com’è da diverse interpretazioni 54), ma intendiamo solo ribadire quanto già notato da Marx, ossia che la crisi economica capitalista, quale che ne sia la causa, si manifesta sempre e comunque nella forma di sovraproduzione/sottoconsumo, cioè di mercati non più clear. È appena il caso di aggiungere che, da un punto di vista finanziario, tale stato di crisi implica immediatamente un’incapacità da parte degli imprenditori di onorare i propri debiti nei confronti delle banche o di altri creditori (ad esempio, i detentori di obbligazioni) e quindi una sofferenza dell’intero sistema creditizio.
3) Oltre il capitalismo: non basta licenziare i “padroni”
Impadronitici dei primi rudimenti relativi al funzionamento del sistema economico capitalista, siamo ora pronti (con una buona, anzi ottima, dose di coraggio) a ragionare del dopo, ossia di quale potrebbe essere la transizione verso un modo di produzione superiore rispetto al capitalismo, cioè il socialismo (o comunismo che dir si voglia), in cui, come si è detto, vi sia un accesso libero e non contingentato ad abbondanti beni di consumo e servizi alla persona, ma dove, d’altro canto, il lavoro sia breve, variato e, soprattutto, su base esclusivamente volontaria. Un vero e proprio “Paese di Cuccagna” immaginario, almeno secondo gli scettici? Vedremo.
Prima però di avventurarci in complesse classificazioni ed ipotesi ardite sarà necessaria un’avvertenza: nella tradizione del socialismo scientifico marxista, il comunismo è visto come una necessità storica, il cui raggiungimento, nel modo postulato dalla dialettica hegeliana, è possibile proprio in virtù di un dinamismo intrinseco dovuto all’esistenza di contraddizioni all’interno del modo di produzione che lo precede, il capitalismo. Marx delinea nei suoi lavori economico-filosofici, soprattutto in quelli preparatori a “Il Capitale”, una serie di tensioni irrisolte nel corpo del capitalismo in quanto sistema, che proveremo a riassumere nelle poche righe seguenti. La prima e fondamentale contraddizione è quella tra capitale e lavoro, la quale è irresolubile benché possa essere temporaneamente pacificata nella forma di un compromesso. Il suo carattere di inevitabilità per i marxisti riposa nel fatto che il motore della produzione del capitalismo è il profitto, il quale è essenzialmente appropriazione di plusvalore, ossia di ore di lavoro erogate ma non retribuite ai salariati. Non esiste quindi un “salario giusto”, onesto, se non quello che comporti un plusvalore nullo, rendendo così del tutto infruttuoso l’investimento capitalista. Marx arriva a paragonare il capitale a un vero e proprio vampiro assetato di plusvalore, che si aggira sui mercati internazionali alla ricerca di povere vittime da cui suggere, assetato, i fluidi vitali:
“Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia” 55.
Anche se potrebbe sembrare solo una metafora dalle forti tinte, in effetti il senso del paragone è profondo e anche inquietante: Marx non parla infatti di capitalisti, dice: “il capitale”. Siamo qui di fronte a una versione laica dell’antica credenza nella possessione diabolica, in cui il singolo capitalista diviene un mero veicolo esterno di una forza molto più potente di lui e della sua stessa classe sociale di appartenenza. Tale concetto sarà cruciale parlando di transizioni al socialismo: come in un romanzo gotico di Bram Stoker, non sarà sufficiente allontanare dalle leve del potere i singoli individui capitalisti, lasciando però intatto il capitale, poiché questo sarà presto capace di trovare altre forme sociali in grado di proseguire l’accumulazione capitalistica in altro modo. La seconda contraddizione capitalista portata alla luce da Marx riguarda invece la contrapposizione tra il carattere sempre più sociale del momento produttivo capitalistico (caratterizzato dall’estrema parcellizzazione di processi viepiù specializzati e da una sempre più spinta internazionalizzazione delle catene di approvvigionamento) da un lato, e la rigida appropriazione individuale delle merci da parte dei singoli imprenditori al termine del momento produttivo dall’altro lato. In altre parole, per Marx sarebbe contraddittorio socializzare fino al parossismo il momento produttivo, ma non quello distributivo all’interno del medesimo sistema socioeconomico. La terza e ultima contraddizione capitalistica nell’ottica marxiana è sempre legata al carattere specularmente opposto tra produzione e distribuzione, ma questa volta la tensione è tra l’estrema cura nel programmare fin nei dettagli più minuti le catene produttive con i vari metodi che si sono storicamente succeduti (taylorismo, fordismo, ohnismo-toyotismo ecc.) e l’anarchia del mercato, dove una volta immessi per la vendita i prodotti, essi diventano preda di ogni sorta di speculazione, turbativa ecc., tutte volte ad alterarne il prezzo e quindi la realizzazione del profitto. Ebbene, tali contraddizioni, inserite in una filosofia della Storia di chiara derivazione hegeliana, autorizzarono Marx (e ancora di più Engels) ad immaginare una certa teleologia:
“Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana” 56.
Questa concezione lineare della Storia umana, che, ad essere sinceri, al giorno d’oggi ci lascia abbastanza perplessi, subì una modifica nell’età della II Internazionale (1889-1914) abbandonando le formulazioni dialettiche per adeguarsi ai canoni dell’evoluzionismo darwinista e spenceriano diffusosi in quel periodo. Il passaggio dal capitalismo ad un modo di produzione ad esso superiore veniva quindi visto come l’equivalente socioeconomico dell’evoluzione biologica da una specie meno addata ad una più adatta. In questo senso si sviluppava nel movimento socialista un certo ottimismo ammantato da una ineluttabilità quasi scientifica, per cui la “rivoluzione sociale” veniva a ricoprire un mero luogo di levatrice adatto ad abbreviare e facilitare un parto giudicato comunque come inevitabile. Questo spiega forse il perché, almeno fino alla fine della I Guerra Mondiale, l’argomento della transizione e della socializzazione fu considerato dai marxisti, tutto sommato, come una cosa di secondaria importanza. Al giorno d’oggi, all’opposto, dato che sia la filosofia della Storia sia il darwinismo sociale sembrano ormai molto lontani, il socialismo può esser visto come solo un’opportunità, o meglio come un’alternativa, a un modo di produzione che sembra veramente incapace di organizzare la vita di miliardi di individui umani in modo decente, sia considerando i rapporti tra di essi che tra questi e l’ambiente circostante. Più che l’idea marxiana di fine della preistoria umana, crediamo sia calzante oggigiorno l’alternativa posta da Karl Kautsky e ripetuta da Rosa Luxemburg: “La società borghese si trova ad un bivio: o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie” 57. Per questo motivo siamo convinti che sia del tutto finito il tempo delle intenzioni generiche o delle frasi ad effetto, per lasciare invece spazio alle formulazioni precise e ai programmi audaci di chi, come i lavoratori socialisti, si candida al compito tutt’altro che lieve di salvare il pianeta, la razza umana e quanto di buono e valido vi è nella civiltà presente.
Fatta questa necessaria precisazione, che ci permetterà di focalizzarci sul periodo successivo al 1918, possiamo dire che sia i socialisti democratici ancora influenzati dal marxismo, sia i comunisti (certamente quelli del Comintern, ma in pratica anche i piccoli nuclei antibolscevichi), pur diversissimi tra loro dal punto di vista della prospettiva di presa del potere da parte della classe lavoratrice, concordavano sul seguente schema di massima per ciò che concerne il lato economico del passaggio al socialismo nei paesi capitalisticamente avanzati: (i) periodo transitorio; (ii) fase inferiore del comunismo (per il leninisti, “socialismo”); (iii) fase superiore del comunismo (per il leninisti, “comunismo”). Certo, sono anche esistiti alcuni gruppi marxisti che hanno negato la necessità di un periodo di transizione dal capitalismo al socialismo e, in alcuni casi, persino della fase inferiore, ma si tratta di sparute eccezioni: il Partito Socialista della Gran Bretagna, l’Iniziativa Marxista Umanista e i cosiddetti “comunizzatori”, delle quali sfortunatamente non abbiamo qui lo spazio di trattare, rimandando il lettore curioso a uno specifico articolo, piuttosto ben fatto, della Communist Workers' Organisation (GB) 58. Se confrontiamo invece “La realizzazione del socialismo” di Bauer 59 o “La rivoluzione dei lavoratori” di Kautsky con “L’ABC del comunismo” di Bucharin e Preobraženskij, notiamo alcune differenze programmatiche anche importanti 60, ma l’impianto generale resta piuttosto simile: espropriare capitalisti ed imprenditori trasferendo le loro proprietà e la loro attività allo Stato nel caso di banche, assicurazioni e grandi aziende, oppure a cooperative di lavoratori nel caso di aziende piccole, soprattutto se connesse ad attività agricole, di commercio al dettaglio o di servizi alla persona. Ciò rivela la comune idea di base, ben espressa da Ernest Mandel nel suo opuscolo “L’URSS è uno Stato capitalista?” 61, secondo cui secondo il marxismo non è dato capitalismo senza capitalisti. Si tratta di un approccio che privilegia l’aspetto sociologico (ovvero l’esistenza delle classi sociali) a quello della pura meccanica economica ma, nonostante alcuni punti di forza, non lo riteniamo completamente convincente. Ovvero, conveniamo con Mandel che un regime di capitalismo di Stato (o pubblico) in purezza probabilmente non potrebbe esistere per lungo tempo, manifestando una serie di instabilità politiche e una certa inefficienza negli investimenti, ma, almeno a livello concettuale, esso resterebbe completamente nel campo del capitalismo.
Immaginiamo infatti il seguente Gedankenexperiment: in un determinato paese capitalistico tutte le società per azioni (banche, assicurazioni, industrie, grosse aziende agricole, società multiservizi, grande distribuzione ecc.) sono nazionalizzate per decreto con un solo tratto di penna. Ossia, lo Stato diviene titolare dell’intero pacchetto azionario di ciascuna di tali realtà economiche, esprimendo così, mediante professionisti competenti da esso pagati, gli interi consigli di amministrazione in questione. Ovviamente lo Stato incasserebbe tutti i dividendi del caso, ammassando la quasi totalità dei profitti d’impresa, ma continuerebbe ad utilizzare manager ed amministratori come prima, retribuendoli lautamente in funzione delle performance delle società da essi dirette. Ebbene, sia il cittadino medio sia, soprattutto, i lavoratori salariati di dette realtà economiche non si accorgerebbe neppure della differenza. I problemi per loro rimarrebbero gli stessi di prima: bassi salari, lunghi turni di lavoro, rischio di licenziamento, mobbing ecc. Gli unici a percepire il cambiamento sarebbero ovviamente i membri della minoranza dei capitalisti espropriati (insieme forse qualche risparmiatore della classe media), ma entrambi potrebbero essere parzialmente indennizzati mediante l’erogazione di buoni del tesoro o di altri prodotti finanziari pubblici, in modo da rendere il loro esproprio molto meno traumatico. In somma, a parte il carattere altamente ipotetico di tale esperimento concettuale, paesi come l’Italia, la Svezia ecc. negli anni ’60-‘70 hanno vissuto esperimenti di capitalismo con un settore pubblico molto grande (anche se sempre inferiore al 50% del rispettivo prodotto interno lordo) senza nessun rischio, a parte l’opinione di qualche economista ultraliberista un po’ nervoso, di avvicinarsi ad alcuna transizione al socialismo. Ma a questo punto qualcuno potrebbe scendere in campo in difesa di Mandel e porsi la seguente domanda: che ne sarebbe in questo caso del plusvalore (o, più in generale, del plus-prodotto)? Lo Stato non potrebbe redistribuirlo tra i lavoratori mediante la spesa pubblica eliminando così lo sfruttamento capitalistico? Ovviamente questa opzione non è del tutto impossibile, ma due considerazioni andrebbero fatte a proposito. In primo luogo, il nostro paese a capitalismo di Stato non è una società senza classi, visto che manager, professionisti, piccoli imprenditori di società di persone, artigiani, negozianti, coltivatori diretti ecc. continuerebbero ad esistere e pretenderebbero la loro fetta di plusvalore “pubblico”. Secondariamente, i dipendenti pubblici, che di norma sono lavoratori salariati sì, ma essenzialmente improduttivi, assurgerebbero nel nostro esempio a un ruolo fondamentale per l’economia e questo, presto o tardi, farebbe sì che soprattutto i loro settori dirigenziali s’impossesserebbero di quote di profitto “pubblico” in modo cospicuo mediante aumenti salariali, premi di produttività, bonus ecc. In somma, considerando manager, professionisti e dirigenti pubblici, pensiamo che il grosso del plusvalore vada verso di loro piuttosto che tornare dove esso ha avuto origine (cioè i lavoratori salariati).
Ovviamente, pur essendo noi altri molto critici nei confronti delle esperienze etichettate collettivamente come “socialismo reale” (in URSS, Europa Orientale, Corea del Nord, Cina, Cuba, Indocina ecc.), non vogliamo di certo banalizzarle, liquidandole come forme più o meno compiute di quel “capitalismo di Stato” che abbiamo appena visto essere incapace di innescare la fuoriuscita dal capitalismo. Semmai saranno certi riformatori economici 62 (prima Liberman, Nemčinov e Trapeznikov nell’URSS ai tempi del premier Kosygin, poi quelli nell’ambito della perestrojka di Gorbacëv sempre in Russia, e dell’“economia socialista di mercato” di Den Xiaoping in Cina) a spingere per una sempre maggiore autonomia dei manager pubblici proprio nella direzione di capitalismo statale, senza però riuscirci del tutto. Ma per capire il nodo della questione bisognerà andare oltre la mera proprietà dei capitali ed immergerci nel campo, complesso e difficile, dei prezzi, dei salari, della pianificazione e, soprattutto, delle manipolazioni del mercato.
4) Stato contro mercato: l’arte rischiosa della pianificazione “socialista”
Discussa la questione dei “capitalisti-imprenditori”, non ci resta che tornare agli elementi necessari affinché abbia luogo un ciclo di produzione capitalista. Ne rimangono ancora quattro: i capitali, i lavoratori, le merci e i mercati. I primi, descritti dal punto di vista monetario, si convertono in merci particolari (mezzi di produzione e forza-lavoro umana) sul mercato, mediante la compravendita. Tali mezzi di produzione e tale lavoro umano, uniti ovviamente ai beni di consumo ed ai servizi alla persona, rimarranno anche nella società socialista avanzata, ma, come ricorda Bordiga 63, non avranno più un carattere di “merce”, ma solo quello fisico (merci) oppure quello biologico (lavoro). Nella teoria marxista il carattere di “merce” è conferito a un bene (o a un servizio) esclusivamente dal valore-lavoro ad esso associato. Ora, questa quota di valore-lavoro ha sempre un aspetto duplice: da un lato ci parla della produzione, ossia del valore delle componenti di tale merce e delle ore di lavoro astratto socialmente necessario destinate alla sua fabbricazione; ma dall’altro ci assicura che sul mercato essa sarà scambiata, almeno approssimativamente, con merci dello stesso valore o con una quantità di moneta equivalente. In realtà sappiamo della divergenza tra valori e prezzi di produzione, già notata dal Marx nel III libro de “Il Capitale” 64, nonché del difficile problema della trasformazione dei primi nei secondi 65, per cui eviteremo di fondare la nostra analisi sulla controversa teoria del valore-lavoro. Molto più prosaicamente diremo che un bene o un servizio (includendovi qui anche la prestazione lavorativa) diviene “merce” se e soltanto se è possibile, almeno temporaneamente, stabilirne un prezzo in vista di un’ipotetica compravendita. Nella teoria neoricardiana è proprio il prezzo che ha un aspetto duplice: da un lato ci parla della produzione, ossia del prezzo delle componenti di una certa merce, del costo delle ore di lavoro destinate alla sua fabbricazione e, non ultimo, del tasso di profitto medio del sistema; ma dall’altro ci assicura che sul mercato essa sarà scambiata con merci dello stesso prezzo o con una quantità di moneta corrispondente. Questo duplice aspetto, comune sia ai valori che ai prezzi, è di fondamentale importanza perché spiega la totale reciproca incomprensione tra i sostenitori del “socialismo reale” (ma anche dal loro “arcinemico” Kautsky 66) e i loro acerrimi critici impossibilisti, consiliaristi, bordighisti e anarco-comunisti. Per i primi è sufficiente che i pianificatori socialisti stabiliscano, per esempio su base quinquennale, gli obiettivi di produzione che ogni impresa pubblica dovrà raggiungere, nonché i prezzi dei vari prodotti disponibili e i salari dei lavoratori, lasciando poi che i mezzi di produzione e i beni di consumo si scambino normalmente tra le aziende o si vendano al dettaglio ai consumatori come se, ma solo apparentemente, si trattasse di una compravendita sul mercato. Per i secondi tutto questo non scalfisce minimamente il carattere di “merce” dei prodotti e quindi la natura intrinsecamente capitalista del cosiddetto “socialismo reale”. Bisognerebbe invece eliminare le banche nazionali, i prezzi, i salari, la moneta, la contabilità a partita doppia delle singole imprese pubbliche, lasciando in piedi solo la struttura fisica del meccanismo di circolazione e di distribuzione dei prodotti, i quali verrebbero contabilizzati esclusivamente nella modalità detta “in kind” 67 (ossia, “in natura”), cioè come un inventario in un grande magazzino ben ordinato. Banalizzando molto quanto appena riferito, si potrebbe dire che i “real-socialisti” si accontenterebbero di manomettere i tradizionali meccanismi capitalistici di mercato (per esempio, predeterminando l’offerta), mentre i loro critici vorrebbero incidere profondamente anche sulla categoria economica della merce eliminando il concetto stesso di prezzo.
A questo punto è però necessaria una precisazione cruciale: come sottolineato da Marx stesso nella “Critica al programma di Gotha” 68, nella fase inferiore del comunismo non sarà possibile un accesso libero e indiscriminato ai beni di consumo e quindi sarà necessario contingentare i prelievi di alcune di queste tipologie merceologiche. Ora, questo contingentamento può avvenire in molti modi, ad esempio per capita come nei razionamenti alimentari del periodo bellico, ma se invece seguiamo Marx e lo leghiamo alle ore di lavoro astratto socialmente necessario erogate, allora stiamo rendendo ipso facto i beni di consumo delle pseudo-merci, in quanto, tenendo conto del loro valore, ossia stimando la quantità di lavoro in esse inglobato, stiamo in effetti risolvendo l’equazione di Dmitriev 69:
v = A v + l , (1)
dove v è il vettore dei valori-lavoro cercati, A è la matrice tecnica che contiene tutta la parte fisica o “in kind” dei processi produttivi e l il vettore delle ore di lavoro erogate nei diversi rami produttivi. Questo risultato differisce dal caso “real-socialista” basato sui prezzi (p) solo perché ora l’equazione da risolvere è quella di Steedman 70:
p = ( 1 + r ) ( A p + λ l ), (2)
dove r è il tasso medio di profitto e λ è il costo orario del lavoro. Se i pianificatori “real-socialisti” sceglieranno che r ≈ 0 (ossia, che in media tutte le imprese pubbliche sono obbligate a non avere né utili né passivi, un po’ come le vecchie Casse di Risparmio in Italia) e utilizzeranno convenzionalmente il costo del lavoro come unità monetaria, allora avremo semplicemente che p = v. Ma dov’è allora la vera differenza tra i due scenari? Come al solito il diavolo si annida nei dettagli e in questo caso la differenza la farebbe non tanto il concetto di ‘prezzo’, quanto quello di ‘moneta’ 71. Nel caso dei buoni di lavoro (o voucher) sarà molto difficile creare una gerarchia salariale e, da qui, un’élite burocratica largamente privilegiata. Certo sarebbe ragionevole non usare direttamente le ore preferendo ad esse le settimane lavorative, sostenendo, per ipotesi, che i lavori usuranti o rischiosi vadano in qualche modo favoriti. In questo modo si potrebbe stabilire, per esempio, che un minatore ottenga un voucher settimanale completo dopo sole 17 ore di lavoro, mentre un postino dopo 25 ore ecc. Ma con la presenza della moneta tutto assume un volto diverso (una sorta di “vecchia merda” che torna, di cui parlano Marx ed Engels ne “L’ideologia tedesca” 72) in quanto essa è, a differenza dei voucher, tesaurizzabile, anonima (cioè non personale) e senza scadenza. Ma soprattutto perché si presta facilmente a creare premi, incentivi e differenze salariali, anche notevolissime, delle quali dirigenti pubblici e manager possono facilmente avvantaggiarsi. Da un punto di vista matematico ciò è tutto sommato abbastanza semplice: al livello settoriale basterebbe sostituire la costante λ con una matrice diagonale: = λi ij dove, come insegna Orwell nella sua “Fattoria degli animali” 73, i salari orari λi non sono tutti uguali… Più in generale sarà necessario aggiungere altre colonne all’Eq. (2) contenenti le varie somme parziali di tipologie omogenee di lavoro: λa la, λb lb, λc lc … (con l = la + lb + lc + …), dove, per esempio, λa è il salario orario tipico di un operaio, λb quello di un impiegato, λc quello di un funzionario ecc.
Terminiamo questa sezione ricordando come persino la via “real-socialista” sia stata irta di problemi e difficoltà, specie per ciò che concerne le tecniche di programmazione economica e di determinazione dei prezzi di vendita e dei salari. Naturalmente non abbiamo qui né il tempo né le competenze per poter addentrarci in questo complesso problema, rinviando il lettore interessato ad opere specifiche su “socialismo reale” e la sua crisi 74. Ricordiamo solo en passant che in una società industrializzata complessa con milioni e milioni di tipologie di merci disponibili, la determinazione a priori dei prezzi e delle quantità necessarie di ogni prodotto per un determinato quinquennio è praticamente impossibile anche avvalendosi dei più sofisticati approcci informatici. In questo senso i pianificatori si muovevano limitandosi a ragionare su macro-aggregati di prodotti relativi ai diversi rami aziendali, piuttosto che sulla singola merce. Ciò ovviamente provocava di frequente sprechi e inefficienze ben documentate.
5) Una strada (quasi) inesplorata: se si auto-eliminassero i proletari?
Quasi paradossalmente si potrebbe notare che nella discussione delle precedenti sezioni vi sia un grande assente, quasi una sorta di “convitato di pietra”: l’insieme dei lavoratori salariati o, per dirlo in termini marxisti, la classe lavoratrice (ammesso e non concesso che in una società in transizione da capitalismo a socialismo si possa ancora parlare liberamente di “classi sociali”). Certo, tutti gli autori che abbiamo nominato, dai socialisti democratici, ai comunisti bolscevichi, fino ai comunisti consiliari, si sono sforzati enormemente di ritagliare nei loro schemi alcuni ruoli più o meno importanti per i consigli di fabbrica e per le strutture piramidali di livello più elevato relative, per esempio, alla rappresentanza produttiva generale o a quella dei consumatori. Eppure, non dubitando minimamente della buona fede di tali autori marxisti, abbiamo però l’impressione che, eccettuate la proposta “marxista-sindacalista” del SLP e quella consiliarista del GIK 75, non vi sia nella pratica un vero ruolo decisionale per i lavoratori in molti di questi modelli economici di transizione. Ciò è particolarmente vero per il “capitalismo di Stato”, per il “socialismo reale puro” (per esempio, quello dell’URSS prima delle riforme del 1962) e ovviamente per il “socialismo reale riformato” che dei due precedenti è una particolare combinazione. Nel caso del “capitalismo di Stato” ciò è quasi ovvio e non merita molti approfondimenti: i manager sono retribuiti in base ai profitti delle aziende pubbliche da essi dirette; quindi, si situano in posizione totalmente antagonista rispetto ai lavoratori, esattamente come nel capitalismo occidentale odierno. Vorrebbero paghe basse e lunghi turni di lavoro, poche ferie pagate e nessuna assenza per malattia o maternità. Ambirebbero liberarsi dei lavoratori in eccesso quando ciò è ritenuto necessario. In somma, nulla di nuovo sotto il sole: è il conflitto capitale-lavoro nella sua massima espressione, anche se, per motivi di consenso è immaginabile che sussisterebbe un apparato legale tale da limitare l’arbitrio del management e fornire alcune garanzie fondamentali ai lavoratori.
Molto più sottile è invece la permanenza di tale conflitto nel “socialismo reale puro” perché qui i salari sono in larga parte fissati a monte dai pianificatori e il potere dei manager pubblici è assai più limitato che nel caso precedente. Eppure, il conflitto capitale-lavoro, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. I pianificatori, per compiacere le alte sfere politiche, sono di norma spinti a porre obiettivi molto ambiziosi di crescita economica nei i loro piani quinquennali, spesso eccessivi rispetto alle potenzialità economiche effettive (una volta valutati realisticamente gli sprechi, le inefficienze, i furti, i difetti di produzione ecc.). Tali obiettivi generali vengono subito tradotti localmente in sub-obiettivi per le singole aziende pubbliche, le quali dovranno conseguirli utilizzando una data dotazione economica, un certo insieme di materie prime e di macchinari, un numero più o meno fissato di ingegneri, tecnici, impiegati e operai. Ovviamente i manager di tali imprese hanno qualche possibilità di manovra nella combinazione dei fattori produttivi che abbiamo menzionato, ma, di norma, non moltissime, in quanto le ingerenze del potere politico locale in questo tipo di sistemi sono assai elevate. Tuttavia, la direzione aziendale farà tutto il possibile affinché i sub-obiettivi assegnati, anche se irrealistici, vengano raggiunti mediante l’intensificazione dei ritmi lavorativi, non lesinando talvolta l’uso di blandizie o di minacce, oppure di pressioni di tipo ideologico come lo “stakanovismo”, le quali, in ultima analisi, tendono a colpire soprattutto gli strati meno specializzati dei salariati. D’altro canto, non va dimenticato un altro aspetto, spesso trascurato, del conflitto tra capitale e lavoro nel “socialismo reale”, ovvero quello della perenne penuria dei beni di consumo. In effetti, un salario pagato in una moneta non-convertibile, incassato ma non speso (e quindi forzatamente risparmiato) per mancanza di merci utili da comperare, conta come un’effettiva riduzione del potere di acquisto reale dei lavoratori e quindi come un aumento del loro tasso di sfruttamento. Anche in questo caso non possiamo dilungarci sugli aspetti sociologici della condizione dei lavoratori salariati dell’URSS e degli altri paesi “socialisti reali”, rimandando il lettore ai dettagliati lavori di Arvid Brodersen 76 sull’argomento.
Quanto detto ci serve solo per introdurre brevemente il concetto di base di questo articolo, ovvero quello, apparentemente banale, secondo cui il conflitto tra capitale e lavoro non si può risolvere, e nemmeno iniziare a risolvere, eliminando i capitalisti come classe sociale, né agendo sul mercato mediante un blocco dell’offerta e dei prezzi di vendita. In altre parole, vogliamo dire che dalla II Internazionale al crollo dell’URSS si è essenzialmente pensato di risolvere tale conflitto agendo solo sulla categoria del “capitale” nella vana speranza di eliminarla, mentre a nostro parere è necessario che si operi simultaneamente anche sul secondo termine del binomio: il lavoro. Siamo infatti convinti che il segreto del modo di produzione capitalista stia nella diade capitale-lavoro salariato, inscindibile come lo sono i poli di una calamita, perché i due termini, benché opposti, sono uniti tra loro dialetticamente in modo davvero inseparabile. Il capitale, come spiega bene Marx nella sua gotica metafora sui vampiri, è lavoro morto che cerca disperatamente lavoro vivo da sfruttare per auto-valorizzarsi e crescere. E cercandolo lo trova, anzi lo costituisce facendo leva sui bisogni degli strati popolari sottooccupati e immiseriti. Ma è anche vero l’opposto, e questo forse il pensiero marxista lo ha capito (spesso confusamente) molto dopo, solo negli anni ’60 del XX secolo con l’operaismo italiano 77: il lavoro salariato, incredibile dictu, “crea” il capitale e quindi il capitalista, anche se solo in senso virtuale. Infatti, il grande contributo della primissima riflessione di Panzieri, Tronti e Negri è proprio questo: capovolgere l’impostazione secondo- e terzo-internazionalista per porre in modo provocatorio il lavoro salariato, la fabbrica e quindi la classe lavoratrice, come prius logico (anche se non cronologico) del capitalismo contemporaneo. Ora, questo ribaltamento è stato da alcuni inteso come un originale punto di vista, come uno scavalcamento dei partiti storici della sinistra di classe, come una riaffermazione dal vago sapore anarco-sindacalista dell’orgoglio operaio e della centralità della fabbrica in un’Italia settentrionale di recente industrializzazione. A nostro modesto parere, benché siano argomenti tutti plausibili e legittimi, non è in nessuno di essi il punto centrale della riflessione dell’operaismo, ossia la cosa che a distanza di sessant’anni lo rende ancora interessante e meritevole di riflessione. Crediamo invece che l’essere il prius logico per il lavoro salariato sia da prendere molto più alla lettera e contenga in sé sia la spiegazione del fallimento di un secolo e mezzo di socialismo/comunismo, sia la speranza per il socialismo del XIX secolo. Ma procediamo in modo ordinato dato che trattasi dell’argomento centrale di questo lavoro divulgativo.
La difficoltà nell’aggredire il polo del “capitale” in modo esclusivo deriva in primo luogo dal carattere davvero mobile e proteiforme di questa categoria socioeconomica, continuamente oscillante tra la forma monetaria e la forma fisico-merceologica, con quest’ultima a sua volta scissa in capitale costante (beni capitali) e capitale variabile (forza-lavoro). Data la trasformazione storica della moneta da metallica (soprattutto aurea) a fiat (ovvero convenzionale), nonché l’ipertrofia del settore finanziario, il capitale stesso appare oggi come estremamente smaterializzato e delocalizzato. Ma non è nemmeno questo, a nostro modesto parere, il mimetismo più efficace che protegge il capitale da eventuali politiche economiche antagoniste nei suoi confronti. Purtroppo, l’estremo scudo protettivo del capitale è situato nella crescita economica, come ha intuito in qualche modo anche Serge Latouche e la celebre scuola della “decrescita felice” 78. Prendiamo infatti il modello più “chimicamente puro” possibile di fase inferiore del socialismo, ossia quello marxiano senza moneta e basato sui voucher, dando subito la parola a Marx stesso:
«(…). Il nocciolo sta in questo, che in questa società comunista ogni operaio deve ricevere un lassalliano "frutto del lavoro" "integrale." Se prendiamo la parola "frutto del lavoro" nel senso del prodotto del lavoro, il frutto del lavoro sociale è il prodotto sociale complessivo.
Ma da questo si deve detrarre:
Primo: quel che occorre per reintegrare i mezzi di produzione consumati.
Secondo: una parte supplementare per l'estensione della produzione.
Terzo: un fondo di riserva o di assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc. Queste detrazioni dal "frutto integrale del lavoro" sono una necessità economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun modo calcolare in base alla giustizia.
Rimane l'altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo. Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:
Primo: le spese d'amministrazione generale che non rientrano nella produzione. Questa parte è ridotta sin dall'inizio nel modo più notevole rispetto alla società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.
Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione di bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc. Questa parte aumenta sin dall'inizio notevolmente rispetto alla società attuale e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.
Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc., in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei poveri.
Soltanto ora arriviamo a quella "ripartizione," che è la sola che, sotto l'influenza di Lassalle, grettamente viene presa in considerazione dal programma, cioè la ripartizione di quella parte dei mezzi di consumo che viene ripartita tra i produttori individuali della comunità»79.
In poche righe e con grande maestria, Marx ha raffigurato un ciclo di espansione economico in un’ipotetica società del futuro che abbia già abolito capitalisti privati, denaro, banche ecc., la quale ripartisce il prodotto sociale complessivo (ossia beni e servizi) in base a voucher che attestano le ore di lavoro realmente effettuate dal singolo lavoratore. Ovviamente Marx nota che permane anche qui un qualcosa di simile al vecchio plus-prodotto capitalista, ovvero la quantità di prodotto sociale complessivo che non va direttamente ai produttori per una serie di validissimi motivi:
i) se i beni e i servizi riguardano i mezzi di produzione e di distribuzione, non vi è nessun motivo per cui i singoli lavoratori si approprino di essi dato che non darebbero loro alcuna immediata soddisfazione. Tali mezzi vanno invece a ricostituire le capacità produttive dell’intera società intesa collettivamente; quindi, si può dire che vadano sempre ai lavoratori ma in forma indiretta piuttosto che diretta.
ii) Altri prodotti vanno poi al soddisfacimento dei bisogni sociali: scuole, strade, ospedali, ospizi, teatri, cinema ed altre infrastrutture. Anche qui si può dire che vadano sempre ai lavoratori in forma indiretta. Nello stesso spirito possiamo conteggiare anche tutti gli accantonamenti di prodotti destinati a creare fondi emergenziali in modo da poter reagire prontamente a catastrofi, epidemie, alluvioni, terremoti e altri eventi estremi.
iii) Una quota dei beni di consumo e dei servizi alla persona dovrà poi esser destinata ai lavoratori improduttivi (ma utili), che ancora terranno in piedi quella piccola parte di pubblica amministrazione necessaria nella fase inferiore del comunismo, nonché agli inabili al lavoro (anziani, malati, disabili ed altre categorie protette). Si tratta in generale di socialità necessaria, in quanto qualsiasi lavoratore potrebbe trovarsi presto o tardi in una situazione analoga.
iv) Questo è invece il punto problematico che rischia di far riemergere la categoria del capitale così accuratamente esorcizzata da Marx: “una parte supplementare [del prodotto sociale complessivo] per l'estensione della produzione”, ovvero per la crescita economica. Ora sappiamo che uno dei pochi assunti dove tutte le scuole economiche si trovano d’accordo è il seguente: il capitale reinvestito in eccesso per innescare una riproduzione allargata del sistema economico è sottratto necessariamente alla quota dei consumi. Il celebre economista neoclassico italiano Sergio Ricossa, acuto critico dell’economia mista pubblico-privata e lontanissimo da socialismo e marxismo, arriva addirittura a definire la lotta di classe tra capitalisti e lavoratori come un caso particolare dell’opposizione generale tra chi vuole consumare subito la maggior quota possibile del prodotto sociale (per esempio, ma non solo, i lavoratori) e chi invece non vuole, preferendo differire i consumi in modo da avere più beni capitali da investire (i capitalisti, ma solo quelli “virtuosi”) 80. Vediamo quindi che già la decisione di quanto sia grande la “parte supplementare per l’estensione della produzione”, anche se presa collettivamente, magari in modo sostanzialmente democratico, assomiglia molto, almeno da un punto di vista economico, alla riproposizione mutatis mutandis del vecchio conflitto tra capitale e lavoro. Per inciso, a riprova del fatto che gli economisti pianificatori sovietici e cinesi erano ben consci di quanto abbiamo appena scritto, ricordiamo che la cronica carenza di beni di consumo nei paesi del “socialismo reale” era giustificata dai vari gruppi dirigenti comunisti, forse in maniera ideologicamente un po’ troppo disinvolta, proprio mediante l’uso delle formule della “riproduzione allargata” marxiana contenute nel II libro de “Il Capitale” e descriventi la crescita di un’economia… capitalista pura 81. In somma, sembrerebbe effettivamente impossibile uscire definitivamente dal labirinto del capitale a meno di non accettare un’economia in stato più o meno stazionario (la “riproduzione semplice”), cosa che pochi socialisti sarebbero disposti ad accettare a cuor leggero.
Tutto questo ci induce a credere che la soluzione a tale impasse sia nella contemporanea azione sul fronte dei lavoratori con una misura tanto drastica quanto semplice: l’abolizione del lavoro salariato. Ma di come ciò possa avvenire nell’ambito di una società economicamente avanzata ne parleremo nella seconda parte di questo breve lavoro.
DANKOLOG
Bibliografia Minima
1Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista (Ed. Riuniti, Roma, 1977).
2Karl Marx, Critica al programma di Gotha (Ed. Riuniti, Roma, 1978).
3Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
4Karl Marx, Poscritto del 1873 alla seconda edizione del libro I de “Il Capitale” (UTET, Torino, 2017).
5Karl Kautsky, La via al potere (Laterza, Roma e Bari, 1974).
6Karl Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Firenze, 2002).
7Karl Kautsky, The Social Revolution: I. Reform and Revolution; II. The Day After the Revolution (Leopold Classic Library, South Yarra (VIC.), 2015).
8Otto Bauer, La realizzazione del socialismo (Il Solco, Città di Castello, 1920).
9Karl Kautsky, Die proletarische Revolution und ihr Programm (J. H. W. Dietz, Stuttgart, DE, 1922).
10Karl Kautsky, The Labour Revolution (Ruskin House, London, 1924).
11Karl Kautsky, Was ist Sozialisierung? (Verlagsgenossenschaft “Freiheit”, Berlin, 1919).
12Jürgen Backhaus, Günther Chaloupek, and Hans A. Frambach (eds.), The First Socialization Debate (1918) and Early Efforts Towards Socialization (Springer, Cham, 2019).
13Enrico Barone, Il Ministro della Produzione nello Stato Collettivista, ne “Il Giornale degli Economisti”, sett. / ott., 2 parti: pp. 267–293 & 392-414, 1908.
14Ludwig von Mises, Economic Calculation in the Socialist Commonwealth (Ludwig von Mises Institute, Auburn (AL), 2012).
15M. H. Dobb, O. Lange e A. P. Lerner, Teoria economica ed economia socialista (Summa Uno, Milano, 1972).
16Otto Neurath, Economics in Kind, Calculation in Kind and their Relation to War Economics. In Thomas Uebel and Robert Cohen (eds.), Otto Neurath Economic Writings Selections 1904–1945 (Springer, Dordrecht, 2004).
17Per esempio, per i primi dodici anni dell’URSS si può vedere l’ottimo compendio di Edward Carr, La Rivoluzione Russa. Da Lenin a Stalin, 1917-1929, (Einaudi, Torino, 1980).
18Autori Vari, La Costituzione (legge fondamentale) dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947).
19Arturo Peregalli e Riccardo Tacchinardi, L' URSS e la teoria del capitalismo di Stato. Un dibattito dimenticato e rimosso (1932-1955) (Panta Rei, Milano, 2011).
20Nikolai Bukharin, The Tasks of the Russian Communist Party in “The Labour Monthly” n. 8 (January 1926) ps.18-31.
21Amedeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (Lotta Comunista, Milano, 2009).
22Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito comunista (Ed. Riuniti, Roma, 1977).
23Ernest Mandel, Trattato marxista di economia, 2 voll. (Massari Ed., Bolsena, 1997).
24Charles Bettelheim, La transizione all'economia socialista (Jaca Book, Milano, 1969).
25T. Di Francesco (a cura di), L'assalto al cielo. La rivoluzione culturale cinese quaranta anni dopo (Manifesto Libri, Roma, 2005).
26Alec Nove, The Economics of Feasible Socialism Revisited (Routledge, London, 1991), si tratta della seconda edizione, riveduta e corretta dopo il Crollo del Muro. La prima edizione è del 1983, ma l’autore non è stato parte della Nuova Sinistra. Piuttosto i suoi legami con il socialismo risalgono alla tradizione del menscevismo russo (nome originale: Aleksandr Jakovlevič Novakovskij).
27John E. Roemer, Un futuro per il socialismo (Feltrinelli, Milano, 1996).
28Michael A. Lebowitz, Build It Now: Socialism for the Twenty-First Century (Monthly Review Press, New York, 2006).
29Michael Albert, Parecon: Life After Capitalism (Verso, Londra & New York, 2004).
30Richard Wolff, Understanding Socialism (Democracy at Work Ed., New York, 2019).
31Robin Hahnel and Erik Olin Wright, Alternatives to Capitalism: Proposals for a Democratic Economy (Verso, Londra & New York, 2016).
32David Schweickart, After Capitalism (New Critical Theory), 2nd Edition (Rowman & Littlefield Publishers, Lanham (MD), 2011).
33David Schweickart, Bertell Ollman, Hillel Ticktin, and James Lawler, Market Socialism: The Debate Among Socialists, (Routledge, London, 1998).
34Per ovvie ragioni di brevità non abbiamo qui accennato né alla “blue print” del socialismo secondo marxisti-deleonisti del Socialist Labor Party statunitense [cfr. Daniel De Leon, The Socialist Reconstruction of Society (New York Labor News Company, New York, 1905)], né all’interessante opera del 1930 scritta da Jan Appel insieme ad altri comunisti dei consigli riuniti intorno al cosiddetto “Gruppe Internationaler Kommunisten” olandese [cfr. Grundprinzipien kommunistischer Produktion und Verteilung (Rüdiger Blankertz Verlag, Berlin,1970)]. Le due proposte, data anche la loro ricchezza, meriteranno certamente un successivo lavoro divulgativo ad esse dedicato. È da notare en passant che in entrambi i casi si tratta di elaborazioni eminentemente marxiste ma con certe contaminazioni provenienti da ambienti anarco-sindacalisti.
35Per esempio, si può consultare il lavoro di Gianni de Luca, Stefano Minieri e Antonio Verrilli, Nuovo Dizionario di Economia, II edizione (Ed. Simone, Napoli, 1998).
36Karl Polanyi, La grande trasformazione (Einaudi, Torino, 1974).
37Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Secoli XV-XVIII: vol. I, Le strutture del quotidiano (Einaudi, Torino, 1982); vol. II, I giochi dello scambio (Einaudi, Torino, 1981); vol. III, I tempi del mondo (Einaudi, Torino, 1982).
38Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
39Antonio Graziadei, Prezzo e sovrapprezzo nell'economia capitalistica. Critica alla teoria del valore di Carlo Marx (Societa editrice Avanti!, Milano, 1923).
40Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
41Antonio Pesenti, Lezioni di economia politica, vol II. (Editori Riuniti, Roma, 1962). In effetti, nel caso di piccole e medie imprese il meccanismo con cui l’imprenditore accede al prestito di capitali è di norma di tipo bancario o obbligazionario, mentre per ciò che riguarda le grandi società per azioni la questione è assai più complessa: i possessori delle azioni societarie esprimono un consiglio di amministrazione che nomina un amministratore delegato il quale, pur non essendo stricto sensu un capitalista, agisce come se lo fosse, ovvero con il preciso incarico di massimizzare i dividendi annuali delle suddette azioni o, comunque, il loro valore borsistico.
42 Nikolaj Bucharin, Economia del periodo di transizione (Jaca Book, Milano, 1988).
43Evgenij Preobraženskij, Dalla NEP al socialismo (Jaca Book, Milano, 1970).
44Meghnad Desai, Marxian Economics (Basil Blackwell, Oxford, 1979) e citazioni ivi contenute.
45Antonio Graziadei, Prezzo e sovrapprezzo nell'economia capitalistica. Critica alla teoria del valore di Carlo Marx (Societa editrice Avanti!, Milano, 1923).
46Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Premesse ad una critica della teoria economica (Einaudi, Torino, 1960).
47Michio Morishima, Marx's Economics: A dual theory of value and growth (Cambridge University Press, Cambridge, 1973).
48Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
49Luigi Pasinetti, "Growing Sub-systems, Vertically Hyper-integrated Sectors and the Labour Theory of Value", in Cambridge Journal of Economics, vol.12, pages 125–134 (1988).
50 L’accumulazione di capitale è il processo in virtù del quale la quantità data dei fattori produttivi (mezzi di produzione e forza-lavoro) non è soltanto sostituita ma anche incrementata, attraverso il reinvestimento nel processo produttivo della parte di reddito sociale, individuale o dell’impresa, non destinata al consumo. Tale processo assume tuttavia una determinazione specificamente capitalistica quando l’incremento dei fattori produttivi è direttamente funzionalizzato all’espansione del capitale e alla crescita del profitto [di Giorgio Cesarale in Treccani Economia e Finanza (Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2012)].
51Sergio Cesaratto, Neo-Kaleckian and Sraffian Controversies on the Theory of Accumulation, Review of Political Economy, vol. 27, pages 154-182 (2015).
52Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
53Claudio Napoleoni, L’Equilibrio Economico Generale (Boringhieri, Torino, 1975).
54 Simon Clarke, Marx’s Theory of Crisis (Palgrave Macmillan, London, 1994).
55Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
56Karl Marx, Per la critica dell’economia politica (Editori Riuniti, Roma, 1979).
57Karl Kautsky, Il programma di Erfurt (Samonà e Savelli, Roma, 1971); Rosa Luxemburg, La crisi della Socialdemocrazia (PiGreco, Roma, 2023).
58https://www.leftcom.org/en/articles/2014-10-07/the-period-of-transition-and-its-dissenters
59Otto Bauer, La realizzazione del socialismo (Il Solco, Città di Castello, 1920).
60Ad esempio, la questione dell’indennizzo (parziale o totale) dei capitalisti espropriati, oppure la progressione nelle nazionalizzazioni, con i comunisti pronti ad operare molto velocemente, e i socialisti sostenitori di un metodo più lento che desse la precedenza quei settori privati già in avanzata fase oligopolistica (banche, assicurazioni, trasporti, energia, industria estrattiva, armamenti ecc.).
61Ernest Mandel e Fernand Charlier, L’URSS è uno Stato capitalista? (Samonà e Savelli, Roma, 1971).
62Per una serrata critica marxista all’intera parabola sovietica è utile leggere l’opuscolo divulgativo di Lenny Flank, Rise and fall of the Leninist State [Red & Black Publishers, St. Petersburg (FL), 2008].
63Amedeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (Lotta Comunista, Milano, 2009).
64Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
65Andrew Kliman, Reclaiming Marx's "Capital" [Lexington Books, Lanham (MD), 2006].
66Karl Kautsky, The Labour Revolution (Ruskin House, London, 1924).
67Paul Cockshott, "Calculation in-Natura, from Neurath to Kantorovich" University of Glasgow, 15 May 2008.
68Karl Marx, Critica al programma di Gotha (Ed. Riuniti, Roma, 1978).
69V. K. Dmitriev, Economic Essays on Value, Competition and Utility (Cambridge University Press, Cambridge, 1974).
70Ian Steedman, Marx dopo Sraffa (Ed. Riuniti, Roma, 1980).
71Per la visione marxiana del concetto di moneta è fondamentale la lettura di Suzanne de Brunhoff, La moneta in Marx (Ed. Riuniti, Roma, 1973), mentre per una panoramica completa della concezione classica della moneta è utile consultare Carlo Boffito, Teoria della Moneta (Einaudi, Torino, 1973).
72Karl Marx & Friedrich Engels, L’ideologia tedesca (Ed. Riuniti, Roma, 1976).
73George Orwell, La fattoria degli animali (Einaudi, Torino, 2021).
74David Lane, Rise and fall of State Socialism (Polity Press, Cambridge, 1996).
75Vedi nota 34.
76Arvid Brodersen, L’Operaio Sovietico (Gerardo Casini Ed., Roma, 1976).
77Due testi, fra i tanti, davvero emblematici sono quelli di Raniero Panzieri, Lotte Operaie nello Sviluppo Capitalistico (Einaudi, Torino, 1976) e di Mario Tronti, Operai e Capitale (Einaudi, Torino, 1966).
78Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, Torino, 2008).
79Karl Marx, Critica al programma di Gotha (Ed. Riuniti, Roma, 1978).
80Sergio Ricossa, Teoria unificata del valore economico (Giappichelli, Torino, 1981).
81Karl Marx, Il Capitale, voll. I, II e III (UTET, Torino, 2017).
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