Jaurès sulla maggioranza e la minoranza


En folkefiende”, in italiano “Un nemico del popolo”, è un dramma teatrale scritto dal famoso drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1906) nel 1882. Venne rappresentato a Parigi la prima volta al Théâtre des Bouffes du Nord il 10 novembre 18931, dove è molto probabile che Jean Jaurès2 lo abbia visto.


Questo dramma è ambientato “in una piccola città sulla costa meridionale della Norvegia3 contemporanea agli anni in cui Ibsen scriveva, dove il dottore dei Bagni, Tommaso Stockmann, scopre che l’acqua dell’impianto termale è contaminata e nociva alla salute. Dapprima il giornale socialista locale Il Messaggero del popolo sostiene la campagna del dottor Stockmann, ma, una volta che il fratello di Stockmann, il sindaco Pietro Stockmann, fa presente con una certa persuasione che dalle acque termali e i suoi Bagni dipende tutta l’economia del villaggio, e che il lavori di risanamento costerebbero troppo, la situazione cambia. Stockmann e la sua famiglia vengono isolati, malvisti ed attaccati dalla comunità. Stockmann non prono a compromessi diventa “un nemico del popolo”.


Jean Jaurès, che in quegli anni sta emergendo come leader socialista in Francia, scrive questa profonda riflessione che viene pubblicata anche in italiano sulla Lotta di Classe, l’allora organo del Partito Socialista Italiano, diretto da Camillo Prampolini.


Ibsen di Jean Jaurès 

Trattato da Lotta di Classe. Anno IV. N.3, 19-20 gennaio 1895.

Il possente dramma d’Ibsen: un nemico del popolo, ha avuto un esito entusiastico. È un dramma di un’attualità che colpisce, che mette a nudo tutte le menzogne, tutte le corruzioni della nostra società invecchiata e che suscita in noi non già un facile e grossolano eccitamento di nervi, ma una crescente emozione di coscienza. È la lotta della verità contro la menzogna, non la lotta astratta e scolastica, ma vivente, sensibile, la lotta che mette in gioco le rumorose passioni delle folle nei vasti meetings ed i dolori intimi nella cerchia della vita di famiglia.

Ma soprattutto, ed è su questo solo ch’io voglio oggi fermarmi, Ibsen pone davanti alla democrazia ed al pensiero il problema delle maggioranze e delle minoranze. Dove è la verità nell’ordine sociale e morale? «La maggioranza ha sempre ragione », dice il prudente tipografo. - «La maggioranza ha sempre torto», esclama Stockmann, apostolo e martire del vero. «Contate, dice egli, gli ignoranti e gli imbecilli che coprono la superficie della terra, e dite se essi non sono una maggioranza schiacciante. E che possono essi contro l’uomo che sa e che è in possesso d’una verità? Possono opprimerlo o sopprimerlo: non possono fare sì che egli non possieda la verità».

Intendete bene che io non voglio contraddire siffatte affermazioni. Tutta la storia dell’umanità le giustifica; quasi tutte le grandi scoperte furono dapprima disconosciute e beffate; tutte le grandi innovazioni politiche e sociali furono dapprima combattute violentemente e compresse dallo spirito di tradizione e di conservazione; e non siamo noi, minoranza, non siamo noi che contesteremo, il diritto delle minoranze di preparare e dirigere la storia.

Può darsi che giammai, fino a quando il regime capitalista sussisterà, noi arriviamo a raggruppare intorno all’idea socialista la maggioranza delle intelligenze e delle volontà; giacché è conseguenza appunto di tal regime il mantenere la folla degli uomini in uno stato di dipendenza intellettuale, politica e sociale; ciò non impedisce però che, fin da oggi, l’idea socialista sia la verità; ciò non impedirà che essa trionfi domani; poiché le maggioranze di tradizione e d’inerzia non fecero mai equilibrio nella storia alle minoranze coscienti e risolute, ed è qui il vero segreto del progresso umano, il quale sarebbe impossibile, dove si dovesse attendere per ogni movimento che tutta la massa umana avesse a scuotersi da se stessa.


Ma vi sono nel pensiero d’Ibsen, vero nella sua formula, in generale, non pochi lati che mi sembrano falsi; vi sono nella sua opera non poche tendenze che mi sembrano pericolose. So che parlando così, urto gli ibsenisti appassionati; ma ho anch’io la preoccupazione della completa sincerità e della libera individualità. Io rimprovero dunque, in primo luogo, ad Ibsen di dare a questa minoranza, la quale sola, secondo lui possiede il vero, un’apparenza troppo intellettuale e, forse, pedantesca. «Io studiai, dice Stockmann, ed essi no, lo so, ed essi no. Io posso analizzare quest’acqua e discernervi i microbi dannosi, ed essi non possono».

Benissimo, ma badate, o giovani, che applaudite quest’altero ripudio della folla: qual è il problema che è posto oggi davanti al mondo? È forse un problema tecnico? È forse una questione di calcolo trascendente, ed una ricerca delicata di laboratorio? No: è un problema sociale ed umano. Si tratta anche di conquistare all’olimpo della scienza e del pensiero l’adesione ed il rispetto della folla?

Ma questa ha una specie di superstizione per i grandi creatori e per i grandi nomi; essa fece un dio di Victor Hugo; essa eleverebbe altari al dottor Roux; persino quando si fa attenta a qualcuno di quei grandi matematici, le cui scoperte non hanno alcuna influenza immediata sul progresso delle cose umane, e che addomesticano solamente l’ordigno algebrico ed analitico, col cui mezzo noi abbiamo un dominio astratto sul mondo, essa s’inchinerà con assoluto rispetto.

Ma ciò che è necessario decidere ora, checché voi ne pensiate, è se il nostro regime sociale, e conseguentemente il nostro regime morale può e deve vivere. Ora, dunque, è proprio sicuro che la competenza di tale giudizio spetti soprattutto a coloro che hanno studiato ed a coloro che hanno letto? E l’operaio delle grandi fabbriche, che conduce la sua triste vita di caserma e di prigione, non ne sa egli sulla «libertà » del regime capitalista ben più di quanto ne sappiano tutti i dogmatizzanti e gli statistici dell’economia politica? Tutti gli inganni dalla perpetua menzogna finanziaria del nostro tempo, non ne sanno essi sulla menzogna essenziale della società presente quanto i raffinati del pensiero? Vi rammento, per adoperare il linguaggio d’Ibsen «quell’altro», che diceva nel vangelo: «Voi credete di camminare sulla terra ferma e non camminate che sopra delle tombe». E pensate dunque che coloro che sono sepolti vivi in queste tombe e che vegetano da schiavi nella menzogna e nella vigliaccheria capitalista, non giudichino meglio, se così posso esprimermi, dal disotto questa società menzognera che non coloro, i quali camminano alla superficie ed alla luce del sole?


Son dunque pronto, se così volete, a ripudiare anch’io e la maggioranza misoneista [N.d.c.: che odia l’innovazione] e la folla ignorante, a patto che voi ci mettiate in prima linea sia l’istituto sia la scienza ufficiale sia tutti i contraffattori d’economia politica o di morale al servizio del capitale. Sono sicuro, d’altra parte, che tale è il pensiero profondo d’Ibsen, e, che per tal riguardo, i «sostegni della società» completino e correggano il «nemico del popolo»; ma temo che «gli intellettuali» non s’immaginino che sono essi, oggi, quelli che formano la minoranza del progresso.

E poi lo confesso, mi sembra un po’ puerile opporre così la minoranza alla maggioranza come la luce alle tenebre. Nello sviluppo della storia, la maggioranza, anche se inerente o inetta, ha la propria funzione come la minoranza. Essa impedisce alla parte impaziente e generosa dell’umanità di trascinare questa in un nuovo ordinamento prima che la natura delle cose l’abbia reso possibile.

Ecco più di sessant’anni, per esempio, da che incomincia a disegnarsi il movimento di concentrazione capitalista, il quale prepara la concentrazione nazionale della produzione, che è come dire l’ordinamento socialista. Ecco dunque sessant’anni, da che gli spiriti illuminati ed arditi poterono presentire e preparare un nuovo ordinamento. Macché! Se la maggioranza, trattenuta dai propri interessi immediati, dalle proprie abitudini, dai propri pregiudizi, dai propri egoismi, dalla propria cecità, non avesse resistito, chi sa se le condizioni positive d’una società novella avrebbero trovato una sufficiente attuazione? Oggi stesso, è forse la sua resistenza che noi riconosciamo alla maggioranza? No, certamente, giacché è necessario ch’essa ci resista; è un suo dovere ed è nostro interesse; è questa la prova, con cui si distinguono dalle passeggere fantasie cerebrali le concezioni forti e vitali, in armonia con lo stesso movimento delle cose. No, ciò che noi rinfacciamo oggi alla maggioranza, ciò che mostra l’approssimarsi dell’ora decisiva, è che la resistenza stessa non è se non menzogna. In fondo, coloro che ci resistono dubitano di sé medesimi e dell’avvenire. Non è dunque più una maggioranza solida e vera che, fra poco, avremo contro di noi, ma un’ombra ed una menzogna di maggioranza.

Perché adunque, allora, l’eroe d’Ibsen, Stockmann, si scoraggia così presto? Per che cosa? per non essere stato compreso sin da principio! per essere stato maltrattato in un meeting! per aver visto rompere i vetri della sua casa! per essere stato circondato da intrighi, da calunnie, da tradimenti! Immaginava egli dunque che la vittoria fosse a buon mercato? ed è veramente un segno di forza ritirarsi, per evitare il contatto della cretineria o della malvagità umana, nella solitudine della propria coscienza?


In fondo, ed è ciò che m’inquieta, sotto il pretesto di salvaguardare la vita intima e profonda dell’individuo, l’ibsenismo va a finire, col suo disprezzo doloroso, in una specie di abdicazione mistica e d’isolamento morale, «I partiti, esclama Stockmann, pigliano gli uomini, li tagliuzzano e li rimescolano come le polpette ». Alla buon’ora, ed io v’intendo bene: non più sforzo comune, perché questa comunità è appunto un servaggio; chiunque trovasi in un partito è come quei Germani, che si legavano l’uno coll’altro per la battaglia. È una catena di combattimento, ma sempre una catena. E siccome codesta solidarietà forzosa è inevitabile nella battaglia, ebbene si rinunci alla battaglia e si cerchi un rifugio in se stesso come su una cima di montagna: «Io sono possente ora, benché io sono solo». Essere abbandonato da tutti è essere padrone di tutti, poiché non si è legato ad alcuno. E quale gioia se si potesse creare la solitudine della natura intorno a quest’alta solitudine interiore! «Come sarebbe dolce ora, esclama Stockmann, comperare a buon mercato un’ isola ed una foresta vergine!».

Ebbene, no! la solitudine non è vivente se non quando si portino con sé o le memorie o i desideri della vita ed anche le sue ferite. L’individualità di ciascuno ha bisogno, per alimentarsi, della vita universale, mossa ed umana. È la pioggia indistinta caduta dalla nuvolaglia vaga, che filtrata e canalizzata nella diversità dei terreni, fa la diversità delle sorgenti. E sono bene ingrati coloro che, piegati sul nero specchio delle sorgenti segrete, si beffano della banalità vagante delle vaste nubi!

Sono le onde dell’oceano, moltitudine innumerevole ed indistinta, che attraverso ai grandi sentieri dell’universale vita, alimentano la fontana misteriosa, dove l’uomo che soffre viene a sognare e, credendo obliare il mondo, si riflette.


La vera potenza per l’uomo non consiste nel rompere con la società e con l’azione per proteggere la solitudine della sua vita; la sua vera forza sta nel saper mantenere, persino nell’azione a cui egli si abbandona, la solitudine sacra in cui egli si trova; sta nel darsi senza perdersi e nell’ unirsi agli altri uomini senza cancellarsi in essi. Bisogna che l’uomo sia, nello stesso tempo, moltitudine e solitudine, pace e combattimento, individualità ed umanità. E noi pure, noi vogliamo l’isola inaccessibile, in cui si rifugia l’eroe d’Ibsen! ma non vogliamo che essa sia immobile; vogliamo che, come la nave di Delo [N.d.c.: mitica e inaffondabile imbarcazione di Teseo], essa ci permetta di affrontare tutti i mari, di raggiungere tutte le rive, tutti i combattimenti.

Noi pure, noi vogliamo una foresta vergine, ma che essa sia in noi, che sia la vegetazione possente dei nostri pensieri segreti, dei nostri sogni sconosciuti e che i suoi soffi e i suoi mormorii, anziché addormentare la nostra attività guerreggiante, la circondino, nella stessa battaglia, di frescura e d’intimità!

Comprendo molto bene ciò che attira verso Ibsen una parte della gioventù pensante. Essa vi trova la critica decisiva, non più solamente economica, ma morale della società di finzione e di corruzione, che sta per crollare; e nello stesso tempo una specie di protesta anticipata contro ogni regolamentazione socialista ristretta, imponente a tutti una identica disciplina di pensiero, di coscienza e di azione.

Qui sta il malinteso, che è nostro dovere dissipare; per il fatto che se noi vogliamo attuare l’organizzazione collettivista o comunista della produzione è al fine di permettere il libero e completo sviluppo di ogni individualità umana; e gli ibseniani più intrattabili s’ingannerebbero se volgessero a noi le spalle.” 

 

Commento nostro

Perché abbiamo scelto questo breve brano di Jaurès su “Un nemico del popolo” di Ibsen?

Perché questo è un ottimo pretesto per introdurre le 3 “e”: espropriazione (forzando il termine inglese exploitation, che dovrebbe essere tradotto in sfruttamento), egemonia, e ecologia. Queste 3 “e” sono presenti nel trafiletto di Jaurès su Ibsen e vorremmo fare questa digressione per poi tornare al nostro Jaurès.

Semplificando, possiamo dire che, il socialismo del XIX e del XX secolo è stato pressoché incentrato sul binomio espropriazione-egemonia. In altre parole, un limitato numero di persone, dette la “classe capitalista”, è in grado di “espropriare” la forza lavoro e il conseguente prodotto della (e dalla) maggioranza, la classe lavoratrice, e questo vantaggio socio-economico dà loro la possibilità di dominare la sfera politico-culturale esercitando di fatto una egemonia. Il solo smascherare la meschinità di tale sistema di espropriazione, si pensava, avrebbe dovuto avviare la classe lavoratrice verso la soppressione del sistema esistente a favore di uno senza classi, mentre, nella realtà l’egemonia politico-culturale si mette costantemente di traverso, dividendo i lavoratori e dissipandone l’azione. Infatti, nonostante alcuni grandi sconvolgimenti, vedi l’Unione Sovietica, vedi la Cina e altre rivoluzioni non riuscite in Europa e altrove, nei secoli XIX e XX non si è raggiunto lo scopo prefissatosi di abbandonare il sistema capitalista per quello socialista a livello globale.

Lo smascheramento dell’espropriazione da solo, quindi, non è stat0 in grado di sopraffare l’egemonia. Ora, i membri di queste due classi, quella egemonica e quella espropriata, non devono per forza di cose sapere di appartenere all’una o all’altra; e questo è in realtà il nodo fondamentale. Le cose possono benissimo funzionare in modo “perfettamente ingiusto” senza dover essere a conoscenza che la società sia divisa in due classi. La realtà è ancora più insidiosa se si considera che queste due classi non sono divise da un netto spartiacque, ovvero un oceano di nulla, ma sono divise da una nebulosa di tutto. Diventa quindi molto difficile auto-identificarsi in una delle due a meno che non si appartenga agli estremi opposti (Jeff Bezos e pochi altri come lui contro i 3.3 miliardi di lavoratori in stato di semi schiavitù nel mondo4).

Ma Ibsen ci dà la possibilità di aggiungere la 3a “e” al quadro appena delineato, quella di ecologia. Non è quindi una novità che la produzione industriale inquini le falde acquifere, e che questo arrechi danno alla salute della comunità e degli utenti delle Terme. Gli interessi economici si scontrano con quelli della salute delle persone e del l’ambiente. Questo era il problema che Ibsen poneva nel 1882 e che oggigiorno è purtroppo storia quotidiana. Può questa questa terza “e” aggiungere quella pressione sociale per sconfiggere l’effetto dell’egemonia? La grande differenza tra espropriazione ed ecologia e che la prima è subita univocamente dalla classe dei lavoratori, mentre i danni alla seconda interessano le due classi. Sicuramente i più poveri subiscono un effetto dei danni arrecati all’ecologia in modo molto maggiore della classe capitalista, per esempio vivendo in uno slum (bidonville) piuttosto che in una tenuta nel verde, ma i cambiamenti climatici coinvolgono tutti. Quando la pressione messa dalle 2 “e”, espropriazione e ecologia, potrebbe soverchiare quella esercitata dalla “e” di egemonia, e se questo è plausibile, sarà la maggioranza o la minoranza a determinare la soppressione del sistema capitalista?

Torniamo a Jaurès quindi: quando egli scrive è da poco passato apertamente al socialismo marxista, siamo agli inizi del caso Dreyfus. Gli scontri e gli eccidi dei primi anni ‘90, vedi, per esempio, il massacro della fusillade de Fourmies, lo avevano convinto dell’importanza della lotta parlamentare. Jaurès si era già distinto nella prima fase caso Calvignac, il minatore-sindaco, licenziato ingiustamente. Nel novembre del 1893 alla Camera aveva formato l’Unione socialista. Nonostante non fosse ancora il Jaurès leader della SFIO, quando scrive questo articolo, è già un punto di riferimento importante tra i socialisti francesi.

Jaurès coglie subito il nodo della questione: “il problema delle maggioranze e delle minoranze” scrive. D’altronde Jaurès ha davanti a se una tradizione, quella francese, la quale è impregnata di neo-giacobinismo, ovvero l’esaltazione della minoranza illuminata, per non parlare poi del cesarismo. Jaurès è un esperto di rivoluzione francese, quando parla di maggioranza e minoranza sa di quel che parla. La tradizione della minoranza illuminata è ancora molto forte se si considera che l’estrema sinistra francese è composta principalmente dalle correnti di Guesde e di Vaillant. Guesde è per la purezza rivoluzionaria, l’ascetismo. Vaillant per la disciplina di una minoranza rivoluzionaria, caratteristica del blanquismo.

Rivalutare il ruolo della maggioranza in Francia quindi non era scontato. Ma la cosa che impressiona è anche l’agevolezza con la quale tra le righe fa scivolare il concetto di egemonia: “giacché è conseguenza appunto di tal regime il mantenere la folla degli uomini in uno stato di dipendenza intellettuale, politica e sociale;”, sottolineando, anni prima di Gramsci, il ruolo fondamentale degli intellettuali: “temo che «gli intellettuali» non s’immaginino che sono essi, oggi, quelli che formano la minoranza del progresso”. Anni prima della polemica tra il “rinnegato” Kautsky, l’ “opportunista” Martov, la “critica” Luxemburg e il leader bolscevico Lenin, Jaurès fa notare la natura apparentemente contraddittoria della maggioranza:

Nello sviluppo della storia, la maggioranza, anche se inerente o inetta, ha la propria funzione come la minoranza. Essa impedisce alla parte impaziente e generosa dell’umanità di trascinare questa in un nuovo ordinamento prima che la natura delle cose l’abbia reso possibile.

Questo è un nodo cruciale già presente nel pensiero marxista in tempi non sospetti. Si fonda, come menziona Jaurès, sugli ultimi 60 anni di storia francese. Jaurès aveva pure commentato che “anche se la Comune di Parigi avesse vinto non sarebbe stata in grado di trasformare fondamentalmente la società […] avrebbe potuto forse far avanzare lo sviluppo della Terza Repubblica di dieci anni, ma non avrebbe fatto sbocciare il socialismo da terra5.

Personalmente la cosa che troviamo più preziosa di questo breve trafiletto è la denuncia all’ascetismo intransigente, “impossibilista” caratteristico di molti gruppi attuali:

In fondo, ed è ciò che m’inquieta, sotto pretesto di salvaguardare la vita intima e profonda dell’individuo, l’ibsenismo va a finire, col suo disprezzo doloroso, in una specie di abdicazione mistica e d’isolamento morale,

Questa è la fine che fa Bordiga e i suoi seguaci, ed altri “impossibilisti”, tipo il SPGB: si ritirano nella loro isola di giustezza aspettando la catastrofe. Ma Jaurès è propositivo e ricorda che: “la sua vera forza sta nel saper mantenere, persino nell’azione a cui egli si abbandona, la solitudine sacra in cui egli si trova; sta nel darsi senza perdersi e nell’unirsi agli altri uomini senza cancellarsi in essi.”. Ovvero far parte di un tutto non vuol dire annullarsi come individuo ma al contrario elevarsi a comunità.



Cesco

2Cesco. Jean Jaurès: Estratto da The Life of Jean Jaurès di Harvey Goldberg. Adattamento Socialista. Luglio 26, 2021.

5Jean-Numa Ducange, The Communards Were More Than Just Beautiful Martyrs, 03-18-2021, Jacobin.

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