L’ultima intervista di Lelio Basso Né riformista, né leninista: Lelio Basso e la sua difficile ricerca del socialismo autentico





I) Introduzione all’ultima intervista di Lelio Basso



Lelio Basso 1 morì a Roma sabato 16 dicembre 1978. Due giorni prima incontrò, verso le ore 16, il giornalista Piero Eleuteri dell’“Avanti!”, il quotidiano del Partito Socialista Italiano, e i due conversarono amabilmente per un paio di ore. Ne venne fuori un’interessante intervista pubblicata postuma, il successivo lunedì 18 dicembre, con un titolo in verità un po’ scialbo: “La mia speranza resta sempre l’unità del movimento operaio”. Ma non ci si poteva aspettare nulla di più, dato che il nuovo segretario del PSI, Bettino Craxi, da alcuni mesi aveva iniziato una vera e propria crociata antimarxista, che era culminata nel saggio scritto dallo stesso Craxi insieme al sociologo Luciano Pellicani, apparso su L'Espresso del 27 agosto 1978 ed intitolato “Il Vangelo socialista”. In esso si criticavano aspramente le dottrine di Karl Marx e, invece, si rivalutavano positivamente la figura e il pensiero del vecchio Pierre-Joseph Proudhon. Sul fatto poi che il teorico francese del mutualismo anarchico potesse esser visto come il precursore della linea di pensiero liberal-socialista, che stava assai a cuore alla dirigenza del PSI di quegli anni, ci sarebbe molto da dire e da obiettare, ma questa vicenda ci porterebbe troppo lontano dalle idee di Basso. Tuttavia, va chiarito il senso per la nuovissima direzione dell’“Avanti!” (Craxi stesso e Intini) di una tale intervista a un personaggio come Lelio Basso, che dopo decenni di militanza e di dirigenza, aveva lasciato il PSI in modo burrascoso nel 1964, proprio in opposizione alla nascita dei governi di centro-sinistra. Ma siccome l’obiettivo polemico di quegli anni per il PSI craxiano erano i legami ancora un po’ ambigui che continuavano a unire il PCI eurocomunista di Enrico Berlinguer con l’URSS e la sua “vulgata” leninista, anche un marxista convinto come Basso poteva risultare utile al partito se avesse esposto pubblicamente le sue critiche al leninismo e, in generale, al marxismo della Terza Internazionale. In somma, un po’ cinicamente si potrebbe riassumere così la questione: si critichino Lenin e il marxismo-leninismo da destra (Norberto Bobbio) oppure da sinistra (Lelio Basso), basta che li si critichino…

Ma a noi, che non siamo eccessivamente interessati alle complesse diatribe tra il PSI e il PCI di quegli anni 2, preme riportare l’ultima intervista a Basso in modo completo e imparziale, come una testimonianza importante della sua ricerca decennale del “socialismo autentico”, riservandoci solo qualche nota qui e lì, in modo da non influenzare troppo il lettore con idee preconcette e strettamente personali.


II) Prefazione di Pietro Eleuteri all’intervista (“Avanti!” – 18 dicembre 1978).


Questa intervista mi è stata rilasciata giovedì scorso alle 16. Il giornale l’aveva programmata per partecipare alla celebrazione del 75° compleanno di Basso che avrebbe dovuto svolgersi ieri. Abbiamo parlato per circa due ore. L’ho visto molto stanco ma non provato nel fisico. O forse sono rimasto ingannato dall’entusiasmo che esprimeva con i gesti e con le parole. Non sembrava certo alla vigilia della fine. Rimasi in parte sorpreso tanto che, tra le diverse domande, me ne sfuggì una sulla sua frenetica attività. Penso che sia giusto pubblicare l’intervista, forse l’ultima concessa, così come era, senza aggiornarla alla tragica realtà della morte.

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Così recita il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. La stesura è di Lelio Basso e contiene tutta una filosofia della politica che si precisa nei primi 27 articoli, quelli relativi ai diritti civili, ai quali lavorò insieme a Giorgio La Pira, e poi nell’art. 49, quello che stabilisce il diritto di associazione in partiti, visti, questi, come il centro della vita politica («se questo sistema non ha funzionato è per difetto dei partiti, non perché è errato» diceva Basso).

È una linea seguita in mezzo secolo di attività, quella di vedere le cose sempre crescere dal basso – accettandone i rischi e scontandone le possibili contraddizioni – in cui il costituzionalista, l’uomo di diritto e il socialista, meglio, il rivoluzionario, s’intrecciano e non potrebbe essere altrimenti. Si legano anche i discorsi: riforma del parlamento, leninismo, storia del PSI, l’attuale impegno per la difesa dei diritti dei popoli, divenuto il punto più importante dell’azione di Basso da quando, nel 1968, lasciando il PSIUP, decise di non aderire più ad alcun partito.

Parliamo a lungo nello studio di Basso dietro il Senato, nel palazzetto in cui ha sede l’ISSOCO 3, la fondazione creata da lui tre anni fa e che lo Stato ha riconosciuto. Un centro studi che potrebbe svolgere, per patrimonio librario e documentazione di cui dispone, un’attività tripla rispetto all’attuale se solo avesse di più mezzi. La conversazione è viva, il passato risulta attualizzato, lo storico non prende mai il sopravvento sul politico, se non per evitare giudizi avventati.

Nel 1921, a diciotto anni, prese la prima tessera. Quella del PSI e non quella del PCI: «perché già allora ero convinto che fosse inapplicabile in occidente il modello leniniano di rivoluzione, anche se ammetto che in quel primo dopoguerra, fino al ‘21 in Italia e fino al ’23 in Germania, la crisi in atto potesse giustificare le speranze filobolsceviche. Ma subito dopo risultò chiaro, e in questo fu determinante l’elaborazione di Rosa Luxemburg, che la rivoluzione in occidente sarebbe stata di tipo totalmente diverso» ricorda Basso.


III) L’intervista


Come non-leninista della prima ora, come vedi l’attuale polemica sull’argomento?

«Io rispetto Lenin, non solo perché ha fatto una rivoluzione, ma anche per le sue qualità tattiche eccezionali che possono insegnarci molte cose: non nell’imitare ciò che ha fatto, ma nel capire l’analisi delle cose concrete. Leggendo le opere di Lenin si avverte una continua contraddizione. Ma è solo apparente. In realtà non si contraddice, ma trova la formula adatta a quella determinata situazione. Se la situazione cambia, cambia pure la formula. Lenin rimane quindi un grande rivoluzionario da cui c’è molto da imparare».


Marxismo-leninismo, leninismo, marxismo. In che misura Lenin è “figlio” di Marx?

«Il fondamento del suo [di Lenin n.d.r.] pensiero è almeno per metà erede della tradizione rivoluzionaria russa e quindi del populismo russo. Sto scrivendo un libro su questo 4 e ho letto tutti i populisti russi delle cui opere circolino traduzioni in lingue occidentali. Ce n’è uno di cui non si parla: Pëtr N. Tchačëv. Se lo leggi ci trovi tutto il Lenin di “Che fare?”. Cioè, il tipo di partito adatto a combattere la società zarista, prima di Lenin l’ha scoperto e teorizzato Tchačëv, il cui pensiero ha impregnato una generazione di rivoluzionari russi. Lenin lo ha letto e lo ha citato. In sostanza l’idea di partito fortemente centralizzato viene dal populismo e non è certo marxista».


Ma può avere allora ancora attualità il leninismo?

«Io credo che sia ancora oggi valido per i paesi non sviluppati. Una società precapitalistica ha veramente un potere centrale da conquistare. Quindi un partito fatto da rivoluzionari professionali, inquadrati quasi militarmente, che si preparano per l’assalto al potere e poi, dall’alto, cercano di costruire il socialismo, può essere in questi casi una formula valida. Ma nelle società capitaliste sviluppate ciò non può esistere. Le interconnessioni tra Stato e società sono tali che non si configura più un potere staccato da conquistare: non c’è un “Palazzo d’Inverno”. Senza contare che qui la classe operaia è talmente integrata da non essere disponibile per un salto così radicale. Ci vuole quindi un altro tipo di rivoluzione, nel lungo periodo, che si realizzi nella società civile, nei rapporti umani, nei valori, nella coscienza dell’uomo. Sono formule generiche, certo, ma nessun uomo può avere la ricetta in tasca. Spetta però ai partiti muoversi in questa direzione».


Come, partendo da Marx? O il marxismo è effettivamente morto?

«Partendo anche da Marx. Io credo che il pensiero di Marx non sia stato scoperto fino in fondo dai partiti. Sto preparando un convegno su Engels proprio perché ritengo che da lì inizi la deformazione di Marx, con l’”Antidühring”, e poi viene Kautsky. Il marxismo della socialdemocrazia tedesca è quello di Kautsky: non è già più marxismo. Lenin lo deforma ulteriormente prendendo a sua volta da Kautsky. I partiti della Seconda e della Terza Internazionale, quindi, in realtà, non si sono cimentati mai con il pensiero originale di Marx. Occorre tornare alle origini. E in quest’opera quelli che ci possono aiutare di più a capire sono Rosa Luxemburg e Antonio Gramsci».


Anche dall’Est comincia a crescere una contestazione del marxismo ad opera di marxisti…

«C’è un equivoco di fondo. Vale il discorso per i “nouveaux philosophes” in Francia o per Lucio Colletti in Italia. Si tratta di persone che hanno avuto il torto di credere che il marxismo fosse il leninismo e, accortesi che è tutta un’altra cosa, parlano di crisi del marxismo. In realtà hanno fatto un errore prima, ed ora ne commettono un altro».


Ma partendo proprio dal giudizio sul marxismo oggi si delineano più marcatamente le differenze tra le componenti storiche del movimento operaio…

«Io non credo che ci sia un modo socialista e uno comunista o, se preferisci, una via parlamentare e una via leninista o, magari, la terza via di cui si parla spesso. Storicamente, in determinate condizioni, c’è un solo modo per arrivare al socialismo. Si tratta di saperlo trovare. Le diversificazioni del movimento operaio sono soggettive, perché ciascuno crede di aver scoperto la via al socialismo. Qual è stata sempre la speranza? Che attorno a una strategia valida si potesse riformare l’unità del movimento operaio. Ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che la scissione del ’21 non avesse più ragione d’essere almeno da quando si verificò che non esisteva più la possibilità leninista che, invece, allora ad alcuni sembrava credibile».


Ma le divisioni sono rimaste e per un certo verso si sono accentuate. Già nel periodo del secondo dopoguerra, tu stesso, quando eri segretario del PSI 5, ti sei trovato di fronte a una strategia comunista che non condividevi. C’erano stati contrasti su alcuni punti della Costituzione, ad esempio sull’articolo 7, e, prima ancora, sul referendum istituzionale 6.

«Il dissenso c’era e riguardava due nodi, due errori che ancora ci portiamo appresso tutti. Uno riguarda la concezione del potere, da prendere quasi fosse qualcosa di staccato dalle strutture sociali, mentre a mio avviso esso è incarnato nella società. L’altro è il rapporto Stato-Chiesa e, per quello che ci riguarda, il rapporto con i cattolici. Io ho sempre sostenuto che il rapporto con la Chiesa si risolve sviluppando la coscienza democratica dei cattolici. Questo era il compito prioritario. E, più in generale, a me non è mai interessata una trattativa di vertice con la DC, ma una maturazione della coscienza cattolica. Allora mi trovai quasi isolato. Ci furono contrasti con Togliatti, ma anche all’interno del mio partito. Era tutta una linea che io vedevo per il PSI (nella società, per trasformare la società e creare le condizioni di un’alternativa nel Paese) ad entrare in contrasto con la strategia togliattiana dell’intesa tattica con la DC. Io speravo che, nella misura in cui il partito socialista avesse preso l’iniziativa di elaborare una strategia rivoluzionaria nella società, avrebbe esercitato un’influenza positiva anche sul PCI».


Ma questa influenza non ci fu, prevalse l’unità di vertice e il rinvio del confronto.

«Io sono stato sempre fortemente unitario, ma non nel senso che noi socialisti dovessimo essere, come siamo stati per lungo tempo, i “reggicoda” del PCI. Credo di esser stato uno dei pochi, adesso c’è Craxi, a non aver mai avuto complessi di inferiorità verso i comunisti. Ho sempre creduto che la mia posizione teorica fosse molto più forte della loro, ma ho riconosciuto, viceversa, che in molti altri aspetti (dallo spirito di militanza all’organizzazione ecc.) il PCI fosse superiore a noi e che quindi dovessimo imparare. Per me l’unità era un reciproco influenzarsi, ciascuno per la sua parte migliore. Nella parte migliore del PSI io mettevo, ad esempio, pure certe tradizioni nazionali come quelle riformiste. I Prampolini, i Massarenti, i Baldini, i Costa avevano fatto un’opera altamente rivoluzionaria. Cioè la capacità di far prendere coscienza alla classe operaia, di trasformare operai, contadini e braccianti in uomini coscienti dei propri diritti. Io considero questa un’opera rivoluzionaria. Questa tradizione andava ripresa, sviluppata e invece fu buttata via. Questa fu l’impostazione che cercai di dare al partito durante il periodo della mia segreteria fra difficoltà enormi (eravamo usciti distrutti dalla scissione di Saragat e non avevamo fondi). Tale impostazione fu spazzata via con il Fronte Democratico Popolare 7».


Poi ci fu per te un lungo periodo di emarginazione. Rientrasti nel comitato centrale solo al Congresso di Torino 8 e poi in direzione solo a quello di Venezia nel 1957.

«E mi ritrovai di nuovo a lottare contro l’alleanza con la DC. I termini erano comunque diversi. Allora quell’alleanza comportava la rottura con i comunisti e, per le ragioni che ho detto, pur non essendo mai stato succube, non ho mai voluto rompere e non voglio rompere con un partito che rappresenta comunque la maggior parte delle forze operaie. C’era poi la condizione subalterna nei confronti della DC. Non è vero che il centro-sinistra sia nato bene e poi sia crollato con la crisi De Lorenzo 9 ecc. Era nato male, come denunciai in Parlamento nel dicembre del 1963, quando lessi la dichiarazione a nome dei deputati della sinistra [socialista n.d.r.]. Considero quello il mio più bel discorso di sempre 10».


Sei stato fra i fondatori del PSIUP, ma, dopo esserne stato presidente, non ne hai seguito fino in fondo le sorti.

«La rottura [col PSI nel 1964 n.d.r.] fu per me un dramma. Partecipai alla costituzione del PSIUP anche se non avevo molto in comune con la corrente maggioritaria che al PSIUP diede vita. Ci legava, però, fortemente il rifiuto della politica che nel PSI aveva preso il sopravvento. Ho lasciato il PSIUP nel 1968 al congresso di Napoli. La rottura avvenne mesi prima sulla Cecoslovacchia 11. Da allora sono fuori da ogni partito».


Ma continui a far politica e non solo come parlamentare. Qual è una definizione sintetica della tua posizione attuale?

«È sempre la stessa. Io rimango fedele alla ricerca dell’unità attraverso l’elaborazione di una strategia nuova e più adeguata al momento. Se ci fosse un partito che si muovesse in questa direzione, ci entrerei».


Sei uno dei padri della Costituzione e siedi in Parlamento ininterrottamente da 31 anni 12. L’assenteismo esiste? E se esiste, è un male incurabile?

«Se ci si ostina a far funzionare il Parlamento con regole ottocentesche, non può che esservi il risultato che vediamo. Sono convinto che occorra avviare una profonda riforma dell’istituto parlamentare, prendendo atto del peso crescente dei partiti nella direzione della vita politica. Peso previsto del resto già dalla Carta costituzionale, aumentato dallo stesso regolamento parlamentare che assegna ai gruppi il ruolo di emanazione dei partiti (quindi soggetti al loro controllo) e codificato dal finanziamento pubblico ai partiti. Perché il Parlamento resti il pilastro della democrazia deve adeguarsi alla nuova realtà. Io penso a un istituto più snello: una sola camera con non più di 500 deputati, divisi in diversa misura in tre sezioni, che dovrebbero esaurire i tre compiti affidati al Parlamento, e cioè: direzione politica, funzione legislativa e funzione di controllo. Il lavoro, soprattutto legislativo e di controllo, dovrebbe esser svolto in commissioni, a tempo pieno, lasciando alla sezione “politica” i grandi dibatti, la fiducia al governo ecc.».

Sei appena tornato dal Brasile, pochi giorni prima eri in Giappone e i tuoi collaboratori dicono che Parigi, Londra e Francoforte sono destinazioni abituali, come un tragitto casa-ufficio…

«Sono molto stanco, ma ho molte cose da fare, soprattutto per la “Fondazione” e per la “Lega per i diritti dei popoli” 13. È un’impresa che è cresciuta e si è affermata più del previsto e che richiede un continuo lavoro di contatti, di viaggi e di riflessioni. Ci sono in cantiere numerose iniziative che non possono aspettare e che devo portare a termine. A marzo spero che prenda il via il “Tribunale permanente dei popoli” che trae ispirazione dal “Tribunale Russel II” 14 sull’America Latina. Avremo subito da esaminare le richieste che vengono dall’Iran, dal Sahara ex-spagnolo, dalle Filippine, dall’Eritrea e dall’Argentina. Sarà un’istituzione di altissimo livello e di notevole credibilità a cui hanno assicurato la partecipazione noti giuristi e personalità di rilievo di tutto il mondo».


Ma c’è anche un’attività inquirente, per restare nei termini giuridici, da parte della “Fondazione”, di studio, cioè, delle diverse situazioni di oppressione imperialista.

«Abbiamo in preparazione diverse iniziative per il prossimo anno. Una conferenza in Olanda, per esempio, sul ruolo delle Chiese in America Latina. Sarà importante perché verrà dopo il sinodo dei vescovi latino-americani di Puebla, dove sembra che andrà anche il Papa. A marzo-aprile una conferenza a Caracas sulla situazione del rifugiato politico latino-americano, su come è costretto a vivere la sua condizione giuridica, economica, morale e umana. Sarà presieduta dall’attuale presidente della Repubblica del Venezuela, Carlos Andrés Perez, che per quella data non sarà più in carica. In maggio, ad Algeri, è programmata una conferenza sulla dipendenza tecnologica, cioè su come la tecnologia viene usata dall’Occidente per imporre una dipendenza ai paesi del Terzo Mondo. Tutti temi particolari che riguardano lo studio dell’imperialismo. In sostanza la continuazione della Conferenza di Algeri sull’imperialismo culturale svoltasi nel 1977».


L’attività del Tribunale Russell 15 prima e Fondazione e della Lega poi, sono state da alcune parti considerate parziali. Ti si rimprovera, in sostanza, di non prestare pari attenzione alla repressione ad Est.

«Quello che si verifica in Occidente e che chiamiamo “imperialismo”, secondo l’interpretazione marxista, è un fenomeno connaturato all’economia capitalistica. Cioè il capitalismo sviluppato deve arrivare per forza allo sfruttamento di altri popoli. Il mercato internazionale è un meccanismo che porta necessariamente all’oppressione. Io la definisco [l’oppressione n.d.r.] una forma fisiologica di imperialismo. Diverso è il discorso per quello che riguarda l’egemonismo sovietico, o come lo vogliamo definire. Io sono il primo a riconoscerne l’esistenza. Vengo da Parigi dove ho presieduto una tavola rotonda sull’Eritrea. Ho detto espressamente che si sta commettendo un genocidio 16 e che è grave che ciò avvenga con il concorso di Paesi come l’URSS e Cuba. Non ci rifiutiamo quindi di condannarlo. Il problema non è questo. Io non ritengo che il sistema di questi paesi “socialisti” – che io poi non considero davvero socialisti, ma questo è un altro discorso – porti per ragioni economiche alla necessità di opprimere. In questo caso ci sono problemi di potenza. Cioè l’URSS va cercando non tanto di sfruttare l’Eritrea, ma di avere basi sul Mar Rosso. È una competizione tra potenze, con gli USA da una parte e la Cina dall’altra. Noi naturalmente prendiamo posizione contro questo fenomeno. Per il decennale della [invasione n.d.r.] della Cecoslovacchia abbiamo fatto un seminario a Milano. Ma io continuo a pensare che per combattere determinate situazioni bisogna conoscere i fenomeni che le originano. E commetteremmo un errore mettendo sullo stesso piano situazioni che sono strutturalmente e storicamente diverse».


DAN KOLOG



1Per una buona biografia di Lelio Basso si può agevolmente consultare la seguente opera enciclopedica: Piero Craveri - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 34 (1988), edito da Treccani: https://www.treccani.it/enciclopedia/lelio-basso_%28Dizionario-Biografico%29/

2Un lettore curioso troverà invece soddisfazione nel seguente saggio storico di Marco Gervasoni: La Guerra delle Sinistre - Socialisti e comunisti dal '68 a Tangentopoli (Marsilio, Padova, 2013).

3È “l’Istituto per lo Studio della Società Contemporanea”, fondato da Lelio e Lisli Basso nel 1975 a Roma.

4Lelio Basso, Socialismo e Rivoluzione (Feltrinelli, Milano, 1980) [incompleto].

5Lelio Basso fu segretario del PSI nel breve e difficile periodo dal 14 gennaio 1947 al 5 luglio 1948, ovvero quello compreso tra la scissione saragattiana di Palazzo Barberini e la sconfitta elettorale del Fronte Democratico Popolare.

6Qui Eleuteri si riferisce principalmente all’articolo 7 della Costituzione che regola i rapporti tra la Repubblica Italiana e la Chiesa cattolica, il quale recepisce sia il Concordato che i Patti Lateranensi. Togliatti, a differenza di Nenni e di Basso, fu favorevole a tale articolo, anche se per motivi meramente tattici e non ideologici. Per “referendum istituzionale” s’intende quello del 2-3 giugno 1946 relativo alla scelta tra monarchia e repubblica.

7Vedi nota 5.

8Eleuteri sta parlando del XXI Congresso del PSI di Torino (31 marzo–3 aprile 1955) e del XXXII Congresso del PSI di Venezia (6–10 febbraio 1957).

9Basso si riferisce alla famosa crisi del primo governo del “centro-sinistra” organico (5 dicembre 1963 - 23 luglio 1964), guidato da Moro ed estremamente ambizioso in termini di progetti di riforme. Alla sua caduta, determinata principalmente dalla cosiddetta “crisi della lira”, non fu estranea però anche l’attività di settori delle forze armate, dei carabinieri e dei servizi segreti militari, i quali, ostili alla partecipazione del PSI al governo, erano forse arrivati a ideare un’ipotesi golpista denominata “Piano Solo” il cui principale ispiratore sarebbe stato, almeno secondo il giornalista Lino Jannuzzi, lo stesso comandante dei Carabinieri, il gen. Giovanni De Lorenzo.

11l riferimento è all’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche (e di altri paesi aderenti al Patto di Varsavia) il 20 e il 21 agosto del 1968 per porre fine all’esperimento politico noto come “Primavera di Praga”. Mentre i PSI-PSDI unificati condannarono l’evento, il PCI si rifiutò di farlo in modo chiaro, mentre il PSIUP lo appoggiò con una veemenza di gran lunga superiore a quella comunista. La cosa, ovviamente, irritò in modo profondo l’ala più antistalinista del partito (Basso, Libertini e Lussu).

12Lelio Basso era stato deputato socialista (o psiuppino) per le prime cinque legislature repubblicane, ossia dall’8 maggio 1948 al 24 maggio 1972. Poi, una volta abbandonato il PSIUP, divenne per due volte Senatore della Repubblica Italiana (nelle legislature VI e VII) dal 25 maggio 1972 al 16 dicembre 1978. Venne eletto entrambe le volte come candidato indipendente nelle liste del PCI, collocandosi di fatto nell’area della cosiddetta “Sinistra Indipendente”.

13“La Fondazione” di cui si parla in questo punto non è la “Fondazione Lelio e Lisli Basso” che si sovrappose all’ISSOCO [3] come ente morale riconosciuto dallo Stato, ma la “Fondazione internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli” che era la sezione italiana della “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli”. Si tratta di un’organizzazione internazionale di giuristi di orientamento socialista e fortemente antimperialista.

14Il “Tribunale Russell”, chiamato originariamente anche “Tribunale internazionale contro i crimini di guerra”, fu un tribunale di opinione, ossia un organismo indipendente non giurisdizionale fondato da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre nel novembre 1966, con lo scopo iniziale di indagare i crimini commessi dall'esercito statunitense nella guerra del Vietnam, facente seguito alla pubblicazione del noto libro di Russell “War Crimes in Vietnam”. Lelio Basso ne era l’unico membro italiano.

15Idem.

16[14] Basso si riferisce alla dura repressione della guerriglia eritrea operata dal regime filosovietico etiope guidato da Mènghistu Hailé Mariàm, uno dei leader del partito DERG. Il DERG fu al potere ininterrottamente in Etiopia dal 1974 al 1991.

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