Il Socialismo e il Leviatano Le disavventure di socialisti e comunisti nei loro rapporti con il potere statale tra 1848 e 1991 PARTE III


Dal secondo dopoguerra alla dissoluzione dell’URSS

 

 

 

IX) L’ascesa del “socialismo di Stato” dopo la II Guerra Mondiale

 

La sconfitta nel 1945 delle potenze dell’Asse (Germania, Giappone, Italia ed altri paesi satelliti dell’Europa centrale e orientale) ad opera di una vasta coalizione alleata nella quale l’URSS giocava un ruolo molto rilevante, portò un enorme prestigio al modello sovietico a livello internazionale, soprattutto nelle nazioni extra-europee dove la lotta contro il giogo coloniale o semi-coloniale (principalmente di Regno Unito, Francia e Portogallo) era (o sarebbe giunta presto) all’ordine del giorno. Inoltre, nei paesi dell’Europa orientale, dove l’URSS godeva sì di un certo consenso tra i ceti popolari, ma non generalizzato, anche a seguito delle atrocità commesse dall’Armata Rossa durante la “liberazione” di tali zone, furono la nota “spartizione di Jalta” e la successiva “guerra fredda” ad impiantare il “socialismo reale” in modo molto rapido (1945-1948). Fanno però eccezione due Paesi balcanici, la Jugoslavia e l’Albania, dove la conquista del potere da parte dei locali partiti comunisti avvenne grazie al ruolo egemonico da essi giocato nei rispettivi eserciti partigiani che lottarono vittoriosamente contro le truppe dell’Asse. Molto rozzamente possiamo indicare quindi due linee di espansione del “socialismo reale” nel periodo 1945-1956, quella europea orientale e sud-orientale, che darà luogo alle cosiddette “democrazie popolari”: Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Albania. E quella estremo-orientale, caratterizzata da fenomeni rivoluzionari anticoloniali a base principalmente contadina, diretti da partiti comunisti o da movimenti filocomunisti, che si dipanò su un vasto arco esteso dalla penisola coreana (Corea del Nord), all’intera Repubblica Popolare Cinese (che presto comprenderà anche il Tibet, ma non l’isola di Formosa), fino all’Indocina ex-francese (Vietnam del Nord). Successivamente anche il Vietnam unificato (1976) e il Laos (1975) in Asia, insieme a Cuba (1961) nell’America Centrale, seguiranno il modello “realsocialista”, imitati poi dai tentativi più o meno effimeri e velleitari di Angola, Benin, Congo-Brazzaville, Etiopia, Mozambico, Somalia, Yemen del Sud, Afganistan, Cambogia e Grenada. Al momento in cui scriviamo, invece, solo Corea del Nord, Cina, Vietnam, Laos e Cuba si considerano ancora Paesi ufficialmente “socialisti” guidati da un partito unico sedicente “marxista-leninista”, benché in realtà si tratti ormai di economie parzialmente di mercato rette da un’imprenditoria mista pubblico-privata.

 

Abbiamo visto nella Parte II di questo lavoro che la concezione generale dello Stato tipica del movimento comunista internazionale si era, almeno apparentemente, fermata e cristallizzata alle tesi leniniane di “Stato e rivoluzione” [1] del 1917. Ovvero all’idea della sopravvivenza della forma-Stato, sebbene in totale discontinuità rispetto alla precedente compagine “borghese”, durante la fase di “dittatura del proletariato”, operata mediante il potere assoluto di una struttura piramidale di “soviet” controllati ed imbrigliati da un partito di avanguardia retto, a sua volta, da un rigido “centralismo democratico”. Con le aggiunte staliniane del 1936 e brezneviane del 1977 si sancì poi, precisando così le brevi affermazioni leniniane sul “semi-stato” [2], che la sopravvivenza della forma-Stato si sarebbe estesa anche a tutta la “fase inferiore del comunismo” (o “socialismo” secondo la dizione marxista-leninista) che l’URSS proclamava di aver già raggiunto nella metà degli anni ’30 del XX secolo. È appena il caso di ricordare che la più rigorosa confutazione della pretesa di una “URSS socialista” venne elaborata dal comunista dissidente Amadeo Bordiga e dai suoi compagni di partito nel 1955 nel saggio “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi” [3], dove una tale compagine viene caratterizzata scientificamente come “industrialismo di Stato” nel quadro generale di un “capitalismo (non completamente) di Stato” per via della sopravvivenza di vaste aziende cooperative agricole dette kolchoz. Se però si pensasse che i due nuovi polloni del “socialismo reale” si fossero fermati de facto (e non solo de iure) a “Stato e rivoluzione”, si commetterebbe una grossa ingenuità. In effetti sia le “democrazie popolari” europee, sia le “repubbliche popolari” asiatiche, dovevano sciogliere un grosso nodo teorico per potersi accreditare come Paesi in marcia verso il socialismo o, addirittura, pienamente socialisti. Infatti, durante la presa del potere da parte dei locali partiti comunisti, il ruolo dei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati era stato assolutamente marginale o addirittura del tutto assente, in maniera completamente diversa dalle prime fasi della Rivoluzione nell’ex-impero zarista, ossia quelle che vanno approssimativamente dalla Rivoluzione di marzo del 1917 alla resa della Germania nel novembre del 1918. Se le vicende rivoluzionarie, specie in Jugoslavia, Cina, Corea e Vietnam, assomigliavano alquanto alla seconda parte della guerra civile russa, ovvero quella combattuta dall’inizio del 1919 alla fine del 1922, con vaste armate partigiane a base principalmente contadina che si strutturavano come veri e propri eserciti, mancava però tutta la fase iniziale, ovvero proprio quella enfatizzata da Lenin e dalla propaganda del Komintern relativa alla “democrazia dei soviet”. Inoltre, almeno in Asia, il ruolo di avanguardia assegnato al proletariato industriale in Russia fu quasi del tutto assente. Le due soluzioni, usate rispettivamente dai teorici jugoslavi, russi e bulgari (principalmente Josip Broz “Tito”, Edvard Kardelj, Andrej A. Ždanov e Georgi Dimitrov Michajlov) e da quelli cinesi e vietnamiti (Liu Shaoqi, Mao Zedong e Ho Chi Minh) furono abbastanza diverse tra loro e vale la pena esaminarle entrambe poiché rappresentano un ulteriore distanziamento dalla dottrina marxiana dello Stato, ancora più profondo rispetto alle stesse concezioni di Lenin e di Trockij viste nella parte II di questo lavoro.

 

Utilizzata per la prima volta dallo jugoslavo Tito e dal bulgaro Dimitrov, l’espressione politica “democrazia popolare” voleva segnalare una certa differenza rispetto alla cosiddetta “democrazia proletaria” di tipo sovietico (ovvero, la forma leninista della “dittatura del proletariato”). Infatti, nelle democrazie popolari i partiti comunisti erano spesso al potere in coalizione con altri partiti di ispirazione popolare e persino con piccole realtà democratico-borghesi (anche se talvolta si trattava di meri partiti virtuali, completamente manovrati dai comunisti, mentre in altri casi erano residui di vecchie forze socialdemocratiche o contadine). Bisognava quindi sperimentare un percorso diverso di transizione dal capitalismo al socialismo, più graduale di quello bolscevico, nel quale si potessero distinguere nettamente due fasi: la prima era la costruzione dei fondamenti economici e dei presupposti politici del socialismo, mentre la seconda sarebbe stata la costruzione di una società socialista vera e propria, intesa naturalmente nel senso stalinista o post-stalinista del termine, ovvero ispirata all’URSS di quel periodo. Questa formulazione un po’ sfumata delle democrazie popolari consentì di fatto all’URSS, che sosteneva di aver avviato diversi anni prima l’esperienza della transizione al socialismo, di legittimare la propria egemonia sull’Europa Orientale e Sudorientale, in quanto Paese-guida nella costruzione di una società socialista. È appena il caso di ricordare che con la rottura tra Jugoslavia e URSS nel 1948, Tito e Kardelj rinunciarono all’idea del ruolo-guida sovietico nella costruzione di una società socialista nei Balcani, rivendicando piuttosto una “via nazionale al socialismo” profondamente diversa dal punto di vista della programmazione economica e della gestione delle imprese, ma non modificarono apprezzabilmente la vecchia dottrina statale della “democrazia popolare”. Il termine di “via nazionale al socialismo”, accettato in qualche modo persino dal PCUS di Kruščëv in funzione antistalinista in maniera da facilitare il ricambio della classe dirigente in vari paesi dell’Europa Orientale (dalla Polonia di Gomułka alla Romania di Ceauşescu), ebbe in Italia un’importanza tutta particolare nella formulazione del segretario del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti, durante i suoi ultimi anni di vita (1956-1964). Ma in effetti questa versione “occidentale”, nota anche come “via italiana al socialismo” [4], poco aveva a che vedere con le problematiche delle “democrazie popolari” d’oltrecortina. Il recupero del ruolo della democrazia parlamentare come valido mezzo di conquista del potere da parte del partito della classe lavoratrice riprendeva piuttosto idee tipiche della sinistra socialdemocratica degli anni ’20 (specie di Karl Kautsky e dell’austromarxismo di Otto Bauer e Max Adler), ma senza mai citarla, dato l’anatema che Lenin aveva scagliato contro tale corrente di pensiero e che ancora permaneva. Il leader bolscevico, come si è visto nella parte II di questo lavoro, ammetteva sì la partecipazione alle elezioni parlamentari, ma solo a mo’ di tribuna e senza fini strategici di alcun tipo. Nel PCI dell’inizio degli anni ’60 si preferì quindi giustapporre talune riflessioni gramsciane alle forti critiche leniniane alla “democrazia borghese”, in modo tale da poter proporre la prassi politica del PCI, ormai partito di massa eminentemente parlamentare, come “via italiana al socialismo” non riformista e non gradualista, ma piuttosto “democratico-rivoluzionaria”, senza mai ammettere che questa era proprio la concezione dell’ala sinistra della IOS tra le due guerre mondiali. Tale ambiguità, come vedremo nella prossima sezione, poté andare avanti per decenni proprio perché nel frattempo la socialdemocrazia europea, avendo rinunciato tout court al socialismo, non ebbe nessun interesse a rivendicare a sé l’essenziale paternità delle formulazioni politiche dell’ultimo Togliatti e, poi, degli eurocomunisti Enrico Berlinguer (con la sua cosiddetta “Terza Via”), Santiago Carrillo e Georges Marchais. Sarà invece un intellettuale trotzkista, Ernest Mandel, a squadernare questa scomoda verità in modo chiaro nel 1978 [5], ma da entrambi i lati della “cortina di ferro” nessuno avrà un vero interesse ad alimentare una polemica teorica su questa questione, forse con la parziale eccezione di Thomas Bottomore e Massimo Salvatori, che, molto garbatamente, consigliarono ai partiti comunisti occidentali lo studio del pensiero, rispettivamente, degli austro-marxisti e di Kautsky.

 

Al contrario, è nell’Estremo Oriente che troviamo i contributi più originali alla dottrina dello Stato sviluppati dal movimento comunista successivo alla II Guerra Mondiale, con il concetto di “nuova democrazia” (o “nuova rivoluzione democratica”), il quale si basa sulla teoria maoista del cosiddetto “blocco delle quattro classi” [6]. Tale teoria sosteneva fin dall’origine che la democrazia in Cina avrebbe preso un iter decisamente distinto da quello di qualsiasi altra compagine europea, arrivando successivamente ad affermare persino che ogni Paese coloniale o semicoloniale avrebbe sviluppato un suo percorso unico verso la democrazia, influenzato dalle condizioni sociali e materiali di ogni particolare realtà geopolitica. Mao, in effetti, etichettava la democrazia rappresentativa delle nazioni occidentali con il nome di “vecchia democrazia”, caratterizzando il parlamentarismo ad essa implicito essenzialmente come uno strumento per promuovere la dittatura della classe dei capitalisti e dei proprietari terrieri attraverso un consenso popolare completamente artefatto e manipolato. Ma trovava anche che il suo concetto di “nuova democrazia” fosse in qualche modo in contrasto con la “dittatura del proletariato” concepita in stile sovietico, la quale, almeno nel mondo dei partiti comunisti, era considerata come la struttura politica naturale del mondo post-capitalista. Ciò non deve però stupire in quanto per molto tempo Mao affermò di voler creare in primo luogo una “nuova Cina”, ossia un paese liberato dagli aspetti feudali e semi-feudali della sua vecchia cultura e, soprattutto, dall'imperialismo giapponese. A partire dagli anni ’60 ciò avvenne davvero: si tentò di creare una “nuova cultura” attraverso la Rivoluzione Culturale, una “nuova economia” libera dai proprietari terrieri e, per proteggere le nuove istituzioni, una “nuova democrazia” rappresentativa delle quattro classi rivoluzionarie, vale a dire i contadini, il proletariato, la piccola borghesia urbana e la borghesia imprenditoriale nazionale. Ma Mao aveva in mente questo schema già da due decenni, quando, riguardo alla struttura politica della “nuova democrazia”, nel paragrafo V del suo celebre articolo intitolato "Sulla nuova democrazia" (gennaio 1940) scrive:

 

“Quanto al problema del “sistema politico”, esso si riferisce all’organizzazione del potere politico, alla forma che una data classe sociale sceglie per creare gli organi del suo potere politico al fine di combattere i nemici e proteggere se stessa. Quindi non esiste Stato che non abbia un adeguato sistema di organi del potere politico adatti a rappresentarlo. La Cina può ora adottare un sistema di assemblee popolari, dall’assemblea popolare nazionale, alle assemblee popolari provinciali, distrettuali, circondariali, fino alle assemblee popolari cantonali, ognuna delle quali elegge ai vari livelli i rispettivi governi. Ma dobbiamo introdurre un sistema di elezioni a suffragio realmente universale, uguale per tutti, senza distinzioni di sesso, di credenza, di censo, d’istruzione. Solo questo sistema elettorale potrà far sì che ogni classe rivoluzionaria sia adeguatamente rappresentata secondo la posizione che essa occupa nello Stato. Ciò permetterà che la volontà del popolo si esprima, farà esistere un'adeguata direzione delle lotte rivoluzionarie e incarnerà in modo adeguato lo spirito della nuova democrazia. Questo è il centralismo democratico. Solo un governo basato sul centralismo democratico può permettere alla volontà del popolo rivoluzionario di esprimersi appieno e può combattere con la massima energia i nemici della rivoluzione. Il principio secondo cui il sistema democratico ‘non è qualcosa di cui pochi individui possono appropriarsi’ deve trovare la sua espressione nella composizione del governo e dell’esercito; senza un vero sistema democratico questo obiettivo non potrà mai essere raggiunto e ciò comporterebbe una discordanza tra sistema politico e sistema statale” [7].

 

Col tempo il concetto di “nuova democrazia” venne diffuso anche all’estero e adattato ad altri Paesi e ad altre realtà con motivazioni simili (ma non sempre identiche) a quelle della Cina Popolare, ossia, ovunque forze rivoluzionarie mirassero a rovesciare residui feudali [8] e a raggiungere la piena indipendenza dal colonialismo o dal neocolonialismo. In questo scenario la “nuova democrazia”, nel solco della vecchia polemica dei bolscevichi russi coi menscevichi, rinuncia alla regola marxista “ortodossa” secondo cui la classe capitalista nazionale solitamente sosterrebbe (o comunque seguirebbe) una tale lotta antifeudale, affermando invece di cercare di avvicinarsi al socialismo attraverso una coalizione di classi ostili al vecchio ordine dominante. Che tale idea sia fortemente imparentata con la concezione trotzkista della “rivoluzione permanente” è fuor di dubbio, ma tale correlazione non venne mai accettata dalla dirigenza cinese in quanto quest’ultima era, almeno formalmente, legata al mito antirevisionista di Stalin e quindi violentemente ostile a Trockij, Bucharin, Tito e Kruščëv. Nella visione maoista la coalizione rivoluzionaria delle “quattro classi” è posta sotto la guida della classe operaia, che però, essendo numericamente assai limitata, deve a sua volta farsi condurre dalla sua avanguardia politica leninista, ossia dal partito comunista. In questo modo i comunisti saranno costretti a collaborare con vari gruppi sociali, indipendentemente dalle ideologie non-marxiste da essi sostenute, al fine di raggiungere l’obiettivo ravvicinato, ossia quello del "nuovo ordine democratico". Sempre guidata dal partito comunista, la “nuova democrazia”, una volta costruita, consentirebbe poi un certo sviluppo economico del capitalismo nazionale come parte dello sforzo per fare a meno dell'imperialismo straniero e del vecchio feudalesimo interno. Il passaggio delicato in questa concezione è però quello secondo cui i comunisti cinesi speravano che la classe operaia, in modo simile a quanto escogitato per la “nuova democrazia”, potesse passare rapidamente a costruire il vero e proprio socialismo, nonostante gli interessi divergenti delle altre tre classi sociali parti del blocco. Infatti, in Cina, ricordiamolo nuovamente, l'applicazione del concetto maoista di “nuova democrazia” aveva dato origine ad un vigoroso appello alla lotta del Partito Comunista Cinese che si era posto a capo di una vasta coalizione di lavoratori poveri urbani e rurali, di intellettuali progressisti e di borghesi “democratico-patriottici”, contribuendo in ultima analisi a una rivoluzione su vasta scala dal successo davvero impressionante per la sua rapidità: 1946-1949.

 

Dal punto di vista teorico Mao spiega la “nuova democrazia” e il “blocco delle quattro classi” come una dolorosa, ma necessaria, conseguenza dell'imperialismo descritto da Lenin nel suo celebre opuscolo. Infatti, come abbiamo già accennato, la dottrina marxista “ortodossa” delle fasi di sviluppo economico e storico del modo di produzione in cui può aver luogo una rivoluzione socialista, stabilisce che questa si verifichi solo dopo che la rivoluzione democratico-borghese capitalista sia già avvenuta. Secondo questa idea, la rivoluzione democratico-borghese apre la strada allo sviluppo della classe lavoratrice industriale come classe numericamente maggioritaria nella società, dopodiché tale classe potrà rovesciare il capitalismo e cominciare a costruire il socialismo. Mao non era però completamente d'accordo con questo schema e disse che la rivoluzione democratico-borghese e la rivoluzione socialista potevano essere combinate in un'unica fase, piuttosto che in due fasi consecutive e separate. Chiamò questa fase combinata “nuova democrazia”, sostenendo che lo stesso Marx era stato spesso frainteso sull’argomento poiché il filosofo di Treviri non avrebbe postulato che necessariamente solo dopo che si fosse formata una società capitalistico-borghese, una rivoluzione socialista sarebbe divenuta possibile. Al contrario, in particolare in una lettera a Vera I. Zasulič nel 1881 (prima stesura) [9], Marx suggerì una possibilità di cambiamento rivoluzionario nella Russia dell'epoca che sembra sotto certi aspetti simile alle tesi di Mao sulla “nuova democrazia”:

 

«Trattando della genesi della produzione capitalistica ho affermato che essa si fonda sulla “separazione completa del produttore dai mezzi di produzione” (p. 315, colonna I, edizione francese de “Il Capitale”) e che “la base di tutto questo sviluppo è l'espropriazione del produttore agricolo, che fino ad oggi non si è compiuta in modo radicale da nessuna parte se non in Inghilterra... Ma tutti gli altri paesi dell'Europa occidentale stanno attraversando lo stesso processo” (ibidem, colonna II). Ho quindi espressamente limitato la "inevitabilità storica" di questo processo ai paesi dell'Europa occidentale. E perché? Sia così gentile da riferirsi al capitolo XXXII, dove si dice: Il "processo di eliminazione che trasforma i mezzi di produzione individualizzati e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati, la minuscola proprietà di molti in enorme proprietà di pochi, questa dolorosa e spaventosa espropriazione dei lavoratori, costituisce l'origine, la genesi del capitale. La proprietà privata, basata sul lavoro personale … sarà soppiantata dalla proprietà privata capitalista, basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, sul lavoro salariato” (p. 340, colonna II). Si tratta quindi, in ultima analisi, della trasformazione di una forma di proprietà privata in un'altra forma di proprietà privata. Poiché la terra nelle mani dei contadini russi non è mai stata loro proprietà privata, come potrebbe essere applicabile questo sviluppo?» [10].

 

Va ricordato ad onore del vero che questo brano di Marx era stato già abbondantemente citato da Bucharin nel 1925-26 nella sua polemica contro Trockij e Zinov’ev quando si voleva fornire, forse in modo un po’ disinvolto, una base teorica marxiana alla nuova idea bolscevica del “socialismo in un solo paese”.  Ad ogni modo l’idea della coalizione di classe della “nuova democrazia” è abbastanza simile al punto di vista di V. I. Lenin, che aveva rotto con i menscevichi proprio sull'idea che la classe operaia potesse organizzare e guidare la rivoluzione democratica in un paese sottosviluppato come la Russia d’inizio XX secolo, dove non esistevano ancora le condizioni oggettive per il socialismo. Tuttavia, l'esperienza cinese contrasta anche con la rivoluzione bolscevica perché include, piuttosto che prendere di mira, una parte della borghesia nazionale (ossia, la classe borghese non completamente asservita all’imperialismo straniero in un paese semicoloniale). Poi, una volta che la “nuova democrazia” è stata stabilita nel modo delineato dalla teoria maoista, il Paese viene gradualmente reso “socialista” dal punto di vista ideologico e si inizia a lavorare per la costruzione del socialismo (inteso ovviamente in senso leninista) sotto la guida del partito comunista che spinge tutta la società, a volte anche in modo violento, brutale e contraddittorio, nello sforzo di sradicamento delle strutture economiche precedenti e di costruzione di una nuova realtà post-capitalista. Esempi di ciò sono stati lo sfortunato “grande balzo in avanti” (1958-61) e la cruenta Rivoluzione Culturale (1966-76) per ciò che Mao vedeva come le potenzialità insite nel concetto di “nuova democrazia”. In questo senso, riassumendo il nostro breve discorso sulle concezioni comuniste asiatiche del secondo dopoguerra, si può dire che, data la natura della “nuova democrazia” come "fase intermedia", essa sarebbe secondo il maoismo una sorta di trampolino di lancio verso il socialismo prima, e poi verso il comunismo, il quale resterebbe l'obiettivo politico ed economico finale; ovvero la creazione di una società senza Stato, senza classi e senza denaro, ovviamente ancora irraggiungibile nel periodo della “nuova democrazia”. La periodizzazione leniniana, già con tre stadi ben definiti (dittatura del proletariato, socialismo, comunismo) rispetto all’originale continuum marxiano, si modifica ulteriormente con Tito, Dimitrov e Mao in quanto un’altra fase (la “democrazia popolare” oppure la “nuova democrazia” con il potere delle quattro classi) si sostituisce alla vera e propria “dittatura del proletariato”. Se secondo Mao ciò sarebbe necessario in quanto si tratterebbe di Paesi ancora più lontani dalla maturità capitalista della vecchia Russia, tale giustificazione cadrebbe completamente per taluni regimi dell’Europa Orientale, ben più sviluppati capitalisticamente nel 1948 di quanto non lo fosse l’impero zarista nel 1917. Qual è allora la vera ragione di questo astuto escamotage politico-propagandistico? Ci permettiamo di avanzare una duplice ipotesi: da un lato per salvaguardare la reputazione del “socialismo”, spostandolo convenientemente in un’età successiva al periodo 1945-56, dall’altro, e questo è probabilmente il punto più importante, per mantenere una parvenza di indipendenza delle classi dirigenti locali in modo da non urtare i sentimenti patriotici e nazionalisti delle popolazioni, ancora assai diffusi nei Paesi recentemente aggregati al blocco sovietico. Infatti, in un’ottica di puro “socialismo”, perché i paesi dell’Europa Orientale e Sudorientale, nonché quelli asiatici, non avrebbero dovuto chiedere (come fece la piccola Tuva) una pura e semplice annessione all’URSS in qualità di nuove repubbliche socialiste sovietiche federate? Che la molla nazionalista e patriotica rimanesse importante in quegli ambiti lo si può vedere in modo chiarissimo studiando il duro scontro tra URSS e Cina nel lungo periodo 1960-82 e la connessa guerra tra Vietnam e Repubblica Popolare Cinese del 1979. A mo’ di epilogo della vicenda cinese, un po’ atipica rispetto al generale tracollo ideologico dei Paesi del “socialismo reale”, va ricordato che quando la Cina, dopo la morte di Mao Zedong e la cacciata della famigerata “Banda dei quattro” imboccherà la via del “socialismo di mercato” prima e dell’economia mista dopo (benché quest’ultima sia nota oggi in modo un po’ artificioso come “socialismo con caratteristiche cinesi”), la teoria del “blocco delle quattro classi” tornerà grandemente in auge. Ma non si tratterà più delle vecchie tre classi maoiste, alleate del giovane proletariato cinese nella lotta all’imperialismo esterno e al feudalesimo interno. Saranno tre classi sociali “nuove di zecca” e tutte “borghesi”, frutto appunto dell’enorme sviluppo dell’economia mista cinese: imprenditori agricoli, imprenditori commerciali e imprenditori industriali.

 

 



 

Fig. 8: Mao Zedong proclama alla radio the nascita della Repubblica Popolare Cinese il 1° ottobre del 1949.

 

 

 

X) La politica contro il mercato? La socialdemocrazia occidentale ai tempi di Bad Godesberg

 

Nella parte II abbiamo descritto brevemente le concezioni politiche relative allo Stato di quegli eredi della Seconda Internazionale che in qualche modo si rifacevano ancora alle elaborazioni di Marx ed Engels. Si è visto che il fulcro della prassi politica veniva identificato con l’espansione della democrazia rappresentativa parlamentare mediante l’inclusione di elementi della cosiddetta “democrazia sociale”, vista come strada maestra verso il socialismo. In taluni autori in maniera sicuramente riformista e gradualista, in altri invece immaginando una “rivoluzione lenta” e su base largamente maggioritaria, ma comunque irreversibile e non limitata alle sole aule parlamentari. Tuttavia, abbiamo colpevolmente sorvolato su un punto importante: la prassi politica. In effetti per larga parte del versante socialista democratico le grandi speranze iniziali, ma anche le forti delusioni successive, non mancarono in tutta l’Europa Occidentale del primo dopoguerra. Vari partiti socialisti giunsero al governo: in Germania (1918–1921, 1923, 1928–1930), in Austria (1918-1920), in Svezia (1920, 1924), in Gran Bretagna (1924). Poi, negli anni ’30, anche in Spagna (1931-1933 e 1936-1939), in Francia (1936-1937), ancora in Svezia (1936-1976), in Belgio (1938-1939) ecc., spesso però in coalizioni con partiti repubblicani, radicali o addirittura cristiano-democratici e, talvolta, persino comunisti. Naturalmente i governi progressisti innervati dalla presenza socialista vollero subito implementare, per quanto possibile, politiche a favore dei lavoratori, con leggi sui limiti di orario e sulle ferie pagate, sulle assicurazioni sanitaria e pensionistica obbligatorie, sui salari minimi, sui contratti e sulle indennità di disoccupazione. Sovente i loro programmi di partito prevedevano anche di espandere il ruolo dello Stato nell’economia con forme più o meno estese di nazionalizzazione di imprese strategiche (per esempio, nei settori dei trasporti, dell’energia, della difesa, del credito ecc.) e di programmazione economica, nonché con lo sviluppo di un vasto sistema di cooperative. Ma, con la sola eccezione della Svezia, dove il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori restò al potere ininterrottamente per più di quarant’anni, nel periodo tra le due guerre mondiali i socialisti democratici europei toccarono con mano l’acuta difficoltà di modificare democraticamente i paesi capitalisti avanzati in senso socialista e, almeno a grandi linee, si può dire che non vi riuscirono affatto: a volte (come in Germania, Austria e Spagna) per via dell’avvento del fascismo, in altre circostanze (come in Belgio, Francia, Gran Bretagna ecc.) per l’incapacità di attrarre stabilmente il voto dei contadini piccoli e medi nel mondo rurale e, soprattutto, delle cosiddette “classi medie” urbane, ormai abbastanza colte e patrimonializzate. Per quel che concerne l’aspetto programmatico più prossimo alla concezione generale dello Stato è opportuno menzionare l’opera dei giuristi socialdemocratici tedeschi e austriaci dell’epoca di Weimar, come per esempio il celebre Hermann Heller (1891-1933), i quali capirono bene che l’estensione della democrazia politica non poteva limitarsi al suffragio universale e al parlamento deliberativo, ma doveva, al contrario, procedere gradualmente a democratizzare tutte le funzioni statali interne rimaste appannaggio di una ristretta cerchia conservatrice, quasi ereditaria, di esperti, funzionari, militari ecc., tutti burocrati non votati e, soprattutto, non facilmente revocabili dal potere politico. Ben prima dell’arrivo di Hitler al governo, fu ben chiaro che il presidente della repubblica Paul von Hindenburg, eletto nel 1925, proprio di questo strato sociale era il massimo esponente e il difensore.

 

Dopo la Seconda guerra mondiale l’alleanza tra socialisti democratici e comunisti, che pure aveva prodotto risultati notevoli mobilitando forti milizie popolari in diversi paesi e impegnandole in forme di guerriglia antifascista (il cosiddetto fenomeno della “Resistenza” europea), andò già in frantumi nel 1947 appena sorsero contrasti tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia da un lato, e URSS dall’altro, per il controllo dell’Europa Orientale e dell’Estremo Oriente: era l’inizio della cosiddetta “guerra fredda”, che raggiunse il suo apice poco dopo, durante la Guerra di Corea (1950-1953). Solo l’Italia farà eccezione: la rinuncia al patto di unità d’azione tra PSI e PCI avverrà più tardi, nel 1956, successivamente alla denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin e alla violenta repressione sovietica della rivolta ungherese.

 

Ma quale fu invece l’elaborazione politica del Socialismo Democratico nel secondo dopoguerra? Ci limiteremo per brevità a menzionare in questo periodo, in modo molto succinto, solo i principali partiti dell’Europa Occidentale (dato che i loro omologhi dell’Europa Orientale erano stati o sciolti, o unificati a forza con i movimenti comunisti al potere, già negli anni 1945-1948). La prima cosa da notare è l’estremo indebolimento delle ali sinistre “massimaliste” del Socialismo europeo come effetto della “guerra fredda”. Se infatti il pericolo fascista le aveva sviluppate a dismisura negli anni ’30, comportando addirittura l’uscita di talune di esse dall’Internazionale Operaia e Socialista e la conseguente fondazione del cosiddetto “Bureau di Londra”, la minaccia comunista ebbe l’effetto opposto: con le sole parziali eccezioni della SFIO francese e del PSI italiano (almeno fino alla fuoriuscita, rispettivamente, dello PSU nel 1960 e del PSIUP nel 1964), il riformismo revisionista conquistò in modo graduale, ma irreversibile, tutto il campo europeo. Tuttavia, si tratta ancora, abbastanza plausibilmente, di una strategia piuttosto che di un obiettivo [11], nel senso che il Socialismo degli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale rimane programmaticamente legato al superamento del capitalismo (sebbene in modo democratico e graduale) e allo stabilimento di una società socialista mediante la socializzazione dei principali rami della grande industria e la pianificazione democraticamente centralizzata dell’economia. In quest’ottica va visto il sorprendente risultato laburista in Gran Bretagna ottenuto da Clement R. Attlee nel 1945, che portò il partito a formare un governo monocolore in carica fino al 1951. Successivamente i laburisti britannici torneranno al potere dal 1964 al 1970 e poi ancora dal 1974 al 1979, mentre in Europa continentale la SFIO governerà in coalizione dalla fine della guerra fino al 1950 e di nuovo nel periodo 1956-1958, ovvero in piena crisi politica della Quarta Repubblica causata dalla guerra d’indipendenza dell’Algeria. Al contrario, il partito socialdemocratico più forte, la SPD tedesco-occidentale, giunse al potere molto in ritardo, prima insieme ai cristiano-democratici nella “Grande Coalizione” del 1966-1969 e poi con i liberali dal 1969 al 1982. Ma qui siamo già a un bivio della storia del Socialismo europeo. Infatti, proprio la SPD fu il primo partito della rinata Internazionale Socialista ad abbandonare esplicitamente l’idea della fuoriuscita dal capitalismo durante il famoso congresso di Bad Godesberg del 1959, quando l’obiettivo programmatico finale venne trasformato nel “capitalismo controllato e umanizzato” mediante un intervento pubblico di tipo essenzialmente keynesiano e redistributivo, unito alla cogestione (mitbestimmung) aziendale tra imprenditori e sindacati. Questa “mutazione politica” fondamentale si diffonderà gradualmente in tutta Europa: in Francia, parzialmente, con la rifondazione del PSF a Épinay nel 1971, in Italia nel 1981 con il congresso di Palermo del PSI quando venne abbandonata la cosiddetta “Alternativa Socialista”, in Svezia con il rifiuto del celebre “piano Meidner” nel 1982 e, infine, in Gran Bretagna con l’elezione alla segreteria di N. G. Kinnock nel 1983. Si trattò in un certo senso della vittoria postuma del laburista di destra Antony Crosland (1918-1977) che preconizzava questa trasformazione già nel 1956 con il suo celebre saggio provocatorio “Il Futuro del Socialismo” [12]. Ad esso volle fare eco nel 1998 il famoso saggio di Antony Giddens (l’ideologo del “New Labour”) chiamato “La Terza Via, il Rinnovamento della Socialdemocrazia”, che però ha un obiettivo piuttosto diverso: sancire la completa resa al capitalismo globalizzato da parte di quelli che una volta si definivano i “socialisti democratici” europei. Per concludere questa breve carrellata storica sulla concezione dello Stato nella socialdemocrazia europea del secondo dopoguerra, non ci resta che analizzare più in dettaglio il progetto riformista di questo periodo che, come si è già visto, va lentamente a esaurirsi nel ventennio ’60-’80, spianando poi la strada prima all’idea keynesiana del “capitalismo controllato e umanizzato”, ma poi a partire dalla metà degli anni ’90, alla grigia fase neo-liberista della socialdemocrazia europea che sembra durare ancora oggi.

 

Il nucleo del pensiero socialista riformista, che, ci si consenta la ripetizione, poco o nulla aveva in comune con le tendenze neoliberiste odierne, si basava su due assiomi, certamente molto discutibili ex post, ma per nulla campati in aria all’epoca della loro formulazione:

A) il socialismo non è nemmeno pensabile in un quadro politico autoritario, in quanto si tratta dell’estensione dei diritti democratici al piano economico;

B) come il capitalismo è cresciuto per secoli all’interno del sistema feudale prima di entrare in conflitto aperto con questo e prendere il sopravvento, così il socialismo si svilupperà gradualmente e impercettibilmente dentro il capitalismo prima di piegarlo e rimpiazzarlo.

 

Nella visione dei riformisti non vi era alcuna contraddizione tra le ipotesi appena esposte e i capisaldi dell’approccio marxista, in quanto l’assioma (A), dato il carattere largamente maggioritario dei lavoratori dipendenti nelle società occidentali del secondo dopoguerra, risultava perfettamente compatibile con l’idea della “dittatura del proletariato”. Anzi, la vittoria per via elettorale dei partiti socialisti sarebbe stata la forma più pura (perché essenzialmente nonviolenta e soggetta a periodiche conferme) di tale “dittatura”, meglio definibile come “egemonia del Lavoro nella società”. Più complesse erano invece le conseguenze dell’assioma (B). Infatti l’egemonia politica del partito dei lavoratori non si sarebbe dovuta esplicare (come nei fatti molte volte è invece avvenuto) nella sola redistribuzione di quote di profitto alla classe lavoratrice mediante una tassazione progressiva, aumenti salariali, istruzione pubblica, uno stato sociale avanzato ecc., poiché questo programma di per se stesso era largamente compatibile con il neocapitalismo occidentale postbellico, soprattutto dopo la diffusione delle teorie economiche keynesiane relative all’importanza della spesa pubblica nel perseguimento della piena occupazione. Per far “crescere lentamente il socialismo in seno al capitalismo” era necessario che, assieme alla politica redistributiva che abbiamo appena descritto, ci fosse un di più che impercettibilmente accorciasse la distanza tra lo stato reale dell’economia e il socialismo. Già a partire dal programma riformista di Heidelberg della SPD degli anni ’20 (che, come si è detto nella parte II di questo lavoro, venne stilato principalmente da Karl Kautsky e Rudolf Hilferding) questo “surplus” di socialismo era stato identificato con le cinque “oni”:  nazionalizzazione (totale, o più spesso parziale, ma sempre con indennizzo, dei settori capitalisti strategici, quali il credito, le assicurazioni, gli armamenti, i trasporti, la siderurgia ecc.); cogestione (rafforzando per legge il ruolo dei sindacati e di altri organismi elettivi dei lavoratori nella gestione delle imprese private); cooperazione (favorendo la formazione di imprese cooperative, soprattutto nel settore agricolo e in quello terziario); programmazione (indirizzando gli investimenti privati in settori, aree geografiche e forme prescelte, mediante forti incentivi quali, per esempio, la parziale detassazione degli utili aziendali); democratizzazione (seguendo le idee del giurista socialdemocratico tedesco, allievo di Heller, Carlo Schmid [13], per aumentare il peso della parte elettiva dello Stato costituzionale a svantaggio del ceto tecnico-burocratico non eletto e difficilmente revocabile). Ma come avvenne allora l’abbandono graduale del robusto programma riformista da parte del socialismo democratico europeo? Il punto debole degli anni ’50 fu essenzialmente di natura sociale (in parte legato anche alla “guerra fredda”) e, con l’esclusione della Svezia, toccò un po’ tutti i paesi europei, anche se in modo diverso: i laburisti britannici al potere fino al ’51 non furono confermati; i socialisti francesi di Guy Mollet furono costretti a estenuanti e inconcludenti governi di coalizione; mentre i socialdemocratici tedeschi rimasero esclusi dal potere per decenni. La motivazione era legata essenzialmente a una premessa implicita nell’assioma (A) che si rivelò tutt’altro che ovvia: l’esistenza di una robusta coscienza di classe. Non tutti i lavoratori dipendenti, a causa della diversa istruzione, delle disomogeneità retributive e, soprattutto, delle differenti mansioni, avevano la spiccata percezione di essere parte di una stessa classe sociale. Soprattutto gli impiegati e i tecnici specializzati si ritenevano membri di una vaga quanto indistinta “classe media”, vicina sì, ma sicuramente superiore, a quella operaia industriale. Costoro erano in genere disposti a votare episodicamente per la socialdemocrazia, ma non potevano essere considerati degli elettori fedeli e, soprattutto, non apprezzavano molto la “parte socialista” del programma, che sebbene democratica, ricordava loro troppo da vicino l’esperienza sovietica, con le sue grandi aziende pubbliche, i suoi piani quinquennali e le sue fattorie cooperative. Per reagire a tale impasse, (ma, ad onore del vero, sovente anche a causa dei compromessi impliciti nei frequenti governi di coalizione) vi fu la tendenza da parte dei dirigenti socialisti a mettere la sordina proprio su questi aspetti programmatici, favorendo invece quelli, per così dire, “keynesiani”. Tale processo s’intensificò soprattutto in Germania, a causa delle perenni sconfitte elettorali della SPD e per il fatto che il partito comunista tedesco (la KPD), possibile critico da sinistra, era stato ufficialmente bandito dalla Corte costituzionale in quanto pedina di uno stato estero ostile. Fu proprio questa l’era della celebre svolta antimarxista del citato congresso di Bad Godesberg del 1959. In Francia e in Italia invece, dove il PCF e il PCI erano molto vivaci e spesso critici, rispettivamente, delle posizioni della SFIO e del PSI, la tendenza a eliminare i richiami teorici al socialismo rimase praticamente inespressa ancora per decenni. Il Regno Unito sviluppò un atteggiamento intermedio, anche a causa della morte prematura di Hugh Gaitskell, un acceso keynesiano fautore della cancellazione della famosa “Clause IV” [14] socialista, e alla successiva affermazione della sinistra interna di Harold Wilson. Ad ogni modo, sia che fosse stato eliminato programmaticamente come in Germania, sia che rimanesse praticamente inespresso a causa delle vicende politiche contingenti, il Socialismo riformista, con qualche lodevole eccezione nell’Italia del centro-sinistra, cominciò a perdere velocemente quota lasciando il campo alla sola politica della redistribuzione e del “welfare state”. Di come poi quest’ultima non superasse agevolmente il periodo della crisi economica degli anni ’70 per venire quasi totalmente affossata nel decennio successivo ne parleremo sicuramente in altra sede. Scriveva polemicamente l’ispiratore di tali concezioni, il celebre economista liberale John Maynard Keynes, già nel 1926 [15]:

 

“Ma i principi del ‘laissez-faire’ hanno avuto altri alleati oltre i manuali di economia. Va riconosciuto che tali principi hanno potuto far breccia nelle menti dei filosofi e delle masse anche grazie alla qualità scadente delle correnti alternative: da un lato il protezionismo, dall'altro il socialismo di Marx. Queste dottrine risultano in fin dei conti caratterizzate, non solo e non tanto dal fatto di contraddire la presunzione generale in favore del ‘laissez-faire’, quanto dalla loro semplice debolezza logica. Sono entrambe esempio di un pensiero povero, e dell'incapacità di analizzare un processo portandolo alle sue logiche conseguenze. (...). Il socialismo marxista deve sempre rimanere un mistero per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e vuota possa aver esercitato un'influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia.”

 

I socialisti democratici del secondo dopoguerra, perennemente in equilibrio instabile tra Marx e Keynes, erano in realtà già stati avvisati negli anni ‘20 della impossibilità della loro sintesi. E così prima rinunciarono a Marx per poi, un ventennio dopo, rinunciare anche a Keynes ed abbracciare in toto il capitalismo neoliberista, “finanziarizzato” e globalizzato.

 

 



 

Fig. 9: Il congresso della SPD a Bad Godesberg nel 1959 rappresenta la rinuncia formale all’idea di socialismo come modo di produzione alternativo al capitalismo a vantaggio di un’interpretazione di natura principalmente etica basata sui diritti sociali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XI) Che fare? Ma, soprattutto, che cosa non fare? Briciole di riflessioni sulla crisi attuale e il futuro dell’idea di socialismo

 

Siamo in fine giunti al termine del nostro rapido itinerario che ci ha portato dal 1848 parigino, primo e brevissimo rendez-vous tra i socialisti e lo Stato, al crollo della gran parte dei Paesi detti del “socialismo reale”, alla trasformazione dei rimanenti regimi in sistemi economici “misti” e alla totale omologazione della socialdemocrazia all’ortodossia liberal-capitalista dominante, con tutti e tre gli eventi collocabili nel breve lasso di tempo compreso tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 del XX secolo. Convenzionalmente scanditi da date simboliche, quali il crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989), o la caduta dell’URSS (26 dicembre 1991), o la fine del potere di Deng Xiaoping in Cina (25 maggio 1992), o persino l’inizio del “New Labour” di Tony Blair in Gran Bretagna (21 luglio 1994), questi tre eventi politici, apparentemente così distanti, possono esser compresi nelle loro sottili correlazioni reciproche soltanto facendo riferimento all’affermarsi in quegli anni della globalizzazione capitalista. Limitandoci alla sola Europa Occidentale, non possiamo considerare una fortuita coincidenza il fatto che proprio a partire dal 1992 siano stati rimossi tutti i vincoli ai movimenti dei capitali e si sia verificata una progressiva perdita di autonomia dei governi nazionali nei campi della politica monetaria e dell’allocazione dei capitali all’interno degli Stati membri della Comunità Economica Europea (poi, dal 1° novembre 1993, Unione Europea). In altri termini vogliamo qui sostenere che la lunga vicenda del “socialismo di Stato” finisce ex abrupto nel quinquennio 1989-94 (benché segnali di malessere fossero già visibili a partire dalla fine degli ’60) per una crisi profonda non tanto delle potenzialità del socialismo in sé, ma, soprattutto, della funzione e dell’ambito degli Stati nazionali. Proprio su questo grosso equivoco dobbiamo segnalare il nostro parziale disaccordo rispetto a due valutazioni (1 e 2), apparentemente contrarie ma in realtà assai prossime tra loro, che si riscontrano a partire dalla metà degli anni ’90 negli ambienti della cosiddetta “sinistra radicale anticapitalista”.

 

1) In ambito anarchico, consiliarista, o comunque socialista libertario si celebra la caduta del “socialismo di Stato”, sia nella sua variante “dura” leninista, sia in quella morbida “socialdemocratica”, come la fine di un’impostura, di un innaturale innesto del “vero socialismo” (concepito come regno della libertà e della autodeterminazione umana) sullo Stato, visto à la Bakunine come la quintessenza dello sfruttamento e della violenza dell’uomo sul suo simile. È naturale che questa visione implichi anche l’idea del naufragio ideale (e persino della “colpa primigenia”) del programma socialista scientifico di Marx ed Engels (per gli anarchici) [16], oppure di Engels e Kautsky [17] (per i consiliaristi). È naturale che tale visione, come si è anche visto nella parte I del presente lavoro, contenga spunti interessanti relativi all’”azzardo” del programma marxista originario basato sulla relazione tra socialismo e politica (prima ancora che tra socialismo e Stato). Ovvero, sull’idea che lo Stato, benché sia in ultima analisi un corpo di uomini armati che stabilizzi dall’esterno con metodi coercitivi anche violenti (ma non solo) i rapporti di produzione fondamentali per un determinato modo di produzione classista, possa essere usato anche come strumento e leva per rovesciare tali rapporti e riconfigurarli in maniera socialista, ossia senza classi sociali e, dunque, senza annesso sfruttamento. Ma se l’”azzardo” di Marx ed Engels, connaturato alla loro visione fortemente dialettica dei processi storici, è innegabile, esso però consiste in tutto e solo quello che è stato incapsulato nella limpida e brevissima frase del programma socialista del 1904 elaborato dal Socialist Party of Great Britain:

That the machinery of government, including the armed forces of the nation, exists only to conserve the monopoly by the capitalist class of the wealth taken from the workers, the working class must organise consciously and politically for the conquest of the powers of government, national and local, in order that this machinery, including these forces, may be converted from an instrument of oppression into the agent of emancipation and the overthrow of privilege, aristocratic and plutocratic”.

[“Poiché la struttura del governo, comprese le forze armate nazionali, esiste solo per conservare, a vantaggio della classe capitalista, il monopolio della ricchezza sottratta ai lavoratori, la classe lavoratrice deve organizzarsi coscientemente e politicamente per la conquista dei poteri del governo, sia nazionali che locali, affinché tale apparato, comprese le sue forze armate, possa essere convertito da strumento di oppressione ad agente di emancipazione e abbattimento del privilegio aristocratico e plutocratico”].

Il resto della vicenda, dalla stesura del programma di Erfurt [18] fino al crollo dell’URSS, non è necessariamente implicito nel pensiero marxiano come vorrebbero certi detrattori del “socialismo di Stato”, quanto piuttosto, almeno a parere di chi scrive, esso rappresenta una costellazione di tentativi, a volte anche diversissimi tra loro, di calare nella situazione storico-politica contingente l’istanza programmatica fondamentale per cui, come si è visto, “la classe lavoratrice deve organizzarsi coscientemente e politicamente per la conquista dei poteri del governo, sia nazionali che locali, affinché tale apparato, comprese le sue forze armate, possa essere convertito da strumento di oppressione ad agente di emancipazione e abbattimento del privilegio aristocratico e plutocratico”. E, si badi bene, tentativi non sempre operati dalla classe lavoratrice stessa, quanto piuttosto da strati sociali ad essa prossimi e alleati o, persino, da semplici “compagni di strada”. È infatti un problema fondamentale della sociologia marxista (anzi, forse è il problema di tale scuola sociologica) la comprensione del modo in cui una classe, definita in maniera essenzialmente legata ai rapporti di produzione, possa esprimere la propria soggettività politica che, di norma, nelle società classiste avviene attraverso la presenza e l’attività di un determinato ceto politico e burocratico. Purtroppo, l’analisi di tale questione, alla quale abbiamo appena accennato nella parte II di questo breve saggio, relativamente alle elaborazioni di Trockij [19] ci porterebbe troppo lontano e quindi non la potremo approfondire in questa sede. Resta però un fatto incontestabile (e su questo punto hanno, a mio avviso, parzialmente ragione i consiliaristi) che quasi tutti tentativi di “emancipare la classe lavoratrice”, a differenza di quanto auspicava Marx negli “Statuti provvisori dell'Associazione internazionale degli operai” (1864), dove scriveva: “Considerando, che l'emancipazione della classe operaia dev'essere opera dei lavoratori stessi; che la lotta della classe operaia per l'emancipazione non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti diritti e doveri eguali e ad annientare ogni predominio di classe; (…)”, non sono stati opera della classe stessa. E ciò non solo per il ruolo dirigente di vari intellettuali di estrazione borghese o, addirittura, aristocratica, ma anche per la vasta diffusione di “blocchi popolari” contenenti elementi contadini, piccolo borghesi, borghesi democratici antimperialisti ecc. Tuttavia riteniamo questo tipo di critica, ovvero il presunto fallimento del “socialismo di Stato” a causa di un vizio teorico originario, non soddisfacente soprattutto per un altro motivo legato essenzialmente a un vecchio errore di fondo che rimonta addirittura a Bakunin e Kropotkin, ovvero l’essere una critica fondata su un concetto astorico, e quindi essenzialmente metafisico, dello Stato, che sorvolando sulla sua natura eminentemente sovrastrutturale, ne dimentica le profonde modificazioni storiche all’interno dell’evoluzione del modo di produzione capitalista. In parole povere, se nell’epoca del capitalismo “manchesteriano” si vagheggiava lo Stato liberale minimo, e poi con la nascita dei monopoli e dell’imperialismo coloniale, veniva sognato lo Stato nazionale potente, che in modo “darwiniano” si affermasse nel “bellum omnium contra omnes” dell’arena mondiale, allora appare quasi ovvio che una requisitoria preventiva contro il progetto  marxiano di “socialismo attraverso la conquista dello Stato” (nome molto più realistico del termine polemico di “socialismo di Stato” applicato a Marx ed Engels) sia in qualche modo squalificata già in partenza, a meno di non precisare di quale Stato si stia concretamente parlando. E ciò, almeno per quel che concerne gli anarchici, non è avvenuto, se non in forma sporadica, accadendo invece con i teorici consiliaristi (specie con l’ultimo Pannekoek [20]) anche se in modo troppo lineare, schematico e non del tutto convincente: l’ipertrofia dello Stato borghese che presenta come sue ultime incarnazioni il bolscevismo, il fascismo e il New Deal, sarebbe l’effetto di un sistema ormai in decadenza, in grado di perpetuarsi soltanto mediante guerre mondiali periodiche tra grossi blocchi di Stati e vaste distruzioni di capitale programmate. Il grande sviluppo capitalista dell’Asia, ben intuito da Bordiga e dai suoi compagni in “Fiorite primavere del Capitale” (1953) [21], non era stato contemplato nelle prospettive del teorico olandese. Riassumendo le nostre osservazioni su questo punto, possiamo dire che, pur ammettendo come lecita e legittima la critica all’idea del “socialismo attraverso la conquista dello Stato”, ne respingiamo però l’uso astorico e generico, soprattutto se costruito in modo da riflettersi nel passato come svalutazione del progetto politico marxiano (1871-1883), superficialmente dipinto come “socialismo di Stato”, o del progetto engelsiano (1883-1895), visto addirittura come “proto-riformista”.

 

2) In ambito, invece, di ciò che rimane del cosiddetto “marxismo ortodosso”, principalmente (ma non esclusivamente) nelle sue versioni bordighista e leninista (suddividendo poi quest’ultima categoria in trotzkismo, stalinismo, maoismo, hoxhaismo ecc.), si ribadisce l’attuale validità dell’ipotesi del “socialismo attraverso la conquista dello Stato” e se ne rivendica orgogliosamente la completa continuità a partire dalla sua prima formulazione marx-engelsiana contenuta nel “Manifesto del partito comunista” del 1848 [22]. Soprattutto nella versione datane dalla Sinistra Comunista Italiana si fa dell’invarianza del programma comunista una caratteristica fondamentale ed irrinunciabile insita in qualche modo nell’esistenza stessa del modo di produzione capitalistico (vedasi, per esempio, “L’invarianza storica del marxismo” (1953) [23]). La confutazione di questa pretesa, ovvero che l’invarianza storica dei rapporti di produzione capitalistici si rifletta automaticamente sui contenuti e sugli obiettivi (anche parziali) della lotta politica rivoluzionaria della classe lavoratrice, ci porterebbe troppo lontano. Ci basti però dire che se la lotta politica avviene, come sostenuto dal marxismo ortodosso, tra il partito rivoluzionario di classe e lo Stato borghese, essendo entrambi realtà sovrastrutturali, intrinsecamente mutevoli nel fluire dell’evoluzione storica del modo di produzione capitalista, non si capisce proprio come l’invarianza dei rapporti di produzione capitalistici implichi anche quella del programma politico del partito. Ci sembra che in questo caso si giunga a un errore ancora più serio di quello anarchico, in quanto si perde di vista, ipostatizzandolo, non solo il carattere storico dello Stato borghese, ma anche quello del partito della classe lavoratrice che verrebbe tout court a identificarsi con un programma comunista invariante e dato una volta per tutte, un po’ come le Tavole della Legge di mosaica memoria. Ma quello che è senz’altro il lato peggiore dell’approccio acritico al “socialismo attraverso la conquista dello Stato” è la ricerca di spiegazioni per il suo fallimento storico complessivo nel lungo periodo 1914-1991 (almeno per quelle forze politiche ancora non così illuse da pensare che Cina, Corea del Nord, Vietnam e Cuba siano Paesi socialisti in grado di guidare presto la riscossa dei lavoratori sul piano mondiale…). Tralasciando le spiegazioni etiche di queste vicende storiche, di norma associate alle categorie della “corruzione”, della “doppiezza”, del “rinnegamento” e del “tradimento” dei dirigenti di questo o quel sindacato, di questo o quel movimento di massa socialista o comunista, a volte appena coperte da una sottilissima patina sociologica che fa riferimento a strati sociali privilegiati, a flaccide “aristocrazie operaie”, ad avidi burocrati caduti per via delle pressanti lusinghe dell’imperialismo mondiale ecc., possiamo far nostra l’ottima frase dell’ex-marxista Benedetto Croce, il quale, pur essendo passato all’idealismo liberale, rimase in parte devoto al metodo del materialismo storico di Marx, di cui scrive: “(…). E oltre l'ammirazione gli serberemo – noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati – altresì la nostra gratitudine, per aver contribuito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che appariva nelle sembianze di florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità” [24]. Passiamo dunque alle spiegazioni del fallimento comunista compatibili con il nostro approccio scientifico all’evoluzione storica. In ambito leninista fiumi d’inchiostro sono stati versati in proposito, con sfumature diverse tra trotzkisti, stalinisti e maoisti (gli ultimi due noti anche come “marxisti-leninisti”), ma più o meno tutte legate all’isolamento internazionale dell’URSS degli anni ’20 o del blocco real-socialista degli anni ’50, al ruolo dell’imperialismo occidentale protrattosi per la mancata rivoluzione in Europa, alla presunta distorsione delle economie socialiste a causa delle ingenti spese militari causate dal perdurante confronto con l’imperialismo ecc. Ovviamente non neghiamo affatto che queste lunghe e dettagliate analisi contengano elementi di verità, spesso anche rilevanti, come ad esempio il concetto trotzkista di “società di transizione dal capitalismo al socialismo bloccata da escrescenze burocratiche” [25] o lo studio marxista-leninista sugli effetti distorsivi causati dall’autogestione jugoslava e, successivamente, dalle misure di socialismo di mercato introdotte in URSS nel 1965 su suggerimento di Liberman e di Trapeznikov [26]. E che dire poi della valutazione complessiva della partecipazione dei paesi del COMECON ai sistemi finanziari internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale ecc.) con il conseguente spettro del debito estero, oppure degli errori economici madornali compiuti dalla perestrojka gorbacioviana…?  Eppure, abbiamo comunque l’impressione di trovarci di fronte ad una muraglia di risposte ad hoc le quali in qualche modo siano state costruite artatamente in maniera tale da schivare le due vere questioni fondamentali: (a) i tentativi novecenteschi di costruire una comunità mondiale socialista sono falliti semplicemente perché prematuri? Ovvero, il capitalismo non era eliminabile durante il XX secolo proprio perché aveva ancora una lunga ed importante missione civilizzatrice da compiere (assieme, ça va sans dire, alle sue abituali nefandezze) in Asia, America Latina ed Africa? Tale interpretazione è formalizzata in modo completo dall’economista marxista (ancorché laburista convinto…) anglo-indiano Meghnad Desai [27], ma già in qualche modo era stata preconizzata dalla Sinistra Comunista Italiana con diversi suoi lavori, tra cui il provocatorio “Plaidoyer pour Staline” (“Difesa di Stalin”) del 1956 [28]. (b) La seconda domanda fondamentale ha invece origini piuttosto remote risalendo alle prime discussioni in ambito marginalista sulle possibilità generali dello Stato di gestire un’economia “collettivista” (ossia a “capitalismo di stato”), in cui, cioè, gli investimenti siano centralizzati e in mano pubblica, e quest’ultima debba decidere le tecniche produttive da usare, le quantità di merci da fabbricare, i rispettivi prezzi di vendita, nonché i salari orari. Ora noi non siamo qui interessati alla complessa parte tecnica del problema [29], ossia alla dimostrazione matematica della plausibilità di una tale realtà economica. Né a capire quali e quanti elementi di mercato essa debba mantenere per garantire il suo funzionamento regolare. E neppure a valutare a quale stadio il denaro potrebbe esser rimpiazzato da buoni orari di lavoro (non scambiabili, né tesaurizzabili) inaugurando così la ben nota “fase inferiore del comunismo” (o “socialismo”, detto à la Lénine). La nostra domanda è molto più elementare da un lato, ma sicuramente più fondamentale dall’altro, e credo che sia proprio ciò che interessi in fondo, magari inconsciamente, ogni sincero socialista: un siffatto sistema di economia centralizzata, almeno in modo temporaneo, che idealmente rimonta addirittura al “Manifesto del Partito Comunista” [30] e alla “Critica al Programma di Gotha” [31], è davvero una tappa obbligata verso il socialismo, oppure hanno ragione gli “impossibilisti” del Socialist Party of Great Britain, che parlano invece di modelli ormai obsoleti, validi semmai nel XIX secolo, da rimpiazzare con un rapido stabilimento della “fase superiore del comunismo” (ossia “a ciascuno secondo le sue necessità e da ciascuno secondo le sue capacità”)? E la questione non sembri solo economica, in quanto è, al contrario, largamente politica dato che sia il “capitalismo di Stato” (con o senza elementi di mercato), sia la “fase inferiore del comunismo” necessitano di una presenza statale (o semi-statale, secondo gli ottimisti) in quanto devono gestire un’implicita restrizione dei consumi con una forma, magari labile, benigna e democratica, di coercizione, in ultima analisi improntata al celebre motto neotestamentario: “Chi non lavora neppure mangi!”. Sembrerebbe, detta in questo modo discorsivo, una questione veramente da poco eppure, a parere di chi scrive, è davvero la questione dell’oggi, a cui dovrà esser dedicata una riflessione particolare nei prossimi articoli. E ancora, come una sorta di corollario alla precedente domanda, qualora fossimo davvero costretti a cominciare a ripetere le tappe che abbiamo appena citato nel tentativo di transire a una società comunista su scala planetaria, chi ci garantirà di non incorrere nelle stesse disavventure del XX secolo, ovvero nel rischio di fare come il mitologico Sisifo condannato in perpetuo a rotolare un immane macigno fino alla vetta di un alto monte per poi vederlo ruzzolare in basso in un attimo?

 

Terminiamo questa III parte, dopo aver scritto qualche breve riflessione sul socialismo del XXI secolo, con poche righe aggiuntive sull’altro corno della questione: lo Stato oggi. È ben noto come la teoria generale dello Stato sia uno degli argomenti più complessi di tutta la filosofia della politica, per cui il lettore ci perdonerà se lo sottoporremo alle nostre opinioni che magari gli risulteranno goffe, schematiche o ingenue. Personalmente credo che sia necessario accettare l'idea secondo cui gradualmente nel corso del XX secolo lo Stato abbia cessato di essere soltanto una sovrastruttura politico-amministrativa del modo di produzione economico capitalista, come lo ha sempre voluto rappresentare la scuola marxista tradizionale. Nella fase attuale di "capitalismo monopolista di Stato" [32] la compagine statale è ormai una parte ineliminabile della struttura produttiva e quindi l'alta burocrazia pubblica (dirigenti apicali, magistrati, ufficiali generali, manager pubblici, "advisor" ecc.) è anch’essa mutata: non è più solo una stampella esterna della borghesia nazionale, ma è in primo luogo uno strato sociale di capitalisti, certamente “sui generis”, ma autentici. Abbiamo fatto questa premessa perché a nostro parere c'è stato un doppio errore, simmetrico e opposto, da parte dei liberisti e dei socialdemocratici nel corso dell’ultimo ventennio del secolo scorso: i primi durante gli anni '80-'90 credettero davvero di poter tornare (mediante intense privatizzazioni e una "deregulation" spinta dell’economia) allo “Stato liberale minimo", quello essenziale e snello del periodo manchesteriano del capitalismo [33], inseguendo così i sogni di von Mises, von Hayek, Nozick ecc. Uno Stato che fosse solo la cornice legale necessaria al mercato, fatto di esercito, polizia, tribunali e poco altro. In somma, uno strumento per tutelare la proprietà privata da ipotetici nemici interni ed esterni, per far rispettare i contratti e magari (ma non secondo i fanatici della vecchia “parità aurea") per stabilizzare la moneta.  Ovviamente basta vedere l'andamento dei bilanci pubblici (debito incluso!) in rapporto al PIL per capire il fallimento di una tale anacronistica prospettiva. A titolo di esempio basti citare l’Italia del periodo immediatamente antecedente alla pandemia da COVID19: lo Stato italiano nel 2019, mediante trasferimenti, spesa pubblica, amministrazione, incentivi, interessi sul debito ecc. prevedeva in qualche modo uscite per 871,1 miliardi di euro, ossia il 48,5% del PIL, ovvero poco meno della metà della ricchezza prodotta in quell’anno da tutti residenti nel nostro paese (pari a 1.796,6 miliardi di euro). Altro che Stato minimo! D’altra parte, la vecchia idea gradualista-riformista di "socializzare le attività produttive" mediante la lenta espansione della quota di imprese economiche gestite direttamente da uno Stato sempre più grande (e sempre più democratico) si è rivelata una chimera, persino nell'Europa Settentrionale che forse, culturalmente, era la regione europea più adatta a tale scelta. La crescita di una burocrazia pletorica, ipertrofica e autoreferenziale, le ingerenze della politica (persino quando non erano strettamente clientelari), la difficoltà di una gestione efficiente e spregiudicata della forza-lavoro, la complessa interazione con il settore privato (specie quello estero), i problemi di scelta degli investimenti e delle strategie globali transnazionali sono solo alcuni dei dilemmi incontrati dallo Stato imprenditore. In somma, per tutta una serie di noti motivi microeconomici, l'economia mista pubblico-privata, sognata dai socialdemocratici occidentali come risposta al “socialismo reale”, entrò in una crisi irreversibile alla fine degli anni '70. Una crisi sì, acuita anche dal cambio di paradigma culturale dei primi anni '80 che inneggiava al mercato in maniera spesso becera, acritica e sperticata, ma che non si può ridurre a questo solo, come vorrebbero invece certi nostalgici, anche culturalmente raffinati, dello statalismo, i quali ancora oggi si muovono nel perimetro della sinistra "radicale" [34]. Cos'è allora oggi questo enorme Stato che non è né minimo, né imprenditore? Sembrerebbe esser divenuto un grande facilitatore economico, un vero e proprio intermediario irrinunciabile per la sopravvivenza del capitalismo su scala intermedia, ossia per quegli agenti economici con dimensioni sostanzialmente minori delle grandi aziende “corporate” (multinazionali). Ma non diremo di più sull’argomento lasciando due rebus ai nostri lettori proprio al termine delle conclusioni di questo scritto divulgativo sui rapporti tra il socialismo e lo Stato borghese: cos’è divenuta la “democrazia” nell’era dello “Stato intermediario”? Potrà la classe lavoratrice prender possesso di una tale struttura, ormai solo marginalmente politica?

 



 

Fig. 10: La piramide del sistema capitalista secondo gli IWW nel 1911. In un secolo sono cambiate le fogge degli abiti, soprattutto femminili, e nuove armi hanno preso il posto dei vecchi moschetti e delle baionette, ma il capitalismo e il suo ‘doppio’, lo Stato, restano lì. Ancora per quanto tempo?


DAN KOLOG



[1] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[2] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).

[3] Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (Ed. Lotta Comunista, Milano, 2009).

[4] Palmiro Togliatti, La via italiana al socialismo (Editori Riuniti, Roma, 1972).

[5] Ernest Mandel, Critique de l'eurocommunisme (Maspero, Paris, 1978).

[6] Nel 1949, mentre le forze del Partito Comunista Cinese espellevano regione dopo regione il Kuo Min Tang sostenuto dagli Stati Uniti, avvicinandosi così alla vittoria definitiva della Rivoluzione Cinese (la quale fu proclamata il 1° ottobre del 1949), Mao Zedong chiarì la sua visione del tipo di governo che il Partito Comunista Cinese avrebbe di lì a poco stabilito. Essenzialmente in linea con la politica staliniana in Europa Orientale di istituire "repubbliche democratiche popolari", le quali avrebbero mantenuto per un certo tempo il capitalismo nazionale, ponendolo però sotto il dominio sovietico, Mao definì le tre classi che sarebbero state considerate alleate naturali della classe lavoratrice: i piccoli e medi contadini, la piccola borghesia urbana e la borghesia industriale nazionale, mentre la classe dei grandi proprietari terrieri e quella della borghesia commerciale e burocratica (a volte chiamata dei compradores, cioè degli agenti al soldo degli interessi imperialistici stranieri) furono bollate come nemiche della classe lavoratrice. Nei primi anni della Repubblica Popolare Cinese il “blocco delle quattro classi” contemplò vari tentativi di incorporare rappresentanti borghesi nel governo e di limitare le richieste di espropriazione dei capitalisti al solo capitale straniero, al fine di mantenere un blocco unico con la “borghesia industriale nazionale”. Nei primissimi anni Cinquanta (1949-52) si realizzò anche il programma di distribuzione della terra a danno della classe dei proprietari terrieri. Successivamente però, a partire dal 1952-53, pure la "borghesia nazionale" venne espropriata e fu completata la proprietà statale dell'intera industria manifatturiera. Al contempo gli oppositori di questa svolta vennero arrestati ed imprigionati. Nel 1954 il “blocco delle quattro classi” già era virtualmente terminato.

[7] Mao Zedong, Sulla nuova democrazia (Ed. Rinascita, Roma, 1956).

[8] Sulla supposta realtà del carattere feudale degli antichi modi di produzione in Asia, non possiamo dilungarci in quanto gli stessi autori marxisti del XX secolo non sono riusciti a costruire un consenso, come testimonia l’utile saggio di Gianni Sofri “Il modo di produzione asiatico” (Einaudi, Torino, 1969). Usiamo quindi in questo lavoro il termine “feudale” riferito all’Asia in modo solo qualitativo e per nulla scientifico.

[11] Jacopo Perazzoli, Qualcosa di nuovo da noi s’attende (Biblion, Milano, 2016).

[12] Giuseppe Berta, Eclisse della Socialdemocrazia (Il Mulino, Bologna, 2010).

[13] Carlo Schmid (1896-1979) fu un celebre giurista e politico socialdemocratico tedesco, da non confondersi nella maniera più assoluta con Carl Schmitt (1888-1985), anch’egli insigne giurista tedesco, ma cattolico conservatore e, almeno in un certo periodo, intellettuale organico del partito nazista.

[14] Famosa sezione del programma politico del Partito Laburista britannico che lo vincola a una vaga forma di socialismo. La versione originale della Clause IV fu redatta dai celebri socialisti fabiani Sidney e Beatrice Webb nel novembre 1917, e venne adottata dal partito nel 1918. Recitava così:

“(…) Assicurare ai lavoratori, sia manuali che intellettuali, tutti i frutti del loro lavoro e la distribuzione più equa possibile di essi sulla base della proprietà comune dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio, nonché il miglior sistema possibile di amministrazione e controllo popolari di ogni industria e di ogni servizio”.

Venne modificata solo nel 1995 durante la segreteria di Tony Blair.

[15] John Maynard Keynes. La fine del ‘laissez-faire’ ed altri scritti economico-politici (Bollati Boringhieri, Torino, 1991).

[16] Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Feltrinelli, Milano, 1973).

[17] Si veda, per esempio, la polemica di Paul Mattick circa il marxismo di Engels e Kautsky: https://www.marxists.org/archive/mattick-paul/1937/kautsky-engels-letters.htm

[18] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale (Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).

[19] Lev Trockij, La rivoluzione tradita (Mondadori, Milano, 1990).

[20] Anton Pannekoek, Workers’ Councils (1946). https://www.marxists.org/archive/pannekoe/1947/workers-councils.htm

[22] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori Riuniti, Roma, 1977).

[24] Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (Laterza, Bari, 1968). Naturalmente né Croce, né, molto più modestamente il sottoscritto, intendono in questo modo svalutare l’importanza dell’etica in sé come disciplina filosofica, ma soltanto ribadire che essa non può costituire in alcun modo un metro per i fatti storici, ossia quelli già accaduti, ma solo una guida per le azioni umane ancora da compiere.

[25] Ernest Mandel, La Burocrazia (Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1981).

[26] Roger Keeran and Thomas Kenny, Socialism Betrayed: Behind the Collapse of the Soviet Union (International Publishers, New York, 2004).

[27] Meghnad Desai, Marx’s Revenge: The Resurgence of Capitalism and the Death of Statist Socialism (Verso Books, Londra and New York, 2002).

[29] Tralasciando i lavori pioneristici di Enrico Barone (1908), fu il celebre economista liberista austriaco Ludwig von Mises ad innescare questo dibattito nel 1920. Infatti, poco dopo la nascita della Russia Sovietica, von Mises pubblicò un articolo dal titolo 'Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen Gemeinwesen” (“Il Calcolo economico nella comunità socialista”), in cui sosteneva che le economie a panificazione centrale (come quelle che i marginalisti chiamavano un po’ frettolosamente “socialiste”, ossia dove la proprietà dei mezzi di produzione è essenzialmente pubblica) sono condannate all’inefficienza e quindi, presto o tardi, alla bancarotta. In questo articolo, l’economista austriaco spiega che l’assenza di un mercato per i fattori produttivi impedirebbe il formarsi dei prezzi ad essi relativi. L’assenza dei prezzi, a sua volta, renderebbe impossibile l’individuazione di quali metodi di produzione siano i più efficienti dal punto di vista economico. L’assenza di informazioni affidabili sull’economicità dei metodi di produzione, infine, renderebbe impossibile effettuare il calcolo economico sulla base del quale orientare la produzione futura, ovvero la determinazione di quali merci produrre, di come produrle, e a quali prezzi offrirle sul mercato ai consumatori. Secondo von Mises, i personaggi fondamentali che permettono di effettuare praticamente un tale “calcolo economico” razionale sono, in modo del tutto inconscio, gli imprenditori. Questo dibattito andò avanti per tutti gli anni ’20, ’30 e ‘40 del XX secolo, interessando eminenti economisti liberisti come Friedrich von Hayek e Trygve J. B. Hoff, nonché socialisti (o comunque possibilisti circa il socialismo) quali Oskar Lange, Maurice Dobb e Abba Lerner. In linea teorica si potrebbe dire che Lange e Lerner uscirono vincitori dalla disputa benché il loro approccio fosse essenzialmente una versione piuttosto complessa di “socialismo di mercato”, alquanto lontana dalla realtà economica dell’URSS dei piani quinquennali. A rendere più complesso l’argomento fu il sorgere di una diramazione laterale del problema, ossia il cosiddetto “calcolo socialista in natura”, il quale, forse più ossequioso nei confronti della tradizione marxiana, eliminava tout court l’idea stessa di denaro (e quindi di prezzi). Proposto dal sociologo austriaco Otto Neurath nel 1919, il concetto di “calcolo in natura” precedette addirittura lo scritto polemico di von Mises ed attrasse l’attenzione dell’eminente economista matematico sovietico Leonid V. Kantorovič, che negli anni ’30 ne dimostrò la fattibilità mediante i metodi della programmazione lineare.

[30] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori Riuniti, Roma, 1977).

[31] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels, Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).

[32] Ja. Pevzner, Il capitalismo monopolistico di Stato alla luce della teoria del valore-lavoro (Edizioni Progress, Mosca, 1987).

[33] Vedasi, per esempio, il breve saggio divulgativo “MANCHESTER, ADDIO! LA SCUOLA ECONOMICA MARXISTA E IL LUNGO CORSO DEL CAPITALISMO POST-MANCHESTERIANO” di Dan Kolog (https://adattamentosocialista.blogspot.com/2023/01/manchester-addio-la-scuola-economica.html)

[34] Aldo Barba e Massimo Pivetti, La Scomparsa della Sinistra in Europa (Meltemi, Sesto S. Giovanni, 2021).

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