Il Socialismo e il Leviatano Le disavventure di socialisti e comunisti nei loro rapporti con il potere statale tra 1848 e 1991 PARTE III
Dal secondo dopoguerra alla dissoluzione dell’URSS
IX) L’ascesa del “socialismo
di Stato” dopo la II Guerra Mondiale
La
sconfitta nel 1945 delle potenze dell’Asse (Germania, Giappone, Italia ed altri
paesi satelliti dell’Europa centrale e orientale) ad opera di una vasta
coalizione alleata nella quale l’URSS giocava un ruolo molto rilevante, portò
un enorme prestigio al modello sovietico a livello internazionale, soprattutto
nelle nazioni extra-europee dove la lotta contro il giogo coloniale o
semi-coloniale (principalmente di Regno Unito, Francia e Portogallo) era (o
sarebbe giunta presto) all’ordine del giorno. Inoltre, nei paesi dell’Europa
orientale, dove l’URSS godeva sì di un certo consenso tra i ceti popolari, ma
non generalizzato, anche a seguito delle atrocità commesse dall’Armata Rossa
durante la “liberazione” di tali zone, furono la nota “spartizione di Jalta” e
la successiva “guerra fredda” ad impiantare il “socialismo reale” in modo molto
rapido (1945-1948). Fanno però eccezione due Paesi balcanici, la Jugoslavia e
l’Albania, dove la conquista del potere da parte dei locali partiti comunisti
avvenne grazie al ruolo egemonico da essi giocato nei rispettivi eserciti
partigiani che lottarono vittoriosamente contro le truppe dell’Asse. Molto
rozzamente possiamo indicare quindi due linee di espansione del “socialismo
reale” nel periodo 1945-1956, quella europea orientale e sud-orientale, che
darà luogo alle cosiddette “democrazie popolari”: Polonia, Repubblica
Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia e
Albania. E quella estremo-orientale, caratterizzata da fenomeni rivoluzionari
anticoloniali a base principalmente contadina, diretti da partiti comunisti o
da movimenti filocomunisti, che si dipanò su un vasto arco esteso dalla
penisola coreana (Corea del Nord), all’intera Repubblica Popolare Cinese (che
presto comprenderà anche il Tibet, ma non l’isola di Formosa), fino
all’Indocina ex-francese (Vietnam del Nord). Successivamente anche il Vietnam
unificato (1976) e il Laos (1975) in Asia, insieme a Cuba (1961) nell’America
Centrale, seguiranno il modello “realsocialista”, imitati poi dai tentativi più
o meno effimeri e velleitari di Angola, Benin, Congo-Brazzaville, Etiopia,
Mozambico, Somalia, Yemen del Sud, Afganistan, Cambogia e Grenada. Al momento
in cui scriviamo, invece, solo Corea del Nord, Cina, Vietnam, Laos e Cuba si
considerano ancora Paesi ufficialmente “socialisti” guidati da un partito unico
sedicente “marxista-leninista”, benché in realtà si tratti ormai di economie
parzialmente di mercato rette da un’imprenditoria mista pubblico-privata.
Abbiamo
visto nella Parte II di questo lavoro che la concezione generale dello Stato
tipica del movimento comunista internazionale si era, almeno apparentemente, fermata
e cristallizzata alle tesi leniniane di “Stato e rivoluzione” [1] del 1917. Ovvero all’idea
della sopravvivenza della forma-Stato, sebbene in totale discontinuità rispetto
alla precedente compagine “borghese”, durante la fase di “dittatura del proletariato”,
operata mediante il potere assoluto di una struttura piramidale di “soviet”
controllati ed imbrigliati da un partito di avanguardia retto, a sua volta, da
un rigido “centralismo democratico”. Con le aggiunte staliniane del 1936 e brezneviane
del 1977 si sancì poi, precisando così le brevi affermazioni leniniane sul
“semi-stato” [2],
che la sopravvivenza della forma-Stato si sarebbe estesa anche a tutta la “fase
inferiore del comunismo” (o “socialismo” secondo la dizione marxista-leninista)
che l’URSS proclamava di aver già raggiunto nella metà degli anni ’30 del XX
secolo. È appena il caso di ricordare che la più rigorosa confutazione della
pretesa di una “URSS socialista” venne elaborata dal comunista dissidente
Amadeo Bordiga e dai suoi compagni di partito nel 1955 nel saggio “Struttura
economica e sociale della Russia d’oggi” [3], dove una tale compagine
viene caratterizzata scientificamente come “industrialismo di Stato” nel quadro
generale di un “capitalismo (non completamente) di Stato” per via della
sopravvivenza di vaste aziende cooperative agricole dette kolchoz. Se
però si pensasse che i due nuovi polloni del “socialismo reale” si fossero
fermati de facto (e non solo de iure) a “Stato e rivoluzione”,
si commetterebbe una grossa ingenuità. In effetti sia le “democrazie popolari”
europee, sia le “repubbliche popolari” asiatiche, dovevano sciogliere un grosso
nodo teorico per potersi accreditare come Paesi in marcia verso il socialismo o,
addirittura, pienamente socialisti. Infatti, durante la presa del potere da
parte dei locali partiti comunisti, il ruolo dei consigli degli operai, dei
contadini e dei soldati era stato assolutamente marginale o addirittura del
tutto assente, in maniera completamente diversa dalle prime fasi della
Rivoluzione nell’ex-impero zarista, ossia quelle che vanno approssimativamente
dalla Rivoluzione di marzo del 1917 alla resa della Germania nel novembre del
1918. Se le vicende rivoluzionarie, specie in Jugoslavia, Cina, Corea e
Vietnam, assomigliavano alquanto alla seconda parte della guerra civile russa,
ovvero quella combattuta dall’inizio del 1919 alla fine del 1922, con vaste
armate partigiane a base principalmente contadina che si strutturavano come
veri e propri eserciti, mancava però tutta la fase iniziale, ovvero proprio
quella enfatizzata da Lenin e dalla propaganda del Komintern relativa alla
“democrazia dei soviet”. Inoltre, almeno in Asia, il ruolo di avanguardia
assegnato al proletariato industriale in Russia fu quasi del tutto assente. Le
due soluzioni, usate rispettivamente dai teorici jugoslavi, russi e bulgari (principalmente
Josip Broz “Tito”, Edvard Kardelj, Andrej A. Ždanov e Georgi Dimitrov
Michajlov) e da quelli cinesi e vietnamiti (Liu Shaoqi, Mao Zedong e Ho Chi
Minh) furono abbastanza diverse tra loro e vale la pena esaminarle entrambe
poiché rappresentano un ulteriore distanziamento dalla dottrina marxiana dello
Stato, ancora più profondo rispetto alle stesse concezioni di Lenin e di
Trockij viste nella parte II di questo lavoro.
Utilizzata
per la prima volta dallo jugoslavo Tito e dal bulgaro Dimitrov,
l’espressione politica “democrazia popolare” voleva segnalare una certa
differenza rispetto alla cosiddetta “democrazia proletaria” di tipo sovietico
(ovvero, la forma leninista della “dittatura del proletariato”). Infatti, nelle
democrazie popolari i partiti comunisti erano spesso al potere in coalizione
con altri partiti di ispirazione popolare e persino con piccole realtà
democratico-borghesi (anche se talvolta si trattava di meri partiti virtuali,
completamente manovrati dai comunisti, mentre in altri casi erano residui di
vecchie forze socialdemocratiche o contadine). Bisognava quindi sperimentare un
percorso diverso di transizione dal capitalismo al socialismo, più graduale di
quello bolscevico, nel quale si potessero distinguere nettamente due fasi:
la prima era la costruzione dei fondamenti economici e dei presupposti politici
del socialismo, mentre la seconda sarebbe stata la costruzione di una società
socialista vera e propria, intesa naturalmente nel senso stalinista o
post-stalinista del termine, ovvero ispirata all’URSS di quel periodo. Questa
formulazione un po’ sfumata delle democrazie popolari consentì di fatto
all’URSS, che sosteneva di aver avviato diversi anni prima l’esperienza della
transizione al socialismo, di legittimare la propria egemonia sull’Europa
Orientale e Sudorientale, in quanto Paese-guida nella costruzione di una
società socialista. È appena il caso di ricordare che con la rottura tra Jugoslavia
e URSS nel 1948, Tito e Kardelj rinunciarono all’idea del ruolo-guida sovietico
nella costruzione di una società socialista nei Balcani, rivendicando piuttosto
una “via nazionale al socialismo” profondamente diversa dal punto di vista
della programmazione economica e della gestione delle imprese, ma non
modificarono apprezzabilmente la vecchia dottrina statale della “democrazia
popolare”. Il termine di “via nazionale al socialismo”, accettato in qualche
modo persino dal PCUS di Kruščëv in funzione antistalinista in maniera da
facilitare il ricambio della classe dirigente in vari paesi dell’Europa
Orientale (dalla Polonia di Gomułka alla Romania di Ceauşescu), ebbe in Italia
un’importanza tutta particolare nella formulazione del segretario del Partito Comunista
Italiano, Palmiro Togliatti, durante i suoi ultimi anni di vita (1956-1964). Ma
in effetti questa versione “occidentale”, nota anche come “via italiana al
socialismo” [4],
poco aveva a che vedere con le problematiche delle “democrazie popolari”
d’oltrecortina. Il recupero del ruolo della democrazia parlamentare come valido
mezzo di conquista del potere da parte del partito della classe lavoratrice
riprendeva piuttosto idee tipiche della sinistra socialdemocratica degli anni
’20 (specie di Karl Kautsky e dell’austromarxismo di Otto Bauer e Max Adler),
ma senza mai citarla, dato l’anatema che Lenin aveva scagliato contro tale corrente
di pensiero e che ancora permaneva. Il leader bolscevico, come si è visto nella
parte II di questo lavoro, ammetteva sì la partecipazione alle elezioni
parlamentari, ma solo a mo’ di tribuna e senza fini strategici di alcun tipo.
Nel PCI dell’inizio degli anni ’60 si preferì quindi giustapporre talune
riflessioni gramsciane alle forti critiche leniniane alla “democrazia
borghese”, in modo tale da poter proporre la prassi politica del PCI, ormai
partito di massa eminentemente parlamentare, come “via italiana al socialismo”
non riformista e non gradualista, ma piuttosto “democratico-rivoluzionaria”,
senza mai ammettere che questa era proprio la concezione dell’ala sinistra
della IOS tra le due guerre mondiali. Tale ambiguità, come vedremo nella
prossima sezione, poté andare avanti per decenni proprio perché nel frattempo
la socialdemocrazia europea, avendo rinunciato tout court al socialismo,
non ebbe nessun interesse a rivendicare a sé l’essenziale paternità delle
formulazioni politiche dell’ultimo Togliatti e, poi, degli eurocomunisti Enrico
Berlinguer (con la sua cosiddetta “Terza Via”), Santiago Carrillo e Georges
Marchais. Sarà invece un intellettuale trotzkista, Ernest Mandel, a squadernare
questa scomoda verità in modo chiaro nel 1978 [5], ma da entrambi i lati
della “cortina di ferro” nessuno avrà un vero interesse ad alimentare una
polemica teorica su questa questione, forse con la parziale eccezione di Thomas
Bottomore e Massimo Salvatori, che, molto garbatamente, consigliarono ai
partiti comunisti occidentali lo studio del pensiero, rispettivamente, degli
austro-marxisti e di Kautsky.
Al
contrario, è nell’Estremo Oriente che troviamo i contributi più originali alla
dottrina dello Stato sviluppati dal movimento comunista successivo alla II
Guerra Mondiale, con il concetto di “nuova democrazia” (o “nuova rivoluzione democratica”),
il quale si basa sulla teoria maoista del cosiddetto “blocco delle quattro classi”
[6]. Tale teoria sosteneva fin
dall’origine che la democrazia in Cina avrebbe preso un iter decisamente
distinto da quello di qualsiasi altra compagine europea, arrivando
successivamente ad affermare persino che ogni Paese coloniale o semicoloniale
avrebbe sviluppato un suo percorso unico verso la democrazia, influenzato dalle
condizioni sociali e materiali di ogni particolare realtà geopolitica. Mao, in
effetti, etichettava la democrazia rappresentativa delle nazioni occidentali con
il nome di “vecchia democrazia”, caratterizzando il parlamentarismo ad essa
implicito essenzialmente come uno strumento per promuovere la dittatura della
classe dei capitalisti e dei proprietari terrieri attraverso un consenso
popolare completamente artefatto e manipolato. Ma trovava anche che il suo
concetto di “nuova democrazia” fosse in qualche modo in contrasto con la “dittatura
del proletariato” concepita in stile sovietico, la quale, almeno nel mondo dei
partiti comunisti, era considerata come la struttura politica naturale del
mondo post-capitalista. Ciò non deve però stupire in quanto per molto tempo Mao
affermò di voler creare in primo luogo una “nuova Cina”, ossia un paese
liberato dagli aspetti feudali e semi-feudali della sua vecchia cultura e,
soprattutto, dall'imperialismo giapponese. A partire dagli anni ’60 ciò avvenne
davvero: si tentò di creare una “nuova cultura” attraverso la Rivoluzione
Culturale, una “nuova economia” libera dai proprietari terrieri e, per
proteggere le nuove istituzioni, una “nuova democrazia” rappresentativa delle
quattro classi rivoluzionarie, vale a dire i contadini, il proletariato, la
piccola borghesia urbana e la borghesia imprenditoriale nazionale. Ma Mao aveva
in mente questo schema già da due decenni, quando, riguardo alla struttura
politica della “nuova democrazia”, nel paragrafo V del suo celebre articolo
intitolato "Sulla nuova democrazia" (gennaio 1940) scrive:
“Quanto
al problema del “sistema politico”, esso si riferisce all’organizzazione del
potere politico, alla forma che una data classe sociale sceglie per creare gli
organi del suo potere politico al fine di combattere i nemici e proteggere se
stessa. Quindi non esiste Stato che non abbia un adeguato sistema di organi del
potere politico adatti a rappresentarlo. La Cina può ora adottare un sistema di
assemblee popolari, dall’assemblea popolare nazionale, alle assemblee popolari
provinciali, distrettuali, circondariali, fino alle assemblee popolari
cantonali, ognuna delle quali elegge ai vari livelli i rispettivi governi. Ma
dobbiamo introdurre un sistema di elezioni a suffragio realmente universale,
uguale per tutti, senza distinzioni di sesso, di credenza, di censo,
d’istruzione. Solo questo sistema elettorale potrà far sì che ogni classe
rivoluzionaria sia adeguatamente rappresentata secondo la posizione che essa
occupa nello Stato. Ciò permetterà che la volontà del popolo si esprima, farà esistere
un'adeguata direzione delle lotte rivoluzionarie e incarnerà in modo adeguato
lo spirito della nuova democrazia. Questo è il centralismo democratico. Solo un
governo basato sul centralismo democratico può permettere alla volontà del
popolo rivoluzionario di esprimersi appieno e può combattere con la massima
energia i nemici della rivoluzione. Il principio secondo cui il sistema
democratico ‘non è qualcosa di cui pochi individui possono appropriarsi’ deve
trovare la sua espressione nella composizione del governo e dell’esercito;
senza un vero sistema democratico questo obiettivo non potrà mai essere
raggiunto e ciò comporterebbe una discordanza tra sistema politico e sistema
statale” [7].
Col
tempo il concetto di “nuova democrazia” venne diffuso anche all’estero e
adattato ad altri Paesi e ad altre realtà con motivazioni simili (ma non sempre
identiche) a quelle della Cina Popolare, ossia, ovunque forze rivoluzionarie
mirassero a rovesciare residui feudali [8] e a raggiungere la piena indipendenza
dal colonialismo o dal neocolonialismo. In questo scenario la “nuova
democrazia”, nel solco della vecchia polemica dei bolscevichi russi coi menscevichi,
rinuncia alla regola marxista “ortodossa” secondo cui la classe capitalista
nazionale solitamente sosterrebbe (o comunque seguirebbe) una tale lotta
antifeudale, affermando invece di cercare di avvicinarsi al socialismo
attraverso una coalizione di classi ostili al vecchio ordine dominante. Che
tale idea sia fortemente imparentata con la concezione trotzkista della
“rivoluzione permanente” è fuor di dubbio, ma tale correlazione non venne mai
accettata dalla dirigenza cinese in quanto quest’ultima era, almeno
formalmente, legata al mito antirevisionista di Stalin e quindi violentemente
ostile a Trockij, Bucharin, Tito e Kruščëv. Nella visione maoista la coalizione
rivoluzionaria delle “quattro classi” è posta sotto la guida della classe
operaia, che però, essendo numericamente assai limitata, deve a sua volta farsi
condurre dalla sua avanguardia politica leninista, ossia dal partito comunista.
In questo modo i comunisti saranno costretti a collaborare con vari gruppi
sociali, indipendentemente dalle ideologie non-marxiste da essi sostenute, al
fine di raggiungere l’obiettivo ravvicinato, ossia quello del "nuovo
ordine democratico". Sempre guidata dal partito comunista, la “nuova democrazia”,
una volta costruita, consentirebbe poi un certo sviluppo economico del
capitalismo nazionale come parte dello sforzo per fare a meno dell'imperialismo
straniero e del vecchio feudalesimo interno. Il passaggio delicato in questa
concezione è però quello secondo cui i comunisti cinesi speravano che la classe
operaia, in modo simile a quanto escogitato per la “nuova democrazia”, potesse passare
rapidamente a costruire il vero e proprio socialismo, nonostante gli interessi
divergenti delle altre tre classi sociali parti del blocco. Infatti, in Cina, ricordiamolo
nuovamente, l'applicazione del concetto maoista di “nuova democrazia” aveva dato
origine ad un vigoroso appello alla lotta del Partito Comunista Cinese che si
era posto a capo di una vasta coalizione di lavoratori poveri urbani e rurali, di
intellettuali progressisti e di borghesi “democratico-patriottici”,
contribuendo in ultima analisi a una rivoluzione su vasta scala dal successo
davvero impressionante per la sua rapidità: 1946-1949.
Dal
punto di vista teorico Mao spiega la “nuova democrazia” e il “blocco delle
quattro classi” come una dolorosa, ma necessaria, conseguenza dell'imperialismo
descritto da Lenin nel suo celebre opuscolo. Infatti, come abbiamo già
accennato, la dottrina marxista “ortodossa” delle fasi di sviluppo economico e
storico del modo di produzione in cui può aver luogo una rivoluzione socialista,
stabilisce che questa si verifichi solo dopo che la rivoluzione democratico-borghese
capitalista sia già avvenuta. Secondo questa idea, la rivoluzione
democratico-borghese apre la strada allo sviluppo della classe lavoratrice
industriale come classe numericamente maggioritaria nella società, dopodiché tale
classe potrà rovesciare il capitalismo e cominciare a costruire il socialismo.
Mao non era però completamente d'accordo con questo schema e disse che la
rivoluzione democratico-borghese e la rivoluzione socialista potevano essere
combinate in un'unica fase, piuttosto che in due fasi consecutive e separate. Chiamò
questa fase combinata “nuova democrazia”, sostenendo che lo stesso Marx era
stato spesso frainteso sull’argomento poiché il filosofo di Treviri non avrebbe
postulato che necessariamente solo dopo che si fosse formata una società
capitalistico-borghese, una rivoluzione socialista sarebbe divenuta possibile. Al
contrario, in particolare in una lettera a Vera I. Zasulič nel 1881 (prima
stesura) [9], Marx suggerì una possibilità
di cambiamento rivoluzionario nella Russia dell'epoca che sembra sotto certi
aspetti simile alle tesi di Mao sulla “nuova democrazia”:
«Trattando
della genesi della produzione capitalistica ho affermato che essa si fonda
sulla “separazione completa del produttore dai mezzi di produzione” (p. 315,
colonna I, edizione francese de “Il Capitale”) e che “la base di tutto questo
sviluppo è l'espropriazione del produttore agricolo, che fino ad oggi non si è
compiuta in modo radicale da nessuna parte se non in Inghilterra... Ma tutti
gli altri paesi dell'Europa occidentale stanno attraversando lo stesso processo”
(ibidem, colonna II). Ho quindi espressamente limitato la "inevitabilità
storica" di questo processo ai paesi dell'Europa occidentale. E perché? Sia
così gentile da riferirsi al capitolo XXXII, dove si dice: Il "processo di
eliminazione che trasforma i mezzi di produzione individualizzati e dispersi in
mezzi di produzione socialmente concentrati, la minuscola proprietà di molti in
enorme proprietà di pochi, questa dolorosa e spaventosa espropriazione dei
lavoratori, costituisce l'origine, la genesi del capitale. La proprietà
privata, basata sul lavoro personale … sarà soppiantata dalla proprietà privata
capitalista, basata sullo sfruttamento del lavoro altrui, sul lavoro salariato”
(p. 340, colonna II). Si tratta quindi, in ultima analisi, della trasformazione
di una forma di proprietà privata in un'altra forma di proprietà privata.
Poiché la terra nelle mani dei contadini russi non è mai stata loro proprietà
privata, come potrebbe essere applicabile questo sviluppo?» [10].
Va
ricordato ad onore del vero che questo brano di Marx era stato già
abbondantemente citato da Bucharin nel 1925-26 nella sua polemica contro
Trockij e Zinov’ev quando si voleva fornire, forse in modo un po’ disinvolto,
una base teorica marxiana alla nuova idea bolscevica del “socialismo in un solo
paese”. Ad ogni modo l’idea della
coalizione di classe della “nuova democrazia” è abbastanza simile al punto di
vista di V. I. Lenin, che aveva rotto con i menscevichi proprio sull'idea che
la classe operaia potesse organizzare e guidare la rivoluzione democratica in
un paese sottosviluppato come la Russia d’inizio XX secolo, dove non esistevano
ancora le condizioni oggettive per il socialismo. Tuttavia, l'esperienza cinese
contrasta anche con la rivoluzione bolscevica perché include, piuttosto che
prendere di mira, una parte della borghesia nazionale (ossia, la classe
borghese non completamente asservita all’imperialismo straniero in un paese
semicoloniale). Poi, una volta che la “nuova democrazia” è stata stabilita nel
modo delineato dalla teoria maoista, il Paese viene gradualmente reso “socialista”
dal punto di vista ideologico e si inizia a lavorare per la costruzione del socialismo
(inteso ovviamente in senso leninista) sotto la guida del partito comunista che
spinge tutta la società, a volte anche in modo violento, brutale e
contraddittorio, nello sforzo di sradicamento delle strutture economiche precedenti
e di costruzione di una nuova realtà post-capitalista. Esempi di ciò sono stati
lo sfortunato “grande balzo in avanti” (1958-61) e la cruenta Rivoluzione
Culturale (1966-76) per ciò che Mao vedeva come le potenzialità insite nel
concetto di “nuova democrazia”. In questo senso, riassumendo il nostro breve
discorso sulle concezioni comuniste asiatiche del secondo dopoguerra, si può
dire che, data la natura della “nuova democrazia” come "fase
intermedia", essa sarebbe secondo il maoismo una sorta di trampolino di
lancio verso il socialismo prima, e poi verso il comunismo, il quale resterebbe
l'obiettivo politico ed economico finale; ovvero la creazione di una società
senza Stato, senza classi e senza denaro, ovviamente ancora irraggiungibile nel
periodo della “nuova democrazia”. La periodizzazione leniniana, già con tre
stadi ben definiti (dittatura del proletariato, socialismo, comunismo) rispetto
all’originale continuum marxiano, si modifica ulteriormente con Tito,
Dimitrov e Mao in quanto un’altra fase (la “democrazia popolare” oppure la
“nuova democrazia” con il potere delle quattro classi) si sostituisce alla vera
e propria “dittatura del proletariato”. Se secondo Mao ciò sarebbe necessario
in quanto si tratterebbe di Paesi ancora più lontani dalla maturità capitalista
della vecchia Russia, tale giustificazione cadrebbe completamente per taluni
regimi dell’Europa Orientale, ben più sviluppati capitalisticamente nel 1948 di
quanto non lo fosse l’impero zarista nel 1917. Qual è allora la vera ragione di
questo astuto escamotage politico-propagandistico? Ci permettiamo di
avanzare una duplice ipotesi: da un lato per salvaguardare la reputazione del
“socialismo”, spostandolo convenientemente in un’età successiva al periodo
1945-56, dall’altro, e questo è probabilmente il punto più importante, per mantenere
una parvenza di indipendenza delle classi dirigenti locali in modo da non
urtare i sentimenti patriotici e nazionalisti delle popolazioni, ancora assai
diffusi nei Paesi recentemente aggregati al blocco sovietico. Infatti, in un’ottica
di puro “socialismo”, perché i paesi dell’Europa Orientale e Sudorientale,
nonché quelli asiatici, non avrebbero dovuto chiedere (come fece la piccola
Tuva) una pura e semplice annessione all’URSS in qualità di nuove repubbliche
socialiste sovietiche federate? Che la molla nazionalista e patriotica
rimanesse importante in quegli ambiti lo si può vedere in modo chiarissimo studiando
il duro scontro tra URSS e Cina nel lungo periodo 1960-82 e la connessa guerra
tra Vietnam e Repubblica Popolare Cinese del 1979. A mo’ di epilogo della
vicenda cinese, un po’ atipica rispetto al generale tracollo ideologico dei
Paesi del “socialismo reale”, va ricordato che quando la Cina, dopo la morte di
Mao Zedong e la cacciata della famigerata “Banda dei quattro” imboccherà la via
del “socialismo di mercato” prima e dell’economia mista dopo (benché
quest’ultima sia nota oggi in modo un po’ artificioso come “socialismo con
caratteristiche cinesi”), la teoria del “blocco delle quattro classi” tornerà
grandemente in auge. Ma non si tratterà più delle vecchie tre classi maoiste,
alleate del giovane proletariato cinese nella lotta all’imperialismo esterno e
al feudalesimo interno. Saranno tre classi sociali “nuove di zecca” e tutte
“borghesi”, frutto appunto dell’enorme sviluppo dell’economia mista cinese:
imprenditori agricoli, imprenditori commerciali e imprenditori industriali.
X) La politica contro il
mercato? La socialdemocrazia occidentale ai tempi di Bad Godesberg
Nella
parte II abbiamo descritto brevemente le concezioni politiche relative allo
Stato di quegli eredi della Seconda Internazionale che in qualche modo si
rifacevano ancora alle elaborazioni di Marx ed Engels. Si è visto che il fulcro
della prassi politica veniva identificato con l’espansione della democrazia
rappresentativa parlamentare mediante l’inclusione di elementi della cosiddetta
“democrazia sociale”, vista come strada maestra verso il socialismo. In taluni
autori in maniera sicuramente riformista e gradualista, in altri invece
immaginando una “rivoluzione lenta” e su base largamente maggioritaria, ma
comunque irreversibile e non limitata alle sole aule parlamentari. Tuttavia, abbiamo
colpevolmente sorvolato su un punto importante: la prassi politica. In effetti per
larga parte del versante socialista democratico le grandi speranze iniziali, ma
anche le forti delusioni successive, non mancarono in tutta l’Europa
Occidentale del primo dopoguerra. Vari partiti socialisti giunsero al governo:
in Germania (1918–1921, 1923, 1928–1930), in Austria (1918-1920), in Svezia
(1920, 1924), in Gran Bretagna (1924). Poi, negli anni ’30, anche in Spagna
(1931-1933 e 1936-1939), in Francia (1936-1937), ancora in Svezia (1936-1976),
in Belgio (1938-1939) ecc., spesso però in coalizioni con partiti repubblicani,
radicali o addirittura cristiano-democratici e, talvolta, persino comunisti.
Naturalmente i governi progressisti innervati dalla presenza socialista vollero
subito implementare, per quanto possibile, politiche a favore dei lavoratori,
con leggi sui limiti di orario e sulle ferie pagate, sulle assicurazioni
sanitaria e pensionistica obbligatorie, sui salari minimi, sui contratti e sulle
indennità di disoccupazione. Sovente i loro programmi di partito prevedevano
anche di espandere il ruolo dello Stato nell’economia con forme più o meno
estese di nazionalizzazione di imprese strategiche (per esempio, nei settori
dei trasporti, dell’energia, della difesa, del credito ecc.) e di
programmazione economica, nonché con lo sviluppo di un vasto sistema di
cooperative. Ma, con la sola eccezione della Svezia, dove il Partito
Socialdemocratico dei Lavoratori restò al potere ininterrottamente per più di quarant’anni,
nel periodo tra le due guerre mondiali i socialisti democratici europei
toccarono con mano l’acuta difficoltà di modificare democraticamente i paesi
capitalisti avanzati in senso socialista e, almeno a grandi linee, si può dire
che non vi riuscirono affatto: a volte (come in Germania, Austria e Spagna) per
via dell’avvento del fascismo, in altre circostanze (come in Belgio, Francia,
Gran Bretagna ecc.) per l’incapacità di attrarre stabilmente il voto dei
contadini piccoli e medi nel mondo rurale e, soprattutto, delle cosiddette “classi
medie” urbane, ormai abbastanza colte e patrimonializzate. Per quel che
concerne l’aspetto programmatico più prossimo alla concezione generale dello
Stato è opportuno menzionare l’opera dei giuristi socialdemocratici tedeschi e
austriaci dell’epoca di Weimar, come per esempio il celebre Hermann Heller
(1891-1933), i quali capirono bene che l’estensione della democrazia politica
non poteva limitarsi al suffragio universale e al parlamento deliberativo, ma
doveva, al contrario, procedere gradualmente a democratizzare tutte le funzioni
statali interne rimaste appannaggio di una ristretta cerchia conservatrice,
quasi ereditaria, di esperti, funzionari, militari ecc., tutti burocrati non votati
e, soprattutto, non facilmente revocabili dal potere politico. Ben prima
dell’arrivo di Hitler al governo, fu ben chiaro che il presidente della
repubblica Paul von Hindenburg, eletto nel 1925, proprio di questo strato
sociale era il massimo esponente e il difensore.
Dopo
la Seconda guerra mondiale l’alleanza tra socialisti democratici e comunisti,
che pure aveva prodotto risultati notevoli mobilitando forti milizie popolari
in diversi paesi e impegnandole in forme di guerriglia antifascista (il cosiddetto
fenomeno della “Resistenza” europea), andò già in frantumi nel 1947 appena
sorsero contrasti tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia da un lato, e URSS
dall’altro, per il controllo dell’Europa Orientale e dell’Estremo Oriente: era
l’inizio della cosiddetta “guerra fredda”, che raggiunse il suo apice poco dopo,
durante la Guerra di Corea (1950-1953). Solo l’Italia farà eccezione: la
rinuncia al patto di unità d’azione tra PSI e PCI avverrà più tardi, nel 1956, successivamente
alla denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin e alla violenta repressione sovietica
della rivolta ungherese.
Ma
quale fu invece l’elaborazione politica del Socialismo Democratico nel secondo
dopoguerra? Ci limiteremo per brevità a menzionare in questo periodo, in modo
molto succinto, solo i principali partiti dell’Europa Occidentale (dato che i
loro omologhi dell’Europa Orientale erano stati o sciolti, o unificati a forza
con i movimenti comunisti al potere, già negli anni 1945-1948). La prima cosa
da notare è l’estremo indebolimento delle ali sinistre “massimaliste” del
Socialismo europeo come effetto della “guerra fredda”. Se infatti il pericolo
fascista le aveva sviluppate a dismisura negli anni ’30, comportando
addirittura l’uscita di talune di esse dall’Internazionale Operaia e Socialista
e la conseguente fondazione del cosiddetto “Bureau di Londra”, la minaccia
comunista ebbe l’effetto opposto: con le sole parziali eccezioni della SFIO
francese e del PSI italiano (almeno fino alla fuoriuscita, rispettivamente,
dello PSU nel 1960 e del PSIUP nel 1964), il riformismo revisionista conquistò
in modo graduale, ma irreversibile, tutto il campo europeo. Tuttavia, si tratta
ancora, abbastanza plausibilmente, di una strategia piuttosto che di un
obiettivo [11],
nel senso che il Socialismo degli anni immediatamente successivi alla Seconda
Guerra Mondiale rimane programmaticamente legato al superamento del capitalismo
(sebbene in modo democratico e graduale) e allo stabilimento di una società
socialista mediante la socializzazione dei principali rami della grande
industria e la pianificazione democraticamente centralizzata dell’economia. In
quest’ottica va visto il sorprendente risultato laburista in Gran Bretagna ottenuto
da Clement R. Attlee nel 1945, che portò il partito a formare un governo
monocolore in carica fino al 1951. Successivamente i laburisti britannici
torneranno al potere dal 1964 al 1970 e poi ancora dal 1974 al 1979, mentre in Europa
continentale la SFIO governerà in coalizione dalla fine della guerra fino al
1950 e di nuovo nel periodo 1956-1958, ovvero in piena crisi politica della
Quarta Repubblica causata dalla guerra d’indipendenza dell’Algeria. Al
contrario, il partito socialdemocratico più forte, la SPD tedesco-occidentale,
giunse al potere molto in ritardo, prima insieme ai cristiano-democratici nella
“Grande Coalizione” del 1966-1969 e poi con i liberali dal 1969 al 1982. Ma qui
siamo già a un bivio della storia del Socialismo europeo. Infatti, proprio la SPD
fu il primo partito della rinata Internazionale Socialista ad abbandonare
esplicitamente l’idea della fuoriuscita dal capitalismo durante il famoso
congresso di Bad Godesberg del 1959, quando l’obiettivo programmatico finale venne
trasformato nel “capitalismo controllato e umanizzato” mediante un intervento
pubblico di tipo essenzialmente keynesiano e redistributivo, unito alla
cogestione (mitbestimmung) aziendale tra imprenditori e sindacati.
Questa “mutazione politica” fondamentale si diffonderà gradualmente in tutta
Europa: in Francia, parzialmente, con la rifondazione del PSF a Épinay nel
1971, in Italia nel 1981 con il congresso di Palermo del PSI quando venne
abbandonata la cosiddetta “Alternativa Socialista”, in Svezia con il rifiuto
del celebre “piano Meidner” nel 1982 e, infine, in Gran Bretagna con l’elezione
alla segreteria di N. G. Kinnock nel 1983. Si trattò in un certo senso della
vittoria postuma del laburista di destra Antony Crosland (1918-1977) che
preconizzava questa trasformazione già nel 1956 con il suo celebre saggio
provocatorio “Il Futuro del Socialismo” [12]. Ad esso volle fare eco
nel 1998 il famoso saggio di Antony Giddens (l’ideologo del “New Labour”) chiamato “La Terza Via,
il Rinnovamento della Socialdemocrazia”, che però ha un obiettivo piuttosto
diverso: sancire la completa resa al capitalismo globalizzato da parte di
quelli che una volta si definivano i “socialisti democratici” europei. Per
concludere questa breve carrellata storica sulla concezione dello Stato nella
socialdemocrazia europea del secondo dopoguerra, non ci resta che analizzare
più in dettaglio il progetto riformista di questo periodo che, come si è già
visto, va lentamente a esaurirsi nel ventennio ’60-’80, spianando poi la strada
prima all’idea keynesiana del “capitalismo controllato e umanizzato”, ma poi a
partire dalla metà degli anni ’90, alla grigia fase neo-liberista della
socialdemocrazia europea che sembra durare ancora oggi.
Il
nucleo del pensiero socialista riformista, che, ci si consenta la ripetizione, poco
o nulla aveva in comune con le tendenze neoliberiste odierne, si basava su due
assiomi, certamente molto discutibili ex post, ma per nulla campati in
aria all’epoca della loro formulazione:
A)
il socialismo non è nemmeno pensabile in un quadro politico autoritario, in
quanto si tratta dell’estensione dei diritti democratici al piano economico;
B)
come il capitalismo è cresciuto per secoli all’interno del sistema feudale
prima di entrare in conflitto aperto con questo e prendere il sopravvento, così
il socialismo si svilupperà gradualmente e impercettibilmente dentro il capitalismo
prima di piegarlo e rimpiazzarlo.
Nella
visione dei riformisti non vi era alcuna contraddizione tra le ipotesi appena
esposte e i capisaldi dell’approccio marxista, in quanto l’assioma (A), dato il
carattere largamente maggioritario dei lavoratori dipendenti nelle società
occidentali del secondo dopoguerra, risultava perfettamente compatibile con
l’idea della “dittatura del proletariato”. Anzi, la vittoria per via elettorale
dei partiti socialisti sarebbe stata la forma più pura (perché essenzialmente
nonviolenta e soggetta a periodiche conferme) di tale “dittatura”, meglio
definibile come “egemonia del Lavoro nella società”. Più complesse erano invece
le conseguenze dell’assioma (B). Infatti l’egemonia politica del partito dei
lavoratori non si sarebbe dovuta esplicare (come nei fatti molte volte è invece
avvenuto) nella sola redistribuzione di quote di profitto alla classe
lavoratrice mediante una tassazione progressiva, aumenti salariali, istruzione
pubblica, uno stato sociale avanzato ecc., poiché questo programma di per se
stesso era largamente compatibile con il neocapitalismo occidentale
postbellico, soprattutto dopo la diffusione delle teorie economiche keynesiane relative
all’importanza della spesa pubblica nel perseguimento della piena occupazione.
Per far “crescere lentamente il socialismo in seno al capitalismo” era
necessario che, assieme alla politica redistributiva che abbiamo appena
descritto, ci fosse un di più che impercettibilmente accorciasse la distanza
tra lo stato reale dell’economia e il socialismo. Già a partire dal programma
riformista di Heidelberg della SPD degli anni ’20 (che, come si è detto nella
parte II di questo lavoro, venne stilato principalmente da Karl Kautsky e Rudolf
Hilferding) questo “surplus” di socialismo era stato identificato con le cinque
“oni”: nazionalizzazione (totale, o più spesso parziale, ma sempre con
indennizzo, dei settori capitalisti strategici, quali il credito, le
assicurazioni, gli armamenti, i trasporti, la siderurgia ecc.); cogestione (rafforzando per legge il
ruolo dei sindacati e di altri organismi elettivi dei lavoratori nella gestione
delle imprese private); cooperazione
(favorendo la formazione di imprese cooperative, soprattutto nel settore
agricolo e in quello terziario); programmazione
(indirizzando gli investimenti privati in settori, aree geografiche e forme
prescelte, mediante forti incentivi quali, per esempio, la parziale
detassazione degli utili aziendali); democratizzazione (seguendo le idee
del giurista socialdemocratico tedesco, allievo di Heller, Carlo Schmid [13], per aumentare il peso
della parte elettiva dello Stato costituzionale a svantaggio del ceto
tecnico-burocratico non eletto e difficilmente revocabile). Ma come avvenne
allora l’abbandono graduale del robusto programma riformista da parte del socialismo
democratico europeo? Il punto debole degli anni ’50 fu essenzialmente di natura
sociale (in parte legato anche alla “guerra fredda”) e, con l’esclusione della
Svezia, toccò un po’ tutti i paesi europei, anche se in modo diverso: i
laburisti britannici al potere fino al ’51 non furono confermati; i socialisti
francesi di Guy Mollet furono costretti a estenuanti e inconcludenti governi di
coalizione; mentre i socialdemocratici tedeschi rimasero esclusi dal potere per
decenni. La motivazione era legata essenzialmente a una premessa implicita
nell’assioma (A) che si rivelò tutt’altro che ovvia: l’esistenza di una robusta
coscienza di classe. Non tutti i lavoratori dipendenti, a causa della diversa
istruzione, delle disomogeneità retributive e, soprattutto, delle differenti
mansioni, avevano la spiccata percezione di essere parte di una stessa classe
sociale. Soprattutto gli impiegati e i tecnici specializzati si ritenevano
membri di una vaga quanto indistinta “classe media”, vicina sì, ma sicuramente
superiore, a quella operaia industriale. Costoro erano in genere disposti a
votare episodicamente per la socialdemocrazia, ma non potevano essere
considerati degli elettori fedeli e, soprattutto, non apprezzavano molto la
“parte socialista” del programma, che sebbene democratica, ricordava loro
troppo da vicino l’esperienza sovietica, con le sue grandi aziende pubbliche, i
suoi piani quinquennali e le sue fattorie cooperative. Per reagire a tale impasse, (ma, ad onore del vero, sovente
anche a causa dei compromessi impliciti nei frequenti governi di coalizione) vi
fu la tendenza da parte dei dirigenti socialisti a mettere la sordina proprio
su questi aspetti programmatici, favorendo invece quelli, per così dire,
“keynesiani”. Tale processo s’intensificò soprattutto in Germania, a causa
delle perenni sconfitte elettorali della SPD e per il fatto che il partito comunista
tedesco (la KPD), possibile critico da sinistra, era stato ufficialmente
bandito dalla Corte costituzionale in quanto pedina di uno stato estero ostile.
Fu proprio questa l’era della celebre svolta antimarxista del citato congresso
di Bad Godesberg del 1959. In Francia e in Italia invece, dove il PCF e il PCI
erano molto vivaci e spesso critici, rispettivamente, delle posizioni della
SFIO e del PSI, la tendenza a eliminare i richiami teorici al socialismo rimase
praticamente inespressa ancora per decenni. Il Regno Unito sviluppò un
atteggiamento intermedio, anche a causa della morte prematura di Hugh
Gaitskell, un acceso keynesiano fautore della cancellazione della famosa “Clause IV” [14]
socialista, e alla successiva affermazione della sinistra interna di Harold
Wilson. Ad ogni modo, sia che fosse stato eliminato programmaticamente come in
Germania, sia che rimanesse praticamente inespresso a causa delle vicende
politiche contingenti, il Socialismo riformista, con qualche lodevole eccezione
nell’Italia del centro-sinistra, cominciò a perdere velocemente quota lasciando
il campo alla sola politica della redistribuzione e del “welfare state”. Di come poi quest’ultima non superasse agevolmente
il periodo della crisi economica degli anni ’70 per venire quasi totalmente
affossata nel decennio successivo ne parleremo sicuramente in altra sede.
Scriveva polemicamente l’ispiratore di tali concezioni, il celebre economista
liberale John Maynard Keynes, già nel 1926 [15]:
“Ma i
principi del ‘laissez-faire’ hanno avuto altri alleati oltre i manuali di
economia. Va riconosciuto che tali principi hanno potuto far breccia nelle
menti dei filosofi e delle masse anche grazie alla qualità scadente delle
correnti alternative: da un lato il protezionismo, dall'altro il socialismo di
Marx. Queste dottrine risultano in fin dei conti caratterizzate, non solo e non
tanto dal fatto di contraddire la presunzione generale in favore del ‘laissez-faire’,
quanto dalla loro semplice debolezza logica. Sono entrambe esempio di un
pensiero povero, e dell'incapacità di analizzare un processo portandolo alle
sue logiche conseguenze. (...). Il socialismo marxista deve sempre rimanere un
mistero per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e vuota
possa aver esercitato un'influenza così potente e durevole sulle menti degli
uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia.”
I
socialisti democratici del secondo dopoguerra, perennemente in equilibrio
instabile tra Marx e Keynes, erano in realtà già stati avvisati negli anni ‘20
della impossibilità della loro sintesi. E così prima rinunciarono a Marx per
poi, un ventennio dopo, rinunciare anche a Keynes ed abbracciare in toto il
capitalismo neoliberista, “finanziarizzato” e globalizzato.
XI) Che
fare? Ma, soprattutto, che cosa non fare? Briciole di riflessioni sulla crisi
attuale e il futuro dell’idea di socialismo
Siamo in fine giunti al
termine del nostro rapido itinerario che ci ha portato dal 1848 parigino, primo
e brevissimo rendez-vous tra i socialisti e lo Stato, al crollo della
gran parte dei Paesi detti del “socialismo reale”, alla trasformazione dei
rimanenti regimi in sistemi economici “misti” e alla totale omologazione della
socialdemocrazia all’ortodossia liberal-capitalista dominante, con tutti e tre
gli eventi collocabili nel breve lasso di tempo compreso tra la seconda metà
degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 del XX secolo. Convenzionalmente
scanditi da date simboliche, quali il crollo del muro di Berlino (9 novembre
1989), o la caduta dell’URSS (26 dicembre 1991), o la fine del potere di Deng
Xiaoping in Cina (25 maggio 1992), o persino l’inizio del “New Labour”
di Tony Blair in Gran Bretagna (21 luglio 1994), questi tre eventi politici,
apparentemente così distanti, possono esser compresi nelle loro sottili
correlazioni reciproche soltanto facendo riferimento all’affermarsi in quegli
anni della globalizzazione capitalista. Limitandoci alla sola Europa
Occidentale, non possiamo considerare una fortuita coincidenza il fatto che
proprio a partire dal 1992 siano stati rimossi tutti i vincoli ai movimenti dei
capitali e si sia verificata una progressiva perdita di autonomia dei
governi nazionali nei campi della politica monetaria e
dell’allocazione dei capitali all’interno degli Stati membri della
Comunità Economica Europea (poi, dal 1° novembre 1993, Unione Europea). In
altri termini vogliamo qui sostenere che la lunga vicenda del “socialismo di
Stato” finisce ex abrupto nel quinquennio 1989-94 (benché segnali di malessere
fossero già visibili a partire dalla fine degli ’60) per una crisi profonda non
tanto delle potenzialità del socialismo in sé, ma, soprattutto, della funzione
e dell’ambito degli Stati nazionali. Proprio su questo grosso equivoco dobbiamo
segnalare il nostro parziale disaccordo rispetto a due valutazioni (1 e 2),
apparentemente contrarie ma in realtà assai prossime tra loro, che si
riscontrano a partire dalla metà degli anni ’90 negli ambienti della cosiddetta
“sinistra radicale anticapitalista”.
1) In ambito anarchico,
consiliarista, o comunque socialista libertario si celebra la caduta del
“socialismo di Stato”, sia nella sua variante “dura” leninista, sia in quella morbida
“socialdemocratica”, come la fine di un’impostura, di un innaturale innesto del
“vero socialismo” (concepito come regno della libertà e della
autodeterminazione umana) sullo Stato, visto à la Bakunine come la
quintessenza dello sfruttamento e della violenza dell’uomo sul suo simile. È
naturale che questa visione implichi anche l’idea del naufragio ideale (e
persino della “colpa primigenia”) del programma socialista scientifico di Marx
ed Engels (per gli anarchici) [16], oppure di Engels e
Kautsky [17]
(per i consiliaristi). È naturale che tale visione, come si è anche visto nella
parte I del presente lavoro, contenga spunti interessanti relativi all’”azzardo”
del programma marxista originario basato sulla relazione tra socialismo e
politica (prima ancora che tra socialismo e Stato). Ovvero, sull’idea che lo
Stato, benché sia in ultima analisi un corpo di uomini armati che stabilizzi
dall’esterno con metodi coercitivi anche violenti (ma non solo) i rapporti di
produzione fondamentali per un determinato modo di produzione classista, possa
essere usato anche come strumento e leva per rovesciare tali rapporti e
riconfigurarli in maniera socialista, ossia senza classi sociali e, dunque,
senza annesso sfruttamento. Ma se l’”azzardo” di Marx ed Engels,
connaturato alla loro visione fortemente dialettica dei processi storici, è
innegabile, esso però consiste in tutto e solo quello che è stato incapsulato nella
limpida e brevissima frase del programma socialista del 1904 elaborato dal Socialist
Party of Great Britain:
“That the machinery of government, including the armed forces of the
nation, exists only to conserve the monopoly by the capitalist class of the
wealth taken from the workers, the working class must organise consciously and
politically for the conquest of the powers of government, national and local,
in order that this machinery, including these forces, may be converted from an
instrument of oppression into the agent of emancipation and the overthrow of
privilege, aristocratic and plutocratic”.
[“Poiché la struttura del
governo, comprese le forze armate nazionali, esiste solo per conservare, a
vantaggio della classe capitalista, il monopolio della ricchezza sottratta ai
lavoratori, la classe lavoratrice deve organizzarsi coscientemente e
politicamente per la conquista dei poteri del governo, sia nazionali che locali,
affinché tale apparato, comprese le sue forze armate, possa essere convertito
da strumento di oppressione ad agente di emancipazione e abbattimento del
privilegio aristocratico e plutocratico”].
Il resto della vicenda,
dalla stesura del programma di Erfurt [18] fino al crollo dell’URSS,
non è necessariamente implicito nel pensiero marxiano come vorrebbero certi
detrattori del “socialismo di Stato”, quanto piuttosto, almeno a parere di chi
scrive, esso rappresenta una costellazione di tentativi, a volte anche
diversissimi tra loro, di calare nella situazione storico-politica contingente
l’istanza programmatica fondamentale per cui, come si è visto, “la classe
lavoratrice deve organizzarsi coscientemente e politicamente per la conquista
dei poteri del governo, sia nazionali che locali, affinché tale apparato,
comprese le sue forze armate, possa essere convertito da strumento di
oppressione ad agente di emancipazione e abbattimento del privilegio
aristocratico e plutocratico”. E, si badi bene, tentativi non sempre
operati dalla classe lavoratrice stessa, quanto piuttosto da strati sociali ad
essa prossimi e alleati o, persino, da semplici “compagni di strada”. È infatti
un problema fondamentale della sociologia marxista (anzi, forse è il
problema di tale scuola sociologica) la comprensione del modo in cui una
classe, definita in maniera essenzialmente legata ai rapporti di produzione,
possa esprimere la propria soggettività politica che, di norma, nelle società
classiste avviene attraverso la presenza e l’attività di un determinato ceto
politico e burocratico. Purtroppo, l’analisi di tale questione, alla quale
abbiamo appena accennato nella parte II di questo breve saggio, relativamente
alle elaborazioni di Trockij [19] ci porterebbe troppo
lontano e quindi non la potremo approfondire in questa sede. Resta però un
fatto incontestabile (e su questo punto hanno, a mio avviso, parzialmente
ragione i consiliaristi) che quasi tutti tentativi di “emancipare la classe
lavoratrice”, a differenza di quanto auspicava Marx negli “Statuti
provvisori dell'Associazione internazionale degli operai” (1864),
dove scriveva: “Considerando, che l'emancipazione della classe operaia
dev'essere opera dei lavoratori stessi; che la lotta della classe operaia per
l'emancipazione non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di
classe, ma a stabilire per tutti diritti e doveri eguali e ad annientare ogni
predominio di classe; (…)”, non sono stati opera della classe stessa. E ciò
non solo per il ruolo dirigente di vari intellettuali di estrazione borghese o,
addirittura, aristocratica, ma anche per la vasta diffusione di “blocchi
popolari” contenenti elementi contadini, piccolo borghesi, borghesi democratici
antimperialisti ecc. Tuttavia riteniamo questo tipo di critica, ovvero il
presunto fallimento del “socialismo di Stato” a causa di un vizio teorico
originario, non soddisfacente soprattutto per un altro motivo legato
essenzialmente a un vecchio errore di fondo che rimonta addirittura a Bakunin e
Kropotkin, ovvero l’essere una critica fondata su un concetto astorico, e
quindi essenzialmente metafisico, dello Stato, che sorvolando sulla sua natura
eminentemente sovrastrutturale, ne dimentica le profonde modificazioni storiche
all’interno dell’evoluzione del modo di produzione capitalista. In parole
povere, se nell’epoca del capitalismo “manchesteriano” si vagheggiava lo Stato
liberale minimo, e poi con la nascita dei monopoli e dell’imperialismo
coloniale, veniva sognato lo Stato nazionale potente, che in modo “darwiniano”
si affermasse nel “bellum omnium contra omnes” dell’arena mondiale, allora
appare quasi ovvio che una requisitoria preventiva contro il progetto marxiano di “socialismo attraverso la
conquista dello Stato” (nome molto più realistico del termine polemico di
“socialismo di Stato” applicato a Marx ed Engels) sia in qualche modo squalificata
già in partenza, a meno di non precisare di quale Stato si stia concretamente
parlando. E ciò, almeno per quel che concerne gli anarchici, non è avvenuto, se
non in forma sporadica, accadendo invece con i teorici consiliaristi (specie
con l’ultimo Pannekoek [20]) anche se in modo troppo
lineare, schematico e non del tutto convincente: l’ipertrofia dello Stato
borghese che presenta come sue ultime incarnazioni il bolscevismo, il fascismo
e il New Deal, sarebbe l’effetto di un sistema ormai in decadenza, in
grado di perpetuarsi soltanto mediante guerre mondiali periodiche tra grossi
blocchi di Stati e vaste distruzioni di capitale programmate. Il grande
sviluppo capitalista dell’Asia, ben intuito da Bordiga e dai suoi compagni in “Fiorite
primavere del Capitale” (1953) [21], non era stato
contemplato nelle prospettive del teorico olandese. Riassumendo le nostre
osservazioni su questo punto, possiamo dire che, pur ammettendo come lecita e
legittima la critica all’idea del “socialismo attraverso la conquista dello
Stato”, ne respingiamo però l’uso astorico e generico, soprattutto se costruito
in modo da riflettersi nel passato come svalutazione del progetto politico
marxiano (1871-1883), superficialmente dipinto come “socialismo di Stato”, o
del progetto engelsiano (1883-1895), visto addirittura come “proto-riformista”.
2) In ambito, invece,
di ciò che rimane del cosiddetto “marxismo ortodosso”, principalmente (ma non esclusivamente)
nelle sue versioni bordighista e leninista (suddividendo poi quest’ultima
categoria in trotzkismo, stalinismo, maoismo, hoxhaismo ecc.), si ribadisce
l’attuale validità dell’ipotesi del “socialismo attraverso la conquista dello
Stato” e se ne rivendica orgogliosamente la completa continuità a partire dalla
sua prima formulazione marx-engelsiana contenuta nel “Manifesto del partito
comunista” del 1848 [22]. Soprattutto nella
versione datane dalla Sinistra Comunista Italiana si fa dell’invarianza del
programma comunista una caratteristica fondamentale ed irrinunciabile insita in
qualche modo nell’esistenza stessa del modo di produzione capitalistico
(vedasi, per esempio, “L’invarianza storica del marxismo” (1953) [23]). La confutazione di
questa pretesa, ovvero che l’invarianza storica dei rapporti di produzione
capitalistici si rifletta automaticamente sui contenuti e sugli obiettivi
(anche parziali) della lotta politica rivoluzionaria della classe lavoratrice,
ci porterebbe troppo lontano. Ci basti però dire che se la lotta politica
avviene, come sostenuto dal marxismo ortodosso, tra il partito rivoluzionario
di classe e lo Stato borghese, essendo entrambi realtà sovrastrutturali,
intrinsecamente mutevoli nel fluire dell’evoluzione storica del modo di
produzione capitalista, non si capisce proprio come l’invarianza dei rapporti
di produzione capitalistici implichi anche quella del programma politico del
partito. Ci sembra che in questo caso si giunga a un errore ancora più serio di
quello anarchico, in quanto si perde di vista, ipostatizzandolo, non solo il
carattere storico dello Stato borghese, ma anche quello del partito della
classe lavoratrice che verrebbe tout court a identificarsi con un programma
comunista invariante e dato una volta per tutte, un po’ come le Tavole della
Legge di mosaica memoria. Ma quello che è senz’altro il lato peggiore
dell’approccio acritico al “socialismo attraverso la conquista dello Stato” è
la ricerca di spiegazioni per il suo fallimento storico complessivo nel lungo
periodo 1914-1991 (almeno per quelle forze politiche ancora non così illuse da
pensare che Cina, Corea del Nord, Vietnam e Cuba siano Paesi socialisti in
grado di guidare presto la riscossa dei lavoratori sul piano mondiale…).
Tralasciando le spiegazioni etiche di queste vicende storiche, di norma
associate alle categorie della “corruzione”, della “doppiezza”, del
“rinnegamento” e del “tradimento” dei dirigenti di questo o quel sindacato, di
questo o quel movimento di massa socialista o comunista, a volte appena coperte
da una sottilissima patina sociologica che fa riferimento a strati sociali
privilegiati, a flaccide “aristocrazie operaie”, ad avidi burocrati caduti per
via delle pressanti lusinghe dell’imperialismo mondiale ecc., possiamo far
nostra l’ottima frase dell’ex-marxista Benedetto Croce, il quale, pur essendo passato
all’idealismo liberale, rimase in parte devoto al metodo del materialismo
storico di Marx, di cui scrive: “(…). E oltre l'ammirazione gli serberemo –
noi che allora eravamo giovani, noi da lui ammaestrati – altresì la nostra
gratitudine, per aver contribuito a renderci insensibili alle alcinesche
seduzioni (Alcina, la decrepita maga sdentata, che appariva nelle sembianze di
florida giovane) della Dea Giustizia e della Dea Umanità” [24]. Passiamo dunque alle
spiegazioni del fallimento comunista compatibili con il nostro approccio
scientifico all’evoluzione storica. In ambito leninista fiumi d’inchiostro sono
stati versati in proposito, con sfumature diverse tra trotzkisti, stalinisti e maoisti
(gli ultimi due noti anche come “marxisti-leninisti”), ma più o meno tutte
legate all’isolamento internazionale dell’URSS degli anni ’20 o del blocco
real-socialista degli anni ’50, al ruolo dell’imperialismo occidentale
protrattosi per la mancata rivoluzione in Europa, alla presunta distorsione
delle economie socialiste a causa delle ingenti spese militari causate dal
perdurante confronto con l’imperialismo ecc. Ovviamente non neghiamo affatto che
queste lunghe e dettagliate analisi contengano elementi di verità, spesso anche
rilevanti, come ad esempio il concetto trotzkista di “società di transizione
dal capitalismo al socialismo bloccata da escrescenze burocratiche” [25] o lo studio marxista-leninista
sugli effetti distorsivi causati dall’autogestione jugoslava e,
successivamente, dalle misure di socialismo di mercato introdotte in URSS nel
1965 su suggerimento di Liberman e di Trapeznikov [26]. E che dire poi della
valutazione complessiva della partecipazione dei paesi del COMECON ai sistemi
finanziari internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale ecc.)
con il conseguente spettro del debito estero, oppure degli errori economici
madornali compiuti dalla perestrojka gorbacioviana…? Eppure, abbiamo comunque l’impressione di
trovarci di fronte ad una muraglia di risposte ad hoc le quali in
qualche modo siano state costruite artatamente in maniera tale da schivare le
due vere questioni fondamentali: (a) i tentativi novecenteschi di costruire una
comunità mondiale socialista sono falliti semplicemente perché prematuri?
Ovvero, il capitalismo non era eliminabile durante il XX secolo proprio perché
aveva ancora una lunga ed importante missione civilizzatrice da compiere
(assieme, ça va sans dire, alle sue abituali nefandezze) in Asia,
America Latina ed Africa? Tale interpretazione è formalizzata in modo completo
dall’economista marxista (ancorché laburista convinto…) anglo-indiano Meghnad
Desai [27], ma già in qualche modo
era stata preconizzata dalla Sinistra Comunista Italiana con diversi suoi
lavori, tra cui il provocatorio “Plaidoyer pour Staline” (“Difesa di
Stalin”) del 1956 [28]. (b) La seconda domanda
fondamentale ha invece origini piuttosto remote risalendo alle prime
discussioni in ambito marginalista sulle possibilità generali dello Stato di
gestire un’economia “collettivista” (ossia a “capitalismo di stato”), in cui,
cioè, gli investimenti siano centralizzati e in mano pubblica, e quest’ultima
debba decidere le tecniche produttive da usare, le quantità di merci da
fabbricare, i rispettivi prezzi di vendita, nonché i salari orari. Ora noi non
siamo qui interessati alla complessa parte tecnica del problema [29], ossia alla dimostrazione
matematica della plausibilità di una tale realtà economica. Né a capire quali e
quanti elementi di mercato essa debba mantenere per garantire il suo
funzionamento regolare. E neppure a valutare a quale stadio il denaro potrebbe
esser rimpiazzato da buoni orari di lavoro (non scambiabili, né tesaurizzabili)
inaugurando così la ben nota “fase inferiore del comunismo” (o “socialismo”,
detto à la Lénine). La nostra domanda è molto più elementare da un lato,
ma sicuramente più fondamentale dall’altro, e credo che sia proprio ciò che
interessi in fondo, magari inconsciamente, ogni sincero socialista: un siffatto
sistema di economia centralizzata, almeno in modo temporaneo, che idealmente
rimonta addirittura al “Manifesto del Partito Comunista” [30] e alla “Critica al
Programma di Gotha” [31], è davvero una tappa
obbligata verso il socialismo, oppure hanno ragione gli “impossibilisti” del Socialist
Party of Great Britain, che parlano invece di modelli ormai obsoleti,
validi semmai nel XIX secolo, da rimpiazzare con un rapido stabilimento della
“fase superiore del comunismo” (ossia “a ciascuno secondo le sue necessità e da
ciascuno secondo le sue capacità”)? E la questione non sembri solo economica,
in quanto è, al contrario, largamente politica dato che sia il “capitalismo di
Stato” (con o senza elementi di mercato), sia la “fase inferiore del comunismo”
necessitano di una presenza statale (o semi-statale, secondo gli ottimisti) in
quanto devono gestire un’implicita restrizione dei consumi con una forma,
magari labile, benigna e democratica, di coercizione, in ultima analisi
improntata al celebre motto neotestamentario: “Chi non lavora neppure
mangi!”. Sembrerebbe, detta in questo modo discorsivo, una questione
veramente da poco eppure, a parere di chi scrive, è davvero la questione
dell’oggi, a cui dovrà esser dedicata una riflessione particolare nei prossimi
articoli. E ancora, come una sorta di corollario alla precedente domanda,
qualora fossimo davvero costretti a cominciare a ripetere le tappe che abbiamo
appena citato nel tentativo di transire a una società comunista su scala
planetaria, chi ci garantirà di non incorrere nelle stesse disavventure del XX
secolo, ovvero nel rischio di fare come il mitologico Sisifo condannato in
perpetuo a rotolare un immane macigno fino alla vetta di un alto monte per poi
vederlo ruzzolare in basso in un attimo?
Terminiamo questa III
parte, dopo aver scritto qualche breve riflessione sul socialismo del XXI
secolo, con poche righe aggiuntive sull’altro corno della questione: lo Stato
oggi. È ben noto come la teoria generale dello Stato sia uno degli argomenti
più complessi di tutta la filosofia della politica, per cui il lettore ci
perdonerà se lo sottoporremo alle nostre opinioni che magari gli risulteranno
goffe, schematiche o ingenue. Personalmente credo che sia necessario accettare
l'idea secondo cui gradualmente nel corso del XX secolo lo Stato abbia cessato
di essere soltanto una sovrastruttura politico-amministrativa del modo di
produzione economico capitalista, come lo ha sempre voluto rappresentare la
scuola marxista tradizionale. Nella fase attuale di "capitalismo
monopolista di Stato" [32] la compagine statale è
ormai una parte ineliminabile della struttura produttiva e quindi l'alta
burocrazia pubblica (dirigenti apicali, magistrati, ufficiali generali, manager
pubblici, "advisor" ecc.) è anch’essa mutata: non è più solo una stampella
esterna della borghesia nazionale, ma è in primo luogo uno strato sociale di
capitalisti, certamente “sui generis”, ma autentici. Abbiamo fatto questa
premessa perché a nostro parere c'è stato un doppio errore, simmetrico e
opposto, da parte dei liberisti e dei socialdemocratici nel corso dell’ultimo ventennio
del secolo scorso: i primi durante gli anni '80-'90 credettero davvero di poter
tornare (mediante intense privatizzazioni e una "deregulation" spinta
dell’economia) allo “Stato liberale minimo", quello essenziale e snello
del periodo manchesteriano del capitalismo [33], inseguendo così i sogni
di von Mises, von Hayek, Nozick ecc. Uno Stato che fosse solo la cornice legale
necessaria al mercato, fatto di esercito, polizia, tribunali e poco altro. In
somma, uno strumento per tutelare la proprietà privata da ipotetici nemici
interni ed esterni, per far rispettare i contratti e magari (ma non secondo i
fanatici della vecchia “parità aurea") per stabilizzare la moneta. Ovviamente
basta vedere l'andamento dei bilanci pubblici (debito incluso!) in rapporto al
PIL per capire il fallimento di una tale anacronistica prospettiva. A titolo di
esempio basti citare l’Italia del periodo immediatamente antecedente alla
pandemia da COVID19: lo Stato italiano nel 2019, mediante trasferimenti, spesa
pubblica, amministrazione, incentivi, interessi sul debito ecc. prevedeva in
qualche modo uscite per 871,1 miliardi di euro, ossia il 48,5% del PIL,
ovvero poco meno della metà della ricchezza prodotta in quell’anno da tutti
residenti nel nostro paese (pari a 1.796,6 miliardi di euro). Altro che Stato
minimo! D’altra parte, la vecchia idea gradualista-riformista di
"socializzare le attività produttive" mediante la lenta espansione
della quota di imprese economiche gestite direttamente da uno Stato sempre più
grande (e sempre più democratico) si è rivelata una chimera, persino
nell'Europa Settentrionale che forse, culturalmente, era la regione europea più
adatta a tale scelta. La crescita di una burocrazia pletorica, ipertrofica e
autoreferenziale, le ingerenze della politica (persino quando non erano
strettamente clientelari), la difficoltà di una gestione efficiente e
spregiudicata della forza-lavoro, la complessa interazione con il settore
privato (specie quello estero), i problemi di scelta degli investimenti e delle
strategie globali transnazionali sono solo alcuni dei dilemmi incontrati dallo
Stato imprenditore. In somma, per tutta una serie di noti motivi
microeconomici, l'economia mista pubblico-privata, sognata dai
socialdemocratici occidentali come risposta al “socialismo reale”, entrò in una
crisi irreversibile alla fine degli anni '70. Una crisi sì, acuita anche dal
cambio di paradigma culturale dei primi anni '80 che inneggiava al mercato in
maniera spesso becera, acritica e sperticata, ma che non si può ridurre a
questo solo, come vorrebbero invece certi nostalgici, anche culturalmente
raffinati, dello statalismo, i quali ancora oggi si muovono nel perimetro della
sinistra "radicale" [34]. Cos'è allora oggi questo
enorme Stato che non è né minimo, né imprenditore? Sembrerebbe esser divenuto
un grande facilitatore economico, un vero e proprio intermediario
irrinunciabile per la sopravvivenza del capitalismo su scala intermedia, ossia
per quegli agenti economici con dimensioni sostanzialmente minori delle grandi
aziende “corporate” (multinazionali). Ma non diremo di più sull’argomento lasciando
due rebus ai nostri lettori proprio al termine delle conclusioni di questo
scritto divulgativo sui rapporti tra il socialismo e lo Stato borghese: cos’è
divenuta la “democrazia” nell’era dello “Stato intermediario”? Potrà la classe
lavoratrice prender possesso di una tale struttura, ormai solo marginalmente
politica?
Fig. 10: La piramide del sistema
capitalista secondo gli IWW nel 1911. In un secolo sono cambiate le fogge degli
abiti, soprattutto femminili, e nuove armi hanno preso il posto dei vecchi
moschetti e delle baionette, ma il capitalismo e il suo ‘doppio’, lo Stato,
restano lì. Ancora per quanto tempo?
DAN KOLOG
[1] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).
[2] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).
[3] Amadeo Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (Ed.
Lotta Comunista, Milano, 2009).
[4] Palmiro Togliatti, La via italiana al socialismo (Editori Riuniti,
Roma, 1972).
[5] Ernest Mandel, Critique de l'eurocommunisme (Maspero, Paris, 1978).
[6] Nel 1949, mentre le forze del Partito Comunista Cinese espellevano
regione dopo regione il Kuo Min Tang sostenuto dagli Stati Uniti, avvicinandosi
così alla vittoria definitiva della Rivoluzione Cinese (la quale fu proclamata
il 1° ottobre del 1949), Mao Zedong chiarì la sua visione del tipo di governo
che il Partito Comunista Cinese avrebbe di lì a poco stabilito. Essenzialmente
in linea con la politica staliniana in Europa Orientale di istituire
"repubbliche democratiche popolari", le quali avrebbero mantenuto per
un certo tempo il capitalismo nazionale, ponendolo però sotto il dominio
sovietico, Mao definì le tre classi che sarebbero state considerate alleate
naturali della classe lavoratrice: i piccoli e medi contadini, la piccola
borghesia urbana e la borghesia industriale nazionale, mentre la classe dei
grandi proprietari terrieri e quella della borghesia commerciale e burocratica
(a volte chiamata dei compradores, cioè degli agenti al soldo degli interessi
imperialistici stranieri) furono bollate come nemiche della classe lavoratrice.
Nei primi anni della Repubblica Popolare Cinese il “blocco delle quattro
classi” contemplò vari tentativi di incorporare rappresentanti borghesi nel governo
e di limitare le richieste di espropriazione dei capitalisti al solo capitale
straniero, al fine di mantenere un blocco unico con la “borghesia industriale
nazionale”. Nei primissimi anni Cinquanta (1949-52) si realizzò anche il
programma di distribuzione della terra a danno della classe dei proprietari
terrieri. Successivamente però, a partire dal 1952-53, pure la "borghesia
nazionale" venne espropriata e fu completata la proprietà statale
dell'intera industria manifatturiera. Al contempo gli oppositori di questa
svolta vennero arrestati ed imprigionati. Nel 1954 il “blocco delle quattro
classi” già era virtualmente terminato.
[7] Mao Zedong, Sulla nuova democrazia (Ed. Rinascita, Roma, 1956).
[8] Sulla supposta realtà del carattere feudale degli antichi modi di
produzione in Asia, non possiamo dilungarci in quanto gli stessi autori
marxisti del XX secolo non sono riusciti a costruire un consenso, come
testimonia l’utile saggio di Gianni Sofri “Il modo di produzione asiatico”
(Einaudi, Torino, 1969). Usiamo quindi in questo lavoro il termine “feudale”
riferito all’Asia in modo solo qualitativo e per nulla scientifico.
[11] Jacopo Perazzoli, Qualcosa di nuovo da noi s’attende (Biblion, Milano,
2016).
[12] Giuseppe Berta, Eclisse della Socialdemocrazia (Il Mulino, Bologna,
2010).
[13] Carlo Schmid (1896-1979) fu un celebre giurista e politico
socialdemocratico tedesco, da non confondersi nella maniera più assoluta con
Carl Schmitt (1888-1985), anch’egli insigne giurista tedesco, ma cattolico
conservatore e, almeno in un certo periodo, intellettuale organico del partito
nazista.
[14] Famosa sezione del programma politico del Partito Laburista britannico
che lo vincola a una vaga forma di socialismo. La versione originale della
Clause IV fu redatta dai celebri socialisti fabiani Sidney e Beatrice Webb nel
novembre 1917, e venne adottata dal partito nel 1918. Recitava così:
“(…) Assicurare ai lavoratori, sia
manuali che intellettuali, tutti i frutti del loro lavoro e la distribuzione
più equa possibile di essi sulla base della proprietà comune dei mezzi di
produzione, di distribuzione e di scambio, nonché il miglior sistema possibile
di amministrazione e controllo popolari di ogni industria e di ogni servizio”.
Venne modificata solo nel 1995 durante
la segreteria di Tony Blair.
[15] John Maynard Keynes. La fine del ‘laissez-faire’ ed altri scritti
economico-politici (Bollati Boringhieri, Torino, 1991).
[16] Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Feltrinelli, Milano, 1973).
[17] Si veda, per esempio, la polemica di Paul Mattick circa il marxismo di
Engels e Kautsky: https://www.marxists.org/archive/mattick-paul/1937/kautsky-engels-letters.htm
[18] K. Kautsky, La rivoluzione sociale. Riforma e rivoluzione sociale
(Centro Editoriale Toscano, Scandicci (FI), 2002).
[19] Lev Trockij, La rivoluzione tradita (Mondadori, Milano, 1990).
[20] Anton Pannekoek, Workers’ Councils (1946). https://www.marxists.org/archive/pannekoe/1947/workers-councils.htm
[22] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori
Riuniti, Roma, 1977).
[24] Benedetto Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (Laterza,
Bari, 1968). Naturalmente né Croce, né, molto più modestamente il sottoscritto,
intendono in questo modo svalutare l’importanza dell’etica in sé come
disciplina filosofica, ma soltanto ribadire che essa non può costituire in
alcun modo un metro per i fatti storici, ossia quelli già accaduti, ma solo una
guida per le azioni umane ancora da compiere.
[25] Ernest Mandel, La Burocrazia (Nuove Edizioni Internazionali, Milano,
1981).
[26] Roger Keeran and Thomas Kenny, Socialism
Betrayed: Behind the Collapse of the Soviet Union (International Publishers,
New York, 2004).
[27] Meghnad Desai, Marx’s Revenge: The Resurgence
of Capitalism and the Death of Statist Socialism (Verso Books, Londra and New
York, 2002).
[29] Tralasciando i lavori pioneristici di Enrico Barone (1908), fu il
celebre economista liberista austriaco Ludwig von Mises ad innescare questo
dibattito nel 1920. Infatti, poco dopo la nascita della Russia Sovietica, von
Mises pubblicò un articolo dal titolo 'Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen
Gemeinwesen” (“Il Calcolo economico nella comunità socialista”), in cui
sosteneva che le economie a panificazione centrale (come quelle che i
marginalisti chiamavano un po’ frettolosamente “socialiste”, ossia dove la
proprietà dei mezzi di produzione è essenzialmente pubblica) sono condannate
all’inefficienza e quindi, presto o tardi, alla bancarotta. In questo articolo,
l’economista austriaco spiega che l’assenza di un mercato per i fattori
produttivi impedirebbe il formarsi dei prezzi ad essi relativi. L’assenza dei
prezzi, a sua volta, renderebbe impossibile l’individuazione di quali metodi di
produzione siano i più efficienti dal punto di vista economico. L’assenza di
informazioni affidabili sull’economicità dei metodi di produzione, infine,
renderebbe impossibile effettuare il calcolo economico sulla base del quale
orientare la produzione futura, ovvero la determinazione di quali merci
produrre, di come produrle, e a quali prezzi offrirle sul mercato ai
consumatori. Secondo von Mises, i personaggi fondamentali che permettono di
effettuare praticamente un tale “calcolo economico” razionale sono, in modo del
tutto inconscio, gli imprenditori. Questo dibattito andò avanti per tutti gli
anni ’20, ’30 e ‘40 del XX secolo, interessando eminenti economisti liberisti
come Friedrich von Hayek e Trygve J. B. Hoff, nonché socialisti (o comunque
possibilisti circa il socialismo) quali Oskar Lange, Maurice Dobb e Abba
Lerner. In linea teorica si potrebbe dire che Lange e Lerner uscirono vincitori
dalla disputa benché il loro approccio fosse essenzialmente una versione
piuttosto complessa di “socialismo di mercato”, alquanto lontana dalla realtà
economica dell’URSS dei piani quinquennali. A rendere più complesso l’argomento
fu il sorgere di una diramazione laterale del problema, ossia il cosiddetto
“calcolo socialista in natura”, il quale, forse più ossequioso nei confronti
della tradizione marxiana, eliminava tout court l’idea stessa di denaro (e
quindi di prezzi). Proposto dal sociologo austriaco Otto Neurath nel 1919, il
concetto di “calcolo in natura” precedette addirittura lo scritto polemico di
von Mises ed attrasse l’attenzione dell’eminente economista matematico
sovietico Leonid V. Kantorovič, che negli anni ’30 ne dimostrò la fattibilità
mediante i metodi della programmazione lineare.
[30] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista
(Editori Riuniti, Roma, 1977).
[31] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels,
Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).
[32] Ja. Pevzner, Il capitalismo monopolistico di Stato alla luce della
teoria del valore-lavoro (Edizioni Progress, Mosca, 1987).
[33] Vedasi, per esempio, il breve saggio divulgativo “MANCHESTER, ADDIO!
LA SCUOLA ECONOMICA MARXISTA E IL LUNGO CORSO DEL CAPITALISMO POST-MANCHESTERIANO”
di Dan Kolog
(https://adattamentosocialista.blogspot.com/2023/01/manchester-addio-la-scuola-economica.html)
[34] Aldo Barba e Massimo Pivetti, La Scomparsa della Sinistra in Europa
(Meltemi, Sesto S. Giovanni, 2021).
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