Il Socialismo e il Leviatano: Le disavventure di socialisti e comunisti nei loro rapporti con il potere statale tra 1848 e 1991 - PARTE I -
PARTE I: dal ’48 parigino alla morte di Engels
I) Introduzione: la necessità di un bilancio del periodo tra 1848 e 1991
Nel 1651 il filosofo inglese Thomas Hobbes dà alle stampe la sua opera più nota, intitolata “Leviathan or the matter, form and power of a Commonwealth, ecclesiastical and civil” e interamente dedicata al problema della legittimità e della forma del potere statale. Da quel momento in poi il termine “Leviatano”, in origine legato a un mitico mostro marino di ascendenza biblica, diverrà un sinonimo dello Stato o, più precisamente, del suo aspetto burocratico e coercitivo. Infatti, per Hobbes, il “grande Leviatano” chiamato commonwealth (letteralmente res publica, ossia Stato) è una sorta di “uomo artificiale” prodotto dall’azione combinata di miriadi di uomini naturali. In senso metaforico esso possiede quindi un’“anima” costituita dal principio di sovranità, ma anche varie “articolazioni”, rappresentate dai magistrati e dai funzionari, e così via. Non sorprende poi che proprio nell’epoca della nascita dell’Assolutismo Europeo (1648-1789 circa) tale “corpo politico” abbia una sola “testa”, ossia venga guidato da un solo “capo”, che tiene in mano sia la spada, ovvero il potere temporale, sia il vincastro, ovvero quello spirituale, come rappresentato graficamente sulla copertina dell’opera hobbesiana.
Compiamo ora un grosso salto temporale di poco meno di due secoli e concentriamoci sulla tumultuosa Parigi del 24 febbraio 1848. Per la prima volta nella Storia due socialisti, Louis Blanc e Alexandre Martin (meglio noto come l’ouvrier Albert), entrano in un governo provvisorio repubblicano. Vi rimarranno solo fino al 4 maggio dello stesso anno, quando il nuovo governo (espressione delle elezioni dell’Assemblea costituente), il quale è fermamente contrario alle misure sociali prese sull'onda della Rivoluzione di febbraio [1], farà a meno di loro. Non abbiamo qui l’intenzione di ripercorrere la breve ma intensa storia della Seconda Repubblica Francese (1848-1852), lasciando il lettore interessato a ben altri lavori, ma vogliamo solo notare come questo evento rappresenti un punto nodale nei rapporti tra i socialisti e il Leviatano: se la fase precedente era stata caratterizzata esclusivamente dalla stesura di opuscoli e di articoli, dall’organizzazione di società segrete e di congiure, da esperimenti sociali basati su progetti di comuni e falansteri, d’ora in avanti il movimento socialista entrerà in relazione diretta con lo Stato, sebbene mediante una gamma di atteggiamenti estremamente variata, la quale, mutatis mutandis, durerà per circa un secolo e mezzo. In effetti, almeno in nuce, nel ’48 francese ci sono già tutte le tendenze: dal socialismo di Stato di Louis Blanc al mutualismo anarchico non-violento di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), dal socialismo proletario e scientifico di Constantin Pecqueur (1801-1887), ripreso e notevolmente perfezionato da Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), all’anarchismo insurrezionalista di Michail Aleksandrovič Bakunin (1814-1876), fino al “putschismo” avanguardista di Auguste Blanqui (1805-1881). Naturalmente molte furono le differenze politiche e programmatiche tra le varie anime del socialismo di quegli anni e tante altre ne sorsero successivamente, spesso in concomitanza con momenti salienti della Storia contemporanea: la Comune di Parigi (1871), la Grande Guerra (1914-1918) e la Rivoluzione Russa, la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e le Rivoluzioni Iugoslava e Cinese, il ’68 europeo e la Rivoluzione in Indocina ecc. Eppure, noi siamo convinti (e lo vorremmo dimostrare in questo breve lavoro) che la questione dello Stato fu (e in un certo senso è ancora oggi, almeno per chi non teme di dichiararsi apertamente ‘socialista’) una delle più rilevanti.
Concludiamo questa rapida introduzione con un secondo salto temporale, questa volta di poco meno di un secolo e mezzo. Siamo a Mosca, il 26 dicembre del 1991 (cfr. Fig. 1), e va in scena la dissoluzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: il Soviet delle Repubbliche, una sorta di Camera Alta del Soviet Supremo, ratifica le decisioni del presidente dimissionario (ossia, Michail Sergeevič Gorbačëv) e sancisce formalmente la fine di questa unione, fondata nel lontano 1922 da figure quasi leggendarie, quali Vladimir I. Lenin, Lev D. Trockij e Nikolaj I. Bucharin. Pochi giorni dopo, nella notte tra il 31 dicembre 1991 e il 1° gennaio 1992, la decisione di scioglimento verrà attuata praticamente. Sugli eredi politici della Rivoluzione d’Ottobre, che a partire dal 1936 si vantavano orgogliosamente di aver fondato il primo “Stato socialista” della Storia, cala mestamente il sipario, senza nemmeno l’ombra di spargimenti di sangue. Le classi dominanti del resto del mondo (eccettuate, ovviamente, quelle dei pochi paesi che all’epoca si definivano ancora “socialisti” [2]) s’affrettano a celebrare in gran pompa il funerale di un improbabile “modello comunista”. Festeggiano più sobriamente gli anarchici, i socialisti “impossibilisti” e libertari e i “comunisti di sinistra” per la fine di quella che loro reputavano una lunga e luttuosa impostura politica. Si preoccupano, però, anche i più avveduti tra i paladini della socialdemocrazia: non è la fine del solo “socialismo reale”, inefficiente, burocratico e liberticida, ma è, in qualche modo, il tramonto dell’intera utopia del “socialismo di Stato”. I prossimi paragrafi saranno dedicati precisamente all’ “analisi autoptica” di tale progetto politico.
FIG. 1: Bandiera rossa con la falce e il martello (simboli del potere dei Soviet) ammainata il 26 dicembre 1991 a Mosca.
II) Che cos’è uno “Stato civile” secondo Rousseau?
I discorsi sullo Stato, le sue forme e le sue origini, hanno affascinato l’uomo sin dall’inizio della civiltà, la quale, lo ricordiamo, non va confusa con il semplice concetto di “cultura” in quanto già presuppone l’esistenza di stabili città (in latino civitates) separate dalle attività agricole e pastorali del mondo rurale. Non deve quindi stupire che l’idea di Stato si situi inizialmente all’intersezione di concezioni religiose, militari, economiche e tecnologiche, più che strettamente giuridiche e politiche. L’esempio tipico di questa fase è la produzione scritta del mondo egizio e mesopotamico dove, in effetti, assistiamo a una crescita impressionante delle prerogative dello Stato, senza però che dal punto di vista teorico si vada oltre una mera teologia del potere, anche nota come “teocrazia”. Riflessi di tale pensiero sono presenti anche nella Bibbia Ebraica (il Tanakh) [3] e, opportunamente trasfigurati, hanno avuto un’importanza non trascurabile nei periodi del Medioevo, del Rinascimento e della Riforma protestante, almeno fino alla nascita dell’Illuminismo europeo tra i secoli XVII e XVIII. Molto più matura ed interessante è invece la riflessione del mondo classico (ossia, greco-romano), dove con “La Repubblica” di Platone e “La Politica” di Aristotele si giunge finalmente, già nel IV sec. a.C., a una disamina rigorosa dell’essenza dello Stato in quanto tale. L’autorevolezza di tali opere è così grande nel mondo occidentale che i trattatisti dei secoli successivi, da Marco Tullio Cicerone (“De re publica”) ad Agostino d’Ippona (“De civitate Dei”), da Tommaso d’Aquino (“De regimine principum”) a Marsilio da Padova (“Defensor pacis”) e a Jean Bodin (“Les Six Livres de la République”), sarebbero semplicemente impensabili senza un continuo riferimento alle opere politiche di Platone e di Aristotele. Come abbiamo già visto, solo con Hobbes inizia un nuovo approccio, più razionale e scientifico, alla questione statale, il quale condurrà attraverso i contributi fondamentali di John Locke e di Montesquieu fino all’opera del più grande filosofo della politica del XVIII secolo: Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), la cui influenza sul nascente pensiero socialista diverrà davvero enorme [4]. Sarà quindi dalle idee di Rousseau che inizieremo la nostra rapida discussione dei rapporti tra il socialismo e lo Stato e, più precisamente, dall’opera rousseauiana del 1755 (“Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”) e da quella del 1762 (“Il Contratto Sociale”, cfr. Fig. 2) [5].
Per il filosofo svizzero, nel suo lavoro del 1755, non c’è una reale differenza tra il potere della monarchia costituzionale vagheggiato da Locke e Montesquieu, e quello assoluto di Hobbes, in quanto entrambi, almeno in ultima analisi, sono il portato storico delle differenze create dalla iniqua distribuzione della proprietà privata, soprattutto, ma non solo, delle terre fertili. L’ideale quindi, almeno da un punto di vista teorico, sarebbe quello del ritorno a un mitico “Stato di natura” precedente, appunto, la nascita delle disuguaglianze; ma ciò risulterebbe impossibile dal punto di vista politico. Bisognerà quindi procedere a creare una forma di Stato che sia la rappresentazione della volontà di tutti, o meglio, della volontà generale (che non è banalmente la mera somma algebrica delle volontà dei singoli). È ciò che oggi chiameremmo “democrazia”. Successivamente le idee rousseauiane si affinano fino a raggiungere la loro forma più compiuta con “Il Contratto Sociale”, dove il pensiero dell’autore sfocia nella forma di Stato che ex-post definiremmo “etico”. Infatti, secondo Rousseau, le scienze e le arti, oltre incivilire la società, hanno anche un deciso effetto di corruzione in quanto l’uomo nello “Stato di natura” realizzerebbe perfettamente i suoi bisogni servendosi di tutti e soli gli strumenti che la natura mette direttamente a sua disposizione. Si troverebbe, secondo il filosofo, in una sorta di Eden laicizzato, di cui tuttavia si comprende a pieno il carattere puramente speculativo (e non realmente storico) di Stato pre-civile. Il sapere, quindi, corrisponde ad una esigenza umana che in realtà, a ben vedere, è strettamente imparentata al vizio. E così anche le arti, che nel XVIII secolo venivano considerate come l’elemento di separazione tra ciò che è istintivo e barbaro e ciò che è raffinato e civilizzato. Ebbene, per Rousseau le arti sono anch’esse imputabili a gravi forme di vizi: la lussuria, la vanagloria ecc., e ciò non deve stupire perché egli aveva di fronte una società di un certo tipo (l’Ancien Régime) dove l’arte era sovente solo la copertura della dissolutezza, del privilegio e della lussuria delle classi agiate. La seconda parte de “Il contratto sociale”, quella teoricamente più densa, contiene una forte polemica contro i teorici del cosiddetto “giusnaturalismo” (Alberico Gentili, Johannes Althusius, Ugo Grozio ecc.) secondo i quali l’uomo nasce dotato di diritti innati come, ad esempio, il diritto alla libertà, alla vita, alla sicurezza e così via. Rousseau va contro questa teoria giuridica dalla lunghissima tradizione storica (che rimonta addirittura allo stoicismo greco, a Cicerone e a Lucio Anneo Seneca) perché sostiene che si basi sulla confusione tra lo Stato di natura e lo Stato civile: se la guerra, l’odio e la disuguaglianza hanno portato allo Stato civile, in esso non può che esistere la disuguaglianza e quindi la negazione sistematica dei diritti naturali. Al contrario, nello Stato di natura ci sarebbe una situazione perfetta in cui tutti potrebbero soddisfare i propri bisogni fondamentali. Quando invece si ha una società di disuguali, avviene che molti non possano soddisfare tali bisogni fondamentali e da qui nasce la corruzione dei costumi che viene poi sublimata nell’arte e persino nelle scienze. Questo passaggio, “storico” o “meta-storico” poco importa, da Stato di natura a civiltà è dovuto alla scelta della “vita associata” (famiglia, tribù, società ecc.), dove l’individuo, contemperando la sua libertà con quella degli altri, fa scaturire la “divisione dei ruoli”, la quale implica inevitabilmente una limitazione della libertà dell’individuo stesso. L’introduzione del lavoro associato e della conseguente “divisione del lavoro” ha portato a una maggiore disuguaglianza, poiché è nel lavoro stesso che, mediante la ripartizione dei ruoli, nasce chi ha potere su altri e chi non ne ha. Ma il vero salto di qualità nella disuguaglianza tra gli uomini, l’elemento effettivamente discriminante, è per Rousseau, nel 1762 come nel 1755, il diffondersi della proprietà privata. In questo senso il filosofo svizzero supera, almeno in parte, il pensiero illuminista che fondava proprio sulla proprietà privata l’insieme dei diritti dell’individuo in una società di liberi cittadini “uguali di fronte alla legge”.
Sistemata la pars destruens dell’assolutismo e del costituzionalismo, il nostro autore passa alle proposte pratiche (pars construens): si sostiene la necessità che gli individui, allo scopo di proteggere loro stessi e la propria libertà, si alleino in un patto (“il contratto sociale”, appunto), formando in tal modo una forza unitaria, un’associazione volta a tutelare i beni e i valori di tutti, delineando così un corpo politico composto dai singoli individui contraenti che corrisponderebbe allo Stato democratico. Da tale associazione volontaria scaturirebbero poi una vasta serie di vantaggi legati all’unione sociale: la giustizia, che prevarrebbe sull'istinto umano, l’imporsi della ragione e della moralità, la nascita del senso del dovere e del rispetto delle regole, i quali dominerebbero sugli impulsi negativi dei singoli, la purificazione dei sentimenti, che diventerebbero via via più nobili ecc. Ma una volta formato lo Stato democratico, occorrerà formulare inevitabilmente alcune leggi per regolare la vita collettiva, le quali saranno emanate dal popolo, essendo espressioni della volontà generale che si è costituita attraverso il “contratto sociale”. Nella produzione legislativa occorrerà tener conto delle dimensioni dello Stato: non troppo grande per poterlo governare bene, ma non troppo piccolo in modo da consentirgli una certa autosufficienza. Bisognerà evitare di imporre al popolo norme nei momenti di maggiore difficoltà (per esempio, durante le calamità naturali), preferendo invece i periodi di relativa prosperità. Il potere esecutivo, infine, andrà affidato a un corpo particolare e ristretto, i cui membri non saranno né “padroni del popolo” (magnati) né “delegati del popolo” (tribuni), ma piuttosto soggetti terzi che applichino le decisioni prese dal popolo (mediante il principio della sovranità popolare) in modo imparziale. È quindi importante che venga garantita la corrispondenza tra la volontà del governo e la volontà generale. Da tutti questi ragionamenti emerge un ideale di democrazia che i seguaci di Rousseau, specie i giacobini, cercheranno di concretizzare nella Rivoluzione francese a partire dalla celeberrima “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino” approvata dall'Assemblea Nazionale (l’organo rappresentativo del cosiddetto “terzo stato”) nel 1789. Qui sono ribaditi i diritti di uguaglianza e di libertà, tuttavia, il principio di uguaglianza che traspare da tale Dichiarazione è solo di tipo civile e giuridico, e non economico: si afferma infatti che la proprietà (privata) sia un diritto inviolabile e sacro (art. XVII). Nell'art. VI si dice invece che “la legge è l'espressione della volontà generale” e che “tutti i cittadini hanno diritto di concorrere” alla sua formazione, in quanto la sovranità non deriva da un presunto diritto divino, ma risiede nel popolo, e lo Stato è il frutto di un patto liberamente stipulato tra gli individui. Su questi punti Rousseau sarebbe stato sicuramente d’accordo, mentre sull’inviolabilità della proprietà privata avrebbe avuto alcuni dubbi.
Sebbene Rousseau fosse stato un uomo pienamente inserito nella Francia dell’Ancien Régime, ancora focalizzata sull’economia agraria (cfr. la grande scuola economica dei Fisiocratici) e, a differenza dello scozzese Adam Smith, avesse un’idea del capitalismo molto embrionale, le sue analisi dello Stato si diffusero in modo estremamente veloce in tutto il milieu rivoluzionario radicale d’Europa, lo stesso, per intenderci, che aveva guardato con simpatia ed anche un pizzico d’invidia alla fase ascendente della Rivoluzione francese (1789-1793). Eppure, anche una lettura veloce de “Il Contratto Sociale” rivelava un’intima tensione nelle idee rousseauiane: se la pars destruens era estremamente graffiante nella denuncia delle origini e degli effetti nefasti dello Stato civile e della proprietà privata, quella construens, proponendo come rimedio lo Stato democratico espressione della volontà generale, rivelava effettivamente echi delle forme parziali di autogoverno dei cantoni elvetici, che il nostro autore conosceva in modo diretto e dettagliato. Tale tensione, in forme solo apparentemente diverse, la ritroveremo telle quelle alla fine del XIX secolo nel movimento socialista internazionale. Non deve quindi sorprendere che i pochi elementi più estremisti in Gran Bretagna [William Godwin (1756-1836)] e in Francia (Pierre-Joseph Proudhon) [6], i veri padri fondatori dell’anarchismo moderno, si soffermassero soprattutto sulla prima parte; mentre i numerosi democratico-radicali [come potrebbero essere, per esempio, Carlo Cattaneo (1801-1869) e Giuseppe Mazzini (1805-1872) in Italia] sulla seconda. Vi è poi anche un’influenza più sottile di Rousseau sui tre padri del socialismo utopico: Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon (1760-1825), Robert Owen (1771-1858) e Charles Fourier (1772-1837), ma purtroppo non abbiamo tempo di analizzarla in questo breve testo divulgativo perché ora dobbiamo introdurre le idee sullo Stato di un altro pensatore fondamentale, questa volta proveniente dalla Germania: il filosofo idealista Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831, vedasi Fig. 3), il cui ascendente sia su Marx che su Bakunin sarà estremamente rilevante. In particolare ricordiamo che la riflessione più prettamente politica del primo dei due prenderà le mosse proprio da una serrata critica della teoria hegeliana del diritto pubblico con l’opera giovanile denominata proprio “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel” (in tedesco “Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie”) del 1842-43, dove echi di Rousseau e Feuerbach, si fondono con un’analisi rigorosa del pensiero del vecchio decano della filosofia tedesca al quale Marx, con un curioso rapporto di amore-odio, resterà legato per tutta la sua vita intellettuale.
FIG. 2: Antica traduzione italiana de “Il Contratto Sociale” di J.-J. Rousseau stampata nel 1797 durante la prima discesa di Napoleone in Italia (24 marzo 1796 - 17 ottobre 1797).
III) La teoria dello Stato in Hegel
Nell’ambito della speculazione filosofica
hegeliana, l’analisi dello Stato riveste un ruolo e una funzione
imprescindibili, come è ampiamente dimostrato dalle numerose pagine che
l’autore dedica a questo argomento, sia nell’ “Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio” (1817), sia nei “Lineamenti di
filosofia del diritto” (1820). Inquadrata nelle categorie generali che
suddividono l’intera filosofia dello spirito di Hegel, la teoria
dello Stato si trova precisamente nella sezione dedicata all’eticità,
intesa come la realizzazione della volontà libera che scaturisce dalla
sintesi dialettica dei momenti precedenti: il diritto, ancora troppo
esteriore, e la moralità, invece troppo interiore. La prima
istanza, ossia la “tesi”, dell’eticità è quella della famiglia, che
per Hegel è da concepirsi come una struttura unitaria in cui restano visibili
alcune tracce della “solidità etica” tipica delle antiche società. I momenti
fondanti della famiglia, vista dal filosofo tedesco come la libera unione
di due individui che decidono di comune volontà di dar vita a un’unità
superiore, sono essenzialmente tre: il matrimonio, il patrimonio e
l’educazione della prole. Il superamento dialettico della famiglia, in sé
semplice e unitaria, è per Hegel la cosiddetta società civile, che
nei “Lineamenti di filosofia del diritto” viene rappresentata
come il momento razionale di “antitesi”, il quale spacca e polverizza
l’unità del nucleo familiare, in quanto in esso hanno la precedenza proprio
quei “soggetti economici privati” così tipici della società borghese.
L’ultimo passaggio (la “sintesi”, nella dialettica hegeliana) è proprio
quello che conduce allo Stato, dove la libertà umana si esplica compiutamente,
ma che costituisce allo stesso tempo la precondizione per la stabilità sia
della famiglia che della società civile. Hegel rifiuta decisamente le tesi rousseauiane
de “Il Contratto sociale”, intendendo lo Stato non come l’accordo
di libere volontà individuali, ma come la realizzazione di una razionalità
superiore e, quindi, nel suo sistema filosofico, della volontà
universale. Così Hegel descrive il passaggio dalla società civile al “fine
universale” dello Stato:
«Il fine della corporazione, in quanto limitato e finito, ha la propria verità nel fine universale in sé e per sé e nella realtà assoluta di tale fine. Questa verità vale analogamente per la separazione data nell’ordinamento poliziesco esteriore e per l’identità relativa di questo ordinamento. La sfera della società civile trapassa, quindi, nello Stato» [7].
Da questo assunto deriva poi la definizione hegeliana di Stato come la realtà politica che è “il razionale in sé e per sé”, in cui la volontà razionale acquista la piena consapevolezza di se stessa:
«Lo Stato è la realtà dell’idea etica, lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a sé stessa, che pensa a sé e che porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo Stato ha la sua esistenza immediata, e nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e nell’attività del medesimo, la sua coscienza mediata, così come l’autocoscienza attraverso la disposizione d’animo ha nello Stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. Lo Stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine a se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo fine ultimo ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d’esser membri dello Stato» [8].
La conclusione di Hegel è quindi perentoria nella sua sconcertante radicalità: solo con lo Stato e nello Stato si è (e si può essere) davvero uomini liberi. Riassumendo un po’ drasticamente le complesse tematiche appena esposte possiamo tuttavia asserire con certezza che in Hegel: (1) vi è un rifiuto del modello liberal-costituzionale dell’Illuminismo moderato in quanto lo Stato non si riduce a un semplice tutore dei particolarismi della società civile. (2) Vi è altresì un rifiuto del modello radical-democratico rousseauiano: la sovranità dello Stato deriva dallo Stato medesimo, poiché esso non è fondato sulle volontà degli individui, ma sul concetto di bene universale. Si rifiuta quindi in toto il modello contrattualistico illuminista perché la vita umana associata non dipende da un qualsivoglia “contratto” che scaturirebbe dalla volontà libera degli individui. (3) Si propone una teoria organicista dello Stato: l’individuo passa in secondo piano e si deve sottomettere, diventando de facto una pedina dello Stato stesso, in quanto non sono gli individui a costituire lo Stato, ma lo Stato a costituire gli individui della società civile in cittadini. (4) Si contesta anche il giusnaturalismo poiché si ritiene che il diritto abbia la sua realtà solo nella società e non prima della società. (5) Si teorizza infine il primato della legge: sono le leggi a governare, non l’uomo. E poiché la legge è strettamente connessa alla libertà, essa è addirittura l’oggettività dello Spirito e la volontà della sua verità. Ne consegue che solo la volontà che ubbidisce alla legge è davvero libera e che l’autentica libertà si potrà raggiungere solo con lo Stato e nello Stato, a cui i singoli individui si dovranno necessariamente adeguare.
Avviene quindi in Hegel, un po’ come secoli prima in Platone, una vera e propria divinizzazione dello Stato, una statolatria, secondo la quale lo Stato è l’entrata concreta dello Spirito nel mondo. Non a caso, secondo il filosofo liberale Karl Popper [9], Platone e Hegel saranno gli ispiratori ideali di tutte le dittature totalitarie (fasciste, naziste e sedicenti “socialiste”) del XX secolo. In realtà Popper includerebbe anche Marx tra i fondatori della statolatria in quanto presunto assertore della ferrea “dittatura del proletariato”, ma, come si vedrà nel prossimo paragrafo, si tratta di una lettura profondamente scorretta e faziosa della teoria marxiana dello Stato, la quale, pur prendendo parzialmente le mosse dall’impostazione di Hegel, la capovolgerà completamente.
FIG.3. Georg Wilhelm Friedrich Hegel e i suoi studenti all’Università di Berlino raffigurati in una stampa dell’epoca.
IV) Da Hegel alla Comune di Parigi: Marx e Bakunin sulla questione dello Stato
La biografia di Marx è ben nota [10] per cui in quel che segue ci limiteremo a citare solo gli avvenimenti più importanti del breve periodo 1835-1848, ossia quello che vide la trasformazione del filosofo tedesco da liberal-democratico e “giovane hegeliano” a socialista proletario e scientifico. Nel 1835 Marx inizia gli studi universitari iscrivendosi, inizialmente a Bonn e poi a Berlino, alla Facoltà di Legge, seguendo però poco le lezioni di diritto alle quali preferisce di gran lunga le letture personali di storia, filosofia e letteratura. Entrando in contatto con i “giovani hegeliani” decide di passare alla Facoltà di Filosofia (contro i desideri paterni) e studia a fondo il pensiero di Hegel. Si laureerà nel 1838 a Jena con la nota tesi sul materialismo degli antichi atomisti greci intitolata “Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro”. Dopo aver accarezzato l’ipotesi di una carriera accademica, nel 1842 l’abbandona in seguito a una svolta reazionaria e censoria del governo prussiano, dedicandosi invece al giornalismo politico e divenendo redattore della celebre "Rheinische Zeitung für Politik, Handel und Gewerbe" (“Gazzetta Renana”, giornale democratico riformista chiuso nel marzo 1843). Nel 1844 Marx dà alle stampe due importantissimi lavori: “Introduzione a «Per la critica della filosofia del diritto di Hegel»” (di cui si è già brevemente parlato) e il controverso saggio “Sulla questione ebraica”. Stende inoltre i “Manoscritti economico-filosofici” che però non vedranno la luce se non nel 1932 (sic). In settembre di quest’anno fa conoscenza con l’amico e compagno di una vita, Friedrich Engels, in collaborazione con cui [e ispirato dal filosofo materialista Ludwig Feuerbach (1804-1872)], scrive nel 1845 “La sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci”, un violento atto di accusa ai “giovani hegeliani”. Tale critica continuerà l’anno dopo nell’”Ideologia tedesca”, che però verrà data alle stampe solo postuma nel 1933. Nel 1846 Marx ed Engels cominciano a tessere una complessa rete di comitati di corrispondenza tra intellettuali, attivisti e sindacalisti “socialisti” tedeschi, francesi e inglesi, attività che di lì a poco si concretizzerà nell’adesione dei due alla Lega dei Giusti (1836-1847), la quale diverrà in seguito la Lega dei comunisti (1847-1852). Nel 1847 Marx pubblica Miseria della filosofia in aspra polemica con le idee di Proudhon e, finalmente, nel 1848 scrive con Engels “Il Manifesto del partito comunista”, considerato da molti come il primo esempio di “socialismo scientifico” in quanto contiene esplicitamente la teoria del materialismo storico applicata in modo compiuto.
In effetti, come si è detto, il primo scritto marxiano concernente il problema dello Stato è un inedito del 1842-43 noto col nome di “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel” di cui venne pubblicata, l’anno dopo, la sola introduzione su un giornale degli esiliati politici tedeschi in Francia. Sarà dato alle stampe in modo completo soltanto nel 1927. Esso contiene un prezioso frammento non finito, intitolato “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” [11] (e conosciuto tra gli esperti con il nomignolo tedesco di Kritik), che permette di affrontare il tema del complesso rapporto tra Hegel e Marx. Inoltre, proprio nella Kritik, a detta di Marx stesso [12], si troverebbe formulata l’idea centrale della filosofia marxiana matura, ossia il materialismo storico. In effetti vi si riscontrano due acquisizioni fondamentali: (1) alla concezione idealistica della Storia, secondo cui quest’ultima sarebbe una manifestazione dello Spirito da cui tutto il reale viene emanato, Marx sostituisce la visione secondo cui la Storia è compresa e spiegata esclusivamente sulla base dei rapporti materiali dell’esistenza umana, i quali ne costituiscono il substrato reale e obiettivo; (2) l’anatomia di questi rapporti materiali, che si manifestano principalmente non nello Stato ma nella società civile, va ricercata proprio nell’economia politica. Per cominciare, nella Kritik Marx accusa Hegel di aver operato un rovesciamento della realtà, per cui tutto ciò che è definito, concreto e materiale viene privato di una sua effettiva realtà e, al contempo, l’indefinito, l'astratto e l'ideale vengono trasformati nell'unica autentica realtà, lo Spirito, divenendo quindi il vero Soggetto che anche il soggetto della filosofia. Tale procedimento d’inversione emergerebbe in modo lampante, almeno secondo Marx, nel rapporto che Hegel stabilisce tra la famiglia e la società civile da un lato, e lo Stato dall'altro. Hegel scrive infatti che lo Spirito, l'Idea reale e intera, viene a scindersi nelle due polarità astratte, puri momenti dell'intero, formate dalla famiglia e dalla società civile. Quindi prima viene lo Spirito, che è la vera realtà (cioè il vero Soggetto), il quale poi genera la famiglia e la società civile, che sono quindi le sue manifestazioni, i suoi oggetti. Siamo di fronte al tipico procedimento dell’idealismo oggettivo hegeliano: il rovesciamento logico che altro non è se non l'inversione (detta “speculativa”) del soggetto con il predicato. Tale rovesciamento, esprimendosi in modo rigoroso, avviene in due fasi: in primis Hegel ipostatizza l'astratto (cioè lo Spirito), facendone un soggetto reale, che viene rappresentato come se agisse secondo un'intenzione determinata; secondariamente egli degrada il reale concreto (cioè, nel nostro caso, la famiglia e la società civile) a semplici prodotti dell’astratto ipostatizzato. In questo modo i rapporti reali, tipici della famiglia e della società civile, sono presentati dall’idealismo non come qualcosa di autonomo e reale, ma come una manifestazione fenomenica dello Spirito, ovvero come suoi predicati. Va però ricordato che questa brillante critica a Hegel non è del tutto originale in quanto pochi anni prima Feuerbach aveva scritto qualcosa di simile: dall’osservazione del modo in cui Hegel pone il finito come l'inveramento dell'infinito, Feuerbach sostiene che una filosofia che deduca il finito dall'infinito non conduce mai a un autentico riconoscimento dell'autonomia del finito. Quindi Marx e Feuerbach rivendicano materialisticamente, contro ogni idealismo, la positività, la verità e la specificità del finito, del concreto, del determinato, nonché la loro irriducibilità al pensiero. Marx però va oltre utilizzando tale schema critico (ossia l'inversione speculativa tra il soggetto e l’oggetto) nel contesto della filosofia dello Stato accusando il procedimento hegeliano di essere infecondo e conservatore: “infecondo” poiché, essendo lo scopo del metodo hegeliano quello di ritrovare nell'empirico lo sviluppo dell'Idea, ciò fa sì che nulla si apprenda della specificità dell'empirico che si sta analizzando; “conservatore” perché l'empirico, lasciato a sé stante, finisce per assurgere ad incarnazione, sebbene parziale, dell'Idea e quindi viene essenzialmente giustificato così come è.
Tuttavia, Marx trova nel metodo hegeliano pure qualcosa di estremamente profondo e positivo, la dialettica, e anche dopo molti anni riconoscerà che la stesura delle sue opere più mature (per esempio “Il Capitale”) doveva molto allo studio della “Scienza della logica” di Hegel. La profondità di Hegel starebbe, secondo la Kritik, proprio nel cominciare sempre con l'opposizione delle determinazioni ed è proprio tale metodo che gli consentirebbe di comprendere la natura degli Stati moderni. Ma cosa intende Marx per “opposizione delle determinazioni”? Essa è la negazione (o “antitesi”) dialettica: in essa la particolare determinatezza del dato separato (cioè degli aspetti finiti della realtà) viene confrontata con il suo opposto, ovvero con ciò che, definendola, la rende appunto finita e separata. In questo momento, che è quello più propriamente dialettico della celebre triade tesi-antitesi-sintesi, si attua la mediazione tra ciò che è posto come finito e ciò che gli si oppone come altrettanto finito. Marx, in effetti, in questo contesto segue Hegel non interessandosi delle “opposizioni reali” (per usare un termine kantiano che indica due estremi reali senza mediazione alcuna tra loro), ma delle contraddizioni logico-dialettiche (come le “opposizioni delle determinazioni”), poiché egli ritiene che queste ultime costituiscano l'essenza più intima della società borghese. In essa, infatti, ci sarebbe una contraddizione (e non un’“opposizione reale”) tra la società civile e lo Stato, tra l’elemento sociale e quello politico, tra il borghese e il cittadino. Tale contraddizione consiste nel fatto che nelle società preborghesi le posizioni economiche e sociali coincidono quasi del tutto con quelle politiche: il servo della gleba era ipso facto anche un suddito, il proprietario terriero era allo stesso momento anche un signore. Nell’età borghese, invece, queste due sfere si separano, e in tale separazione vi è un progresso rispetto alle società schiavistiche o feudali, perché si crea una scena pubblica in cui tutti sono legalmente uguali. Però questa uguaglianza è solo politica e si contrappone alla sfera sociale ed economica, dove, all’opposto, permangono forti diseguaglianze. Quindi anche Marx accetta il metodo dialettico hegeliano e pure lui, almeno in qualche modo, associa contrasti reali a contraddizioni logiche. La differenza rispetto a Hegel è tuttavia enorme: il primo propone un superamento puramente speculativo di tali contraddizioni mediante la sintesi concettuale, mentre il secondo ritiene che queste vadano superate con un atto di prassi rivoluzionaria. Infatti, la concezione marxiana della dialettica della realtà (e non solo dei concetti, come in Hegel), ossia l'idea che questa sia positivamente autocontraddittoria, non porta ad elaborare solo una semplice teoria economica e sociologica, magari rigorosa e scientifica, ma, prima di tutto, una dottrina rivoluzionaria, il cui obiettivo essenziale non è soltanto quello di conoscere e descrivere la realtà, ma piuttosto quello di cambiarla radicalmente.
Un discorso a parte è quello relativo al supposto “romanticismo” di Marx, ossia a quanto l’interpretazione della scissione della società come contraddizione dialettica riveli un concetto sottostante tipicamente romantico e schellinghiano, quello di “totalità organica”, ossia un’unione differenziata degli opposti dove però cessi la tensione tra di essi. A questo proposito vari autori contemporanei, severi critici del pensiero marxiano (ad esempio Karl Popper, Hans Kelsen e il nostro Lucio Colletti [13]), fanno notare esplicitamente un lato “antimoderno” di Hegel e di Marx: il mondo moderno avrebbe dissociato ciò che nella polis greca era la totalità in cui non si sarebbe riscontrato contrasto alcuno tra il particolare e l’universale, tra la società e lo Stato, tra l’individuo e il cittadino. Ciò perché il mondo moderno (ovvero borghese) avrebbe una forza atomizzante a causa del suo esasperato individualismo particolarista fondato sull’universalità dei diritti. Tuttavia, anche qui emerge una cruciale differenza tra i due filosofi tedeschi: Hegel si sforza di superare tale atomismo, che per lui caratterizza soltanto la società civile, con una serie di accorgimenti che hanno come vertice lo Stato; Marx invece considera la società borghese viziata alla sua stessa radice, che è la proprietà privata, e ne propone quindi lo sradicamento. E non si tratta di puri dibattiti filosofici accademici: l’idea di Hegel, che vuole mediare le differenze sociali mediante lo Stato, sarà la base teorica di ogni futuro riformismo, quella di Marx è invece l’essenza stessa del socialismo: l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di distribuzione. Infatti, nella società comunista il problema dei diritti individuali non esisterà più: già nel “Manifesto del partito comunista” [14] del 1848 il filosofo di Treviri giunge a concepire pienamente la società borghese (e ogni società prima di essa) come una struttura caratterizzata dall'antagonismo tra classi, mentre la società comunista, vale a dire una società senza classi, sarà priva di queste contraddizioni e pertanto priva di ogni oppressione o di necessità di mediazione tra i contrasti sociali. Sarà dunque una società senza Stato e senza politica. Ribaltando completamente Hegel, sarà in ultima analisi il trionfo della società civile sullo Stato. Tuttavia, osservano malevolmente ma non senza un qualche acume i citati critici di Marx, l'aspirazione dei due autori è la medesima: fondere gli individui in una totalità compatta e armonica. Anche per Marx la moderna indipendenza individuale, ossia il riconoscere all'individuo una sfera intangibile di autodeterminazione, è essenzialmente inaccettabile e rappresenta sia il pregio passato (rispetto al feudalesimo), sia il principale difetto presente, del mondo borghese. L’organicismo, egualitario in Marx e gerarchico in Hegel, aprono un solco non facilmente colmabile tra il pensiero di questi due teorici e il liberalismo democratico moderno. Un serio tentativo di superamento di questo ostacolo sarà compiuto al livello teorico solo da Max Adler ben 80 anni dopo la Kritik, non a caso in forte e continua polemica con Kelsen.
Se la Kritik del 1842 fa i conti con la concezione hegeliana dello Stato sul versante della teoria politica, sono le tragiche esperienze della Comune di Parigi del 1871 a indurre Marx a riconsiderare la questione dello Stato dal punto di vista pratico, andando ben al di là delle semplici (ancorché geniali) schematizzazioni contenute nel “Manifesto del partito comunista”, ancora venate da certe incrostazioni giacobine e robespierriane. Ci riferiamo al breve (35 pagine) ma denso pamphlet noto con il nome di “La guerra civile in Francia” [15] e scritto tra il 6 e il 30 maggio 1871, proprio allo scadere dei 72 giorni (18 marzo-28 maggio) di vita della Comune. Questo documento raccoglie tre discorsi tenuti al Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (ossia la cosiddetta “Prima Internazionale”) e le sue pagine centrali sono dedicate alla Comune di Parigi, di cui Marx coglie la grande novità, quale manifestazione autonoma della classe lavoratrice organizzatasi in soggetto politico a fini rivoluzionari. In effetti Marx parla di “rivoluzione” sia nel “Manifesto del partito comunista”, sia ne “La guerra civile in Francia”, e anche se il “Manifesto” è assai più conosciuto, l’altro scritto è forse più rilevante in quanto vi è un giudizio più maturo sullo sviluppo dell’azione politica della classe lavoratrice. Va però chiarito in modo preliminare che per quanto le opere marxiane precedenti il 1870 fossero abbastanza note ai socialisti francesi e il nome di Marx rispettato dagli insorti della Comune, egli non influenzò direttamente gli eventi parigini del 1871 poiché le teorie cospiratorie di Blanqui e i progetti anarchici di Proudhon erano assai più diffusi nella compagine dei comunardi. Tuttavia, agli occhi di Marx questo è abbastanza irrilevante, dato che il compito che egli assegna a se stesso è quello di interpretare gli eventi rivoluzionari come se fossero l’espressione di una dinamica interna ai fatti storici, ben al di là della coscienza degli attori e della loro fortuna (o sfortuna) politica. Però Marx non fu solo un filosofo, un economista, uno storico e un sociologo, dato che, in coerenza con la sua celebre undicesima “Tesi su Feuerbach” [16], fu anche un giornalista, un organizzatore, un divulgatore e un polemista. E ciò si apprezza particolarmente in quanto alcuni dei suoi libri sono collezioni di articoli o trascrizioni di conferenze; proprio come il pamphlet “La guerra civile in Francia”, che raccoglie considerazioni sulla guerra franco-prussiana, sull’insurrezione di Parigi, sul voltafaccia del governo versaillese di Adolphe Thiers e su diversi altri dettagli. Tuttavia, le pagine più importanti sono certamente quelle dedicate all’esperienza politica della Comune e mostrano una stima molto spiccata per la sua novità come manifestazione autonoma della classe operaia in quanto soggetto politico. Tale novità durò meno di cento giorni, eppure segnò in modo profondo l’immaginazione politica dei decenni successivi [17], almeno fino alla Rivoluzione d’Ottobre (1917) per il movimento socialista e ai fatti di Spagna (1936) per quello anarchico. Benché si sia già detto che la gran parte del testo è concentrata sugli eventi politici e militari del biennio 1870-71, quel che più ci interessa in questa sede è la valutazione di Marx relativamente al contenuto sociale dell’attività quotidiana dei rivoluzionari comunardi, in particolare la promulgazione di misure atte al miglioramento della vita quotidiana dei lavoratori e della piccola borghesia ad essi alleata. La breve esistenza della Comune è infatti tutta scandita dall’approvazione di nuove leggi che pongono le basi per una trasformazione in senso socialista della produzione e della vita collettiva del popolo parigino. Vale a questo proposito la pena riportare direttamente un lungo brano di Engels che nell’introduzione del 1891 all’edizione tedesca dell’opera di Marx riassume così i primi passi della Comune:
“(...). Il 26 marzo fu eletta e il 28 proclamata la Comune di Parigi. Il Comitato centrale della Guardia nazionale, che fino ad ora si era fatto carico del governo, dette le sue dimissioni alla Guardia nazionale stessa, dopo aver decretato la soppressione della scandalosa ‘polizia dei costumi’ di Parigi. Il 30 marzo la Comune abolì la coscrizione e l'esercito permanente e proclamò che la Guardia nazionale, nella quale dovevano arruolarsi tutti i cittadini atti alle armi, sarebbe stata la sola forza armata. Essa dichiarò una moratoria di tutte le pigioni per le case di abitazione dall'ottobre 1870 fino all'aprile, stabilendo che gli affitti già pagati si dovessero computare in acconto delle pigioni future; e sospese ogni vendita di oggetti impegnati al Monte di pietà. Lo stesso giorno gli stranieri eletti a far parte della Comune furono confermati nella loro carica, perché «la bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale».
Il primo aprile venne deciso che lo stipendio più elevato di un impiegato della Comune, compreso dunque quello dei suoi stessi membri, non dovesse superare 6.000 franchi. Il giorno seguente la Comune decretò la separazione della Chiesa dallo Stato e l'abrogazione di tutti i versamenti dello Stato a scopi religiosi, come pure la trasformazione di tutti i beni ecclesiastici in patrimonio nazionale. In seguito a ciò, l'8 aprile fu deciso di dare il bando dalle scuole a tutti i simboli religiosi, immagini, dogmi, preghiere, insomma a ‘tutto ciò che appartiene al campo della coscienza individuale’, e la misura venne a poco a poco applicata. Il giorno 5, in risposta alle fucilazioni, che si rinnovavano ogni giorno, dei combattenti della Comune fatti prigionieri dalle truppe di Versailles, fu emanato un decreto circa l'arresto di ostaggi, ma non venne mai eseguito. Il 6 fu tirata fuori la ghigliottina con l'aiuto del 137° battaglione della Guardia nazionale, e bruciata in pubblico tra alte grida di giubilo popolare. Il 12 la Comune decise di abbattere la colonna della vittoria di Place Vendôme, fusa dopo la guerra del 1809 con i cannoni presi da Napoleone, ed eretta come simbolo dello sciovinismo e dell'odio tra i popoli. La cosa venne fatta il 16 maggio. Il 16 aprile la Comune ordinò una statistica delle fabbriche lasciate inoperose dagli industriali, e la elaborazione di progetti per l'esercizio di queste fabbriche a mezzo degli operai fino allora occupati in esse, da riunirsi ora in società cooperative, e per l'organizzazione di queste società in una grande unione. Il 20 essa abolì il lavoro notturno dei fornai, come pure la registrazione degli operai esercitata a partire dal Secondo Impero esclusivamente per mezzo di soggetti nominati dalla polizia, autentici sfruttatori degli operai. La registrazione venne affidata ai municipi dei venti mandamenti di Parigi. Il 30 aprile ordinò l'abolizione delle case di pegno, che non erano se non uno sfruttamento privato degli operai, in contraddizione col diritto degli operai ai loro strumenti di lavoro e al credito. Il 5 maggio decretò la demolizione della cappella espiatoria costruita in ammenda della esecuzione capitale di Luigi XVI” [18].
Per la prima volta nella storia europea, eccettuato forse qualche accenno durante il ’48 francese, il problema del tempo di lavoro viene posto al centro della nuova cultura politica socialista che si sta formando. Ma al contempo, e questo ci interessa di più, per la prima volta nella storia europea la lotta di classe affronta in modo consapevole il problema dello Stato, che invece durante in ’48 era stato formulato nei termini vaghi di una “repubblica democratica”. Questi due livelli della lotta: la trasformazione del rapporto tra lavoro e capitale e la trasformazione dello Stato, vanno però discussi in modo differente, poiché il primo è stato trattato ampiamente da Marx nei suoi testi teorici principali e, in un certo senso, sembra a seguire leggi economiche generali largamente confermate (la contraddizione basilare tra capitale e lavoro, la concentrazione e l’espansione planetaria del capitale, la caduta tendenziale del saggio di profitto ecc.), mentre il secondo è più sfuggente e, avendo a che fare contemporaneamente con la volontà soggettiva degli individui e con il consenso della classe, può esser molto più difficilmente ricondotto a dinamiche prevedibili. Scrive infatti Engels sempre nella sua introduzione del 1891:
“Tanto maggiore è quindi il nostro dovere di rendere nuovamente accessibili agli operai tedeschi questi brillanti documenti, ora in parte dimenticati, dell'acuta preveggenza della politica operaia internazionale nel 1870. Ciò che è vero per questi due Indirizzi, lo è altresì per quello sulla Guerra civile in Francia. Il 28 maggio gli ultimi combattenti della Comune soccombevano a forze preponderanti sulla collina di Belleville, e non più di due giorni dopo, il 30, Marx leggeva al Consiglio generale lo scritto nel quale l'importanza storica della Comune di Parigi è espressa in tratti concisi, potenti e soprattutto così veri, come non si è più riusciti a fare in tutta la enorme letteratura su questo argomento” [19].
E ancora, poche righe più avanti, sempre Engels riflette sul complesso rapporto tra la Comune, lo Stato e la repubblica democratica statunitense (apparentemente la più “pura” delle democrazie perché priva dei residui nobiliari europei):
“La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato, che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. In che cosa consisteva sino allora la proprietà caratteristica dello Stato? La società, per la tutela dei propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, originariamente per mezzo di una semplice divisione di lavoro. Ma questi organi, alla cui testa è il potere dello Stato, si erano col tempo trasformati, al servizio dei propri interessi speciali, da servitori della società in padroni della medesima. Il che per esempio è evidente non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun paese i "politici" formano una sezione della nazione così separata e così potente come nell'America del nord. Ognuno dei due grandi partiti che si scambiano a vicenda il potere viene alla sua volta governato da gente per cui la politica è una professione, che specula tanto sui seggi nelle assemblee legislative dell'Unione quanto su quelli dei singoli Stati, o che per lo meno vive dell'agitazione per il suo partito e dopo la sua vittoria viene compensata con dei posti. È noto come gli americani tentano da trent'anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, affondano sempre più profondamente nella palude di questa corruzione. Proprio in America possiamo vedere nel miglior modo come si compia questa separazione e contrapposizione del potere dello Stato alla società, di cui in origine esso era destinato a non essere altro che uno strumento. Qui non esiste dinastia, non nobiltà, non esercito permanente all'infuori di un manipolo d'uomini per la vigilanza degli indiani, non burocrazia con impiego stabile e con diritto a pensione. E con tutto questo, abbiamo qui due grandi bande di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e lo sfruttano coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi; e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici, che apparentemente sono al suo servizio, ma in realtà la dominano e la saccheggiano” [20].
Ma se è vero che Marx loda incondizionatamente la Comune:
“Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il risultato della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, sotto la quale poteva avvenire l’emancipazione economica del lavoro” [21],
definendola addirittura, in buona sostanza, la forma di ciò che successivamente sarà definito come “dittatura del proletariato”, c’è il sospetto che l’autore stia in qualche modo tessendo un “elogio funebre” dal carattere alquanto acritico e agiografico. Infatti, almeno secondo quanto scrive Franz Mehring [22], nella primavera del 1871 la polizia francese fece circolare un rapporto secondo il quale Marx aveva espresso dure critiche ai comunardi, soprattutto relativamente al loro interesse preminente per le questioni politiche rispetto a quelle sociali. Ovviamente Marx smentì subito la notizia con un articolo pubblicato su “The Times”, in cui accusava il dossier poliziesco di essere un falso dozzinale prodotto da agenti provocatori. È ovvio che Marx, in quanto dirigente della Prima Internazionale, non poteva che esprimere il suo massimo e incondizionato appoggio alla Comune. Eppure, in lettere private, anni dopo, non mancarono dure critiche [23]. In effetti Marx non fu certamente un ipocrita e, già nel 1871, insieme agli elogi scriveva pure:
La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre per «décret du peuple». Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese” [24].
Sintetizzando, possiamo ben dire che i complessi rapporti tra i socialisti e lo Stato, per Marx, non furono risolti dalla Comune, ma solo posti per la prima volta in evidenza. Per questo nell’ultima fase del loro pensiero sia Marx che Engels torneranno varie volte su tale spinosa questione, come vedremo più avanti.
Prima di concludere questo paragrafo va almeno citata una visione un po’ diversa da quella marxista dei rapporti tra la società borghese, lo Stato e il socialismo. Si tratta della lettura proposta da Michail Aleksandrovič Bakunin, forse il più celebre rivoluzionario anarchico del XIX secolo ma anch’egli, comunque, fortemente debitore nei confronti della filosofia politica hegeliana. Successiva alle brillanti conferenze sulla Comune di Parigi del maggio 1871 [25], la sintesi più riuscita del pensiero bakuninista è certamente quella contenuta nel saggio “Stato e anarchia” (1873) [26], un testo di teoria politica, di analisi storica e di critica dell'imperialismo, dello statalismo e, in qualche modo, pure del socialismo marxista, ritenuto anch’esso “statalista” (ossia “socialismo di Stato”). Già il titolo dell’opera dimostra come la questione fondamentale per Bakunin sia, nella seconda metà del XIX secolo, la contrapposizione tra lo Stato e la rivoluzione anarchica che lo deve abbattere, denominata in quegli anni “rivoluzione sociale”. Ma cos’è lo Stato per Bakunin? Esso è essenzialmente, anche quando si mostra ammantato di riforme liberali e persino democratiche, l’istituzionalizzazione del predominio di una piccola minoranza di uomini (oggi i borghesi, ieri i signori feudali, in antico gli aristocratici ecc.) sulla grande maggioranza degli altri uomini per mezzo di violenza, soperchieria, inganno, superstizione e despotismo. In questo senso la politica aggressiva di taluni Stati nei confronti di altri, nota con il nome di “imperialismo”, non è per Bakunin una degenerazione patologica, ma, tutto all’opposto, un elemento costitutivo dello Stato, che anzi ne svela la vera natura. Infatti, dove è la forza bruta che prevale, questa sarà il principale metro di paragone e per non essere a sua volta sopraffatto, lo Stato dovrà, quando richiesto, trasformarsi in Stato militarizzato e quindi, se possibile, risultare vincitore e conquistatore di altri Stati.
Dal punto di vista del progetto politico, quello bakuninista oppone la concretezza della rivoluzione all’astrattezza di un’istituzione fittizia come lo Stato di cui, in ultima analisi, sono solo le classi dominanti a servirsi. Non vi è quindi posto per machiavellismi, tattiche astute e strategie di lungo periodo: il potere statale deve essere distrutto in modo rapido ed irreversibile dalla Rivoluzione Sociale per far posto alla libertà delle classi subalterne e sfruttate di tutti i Paesi, le quali si uniranno in modo veramente fraterno solo se non cercheranno di creare uno Stato comune, ma si sforzeranno di eliminare definitivamente tutti gli Stati del mondo. E ciò per Bakunin è evidente, seguendo Rousseau in modo palmare, in quanto la libertà popolare sarà possibile solo al di fuori dello Stato, dato che esso frustra e corrompe la naturale predisposizione umana alla socievolezza, sostituendola con forme più o meno aperte di schiavitù o di servaggio. Ma cosa ne sarà della società civile una volta distrutto l’involucro statale? Qui i pensatori anarchici del XIX secolo successivi al meticoloso Proudhon, segnatamente Bakunin e Kropotkin, risultano invece un po’ vaghi e generici:
«Verrà un tempo quando non ci saranno più Stati, e tutti gli sforzi del partito socialista rivoluzionario tendono a distruggerli in Europa, verrà un tempo quando sulle rovine degli Stati politici sarà fondata, in piena libertà e organizzata dal basso in alto, l’unione libera e fraterna delle libere associazioni di produzione, delle comuni e delle federazioni regionali che abbraccerà senza nessuna distinzione, perché liberamente, gli individui di ogni lingua e di ogni nazionalità; allora la strada del mare sarà aperta a tutti in ugual maniera; agli abitanti del litorale direttamente, agli abitanti dei paesi lontani dal mare per mezzo delle ferrovie completamente liberate da ogni tutela statale, da ogni imposta, da ogni dazio, regolamento, ostacolo, proibizione, permesso e ordinanza. Gli abitanti del litorale continueranno però a godere di un grande numero di vantaggi naturali, non solo materiali ma anche intellettuali e morali. Il contatto diretto con il mercato mondiale e, in generale, con il movimento universale della vita fa progredire di più e, qualunque cosa voi facciate per integrare le relazioni, non potrete mai impedire che gli abitanti dell’interno, privi di tali vantaggi, vivano o progrediscano più fiaccamente e più lentamente di quelli che vivono sulle rive del mare» [27].
Ma forse le pagine più interessanti del testo di “Stato e anarchia” sono proprio quelle dedicate alla critica alle astrazioni della filosofia politica di Hegel (che pure Bakunin aveva studiato in modo approfondito), dei “giovani hegeliani” e, almeno in parte, di quella di Marx, visto, in modo un po’ sbrigativo, come l’ultimo degli hegeliani. Scrive infatti Bakunin, con uno slancio vitalistico che sembra quasi anticipare Spencer, Bergson e Nietzsche di un trentennio:
«Qual era la causa di questo lamentevole disfacimento? [cioè la fallita rivoluzione tedesca del 1848, nota nostra] Esso si spiega naturalmente, e soprattutto, con il carattere storico particolare dei tedeschi che li predispone molto più all’ubbidienza dei fedeli sudditi che alla ribellione, ma anche con il metodo astratto con cui si avviarono alla rivoluzione. Anche qui, in conformità con la loro natura, non andarono dalla vita al pensiero ma dal pensiero alla vita. Chi parte dal pensiero astratto non potrà mai giungere alla vita perché dalla metafisica alla vita non c’è strada. Sono separate da un abisso. Sorvolare questo abisso, compiere un “salto mortale” o quel che lo stesso Hegel chiamava “salto qualitativo” (‘qualitativer Sprung’) dal mondo della logica al mondo della natura, della vita reale non è ancora riuscito a nessuno e nessuno ci riuscirà mai. Chi insegue l’astrazione morirà con essa. La vita, in quanto movimento concretamente razionale, è nel mondo della scienza la marcia dal fatto reale all’idea che lo abbraccia, che lo esprime e che di conseguenza lo spiega; e nel mondo pratico è il movimento che va dalla vita sociale verso la sua organizzazione più razionale possibile conformemente alle indicazioni, alle condizioni, alle necessità e alle essenze più o meno spontanee di quella medesima vita. Questa è la larga strada del popolo, dell’emancipazione reale e totale, accessibile a tutti e, di conseguenza, veramente popolare, la strada della Rivoluzione Sociale anarchica che nasce da sola dal seno del popolo distruggendo tutto quanto si opponga al traboccare generoso della sua vita affinché, dalle stesse profondità dell’esistenza di questo popolo, scaturiscano le nuove forme di una libera comunità» [28].
Riassumendo in modo succinto gli argomenti portati avanti dal rivoluzionario russo in questo suo lavoro del 1873, possiamo affermare che per lui il potere politico, simbolo e spia del dominio dell'uomo sull'uomo, non deve essere mai attribuito o delegato a nessun individuo, poiché chi è investito di una qualsivoglia autorità pubblica sarà, secondo una legge storicamente immutabile, uno sfruttatore del resto della comunità. I rivoluzionari anarchici, secondo Bakunin, sono dunque nemici implacabili della società borghese e di ogni forma di autorità (economica, politica, militare, religiosa, accademica ecc.) proponendosi la più completa distruzione dello Stato. Ad essa contrappongono l'organizzazione della socialità dal basso attraverso libere aggregazioni di produttori e di consumatori, sempre rigorosamente al di fuori di qualsiasi tutela politica ufficiale.
Fig. 4: Bakunin (a sinistra) e Marx (a destra) furono probabilmente i più importanti rivoluzionari socialisti del XIX secolo. Le rispettive concezioni dello Stato differirono notevolmente tra loro e insieme a strategie e tattiche profondamente discordanti, contribuirono a rendere estremamente conflittuali i rapporti politici e personali tra i due.
V) Il marxismo dalla Comune alla morte di Engels: la Belle Époque
Il periodo che intercorre tra la tragica fine della Comune di Parigi (28 maggio 1871) e la morte di Friedrich Engels (5 agosto 1895) è incluso quella che la storiografia accademica ha ribattezzato con il nome di “Belle Époque” europea, tempo di relativa pace, di grande sviluppo economico e tecnologico, di vaste conquiste imperialiste coloniali e di rapidissima crescita del movimento operaio organizzato da partiti socialisti e sindacati. In realtà la fase immediatamente successiva al 1871 vide la crisi della Associazione internazionale dei lavoratori, con una lotta tra i sostenitori di Marx e quelli di Bakunin [29]. Al Congresso dell'Aia (1872), dove si modificarono gli statuti dell’associazione confermando le decisioni prese alla Conferenza di Londra del 1871, vennero espulsi il russo Michail A. Bakunin e lo svizzero James Guillaume, sancendo di fatto la rottura definitiva tra le due correnti socialiste. Gli anarchici bakunisti si considerarono sempre vittime di una grave ingiustizia e con il sostegno delle federazioni della Spagna, dell’Italia, del Belgio e della Svizzera romanza decisero di continuare la Prima Internazionale, ripristinando i suoi vecchi statuti e organizzando un nuovo Congresso da tenersi nella cittadina svizzera di Saint-Imier. Questa organizzazione internazionale antiautoritaria avrà poi altri quattro congressi fino a quello di Vervrier del 1877. A questo punto, a partire dal 1872, l'esperienza internazionalista socialista procedette divisa in due strade: da un lato l’internazionale antiautoritaria che spostò poco dopo la sede del Consiglio generale da l'Aia a Saint-Imier. Dall’altro l'internazionale marxista che trasferì invece la sede del Consiglio generale da l'Aia a New York nell’estate del 1874. Ma già alla conferenza di Filadelfia nel 1876 venne dichiarato ufficialmente lo scioglimento della branca marxista dell’Associazione. In questo clima di sparpagliamento del socialismo internazionale è in un certo senso ovvio che l’interesse politico di Marx ed Engels ritorni alle vicende del movimento operaio nella Germania, da poco unificata nel Reich bismarkiano, dove fino al 1864 aveva spadroneggiato una curiosa figura di agitatore socialista, tanto abile nell’organizzazione e nella propaganda quanto confuso, superficiale e ondivago nell’elaborazione teorica: Ferdinand Lassalle. L’importante documento marxiano che andremo sommariamente ad analizzare per le sue profonde implicazioni circa la concezione dello Stato, ossia la cosiddetta “Critica del Programma di Gotha” [30] del 1875, è in buona sostanza una sferzante requisitoria contro le posizioni lassalliane sopravvissute più di dieci anni alla morte del loro ideatore. Glissando sulle numerose critiche che Marx ed Engels avevano riservato a Lassalle quando questi era ancora in vita, sia sul lato politico-teorico sia su quello etico-personale, ricordiamo solo la peculiare decisione lassalliana di spingere gli operai tedeschi ad appoggiare la monarchia prussiana e la classe degli Junker (proprietari fondiari) contro la borghesia nazionale nell’ottica della costruzione di un improbabile “socialismo di stato” collaborando con il cancelliere Otto von Bismark, in parziale analogia con le vecchie idee stataliste di Louis Blanc nella Francia del 1848. Va ricordato che oltre all’organizzazione lassalliana, lo Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein, (ADAV, Associazione generale dei lavoratori tedeschi), fondato nel 1863, esisteva nei paesi di lingua tedesca anche un vero e proprio partito socialista, la Sozialdemokratische Arbeiterpartei Deutschlands (SAPD, Partito Socialdemocratico dei Lavoratori di Germania) nata nel 1869 ad Eisenach in Sassonia. Marx ebbe una certa influenza personale su questo partito appena formato, essendo amico e corrispondente sia di August Bebel che di Wilhelm Liebknecht, due dirigenti della SAPD, cercando di spingerlo verso un socialismo sempre meno moraleggiante e più scientifico, e affiliandolo (almeno parzialmente date le rigide leggi prussiane) all’Associazione internazionale dei lavoratori. Ora, contro l’opinione di Marx ed Engels, la SAPD aveva finalmente deciso di unificarsi con lo ADAV e aveva chiesto inaspettatamente a Marx ed Engels, appena una settimana prima del congresso dell’unificazione di Gotha, di aderire e sostenere il nuovo programma (pur conoscendo la scarsa stima dei due teorici nei confronti della compagine lassalliana). Le motivazioni che li spinsero ad accettare un coinvolgimento nella nuova formazione politica sono abbastanza complesse [9,17] e non possono essere sintetizzate in questo breve saggio. Diremo solo che la competizione ancora viva con i bakuninisti e le calunnie di questi ultimi circa il presunto ruolo di Marx quale “eminenza grigia” della SAPD, furono probabilmente gli elementi scatenanti a far sì che, almeno sul piano teorico (ma non su quello organizzativo), alcune storture potessero esser identificate il prima possibile. In particolare, Marx ed Engels erano estremamente interessati ai seguenti nove punti programmatici, che consideravano il minimo per poter procedere all’unificazione:
1. L’accettazione da parte del nuovo partito unificato del vecchio programma socialista di Eisenach del 1869 (o di una versione aggiornata di esso).
2. La fine del settarismo lassalliano che considerava tutti gruppi sociali non operai come ugualmente reazionari, senza studiare i reali rapporti di forza tra le classi.
3. La rinuncia agli aiuti statali nella costruzione delle cooperative operaie.
4. L’accettazione del carattere internazionalista della lotta di classe e della solidarietà nei confronti degli scioperanti in ogni Paese.
5. La rinuncia alle strampalate teorie economiche lassalliane che consideravano inutile qualsiasi rivendicazione operaia di carattere economico (per esempio, la cosiddetta “legge bronzea dei salari”).
6. La decisione di promuovere la formazione di sindacati di categoria.
7. La richiesta della responsabilità personale degli impiegati pubblici nell’esercizio delle loro funzioni.
8. La rinuncia a formulazioni vaghe e retoriche come lo slogan, privo di sostanza, di “Stato popolare libero”.
9. La rinuncia a concetti derivanti dal socialismo utopico quali, ad esempio, la “totale uguaglianza sociale”, in quanto antistorici e irrealizzabili sul breve periodo.
I rilievi critici furono inviati in modo riservato da Marx a Wilhelm Bracke, uno dei fondatori della SAPD ad Eisenach, affinché li leggesse e li discutesse con gli altri dirigenti del partito (Geib, Auer, Bebel e Liebknecht). Tuttavia, le cose andarono in maniera abbastanza diversa: al congresso di Gotha (maggio 1875) il progetto di programma criticato da Marx fu accettato con lievissime modifiche dalla nuova SAPD, mentre la critica programmatica marxiana venne pubblicata da Engels solo molto più tardi, nel lontano 1891, quando la SAPD aveva dichiarato l'intenzione di adottare un nuovo programma, il cui risultato fu il celebre Programma di Erfurt del 1891, di cui parleremo più avanti.
La critica di Marx, come si è detto, investe varie parti del programma di partito della “SAPD unificata” e tocca, per esempio, il tema importantissimo della futura società di transizione dal capitalismo al socialismo. Tuttavia non è questo l’argomento di cui vogliamo discutere in questa sede, limitandoci alla “lezione” sullo Stato che Marx fornisce ai lassalliani per combattere una loro posizione tipica, allora predominante tra i socialisti tedeschi, ovvero una deviazione "governativa" del movimento operaio in cui si concepiva lo Stato come un’entità sovrastante le classi sociali antagoniste e quindi si cercava continuamente il suo appoggio, persino nella creazione delle organizzazioni operaie e delle cooperative. Contemporaneamente si sottovalutavano (e talora si ostacolavano) le lotte economiche e le coalizioni sindacali, in quanto esse sembravano distogliere i militanti dal loro lavoro partitico e, soprattutto, guastavano i rapporti con il governo. I gravi errori teorici dello ADAV sulla natura e sul ruolo dello Stato derivavano chiaramente dalle idee di Lassalle, per il quale la compagine statale rappresentava l'unione degli individui in una sorta di tutt’uno morale, e praticamente portavano a privilegiare i singoli risultati politici della lotta di classe piuttosto che un percorso rivoluzionario generale e coerente. A una faticosa costruzione delle strutture sindacali e partitiche che potevano elevare la coscienza di classe veniva preferita la scorciatoia (spesso solo velleitaria) del rapporto diretto col governo prussiano. Ovviamente non si deve cadere nell’errore semplicistico di cancellare completamente le analogie tra socialisti “marxisti” e socialisti “statalisti”. Per esempio, alla domanda se i sindacati (e gli scioperi da essi indetti) potessero risolvere definitivamente i problemi della classe lavoratrice, entrambi rispondevano negativamente. E ancora, alla domanda se gli scioperi comunque servissero a qualcosa, entrambi rispondevano positivamente. Poi però, scavando in profondità, le posizioni delle due tendenze cominciavano a divergere: gli “statalisti” cercavano di dimostrare che gli scioperi erano largamente inefficaci, almeno dal punto di vista economico, e che quindi era necessario spingere l’entusiasmo della classe verso soluzioni politiche in sede governativa, di concerto con il cancelliere prussiano. I “marxisti” invece intervenivano per mostrare ai lavoratori che ci si poteva auto-organizzare e che da tale organizzazione, in futuro, avrebbe preso le mosse la transizione al socialismo. Marx, inoltre, era assolutamente contrario all’idea di costituire le cooperative di produzione e di consumo in cui il ruolo dello Stato risultasse legalmente riconosciuto. Infatti, gli pareva davvero assurdo pretendere che lo Stato finanziasse strutture che alla lunga potevano nuocere a se stesso ed era comunque metodologicamente errato chiedere aiuto a un "nemico di classe" per crescere e svilupparsi. Ma il motivo principale era prettamente teorico: lo Stato non è in grado in alcun modo di facilitare la costruzione di una "nuova società socialista", ma, all’opposto, è una struttura di conservazione adatta soltanto a difendere la società esistente. Va infatti precisato che Marx non era contrario alle società cooperative in sé, ma riteneva ragionevolmente che esse andassero costruite in completa autonomia, sia nei confronti della borghesia, sul piano economico, sia rispetto ai governi, su quello politico, dato che queste realtà cooperative avevano senso solo come temporanee “palestre” dell’auto-organizzazione dei lavoratori, sempre finalizzata al superamento del modo di produzione capitalista. Tornando allo Stato, va chiarito come Marx non creda affatto ai concetti mazziniani di "Stato democratico" o a quelli lassalliani di "Stato libero", poiché, come già supposto nel 1842-43, per lui lo Stato dovrebbe rimanere subordinato alla società civile fino ad arrivare a una totale scomparsa. E dato che esso non può essere considerato come un ente indipendente dalla società civile che lo esprime, lo Stato non sarà mai più "libero" della società civile che esso in qualche modo rappresenta. Certo la società civile era (in tutti i Paesi occidentali conosciuti da Marx) rigorosamente di tipo capitalistico, mentre gli Stati potevano assumere forme diverse dettate dalle peculiarità storiche, ma tutti comunque tutelavano la società di cui erano espressione e che, in buona sostanza, li aveva costituiti. Marx va avanti notando che uno "Stato democratico" esiste già in Svizzera e negli Stati Uniti d’America, dove è molto meno autoritario rispetto a quello tedesco o a quello russo, ma non per questo è meno borghese. Tuttavia, il filosofo di Treviri non si avventura in previsioni, dato che non gli sembra possibile sapere cosa resterà nella società socialista dell’attuale Stato borghese. L’unica cosa che gli pare certa è il fatto che nella transizione tra capitalismo e socialismo dovrà esserci una fase temporanea di “dittatura del proletariato” che impedisca alla borghesia di utilizzare le residue leve dello Stato per difendere o riaffermare la proprietà privata dei mezzi di produzione. In questa prospettiva le rivendicazioni dei lassalliani, sebbene inconsciamente, non apparivano troppo diverse da quelle della borghesia liberal- progressista: si voleva soltanto una più avanzata democratizzazione di uno Stato che nella sostanza sarebbe restato puramente capitalista. All’opposto, un socialista “marxista” non si sarebbe mai dovuto limitare a chiedere con mezzi legali un’istanza che un governo borghese “illuminato” avrebbe avuto la facoltà e il vantaggio di concedergli. Anzi, estrapolando il ragionamento di Marx, possiamo ben dire che quanto più uno Stato borghese si democraticizza introducendo, per esempio, il suffragio universale, il diritto di sciopero, l’imposta progressiva sul reddito, la previdenza obbligatoria, la scuola e la sanità gratuite ecc., tanto più la propaganda per il socialismo dovrà vertere sul tema di una lotta di classe dura e intransigente. Infatti, si dovrà spiegare ai lavoratori che tanto più lo Stato si democraticizza, quanto più le classi sfruttate finiscono col pagare, tramite l’estrazione e la circolazione del plusvalore, le spese per l'istruzione, la sanità, la previdenza anche per le classi improduttive e parassitiche che invece nel vecchio “Stato minimo” liberale erano obbligate a pagarsele per conto proprio.
Un contributo importante alla teoria marxista dello Stato venne da Friedrich Engels [31] nel biennio 1877-78, ovvero negli ultimi anni della vita di Karl Marx, con la stesura e pubblicazione del celebre “Antidühring” [32]. Considerato per molto tempo soprattutto un brillante divulgatore del “socialismo scientifico” per il suo stile terso e lineare senza mai esser superficiale e libresco, in realtà Engels rivela un’originalità notevole rispetto alle più celebri elaborazioni di Marx e, senza mai contrapporsi ad esse, è in grado di esplorare punti di vista complementari a quelli del suo amico e compagno di lotte. Questo è particolarmente vero nel caso delle tematiche più prossime alle scienze matematiche, fisiche, chimiche e naturali, vera passione di Engels, ma si può riscontrare anche in taluni ambiti umanistici, etnologici ed economici. Ad esempio, ne “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” [33] completa i quaderni etno-antropologici di Marx, oppure nella stesura dell’“Antidühring” sviluppa un filone di ricerca sullo Stato che Marx aveva lasciato in abbozzo nei suoi lavori precedenti al 1859. Cerchiamo ora di riprenderne brevemente il filo [34]: i due rivoluzionari tedeschi elaborarono una prima versione delle loro idee relative al metodo del materialismo storico già ne “L'ideologia tedesca” [35] del 1845-46, dove trattarono temi quali la divisione del lavoro, le forme della proprietà, le classi sociali e il dominio della classe dominante attraverso lo Stato, il diritto e le ideologie. Ma il principale limite di tale indagine fu l’eurocentrismo, ossia il fatto di soffermarsi soltanto sull'evoluzione dei modi di produzione del mondo occidentale. Sempre ne “L'ideologia tedesca”, la formazione della società divisa in classi e la nascita dello Stato sono spiegate in base ai fenomeni economici della divisione del lavoro e della proprietà privata, viste come cambiamento all’interno di comunità “comuniste” primitive. Si trattava di fattori che ne determinarono la dissoluzione e da cui poi scaturirono nuove forme sociali organizzate in base alla divisione in classi. Tale visione, secondo Marx ed Engels, sarebbe essenziale per comprendere lo sviluppo del mondo occidentale con l'emergere dello Stato e della società classista alla base di esso, poiché, come in Rousseau, è la proprietà privata della terra il vero fondamento della divisione del lavoro, del commercio e delle varie forme di espropriazione dei coltivatori indipendenti. In buona sostanza, essa è la causa prima della dissoluzione dei rapporti egualitari “comunistici” delle società primitive, nonché del passaggio allo Stato e alle società divise in classi. Ma se questa spiegazione era efficace e plausibile per descrivere l'origine dello Stato in Europa e nel Vicino Oriente, non lo era affatto nel caso del mondo asiatico. E questo fu per Marx un vero cruccio. La nascita dello Stato e delle classi dominanti (ovvero quelle espropriatrici dei liberi coltivatori) in Asia centrale e orientale avvenne in condizioni storiche del tutto diverse, non essendovi né proprietà privata della terra, né, conseguentemente, divisione del lavoro ed economia di scambio. Infatti, i geografi più informati confermavano che in India e in Cina le antiche comunità agrarie, molto simili a quelle primitive, perduravano ancora alla metà del secolo XIX! In effetti lo Stato asiatico non si fondava sulla proprietà privata e sull’espropriazione individuale, ma sulla proprietà collettiva della terra e su una sorta di espropriazione dei singoli coltivatori operata dalla stessa comunità agraria, intesa come un unico. La chiave di volta di tale intuizione fu la scoperta che anche in Medio Oriente (ossia in Egitto e in Mesopotamia) era esistita una realtà simile per più di un millennio, benché poi l'occidente avesse seguito una strada particolare, ma non la strada “universale”, dello sviluppo storico. Marx si sarebbe avveduto di questa omissione solo negli anni tra il 1853 e il 1859, mentre lavorava a una descrizione più dettagliata che includesse appunto anche il cosiddetto “modo di produzione asiatico”. Tale sforzo di esaminare l'economia politica borghese nei “Grundrisse” in una prospettiva storica planetaria, produsse una grandissima maturazione della teoria del materialismo storico, permettendo così una spiegazione assai più accurata dello sviluppo storico e sociale sia in Occidente che in Oriente. Le conclusioni di questa affascinante ricerca si trovano citate in modo un po’ telegrafico, ma molto potente, nella “Introduzione” a «Per la Critica dell'economia politica»” (1857) [36], dove Marx descrive tutto il suo iter intellettuale da Hegel al socialismo scientifico. Vale la pena di leggerlo per intero completando ora la nota [37]:
“Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l'introduzione nei “Deutsch-französische Jahrbücher” pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di "società civile"; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Avevo incominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del Sig. Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione” [38].
Si è quindi visto che le relazioni produttive precapitalistiche e le forme di proprietà che sono alla base dello sviluppo delle civiltà orientali del passato hanno condotto, se confrontate con la linea evolutiva occidentale e mediterranea, a modi di organizzazione sociale e politica molto differenti. Ma, a dispetto di tutte le diversità, entrambe le linee evolutive hanno dato luogo a società classiste. All’opposto, oggigiorno la storia contemporanea a partire dalla Rivoluzione Industriale del XVIII secolo è caratterizzata dalla rapida diffusione su scala planetaria del lavoro salariato e del capitale. Infatti, con la trasformazione del capitalismo europeo e nord-americano in un sistema economico globale, le diverse identità storiche e le loro differenti vie di sviluppo sono confluite in un’unica storia comune. È quindi con lo Stato capitalista che Engels si confronta nell’”Antidühring”, individuandolo subito come lo strumento alla base dell’espropriazione di plusvalore del lavoro salariato ad opera del capitale. Tuttavia, il modo di produzione capitalista, trasformando la maggior parte della popolazione mondiale in lavoratori salariati (“proletariato”), sia nelle regioni asiatiche sia in quelle occidentali, e costringendo quindi la schiacciante maggioranza degli uomini a vivere in condizioni di vera e propria “schiavitù salariata”, prepara, come scriveva Marx già nel 1857, anche la strada a una rivoluzione sociale che eliminerà proprio tali condizioni:
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana” [39].
Quindi, secondo Marx ed Engels, quando il proletariato, che è l’unica classe capace di portare avanti oggi una tale rivoluzione sociale, conquisterà il potere politico, esso determinerà la fine della società classista, ponendo i mezzi di produzione e di distribuzione dei beni e dei servizi sotto il dominio diretto del proprio ''semi-stato''. Nel fare ciò il proletariato eliminerà le strutture stesse delle classi, tutte le differenze e gli antagonismi sociali, negando alla fine anche se stesso in quanto “proletariato”. Allora suonerà la campana a morte per lo Stato, ovvero per quella struttura affermatasi storicamente proprio sulla base della divisione della società in classi. Infatti, nel momento stesso in cui non esisterà più alcuna classe sociale da tenere soggiogata, in cui non vi saranno più né la lotta tra le classi né quella tra gli individui per il predominio (per esempio, la concorrenza economica), dato che non resterà più niente da reprimere, non saranno più necessari gli apparati repressivi statali (forze dell’ordine, militari, guardie carcerarie, magistrati ecc.). Dal punto di vista giuridico-formale possiamo ben dire che nell’idea marxiana ed engelsiana lo Stato si costituirà come il rappresentante dell'intera popolazione attuando la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome di tutta la società, e questa sarà al contempo anche la sua ultima deliberazione in quanto Stato. La sua pesante interferenza sulle relazioni in seno alla società civile diviene ora in tutti settori del tutto superflua e quindi lo Stato decade per un processo interno in cui il governo delle persone viene rimpiazzato dalla semplice amministrazione delle cose, ossia quella dei processi di produzione e distribuzione dei prodotti. Così dice Engels nell’“Antidühring”, in chiara polemica con i bakuninisti, quando scrive che lo Stato non è effettivamente abolito, ma che esso semplicemente “si avvizzisce”. Ma sentiamo le sue stesse parole, in vero alquanto suggestive:
“Il primo atto in virtù del quale lo Stato si costituirà davvero come rappresentativo dell’intera popolazione – ovvero la presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della società – sarà, contemporaneamente, anche il suo ultimo atto indipendente in quanto Stato. La sua interferenza all’interno delle relazioni sociali diviene ora, in tutti i diversi settori, superflua, e quindi esso muore a partire da un processo interno. Il governo delle persone viene rimpiazzato dalla semplice amministrazione delle cose, e dalla conduzione dei processi di produzione. Lo Stato non è ‘abolito’. Esso semplicemente appassisce” [40].
Naturalmente chi scrive, anche a seguito delle terribili esperienze del XX secolo, non può non mettere in guardia il lettore relativamente al processo troppo semplicistico abbozzato da Engels nel descrivere la decadenza dello Stato a seguito dell’esproprio da parte pubblica dei mezzi di produzione e distribuzione di beni e servizi. Il rivoluzionario tedesco, separando in maniera manichea il governo delle persone da quello delle cose, si mostra eccessivamente ottimista e sfugge a un confronto con l’enorme problema della burocrazia statale che i grandi sociologi “borghesi” come Max Weber avrebbero cominciato a studiare di lì a pochi anni. Saranno le forze di opposizione al regime sovietico, a partire dagli anni ’20 del XX secolo, a portare questa fondamentale tematica anche nel campo del marxismo. Ma di questo parleremo nella Parte II del presente articolo. Certo, Engels, nonostante un’eccessiva dose di ottimismo, non può esser accusato di essere il “padre spirituale” dei regimi sedicenti socialisti del XX secolo. Infatti, al di sotto della divisione della società in classi egli notava correttamente l'inevitabile lotta per la sopravvivenza individuale, lotta la cui vera ragion d’essere sta nell'incapacità produttiva di garantire un livello di esistenza accettabile per tutti. Proprio per questo l’abolizione delle classi sociali diviene per Engels una possibilità reale soltanto qualora si riesca a creare un’abbondanza materiale che renda possibile terminare questa lotta individualista, sottolineando inoltre come il capitalismo industriale stesse preparando in quegli anni (i ’70-’80 del XIX secolo) i presupposti per questa abbondanza di prodotti:
“La forza di espansione dei mezzi di produzione strappa i legami che ad essi sono imposti dal modo di produzione capitalistico. La loro liberazione da questi legami è la sola condizione preliminare di uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e quindi di un incremento praticamente illimitato della produzione stessa. Ma non basta. L'appropriazione sociale dei mezzi di produzione elimina non solo l'ostacolo artificiale oggi esistente della produzione, ma anche la vera e propria completa distruzione di forze produttive e di prodotti, che al presente è l'immancabile campagna della produzione e che raggiunge il suo punto culminante nelle crisi. L'appropriazione sociale, eliminando l'insensato sciupio del lusso delle classi oggi dominanti e dei loro rappresentanti politici, libera inoltre a vantaggio della collettività una massa di mezzi di produzione e di prodotti. La possibilità di assicurare, per mezzo della produzione sociale, a tutti i membri della collettività un'esistenza che non solo sia completamente sufficiente dal punto di vista materiale e diventi ogni giorno più ricca, ma garantisca loro lo sviluppo e l'esercizio completamente liberi delle loro facoltà fisiche e spirituali: questa possibilità esiste ora per la prima volta, ma esiste” [41].
In questo senso il rivoluzionario di Barmen è in grado di formulare tra le righe una tremenda profezia (la cui verità tocchiamo con mano soprattutto al giorno d’oggi) legata al livello di sviluppo che le moderne forze produttive hanno raggiunto con il capitalismo sin dalla fine del XIX secolo. La questione fondamentale dell’epoca contemporanea è infatti secondo il ragionamento di Engels la seguente: se il proletariato di tutto il mondo non porrà fine al sistema capitalista internazionale, il destino inevitabile dell'umanità sarà quello di essere soffocata da una decadenza che diverrà sempre più profonda, più diffusa e più frequente. Sotto il dominio del capitale le contraddizioni via via più gravi tra tecnologia, natura e umanità non portano a un ulteriore progresso delle forze produttive atto a garantire la soddisfazione sempre più piena dei bisogni dell'umanità, bensì alla distruzione di tali forze. L’unica possibilità per salvare la specie umana e spazzare la gran parte degli attuali mali sociali è che il potere politico passi globalmente nelle mani del proletariato. Se ciò avvenisse realmente si porrebbero i presupposti per un’abbondanza materiale in cui l'utilizzo dei mezzi di produzione verrebbe finalizzato a uno sviluppo armonioso dell’uomo. La futura società, nella quale i produttori organizzeranno le loro attività economiche sulla base di un’unione libera ed egualitaria, si fonderà su un livello di abbondanza tale da rendere del tutto inutile la lotta degli individui per la propria singola sopravvivenza.
Pochi anni dopo la pubblicazione dell’“Antidühring” da parte di Engels, nel 1883 avverrà la morte di Marx e il “Generale” [42] si troverà quasi da solo a gestire l’immensa eredità politica e intellettuale del compagno di una vita, il “Moro” [43]. Rimandiamo il lettore avido di dettagli alla citata biografia di Engels [44], limitandoci a segnalare i due maggiori successi politici del periodo del marxismo noto agli esperti col nome di “Engels senza Marx” (1883-1895): (i) la fondazione della Seconda Internazionale [45] il 14 luglio 1889 durante la famosa Esposizione Universale di Parigi e (ii) l’affermazione di un programma politico largamente marxista per la SAPD durante in celebre congresso di Erfurt (1891). È solo di quest’ultimo punto che vogliamo discutere per terminare la Parte I del presente articolo divulgativo, in quanto la questione del Programma di Erfurt contiene alcune brevi considerazioni engelsiane sullo Stato che sono a nostro parere piuttosto importanti. Tuttavia è d’uopo fare una breve digressione sull’opera summenzionata, “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” [46], perché, nonostante il suo carattere prettamente storico-antropologico, lo studio contiene alcune riflessioni sulla natura dello Stato le quali debbono essere ricordate in quanto, a distanza di quarant’anni dai primi lavori di Marx, concludono l’analisi marxista dei rapporti tra la compagine statale e la società civile.
Nella parte conclusiva de “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” [47], dopo aver mostrato le origini storico-sociali della proprietà privata, affermatasi a spese dell’originaria proprietà comune, Engels torna nuovamente (ossia dopo l’”Antidühring”) alla teoria marxista dello Stato. Dallo studio delle società primitive effettuato con le lenti del materialismo storico, Engels mostra come il concetto stesso di Stato sia nato soltanto a un certo livello di sviluppo storico delle società umane e in concomitanza alla divisione del lavoro, ossia in seguito alla frantumazione della compagine sociale in “ceti” o “gruppi” (non ancora vere e proprie classi, ma già embrioni di esse), i cui interessi tendevano a divergere rapidamente sino a divenire addirittura antagonisti. Lo Stato e il suo excursus storico sono dunque necessariamente connessi, come aveva già scritto Rousseau nel XVIII secolo, all’esigenza di preservare i privilegi del gruppo sociale divenuto economicamente dominante in seguito all’appropriazione privata di una parte della proprietà (specie terriera ma non solo), precedentemente posseduta in comune. Così l’espropriazione di gran parte della proprietà collettiva, vera fonte della frammentazione e della polarizzazione sociale, viene sancita e sacralizzata, con l’intenzione ovviamente di renderla duratura o persino eterna, dall’invenzione del diritto, su cui si fonda il potere statale esercitato dai gruppi sociali dominanti sui ceti subalterni, resi tali proprio dalla divisione del lavoro e dalla privatizzazione della proprietà un tempo comune. Sicché la forma dello Stato, essendo strettamente connessa all’esigenza del gruppo dominante di esercitare il proprio potere sui ceti subalterni, varia storicamente. Questa trasformazione delle strutture e degli apparati statali è quindi dettata - almeno secondo Engels - principalmente dalla necessità, nel corso del divenire storico, di mantenerli sempre funzionali all’esigenza delle classi dominanti di consolidare il proprio dominio perpetuando lo sfruttamento delle classi subalterne. Così le diverse forme di organizzazione statale tesero a conformarsi, anche se non sempre in modo meccanico, allo sviluppo storico dei diversi modi di produzione: da quello “antico” (o “classico”), in cui il potere dello Stato era funzionale al mantenimento di una vasta schiavitù, a quello feudale in cui veniva esercitato il controllo dei servi della gleba, a quello capitalistico in cui le leggi e gli apparati dello Stato permettono a tutt’oggi un efficiente sfruttamento dei lavoratori salariati. Naturalmente nel socialismo, venendo meno la divisione della società in classi, la macchina statale diverrà inutile e tenderà ad estinguersi, dato che le sue funzioni amministrative e non-coercitive, ora separate dalla società civile, verranno progressivamente riassorbite in essa, come osserva a tale proposito Engels ne “L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”:
“Lo Stato non esiste dunque dall'eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione, lo Stato è diventato una necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nel quale l’esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori, consegna l’intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo” [48].
L’atmosfera attorno al nuovo programma politico della SAPD (Sozialistische Arbeiterpartei Deutschlands) da adottarsi al congresso nazionale di Erfurt (14-20 ottobre 1891) è quanto di più diverso si possa immaginare rispetto alla vicenda del congresso di Gotha che abbiamo abbozzato poche pagine fa: il temuto Otto von Bismarck, il “cancelliere di ferro”, l’acerrimo nemico dei socialisti tedeschi, si è appena dimesso (marzo 1890) sostituito dal più accomodante Leo von Caprivi che rinuncia al rinnovo delle famigerate leggi anti-socialiste, le quali decadranno nel settembre dello stesso anno. Dall’1887 al 1890 la SAPD ha comunque compiuto, nonostante tutte le persecuzioni legali, un balzo in termini di consensi elettorali per il Reichstag, passando dal 10% a poco meno del 20%. Il partito si rafforza anche considerando il numero degli iscritti, dei delegati sindacali, delle cooperative di produzione e di consumo ad esso affiliate, dei giornali e dei settimanali locali e nazionali ecc. In buona sostanza, la SAPD, che ad Erfurt diverrà definitivamente SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), è ormai un partito di successo che guarda al futuro con ottimismo e tenta di scrollarsi di dosso i vecchi e logori panni settari e semi-lassalliani per indossarne di nuovi, autenticamente scientifici e marxisti. In tale frangente Engels a Londra, nel periodo tra il 19 e il 27 giugno del 1891, studia il progetto di programma della SPD, redatto nei suoi tratti fondamentali da Wilhelm Liebknecht e August Bebel su incarico della Direzione del partito, alla quale il vecchio rivoluzionario invia le proprie osservazioni critiche [49]. Il 4 luglio il progetto programmatico viene pubblicato sul “Vorwärts”, tenendo conto di alcune di queste annotazioni, e in seguito in altri organi di partito per dare ai membri la possibilità di discuterlo prima dell’approvazione congressuale. Ne segue un dibattito interno al partito, culminato con la pubblicazione sulla “Neue Zeit” di una nuova bozza redatta da Karl Kautsky, che Engels approva largamente pur mantenendo vive alcune critiche. Infine, una commissione programmatica presieduta da Liebknecht vaglia le varie proposte emerse nel corso dei mesi, stilando a sua volta una bozza basata su quella di Kautsky, ma non identica ad essa. Questo nuovo documento è infine discusso e approvato ad Erfurt in sede congressuale. Si tratta in effetti di un testo molto breve [50] diviso in una parte teorica (i “principi”) e una rivendicativa, a sua volta suddivisa in nove richieste politiche generali (atte a democratizzare il Reich) e cinque istanze specifiche per la protezione della classe lavoratrice. Tuttavia, va precisato che le note critiche di Engels alla versione iniziale verranno pubblicate solo nel 1901 dalla “Neue Zeit” e in forma non del tutto completa.
Engels, in genere sempre molto critico nei confronti delle elaborazioni teoriche dei dirigenti della SPD, ha questa volta un inizio piuttosto conciliante:
“(…); per la sua parte teorica il progetto, nel suo complesso, si colloca sul piano della scienza moderna e può essere discusso su questo piano” [51].
Poi però passa al setaccio l’intera bozza [52] nelle sue tre parti, aggiungendo in un secondo tempo anche un addendum alle critiche alla prima parte, quella teorica. Circa il problema dello Stato, come nota attentamente Vladimir Il’ič Lenin in “Stato e rivoluzione” [53], Engels scrive quattro dense pagine che si pongono come analisi critica alle nove rivendicazioni politiche generali di democratizzazione del Reich e lì dà indicazioni preziose su almeno tre punti: (i) il problema della repubblica, (ii) il legame esistente tra la questione nazionale e l’organizzazione dello Stato e (iii) l'amministrazione autonoma locale.
Engels considera la questione della repubblica un punto cruciale nella sua critica alla prima bozza del programma di Erfurt e scrive senza mezzi termini:
“Le rivendicazioni politiche del progetto hanno un grosso difetto. Ciò che doveva essere effettivamente detto non vi si trova” (la sottolineatura è di Engels) [54].
Più avanti ricorda che la Costituzione del Reich è essenzialmente una copia di quella prussiana, molto reazionaria, del 1850, dove il Reichstag è subordinato alla monarchia e al governo, ragion per cui:
“(…), voler realizzare su tale base «la trasformazione di tutti i mezzi di lavoro in proprietà comune» è palesemente assurdo” [55].
Naturalmente Engels non è uno sprovveduto e sa che:
“Toccare questo tasto è però pericoloso” [56],
dato che in Germania non si può enunciare legalmente in un programma politico la rivendicazione della repubblica. Però non demorde:
“Tuttavia, in un modo o nell'altro, si deve affrontare la faccenda. Quanto ciò sia necessario lo dimostra proprio ora l’opportunismo che si sta diffondendo in una grande parte della stampa socialdemocratica (la sottolineatura è di Engels). Per paura di una riedizione della legge sui socialisti, o ricordandosi di certe dichiarazioni premature espresse quando regnava quella legge, ora si vuole che il partito riconosca l’ordine legale attuale in Germania come sufficiente a realizzare le sue rivendicazioni con mezzi pacifici” [57].
Ovviamente Engels è abbastanza prudente da non idolatrare le repubbliche democratiche borghesi concedendo appena che nei paesi retti da repubbliche e che godano di una vasta libertà (ad esempio, la Svizzera e gli Stati Uniti) si potrebbe “concepire” un’evoluzione pacifica verso il socialismo, ma certo non nell’Impero tedesco:
“Ma non in Germania, dove il governo ha un potere quasi illimitato e il Reichstag e tutti gli altri ordini rappresentativi non hanno potere reale. Proclamare una cosa del genere in Germania e, per di più, senza necessità, significa togliere la foglia di fico all’assolutismo e coprirne la nudità con il nostro stesso corpo” [58].
E ancora:
“Una simile politica, a lungo andare, non può che fuorviare il partito. Si pongono in primo piano questioni politiche generali, astratte, nascondendo in tal modo le questioni concrete, immediate; quelle che, più urgenti, ai primi avvenimenti importanti, alla prima crisi politica, si pongono da sé all'ordine del giorno. Che può risultarne, se non che all’improvviso, nel momento decisivo, il partito sarà preso alla sprovvista, che sui punti più decisivi regneranno confusione e assenza di unità, perché queste questioni non sono mai state discusse? (...). Questo abbandono delle grandi questioni di principio per rincorrere l’effimero interesse immediato, questa ricerca affannosa e questo sforzo volto al successo di un giorno, trascurando le conseguenze future, questo sacrificare l’avvenire del movimento al suo presente, può essere fatto con intensioni “oneste”. Ma è e resta opportunismo, e l'opportunismo “onesto” è forse il più pericoloso di tutti (...). Una cosa è certa: il nostro partito e la classe operaia possono arrivare al potere soltanto se vige la forma della repubblica democratica. Questa è addirittura la forma specifica della dittatura del proletariato, come ha già dimostrato la grande Rivoluzione francese" [59].
Engels ripete qui, enfatizzandola in modo particolare, un’idea che attraversa, ora in modo più coperto, ora in modo molto palese, molte opere di Marx a cominciare dal “Manifesto”: la repubblica democratica è la via più rapida per giungere alla “dittatura del proletariato”. Questa forma di repubblica, infatti, benché rimanga intrinsecamente capitalista e mantenga quindi l’oppressione dei lavoratori salariati e delle altre classi subalterne, nonché il conflitto tra le classi, è l’unica in grado di far crescere tale conflitto ad un livello politico tale che, una volta posta la questione del soddisfacimento gli interessi basilari di tutti gli oppressi, questa si realizza con la “dittatura del proletariato”, ossia con la direzione di tutte le masse sfruttate da parte dei lavoratori salariati organizzatisi politicamente in partito.
Sul problema della “repubblica federale” in relazione alla composizione etnico-nazionale della popolazione, Engels invece scrive:
"Che cosa deve subentrare al loro posto?" [al posto della costituzione monarchica del Reich e della sua residua suddivisione in piccoli Stati federati alla Prussia – nota nostra] (…). A mio avviso, il proletariato può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile. Per la gigantesca estensione territoriale degli Stati Uniti, la repubblica federale rappresenta ancora oggi, tutto sommato, una necessità, sebbene nell’Est cominci già a essere un ostacolo. Essa rappresenterebbe un progresso in Inghilterra, dove sulle due isole vivono quattro nazioni e dove, nonostante un unico parlamento, ancora oggi sussistono, l’una accanto all'altra, tre diverse legislazioni. Nella piccola Svizzera già da tempo è divenuta un ostacolo, tollerabile solo perché la Svizzera si accontenta di essere un membro puramente passivo del sistema di Stati europeo. Per la Germania, un’organizzazione federale su modello svizzero sarebbe un enorme regresso. Due punti distinguono lo Stato federale dallo Stato unitario: per prima cosa il fatto che ogni cantone possiede la propria legislazione civile e penale, nonché il proprio ordinamento giudiziario, e poi il fatto che, accanto alla Camera del popolo, esiste una Camera degli Stati, nella quale ogni cantone, grande o piccolo, vota in quanto tale” [60].
Quindi, secondo Engels, lo Stato federale rappresenta solo una forma transitoria verso uno Stato unitario nel senso pieno del termine. Suggerisce dunque per la Germania di non far retrocedere la “rivoluzione dall'alto” di Bismarck, compiuta tra il 1866 e il 1870, ma di completarla con un “movimento dal basso”, ma sempre in senso unitario. Come Marx, anche Engels difende, sempre dal punto di vista del proletariato, la repubblica democratica una e indivisibile, considerando invece la repubblica federale o come un ostacolo allo sviluppo storico, o come una transizione momentanea dalla monarchia alla repubblica centralizzata, causata da condizioni particolari e contingenti. E tra queste ultime Engels include anche la cosiddetta “questione nazionale”. In effetti, nonostante che il socialismo scientifico abbia sempre criticato il carattere reazionario delle “piccole patrie” che spezzano l’unità della classe lavoratrice, esso non ha mai eluso la questione nazionale, neppure in un paese dalla lunga tradizione statale come il Regno Unito. Ma ciò non è in contraddizione con la preferenza per la repubblica unitaria, in quanto Engels non la concepisce nel senso burocratico dato a questa forma politica sia dai democratici borghesi (in positivo), sia dagli anarchici (in negativo). Al contrario, auspica una larga autonomia amministrativa locale, la quale, pur mantenendo i comuni e le regioni volontariamente all’interno di uno Stato unitario, riduce fortemente il potere della burocrazia statale e dell’opprimente dirigismo dall'alto:
“Dunque, repubblica unitaria. Ma non nel senso della Repubblica francese di oggi, che non è altro se non l'Impero fondato nel 1798 senza l’imperatore. Dal 1792 al 1798, ogni dipartimento francese, ogni comune godette di una completa autonomia amministrativa sul modello americano, e questa dobbiamo averla anche noi. L’America e la Prima repubblica francese ci hanno mostrato come vada organizzata questa autonomia amministrativa e come si possa fare a meno della burocrazia; ed è ciò che ci dimostrano ancor oggi l'Australia, il Canada e le altre colonie inglesi. Una simile autonomia provinciale e comunale è assai più libera, per esempio, del federalismo svizzero, nel quale certamente il cantone è molto indipendente nei confronti della Confederazione, ma lo è ugualmente rispetto al distretto e al comune. I governi cantonali nominano governatori di distretto e prefetti ignoti nei paesi di lingua inglese di cui, in futuro, noi dovremo risolutamente sbarazzarci, proprio come dei consiglieri provinciali e governativi prussiani” [61].
Propone quindi di formulare nel modo seguente l’articolo programmatico relativo all’autonomia amministrativa:
“(…) è questa la rivendicazione: «Amministrazione autonoma completa nella provincia, nel distretto e nel comune con funzionari eletti a suffragio universale. Abolizione di tutte le autorità locali e provinciali nominate dallo Stato»” [62].
Così risulta chiaro che per Engels, smentendo una certa vulgata “socialista federale” che rimontava addirittura a qualche interpretazione della Comune di Parigi, una repubblica unitaria ed effettivamente democratica dà maggiori garanzie di libertà al proletariato organizzato di una qualsivoglia repubblica federale.
Fig. 5: Immagine di Friedrich Engels in tarda età, scattata a Zurigo durante il III congresso della Seconda Internazionale nel 1893, due anni prima della scomparsa avvenuta a Londra il 5 agosto 1895.
[1] Il 25 febbraio 1848, su pressione dei dimostranti, veniva emanato dal Governo Provvisorio il decreto sul “diritto al lavoro”, che impegnava lo Stato a “garantire il lavoro a tutti i cittadini”: una dichiarazione di intenti che suonava particolarmente gradita alla grande massa dei disoccupati parigini. Per dare maggior concretezza al proclama, il Governo Provvisorio aveva instituito nel Palais du Luxembourg una commissione, diretta proprio da Blanc e Martin e formata da vari economisti, nonché da rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori, per studiare il problema della disoccupazione. Uno di questi esperti era il citoyen Jean-Louis Greppo, pseudonimo del sociologo ed economista Constantin Pecqueur, il precursore del materialismo storico di Marx. Il 27 febbraio venivano creati gli ateliers nationaux (i “laboratori nazionali”) che avevano il compito di individuare lavori di pubblica utilità ai quali adibire i disoccupati. Nel periodo di maggior attività gli ateliers giunsero ad impiegare quasi 115.000 lavoratori.
[2] Ci riferiamo principalmente all’arco dei paesi dell’Estremo Oriente (Corea del Nord, Cina, Vietnam, Laos) nonché a Cuba. Invece Mongolia e Iugoslavia abbandonarono la dicitura “socialista” più o meno contemporaneamente al crollo dell’URSS.
[3] Per il concetto di “teocrazia” nel Tanakh cfr. Ernst Bloch, “Ateismo nel cristianesimo” (Feltrinelli, Milano, 1971).
[4] Cfr. Cesco, “Filippo Michele Buonarroti: uno, nessuno e centomila (I)”, in “Adattamento Socialista”, 16 aprile 2022 (https://adattamentosocialista.blogspot.com/).
[5] J.-J. Rousseau, Discorso sull'origine della disuguaglianza e Contratto sociale (Bompiani, Milano, 2012).
[6] Soprattutto il noto opuscolo proudhoniano “Qu’est-ce que la propriété? ou Recherche sur le principe du Droit et du Gouvernement” (1840), quello conosciuto per la lapidaria definizione di proprietà, è particolarmente debitore alle tematiche rousseauiane. Confrontiamo facilmente tale definizione:
“Si j’avais à répondre à la question suivante : « Qu’est-ce que l’esclavage ?» et que d’un seul mot je répondisse : « C’est l’assassinat », ma pensée serait d’abord comprise. Je n’aurais pas besoin d’un long discours pour montrer que le pouvoir d’ôter à l’homme la pensée, la volonté, la personnalité, est un pouvoir de vie et de mort, et que faire un homme esclave, c’est l’assassinat. Pourquoi donc à cette autre demande : « Qu’est-ce que la propriété ?», ne puis-je répondre de même : « C’est le vol », sans avoir la certitude de n’être pas entendu, bien que cette seconde proposition ne soit que la première transformée ?”,
con la famosa invettiva rousseauiana del 1755:
“Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l'idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: ‘Guardatevi dall'ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!’ Ma è molto probabile che ormai le cose fossero già giunte al punto da non poter più durare come erano prima; infatti, questa idea di proprietà, dipendendo da molte idee precedenti formatesi evidentemente in momenti successivi, non si è formata di colpo nella mente umana: è stato necessario compiere molti progressi, acquistare molte capacità e molti lumi, trasmetterli e accrescerli di età in età, prima di giungere a questo termine ultimo dello stato di natura”. (J.-J. Rousseau, “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”).
[7] G. W. F. Hegel, Lineamenti della filosofia del diritto, pp. 238, 257 e 258 (Laterza, Roma-Bari, 1979).
[8] Idem.
[9] Karl. R. Popper, Miseria dello Storicismo (Feltrinelli, Milano, 1980).
[10] Cfr., ad esempio, B. Nikolaevskij e O. Maenchen-Helfen, Karl Marx. La vita e le opere (Einaudi, Torino, 1969).
[11] K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (Editori Riuniti, Roma, 1983).
[12] Infatti, nella celebre “Introduzione” (1857) ad un’opera successiva del 1859, intitolata “Per la critica dell'economia politica”, Marx ricorda il suo lavoro giovanile su Hegel con queste testuali parole:
“Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l’introduzione nei «Deutsch-französische Jahrbücher» pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di «società civile»; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica” nota 36.
Marx stesso, dunque, ritenne, a distanza di tredici anni, che i capisaldi della sua concezione materialistica della Storia fossero già contenuti nella Kritik.
[13] Cfr., ad esempio, Lucio Colletti, Tramonto dell’ideologia. [Le ideologie dal ‘68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo] (Laterza,Roma-Bari, 1980).
[14] K. Marx e F. Engels, Il manifesto del partito comunista (Editori Riuniti, Roma, 1977). Riportiamo qui un celeberrimo brano che pur enunciando chiaramente il concetto di “dittatura del proletariato” non sarebbe dispiaciuto troppo ai neo-giacobini Babeuf e Buonarroti o allo stesso Blanqui:
“(…). Abbiamo già visto sopra che il primo passo nella rivoluzione dei lavoratori è l'elevazione del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Il proletariato userà il suo potere politico per strappare progressivamente alla borghesia tutti i suoi capitali, per centralizzare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, dunque del proletariato organizzato in classe dominante, e per moltiplicare il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive. In un primo momento ciò può accadere solo per mezzo di interventi dispotici sul diritto di proprietà e sui rapporti di produzione borghesi, insomma attraverso misure che appaiono economicamente insufficienti e inconsistenti, ma che nel corso del movimento si spingono oltre i propri limiti e sono inevitabili strumenti di trasformazione dell'intero modo di produzione. Queste misure saranno naturalmente differenti da paese a paese. Per i paesi più sviluppati potranno comunque essere molto generalmente prese le misure seguenti:
1) Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della proprietà fondiaria per le spese dello Stato.
2) Forte imposta progressiva.
3) Abolizione del diritto di successione.
4) Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
5) Centralizzazione del credito nelle mani dello Stato attraverso una banca nazionale dotata di capitale di Stato e monopolio assoluto.
6) Centralizzazione di ogni mezzo di trasporto nelle mani dello Stato.
7) Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano sociale.
8) Uguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.
9) Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e dell'industria, misure volte ad abolire gradualmente la contrapposizione di città e campagna.
10) Educazione pubblica e gratuita di tutti i bambini. Abolizione del lavoro dei bambini nelle fabbriche nella sua forma attuale. Fusione di educazione e produzione materiale, ecc., ecc.”
[15] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).
[16] «11. I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo» da K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845) in appendice a F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (La Città del Sole, Napoli, 2009).
[17] Cfr., ad esempio, Franco Berardi Bifo, Vive la Commune! (Derive Approdi, Roma, 2022) da cui abbiamo tratto parte del materiale per questo paragrafo su Marx e la Comune.
[18] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).
[19] Idem.
[20] Idem.
[21] Idem.
[22] Franz Mehring, Vita di Marx (Editori Riuniti, Roma, 1973).
[23] Cfr., ad esempio, l’interessante (ancorché ipercritico) articolo del Socialist Standard (May 2021) intitolato “Paris Commune 1871” a firma di Jordan Levi, dove è anche citata una lettera di Karl Marx a Ferdinand Domela Nieuwenhuis del febbraio 1881 in cui il filosofo di Treviri usa parole effettivamente molto dure:
“Perhaps you will point to the Paris Commune; but apart from the fact that this was merely the rising of a town under exceptional conditions, the majority of the Commune was in no sense socialist, nor could it be. With a small amount of sound common sense, however, they could have reached a compromise with Versailles useful to the whole mass of the people — the only thing that could be reached at the time. The appropriation of the Bank of France alone would have been enough to dissolve all the pretensions of the Versailles people in terror, etc., etc.”
(https://www.marxists.org/archive/marx/works/1881/letters/81_02_22.htm).
[24] K. Marx, La guerra civile in Francia, con un’Introduzione di F. Engels del 1891 (Editori Riuniti, Roma, 1974).
[25] Michail A. Bakunin, La Comune e lo Stato (La Nuova Sinistra - Ed. Samonà e Savelli, Roma, 1970).
[26] Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Feltrinelli, Milano, 1973).
[27] Idem.
[28] Idem.
[29] Gian Mario Bravo, Marx e la prima internazionale (Pantarei ed., Milano, 2014).
[30] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels, Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).
[31] G. Mayer, Friedrich Engels - La Vita e L'Opera (Ed. Einaudi, Torino, 1969).
[32] F. Engels, Antidühring (Editori Riuniti, Roma, 1968).
[33] F. Engels, L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (Editori Riuniti, Roma, 1976).
[34] Cfr., per esempio, Elif Çağlı, In the light of Marxism (Tarih Bilinci, Istambul, 1991) a cui s’ispira largamente il nostro paragrafo sull’Antidühring.
[35] K. Marx e F. Engels, L’Ideologia Tedesca (Editori Riuniti, Roma, 1967).
[36] K. Marx, Per la Critica dell’Economia Politica (Editori Riuniti, Roma, 1979), contenente anche la celebre “Introduzione del 1857”.
[37] Vedi nota 12.
[38] K. Marx, Per la Critica dell’Economia Politica (Editori Riuniti, Roma, 1979), contenente anche la celebre “Introduzione del 1857”.
[39] K. Marx, Per la Critica dell’Economia Politica (Editori Riuniti, Roma, 1979), contenente anche la celebre “Introduzione del 1857”.
[40] F. Engels, Antidühring (Editori Riuniti, Roma, 1968).
[41] Idem.
[42] “General” (“il generale”) era il soprannome di Friedrich Engels tra i compagni a causa del suo interesse e della sua competenza circa le vicende militari. Invece Karl Marx, a causa dei suoi capelli scuri e della sua pelle leggermente olivastra, era tra loro noto come “Mohr” (“il moro”).
[43] Vedi nota precedente.
[44] G. Mayer, Friedrich Engels - La Vita e L'Opera (Ed. Einaudi, Torino, 1969).
[45] Cfr., per esempio, Georges Haupt, La Seconda Internazionale (La Nuova Italia, Firenze, 1973).
[46] F. Engels, L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (Editori Riuniti, Roma, 1976).
[47] Idem.
[48] Idem.
[49] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels, Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).
[50] In appendice a Karl Kautsky Il Programma di Erfurt (La Nuova Sinistra - Samonà e Savelli, Roma, 1971). L’opera è in realtà un lungo e dettagliato commento teorico allo scarno programma di Erfurt e rappresenta un vero e proprio manuale del militante socialdemocratico. Fu composto nel 1892 da Kautsky con l’idea di attualizzare il celebre “Manifesto” di Marx ed Engels. Ebbe un successo editoriale enorme fino al 1914 e venne tradotto in ben 16 lingue, apparendo spesso sotto il titolo di “La lotta di classe” oppure de “Il Programma Socialista”. Fu considerato da alcuni il riferimento teorico più completo del marxismo della II internazionale. In Italia fu pubblicato la prima volta nel 1908 da “Critica Sociale” e poi di nuovo nel 1914 dall’ “Avanti!” stesso.
[51] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels, Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).
[52] La bozza iniziale inviata ad Engels dalla Germania il 18 giugno 1891 sembrava definitivamente perduta, quando nel 1968 venne ritrovata e pubblicata. Curiosamente manca nella versione congressuale un paragrafo teorico, dal tono quasi profetico, contro il “capitalismo di stato” che Engels aveva largamente approvato:
“Il Partito socialdemocratico non ha niente in comune con il cosiddetto socialismo di Stato: un sistema di statalizzazione fiscale che sostituisce lo Stato all’imprenditore privato, ma fa gravare sul lavoratore il doppio giogo dello sfruttamento economico e dell’oppressione politica”
Aggiunge infatti Engels un solo suggerimento di blanda modifica della frase finale:
“(…) pone e riunisce così in un’unica mano il potere dello sfruttamento economico e dell’oppressione politica”.
[53] V. I. Lenin, Stato e Rivoluzione (Editori Riuniti, Roma, 2017).
[54] K. Marx, Critica al programma di Gotha, con in appendice F. Engels, Critica al Programma di Erfurt (Editori Riuniti Univ. Press, Roma, 2021).
[55] Idem.
[56] Idem.
[57] Idem.
[58] Idem.
[59] Idem.
[60] Idem.
[61] Idem.
[62] Idem.
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