Filippo Michele Buonarroti: uno, nessuno e centomila - Parte II -
Il Buonarroti e la rete di società segrete europee
Come si ricorda dalla prima parte di questo lavoro, già dalla sua permanenza nell’isola-fortezza sullo stretto della Manica il Buonarroti era riuscito a riallacciare contatti con un club di giacobini, il Manège Club, che non vedeva di buon occhio la politica di Napoleone. Durante i suoi soggiorni a Sospello e a Ginevra il Buonarroti entrò in contatto con le sette antibonapartiste dei Philadelphes e degli Adelphes [1] votate ad attentare alla vita di Napoleone per ristabilire la costituzione del 1793. Durante il periodo ginevrino il Buonarroti era entrato a far parte della loggia massonica Amis Sincères, sempre di ispirazione “filadelfica”, che ebbe fine nel 1813[2]. Arthur Lehning retrodata l’affiliazione del Buonarroti ai Philadelphes al 1803-04[3]. Sempre il Lehning nota che l’influenza della società segreta dei Philadelphes nell’esercito fu considerevole ed entrambi i complotti del generale Malet[4] contro Napoleone nel 1808 e nel 1812, erano stati organizzati da suoi affiliati. Addirittura, due cospiratori degli Eguali, Baudement e Ricord, avevano preso parte a tali cospirazioni. Malet, che fu giustiziato il 29 ottobre del 1812, era stato iniziato alla società dei Philadelphes da Luigi Angeloni che era, secondo Lehning, il contatto più importante del Buonarroti a Parigi, mentre va ricordato che il Buonarroti, in questi anni, risiedeva a Ginevra[5]. Le autorità preferirono quindi trasferirlo a Grenoble dove visse, sempre dando lezioni di italiano e musica, fino alla caduta dell’Impero, quando tornò a Ginevra, precisamente il 16 maggio 1814.
A Ginevra era attivo anche nelle logge massoniche Union des Cœurs e Anciens Réunis, ma la sua vera attività cospirativa si svolgeva nelle società segrete, come quella della Adelfia, che divenne, probabilmente nel 1818, l’ordine dei Sublimes Maîtres Parfaits [6] e che aveva come credo, non più solo la lotta contro Napoleone, ma la fondazione di una Repubblica, sola proprietaria del patrimonio sociale fondato sulle rovine della proprietà privata. Questo ordine, nonostante volesse stabilire un’istituzione democratica, nella forma non era democratico, ma piramidale. La dottrina, sempre secondo Buonarroti, era detenuta e trasmessa dai leader: per quanto concerneva l’azione era necessario che questa fosse generata dall’alto e venisse seguita con obbedienza dalla base. Il Buonarroti, quindi, intendeva la società segreta come un esercito segreto, separandola in due gerarchie, l’alta gerarchia e i gradi ordinari. Nonostante la segretezza e la centralizzazione del comando in una ristretta élite illuminata, il Buonarroti era convinto che la setta dovesse poi coinvolgere un gran numero di persone. L’idea di Repubblica del Buonarroti era prettamente tratta dal Contrat Social[7]. L’ordine dei Sublimes Maîtres Parfaits era diviso in tre gradi. L’adepto del primo grado, ovvero il sublime maestro perfetto, professava l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il principio della carità universale, l’eguaglianza, la volontà generale come origine della legge e la libertà come obbedienza alla legge[8]. Il sublime eletto, ovvero il secondo grado, professava la sanzione popolare della legge, la funzione pubblica derivante dalla sua elezione, la dottrina del tirannicidio, la libertà condizionata da certi sentimenti morali e da una mediocre agiatezza. Quindi il terzo grado che aveva conoscenza di tutto il programma, ovvero del male conseguente alla divisione della terra, della collettivizzazione dove la Patria sia l’unica padrona e madre dolcissima e somministri in parti eguali i mezzi di sussistenza, l’educazione e il lavoro [9]. Questi, nota Saitta, sono ideali robespierriani dell’anno II. Da una parte il Buonarroti distingueva lo stato naturale dalla “Nuova Gerusalemme” che sperava di fondare sulla sovranità popolare. Quindi il suo attacco alla proprietà privata derivava dalla necessità di distruggere gli interessi che impedivano la formazione della volontà generale. D’altro canto, il Buonarroti era consapevole che l’“innocenza e eguaglianza”, ovvero il “credo” dell’Areopagus, erano andati persi a causa della “scellerata divisione della terra”. In qualche modo il Buonarroti ammirava il modus operandi dei gesuiti, per il loro entusiasmo, e la loro sottomissione alle convinzioni di una autorità omogenea e assoluta [10].
Saitta esclude che la società dei Sublimes Maîtres Parfaits originasse dalla Massoneria o dalla Carboneria italiana, ma ipotizza che fosse una riorganizzazione della società dei Philadelphes che risultava dall’unione di neo-giacobini, con i quali il Bonarroti era in contatto dai tempi della prigionia nella fortezza nei pressi di Cherbourg, con gli antibonapartisti. Infatti, sia la Massoneria che la Carboneria erano società semi-segrete ancora troppo pubbliche per i gusti del Buonarroti. Ad ogni modo è da notare una forte somiglianza tra il concetto e l’organizzazione di società segreta del Buonarroti e quella della loggia massonica degli Illuminati elaborata anni prima da Weishaupt, con la quale il nostro era probabilmente entrato in contatto già nel suo periodo fiorentino. Sembra che nel 1818 il Buonarroti giocò un ruolo importante nell’alterare la struttura della Carboneria in Toscana, Piemonte e Lombardia al fine di aumentarne la gerarchia e la segretezza. Secondo Saitta, il Buonarroti aggiunse il grado di gran maestro nella Carboneria, grado tipico della Massoneria, allo scopo di realizzare la legge agraria[11]. In origine la Carboneria era nata a Napoli da logge massoniche attraverso gli Illuminati, quindi gli Adelfi erano stati formati sotto la loro influenza come derivazione dei Philadelphes[12]. I Philadelphes, secondo Lehning, erano organizzati in tre gradi e rispondevano agli ordini di un Gran Firmamento. Nel decreto del Gran Firmamento del 17 settembre 1820 si auspicava la sollevazione dell’opinione pubblica per favorire la rivoluzione politica, per dare al popolo il modo di influenzare direttamente la législation, e soprattutto di infiltrare l’esercito[13], che è esattamente quello che accadde nei moti carbonari del 1821. La simbologia si rifaceva a quella della massoneria.
Come riporta Lehning, è impossibile determinare quando si formò la società dei Sublimes Maîtres Parfaits e in che relazione si ponesse nei riguardi dei Filadelfi e degli Adelfi, ma si può dedurre che questa società esistesse già nel 1811 come un’organizzazione alquanto distinta dalle altre società segrete. È probabile che tutte queste società fossero state costituite dopo la prima cospirazione di Malet del 1808, mentre abbiamo visto che Saitta crede che la prima società fosse stata costituita solo nel 1818. La Carboneria nasceva negli ambienti giacobini insoddisfatti di Napoleone e per questo ricevette le attenzioni benevole dei vecchi regimi. Gioacchino Murat decise quindi di ammaestrare la carboneria mettendosene a capo attorno al 1815, mentre nel nord Italia la carboneria era in simbiosi con le organizzazioni dei Philadelphes, quindi degli Adelphes e dei Federati. Secondo Saitta la struttura fatta a gradi, veri e propri compartimenti stagni, con cui era costituito l’ordine dei Sublimes Maîtres Parfaits comportava che i cospiratori, come i federati piemontesi del 1821 o i congiurati lombardi del Conte Confalonieri, avessero legami e fossero pilotati dal Bonarroti a loro insaputa, credendo in realtà di lottare per i valori monarchici costituzionali[14]. Da una lettera risalente al periodo del fallimento dei moti napoletani e piemontesi del 1820-21, scritta da un sansimoniano Duchesne, si deduce che il Buonarroti nel 1821 reclutasse giovani per la carboneria napoletana e fosse in relazione con Joseph Rey, François Gentil, Gioacchino Prati e il ginevrino James Fazy, trait-d’union tra il Buonarroti e la carboneria francese. In quest’ottica potrebbe essere letta la missione di Andryane a Milano successivamente scoperta.
Nel 1822, dopo che una cellula dei Sublimes Maîtres Parfaits fu scoperta a Modena, il Grande Firmamento decretò che tutte le copie delle vecchie regole venissero distrutte e il nome dei Sublimes Maîtres Parfaits cambiato in I Veri Architetti[15]. Dal 1824 la società dei Sublimes Maîtres Parfaits prese poi il nome di Monde. Questa società aveva tre gradi di fede, la Chiesa sotto il controllo di un Saggio, il secondo grado, il Sinodo, i cui membri erano i Sublimes Elus, e il terzo grado, Areopagus, che rilevava il credo più segreto della società, che era anche quello più vicino alle idee egualitarie del Buonarroti[16]. La cellula suprema della società del Buonarroti, ovvero il Gran Firmamento, era situata a Ginevra e secondo due ricerche indipendenti di Saitta e di Lehning, fu di grandissima influenza presso tutte le società segrete europee nel periodo che intercorre tra il 1812 e il 1830. Il Buonarroti era effettivamente onnipresente per quanto riguardava le società segrete di quel periodo, ma, nonostante ciò, la vera e propria efficacia della rete cospirativa che egli aveva tessuto fu pressoché nulla, soprattutto dopo la cattura di Andryane[17].
Emerge in questo periodo la figura del trentino Gioacchino Prati (1790-1863), attivo nei moti del 1821, parte del Grande Firmamento, come il Buonarroti, e grazie al quale i tre gradi della società segreta del Buonarroti ci sono noti. Nel 1820 il Prati formò un triunvirato con Wilhelm Snell e Carl Follen di Giessen, e insieme a 12 leader europei diedero vita a molte società segrete, come il Männerbund e gli Jünglingsbund. Follen a Parigi entrò in contatto con Joseph Rey che già nel 1816 a Grenoble aveva fondato l’Union della quale erano membri anche Lafayette e Voyer d’Argenson[18]. Secondo Metternich il Männerbund era dipendente dal centro segreto che si rifaceva al Buonarroti. Il Prati asserisce che il Gran Firmamento era composto da discepoli di Babeuf; quindi, sia Lehning che Saitta tendono a pensare che il Buonarroti avesse un ruolo centrale nelle società segrete europee di questi anni. Nel 1821 però la leadership dell’opposizione antiborbonica passò alla Charbonnerie francaise. Questa era connessa con l’Union di Rey tramite due dei co-cospiratori del 19 agosto 1820, quando Joubert e Dugied fuggirono a Napoli da dove nel maggio del 1821 portarono gli statuti della carboneria napoletana. Nella Charbonnerie francaise rientrarono personalità del calibro di Lafayette e De Corcelle, ma anche Cabet. Il Buonarroti disse della Charbonnerie francaise del ’21: “piani a lungo concepiti sono stati abortiti dalla negligenza dei leader o dalla negligenza degli agenti; cospiriamo mentre parliamo, senza ordine e senza scopo: l'insubordinazione è dappertutto, la fiducia da nessuna parte”[19]. Questo sembra confermare il coinvolgimento del Buonarroti nei moti del 1821. Il Buonarroti stesso dovette lasciare Ginevra per Yverdon e quindi Losanna dove incontrò Andryane[20]. Prati fuggì in Inghilterra dove fondò una Vendita carbonara. È probabilmente proprio in conseguenza del fallimento dei moti carbonari del ‘21 a Napoli che il centro della carboneria entra sotto un’importante influenza del Buonarroti, che porterà alla “Carboneria riformata”. Mentre il ramo francese della Carboneria essendo troppo liberale, in quanto guidato da uomini come Lafayette e De Corcelle, fu escluso dai canali di comunicazione dei Sublimes Maîtres Parfaits nel 1822.
La testimonianza di un suo allievo, Alexandre Andryane[21], il quale nel 1820 si era trasferito a Ginevra, mostra la natura dell’attività cospirativa del Buonarroti a quel tempo. Ne emerge la sua ossessione per la Repubblica del 1793. Andryane fu incaricato, seppur avesse le sue riserve, di portare nel 1823 una mole di documenti concernenti le Regole e gli Statuti dei Sublimes Maîtres Parfaits (e anche liste di nomi di cospiratori) in Italia. Andryane pensava che questo modo di far politica fosse un po’ una mania del Buonarroti, ovvero dare così tanta importanza alle vane formalità cospirative. Commentava infatti Andryane: “egli pensa che per formare una associazione politica efficiente e permanente, gli uomini debbano essere legati l’un l’altro da firme, da misteri che lusinghino il loro egocentrismo, e fanno sembrare la società alla quale appartengono importante […]”. Il caso vuole che Andryane fu arrestato a Milano e tutte quelle carte finirono nelle mani della polizia, rendendo la società dei Sublimes Maîtres Parfaits e i suoi piani cospirativi, di dominio pubblico. Questo costrinse il Buonarroti a un periodo di latitanza nel cantone di Vaud, per riparare quindi a Bruxelles il 6 maggio, dopo l’espulsione dalla Svizzera nel 1824[22].
Gli anni bruxellesi del Buonarroti
Il Buonarroti dovette quindi rifugiarsi a Bruxelles nel maggio del 1824, sotto il nome di Jean-Jacques Raymond, assieme alla sua nuova compagna, la svizzera, Sarah Desbains. Anche qui viveva grazie alle sue lezioni di italiano e di musica. A Bruxelles era nella direzione della Vendita Centrale della carboneria francese sotto il nome di Camille [23]. Durante gli anni della restaurazione, Bruxelles si era riempita di vecchi giacobini della Prima Repubblica, che avevano partecipato ai Cento giorni di Napoleone e quindi non avevano potuto usufruire dell’amnistia del 1816. Garrone spiega: “La maggior parte dei Convenzionali si era rifugiata in Belgio e in Olanda, ma specialmente nel primo dei due paesi e soprattutto a Bruxelles: tra gli altri moltissimi, Cambon, David, Levasseur, Barère, Sieyes, Prieur de la Marne, Vadier, Cavaignac, Thibaudeau, Baudot, Chazal, Cambacérès. […] Erano ormai lontani gli anni in cui, al forte di Cherbourg, Vadier si accapigliava con Germain, il fido seguace di Babeuf, e rispondeva con invettive alle sue rampogne. […] il Buonarroti [frequentò negli anni brussellesi, dando lezioni di musica alle sue nipotine] il Sieyes” [24]. Il Vadier e Baudot erano stati giacobini di vecchia data ed erano stati incarcerati per il processo di Vendôme, come il Buonarroti, ma lui non poteva perdonare ai due di aver complottato a suo tempo contro Robespierre.
Nuovi personaggi incominciarono a ruotare attorno al Buonarroti, come Louis de Potter, Charles Teste e Felix Delhasse. Spiega Garrone: “La diretta influenza del Buonarroti si esercitava all’infuori degli ambienti massonici, nel contatto con l’emigrazione politica dei vari paesi europei, specialmente francese e italiana, ma anche tedesca, e con alcuni belgi, perlopiù giovani attratti dalla figura e dalle idee del vecchio cospiratore. […] Il più illustre di queste persone che il Buonarroti era riuscito ad attrarre era il Louis de Potter, fin dal 1824 in relazioni cordiali con lui.” [25]. Louis de Potter diede un forte contributo alla pubblicazione del suo famoso libro sulla Conspiration pour l’Égalité dite de Babeuf, suivie du Procès auquel elle donna lieu et des pièces justificatives, etc. del quale primo volume apparse nel 1828 [26]. Il Buonarroti seguì molto da vicino le vicissitudini della rivoluzione in Belgio sempre in contatto con De Potter che, rientrato in Belgio dopo l’esilio, nel settembre del ’30 era parte del governo provvisorio e si dimetterà, deluso, circa dieci giorni prima della dichiarazione della monarchia costituzionale[27]. De Potter fu l’unico uomo politico vicino al Buonarroti che, anche se per poco, occupò un ruolo di potere. Dopo la sua prima pubblicazione a Bruxelles nel 1828 la Conspiration pour l’Egalite dite de Babeuf si diffuse in Francia con molte difficoltà data la censura del regime, ma Baudoin Frères pubblicò la prima edizione francese. Fu con la Rivoluzione di Luglio del 1830 che la Conspiration divenne popolare. La Conspiration era nata dalle conversazioni con vecchi rivoluzionari, giacobini e arrabbiati, come Barere, Vadier e Amar. Alessandro Galante Garrone riporta l’atmosfera di rimpianti, rimorsi e nostalgia nella quale il Buonarroti assieme a molti altri, ormai vecchi, rivoluzionari sconfitti vivevano rintanati nei loro nascondigli, quando scrive la Conspiration. Mentre il Buonarroti, scrive Garrone, “voleva e sapeva parlare al suo tempo, sia pure in nome di un’altra età… Erano gli anni in cui gli operai dei sobborghi parigini leggevano le ristampe dei discorsi di Robespierre e del Marat, del Couthon e del Saint-Just; in cui l’ «anarchico» Laponneraye istruiva dei corsi popolari sulla storia della rivoluzione francese, e le società popolari si richiamavano ai grandi nomi e ai grandi eventi del ’93; gli anni in cui le classi lavoratrici francesi cominciavano ad agitarsi, in una inquieta aspettazione di nuovi rivolgimenti sociali, sotto l’assillo della miseria, della involuzione conservatrice dei ceti borghesi, delle delusioni inflitte dalla nuova classe dirigente” [28]. Lo stesso anno della pubblicazione della Conspiration il sansimoniano Paul-Mathieu Laurent, pubblicò Réfutation de l’histoire de France de l’abbé de Montgaillard che rivalutava il Terrore e Robespierre, sebbene questa non ebbe influenza diretta sulla Conspiration, le due opere erano in sintonia. Garrone, quindi, vede una certa affinità tra la visione buonarrotiana e quella sansimoniana della Rivoluzione francese, ma sempre Garrone sottolinea la diversità tra il socialismo sansimoniano e il comunismo egalitario buonarrotiano [29].
Il suo tramite con i saint-simoniani fu invece il giovane Charles Antoine Teste, scappato in Belgio dopo i cento giorni, massone, carbonaro e membro di altre società segrete. Teste si incontrò con il Buonarroti nell’agosto del 1829. Nel 1988 Jaap Kloosterman pubblicò una recensione di lettere inedite tra Teste e Buonarroti, dove si discute l’ingresso di Teste nella società del Buonarroti, detta Monde. “Il 22 febbraio 1830 il Buonarroti scriveva: «Enfin j’ai une idée du système des St. Simonistes et je suis extrêmement reconnaissant à celui qui a pris la peine d’en rédiger l’extrait, et à toi qui as la bonté de me le faire tenir […]»” e quindi “«Que font les Sainsimonistes? as tu trouvé quelque chose de raisonnable dans les observations que je te fis passer sur leur système? Quelques amis de ce pays comptent s’abonner à leur journal». “Ne era quindi incuriosito. “[…] egli approvava il principio sansimoniano dell’abolizione della eredità, ma lo considerava insufficiente. L’unico mezzo per impedire il risorgere della ingiustizia [per il Buonarroti] è l’abolizione della proprietà privata. […] La struttura gerarchica della società, vagheggiata dai sansimoniani, era agli antipodi della concezione buonarrotiana. Essi apertamente spregiavano il mito della sovranità del popolo, definito un «dogma metafisico»: e questo pareva al Buonarroti una eresia antidemocratica.”[30].
“Coloro che si richiamavano ai principi dell’89, rispetto ai quali il ‘93-‘94 acquistava il significato di una deviazione, proclamavano raggiunto il compimento dei fini della rivoluzione riconoscendo nel regime del direttorio lo sblocco coerente alle sue premesse: Benjamin Constant […] e Madame de Stael […]. Fondavano il liberalismo, come teoria della rivoluzione moderata che si riconosceva nella costituzione censitaria del l’anno III” [31]. “Babeuf aveva chiaramente distinto, già nel 1795, i due partiti in seno alla Repubblica, di cui tratta Buonarroti dall’inizio del suo libro: quello che vuole la Repubblica «borghese e aristocratica», la Repubblica del milione di sfruttatori; e quello che vuole la Repubblica «popolare democratica», dei 24 milioni di sfruttati che l’hanno fondata, l’hanno difesa, con il loro sangue, e la sostengono con il loro lavoro e con le loro privazioni” [32].
È lecito pensare che il Buonarroti si ispirò anche alle organizzazioni oweniane che stavano nascendo in Gran Bretagna a quel tempo. La traduzione della Conspiration di Bronterre O’Brien fu pubblicata a Londra nel 1836. Buonarroti, infatti, mette nella Conspiration Owen sullo stesso piano di Babeuf. Nel 1869 vi fu una seconda edizione francese della Conspiration a cura di Arthur Ranc, consultabile alla Bibliothèque National de France [33], mentre le traduzioni in italiano, tedesco e russo furono pubblicate solo nel 1957. Nel 1844 Karl Marx aveva contemplato l’idea di pubblicare una edizione tedesca della Conspiration che doveva essere tradotta da Moses Hess[34]. Elizabeth L. Eisenstein sottolinea che è molto probabile che la circolazione clandestina della Conspiration sia stata più importante di quello che si sia pensato in passato, già prima dei Tre Giorni Gloriosi del luglio del 1830, ed è certo che questa fosse stata letta già prima del 1834, come dimostrato dalla sua recensione apparsa sul Globe nell’aprile 1829.
La Conspiration è un testo più politico che una ricostruzione storica, esalta il Comitato di Salute Pubblica alla guida del Governo Rivoluzionario, e la minoranza illuminata che andava oltre la tanto celebrata Costituzione del 1793. Quindi la necessità di avere una azione extra-legale temporanea attuata dalla minoranza illuminata per poter stabilire un nuovo stato di cose, ovvero la repubblica democratica. Secondo il Buonarroti “Aver la pretesa di stabilire giustizia e eguaglianza senza l’uso della forza contro la gente della quale in grande numero avevano assunto abitudini e pretese inconciliabili con il benessere del resto della società e con i diritti giusti di tutti è un progetto chimerico per quanto seducente in teoria”. Anche per il Buonarroti come in Robespierre la maggioranza non è in grado di prendere la giusta decisione. Il Buonarroti, quindi, difende il Terrore giacobino per aver tentato di preservare la missione rivoluzionaria. Il concetto di coercizione delle necessità rivoluzionarie e del despotismo della libertà, quindi, fanno intuire come il neo-giacobinismo degli anni a seguire, in Francia, la volontà individuale deve coincidere con quella nazionale. Ogni attività che sia questa religiosa, commerciale, intellettuale, estetica o di frivola natura, che separi l’individuo dallo stato deve essere soppressa [35]. Nonostante sia possibile trarre un parallelismo tra i concetti nazional-giacobini espressi dal Buonarroti nella Conspiration col futuro Socialismo o Comunismo di Stato, la Eisenstein giustamente mette in guardia da questa illazione, in quanto il Buonarroti utilizzava concetti neoclassici di Repubblica e Virtù non semplicemente accomunabili a quelli socialisti. Il Pensiero del Buonarroti è in gran parte il pensiero utopico di Mably e Morelly ma soprattutto quello prerivoluzionario di Rousseau e la pratica rivoluzionaria di Robespierre, con l’aggiunta della tattica babouvista[36].
“Il principio dell’abolizione del commercio si trova già espresso nelle due principali fonti dell’utopia degli Eguali: nel “Le Code de la nature” di Morelly e soprattutto in Mably. […] Babeuf vi aggiunge di suo un nuovo e, a suo giudizio, più importante motivo di condanna del commercio in quanto mezzo di sfruttamento che permette di accumulare a favore di pochi la ricchezza «pompata» dal sudore e dal sangue dei più […]” [37]. “Babeuf perviene così a negare le disuguaglianze naturali fra gli uomini, i talenti, le capacità individuali: il suo egualitarismo livellatore è commisurato ad una assiomatica eguaglianza dei bisogni (nessuno ha quattro braccia e due stomaci). Buonarroti appare molto più cauto su questo terreno, aveva letto meglio il suo Rousseau e certo non era insensibile al problema fondamentale del “Contrat social”: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima»” [38]. “L’egalitarismo rousseauiano non è livellatore, mira anzi a promuovere e a potenziare nella società egualitaria, le capacità, i talenti, la libertà di ogni suo membro; l’ineguaglianza naturale (nella forza fisica, nel sesso, nell’età, ma soprattutto nel talento) si supera, secondo Rousseau, in una società di uomini socialmente eguali che restano tuttavia naturalmente diseguali, dotati cioè delle loro doti individuali che conferiscono alla società sottoforma di lavori differenziati. Di fronte all’egualitarismo non livellatore di Rousseau, l’egualitarismo livellatore di Babeuf, Marechal, dello stesso Buonarroti, è adialettico, teoricamente debole, e quindi non può non concludersi nell’utopia. Non per nulla Marx tratta di rozzo e primitivo il babuvismo teorico, mentre è ben lontano da un simile giudizio su Rousseau.”[39]. “Secondo l’egualitarismo babuvista il commercio andava abolito fino alla abolizione della moneta così come i mestieri qualificati fino all’abolizione dei salari” [40]. Già prima dello scoppio della Rivoluzione francese: “Babeuf aveva pensato alla formazione di associazioni agricole per la coltivazione in comune della terra, alla costituzione cioè di ‘fermes collectives’ ” [41]. Manacorda afferma che: “ ‘La ferme collective’ è rimasta un’intuizione isolata e geniale di Babeuf, non ha avuto sviluppo né nello svolgimento successivo del suo pensiero né in quella che Buonarroti ci ha descritto come «la legislazione definitiva dell’eguaglianza». Gli Eguali non superano, infatti, la concezione arcaica della produzione basata sulla piccola azienda artigiana o contadina, perché non riconobbero la concentrazione economica e il progresso tecnico come fattori di quell’aumento della produttività del lavoro che solo avrebbe potuto portare all’abbondanza dei beni, da essi pur vagheggiata come condizione necessaria alla ‘communauté’ ”[42]. “La sanculotteria […] piccoli produttori, fautori e difensori della proprietà fondata sul lavoro personale, costoro erano nemici dei ricchi ma non del diritto di proprietà; erano, anzi, aspiranti proprietari quando non lo erano già di fatto [grassetto nostro]. La richiesta più caratteristica, e insieme la più avanzata, che parta da loro è quella di imporre un maximum [la cosiddetta legge del maximum fu in effetti una legge rivoluzionaria francese, approvata dalla Convenzione Nazionale nel settembre del 1793, con lo scopo di calmierare il forte aumento dei prezzi delle derrate di prima necessità in un forte contesto inflattivo N.d.A.] delle fortune nella misura corrispondente alla piccola proprietà artigiana e bottegaia.”[43] “L’egualitarismo sanculotto e giacobino non si spinge mai fino alla negazione del diritto di proprietà”[44].
Nel febbraio del 1829 Buonarroti scriveva a Madame Vadier in merito alla concreta possibilità che la monarchia liberale potesse sostituire quella dei Borbone: “I Borbone non hanno fatto radici nel cuore della Francia […] non dubito ci siano ancora germi di vero patriottismo nei lavoratori ma i vizi e le falsità della classe dorata mi terrorizzano e ho più paura delle loro frasi liberali che delle baionette straniere […]. Li vedrai presto diventare ministri, scagliarsi a tutta forza contro quelli che invocano i “Diritti del Popolo”. Questa bella alleanza nulla è che una transizione dalla vecchia canaglia alle nuove canaglie”[45].
Il Buonarroti e la rivoluzione di Luglio 1830
Nonostante il suo ruolo nella Rivoluzione del 1830 sia secondario, allora il Buonarroti era al centro di una fitta rete di cospiratori della sinistra giacobina. In linea con quanto largamente sostenuto nel paragrafo dedicato alla longevità del Buonarroti, nella prima parte di questo lavoro, la Eisenstein nota il fatto che il Buonarroti nonostante il suo ruolo secondario nella Grande Rivoluzione (fu tra i più giovani figli o nipoti dei grandi rivoluzionari quali Auguste Blanqui, Louis Blanc, Etienne Cabet, Ulysse Trélat ecc.) ebbe uno status di apostolo della vera tradizione democratica, una sorta di alto prelato della rivoluzione [46]. Nonostante sia difficile stabilire se il Buonarroti fosse stato in grado di riorganizzare la Charbonnerie Française già prima della Rivoluzione di Luglio, sta di fatto che già nel 1832 la Carboneria Riformata prima e la Carboneria Democratica Universale poi erano molto attive e coinvolgevano leader radicali come Mathieu d’Epinal a Lione, nonché Guinard e Godefroy Cavaignac a Parigi. Nonostante come notato da Lehning, vi fossero differenze sostanziali tra queste società e quelle di Blanqui e Barbès, ovvero des Familles e des Saisons, la Eisenstein ribatte che queste non sono emerse dal nulla, vedendo una connessione con la rete segreta del Buonarroti. Ad ogni modo durante il periodo parigino il Buonarroti si impegnò nelle organizzazioni come Association pour la Liberte de la Presse, la Association pour L’Instruction Gratuite du Peuple e la Société des Amis du Peuple. Secondo la testimonianza di Louis Blanc il Buonarroti: “Pressoché ignorato sulla scena politica, nonostante ciò nel profondo dell’oscurità, egli aveva potere su menti generose, moveva molti ingranaggi segreti, manteneva costanti relazioni con democratici all’estero e, assecondato da Voyer d’Argenson e Charles Teste, teneva le redini del propagandismo per accelerare o frenare i suoi movimenti” [47].
Garrone traccia il quadro della indiretta influenza del Buonarroti sui fatti di luglio tramite il Teste. “Al primo annuncio della rivoluzione di luglio, che lo sorprende come un fulmine a ciel sereno, il Buonarroti, nella corrispondenza con il Teste, non tace il suo entusiasmo, che è quello di tutte le anime libere di Europa, e ammira il miracoloso «coraggio del popolo». […]. Quale fosse, in quelle ore critiche, l’atteggiamento del Teste non è dato sapere con sicurezza. Sappiamo però, dalla testimonianza di Louis Blanc, che egli partecipò con impeto generoso all’insurrezione. […] il 29 luglio il Teste occupava il palazzo della borsa. Il 29 luglio col Taschereau creava, sulla carta, un governo provvisorio, di cui faceva parte il Lafayette. E un proclama, pubblicato anche dal ‘Constitutionnel’ tratto in inganno, diffondeva in tutta Parigi la grande notizia di un governo che, come disse il Blanc, «non esisteva che nella mente di alcuni coraggiosi falsari, che contavano sul successo per farsi assolvere». Il 30 luglio la minaccia di una soluzione orleanista si era fatta più consistente. E per stornarla, era stata tenuta al ristorante Lointier, dai repubblicani, carbonari, sansimoniani, un’animatissima riunione […] L’Hubert, accompagnato dal Trelat, dal Teste, dal Guinard, leggeva l’indirizzo al Lafayette, e poi lo invitava con frasi concitate ad assumere la dittatura. […]. Il vecchio generale si schermiva con parole generiche ed evasive […]. Questo proclama è importante per la sua data, e per il suo contenuto che, se anche non contiene un’esplicita affermazione repubblicana, asserisce l’esigenza che il governo sia per il popolo […]. All’indomani stesso della riunione, ogni speranza cadeva: una deputazione della Camera invitava il duca d’Orleans ad assumere la luogotenenza del regno […]. Il 30 luglio, data del proclama del Teste e della riunione Lointier, resta ad ogni modo come la data di inizio dell’opposizione repubblicana e democratica in Francia: è il giorno in cui viene fondata la società degli ‘Amis de Peuple’, ed è preparato il primo numero del giornale «La Révolution». Il Teste non è estraneo a questo primo movimento di opposizione” [48].
“Ma intanto, che pensava e faceva il Buonarroti? Egli aveva ricevuto ormai tutte le notizie sulla conclusione della rivoluzione parigina. E così, il 7 agosto, la sua delusione traboccava amara: «Cosa direbbe il grande uomo [Robespierre] se vedesse un d'Orléans cogliere il frutto di tanti anni di lavoro, sofferenza e rivoluzioni? È vero che non c'erano altri mezzi per evitare i crepacuore interni e la guerra esterna? Sono tentato di credere che un motivo completamente diverso abbia presieduto questa importante deliberazione e sarò felice di sapere cosa mi direte su questo argomento». Qualche giorno più tardi, il 10 agosto 1830, la diagnosi definitiva è fatta. Per risollevare la Francia, le si sarebbe dovuto applicare il metodo curativo di Robespierre: «Se avessimo curato la paziente secondo le prescrizioni del suo medico principale forse ora avremmo meno difficoltà a ristabilirle completamente la salute: possa essa essere più felice in futuro»". Non rimase dunque che riaccomodarsi al lavoro già intrapreso: ancora una volta, bisogna cospirare” [49].
Il Buonarroti torna a Parigi, 34 anni dopo la Cospirazione degli Eguali
Il 20 agosto 1830 il Buonarroti tornò a Parigi sotto il nome di Raimond: non vi aveva messo piede dai tempi della Cospirazione degli Eguali, quando il 26 agosto 1796, era stato trasferito a Vendôme. Deve essere stata una forte emozione tornare a Parigi dopo 34 anni, ancora una volta intenta a detronizzare un Borbone. Una volta a Parigi il Buonarroti entrò in contatto con vecchi giacobini e con esuli italiani dei moti del 1820 e 1821, come Mario Pagano, Caracciolo, Cirillo, e tramite il Teste frequentò il Comitato Cosmopolita che includeva tra gli altri il Lafayette. Sempre tramite il Teste il Buonarroti poteva influire sulle società Aide-toi e Amis du Peuple. A Parigi riallacciò anche l’antica amicizia con Félix Lepelletier[50]. I capi della Société des Amis du Peuple erano Ulysse Trelat e Raspail, Charles Teste e Voyer d’Argenson, con in testa il Buonarroti stesso.
“Il primo problema di cui deve occuparsi, giunto a Parigi, è quello del Belgio […]. Il Belgio è in grande fermento. Qualche giorno dopo l'arrivo del Buonarroti a Parigi, scoppiano a Bruxelles, in occasione della rappresentazione della Muta di Portici al Teatro della Monnaie, i primi disordini. […] al primo impulso patriottico, si è sovrapposta, per un momento, una specie di sommossa proletaria, che destò vivo allarme nella borghesia della capitale e la spinge a correre prontamente ai ripari istituendo una «guardia borghese»; […] A Parigi, egli aveva trovato Louis De Potter, che vi era giunto fin dai primi di agosto, insieme col Tielemans e col Bartels. Fin dal 1824 il De Potter era in relazioni cordiali con lui. Egli ammirava il vecchio cospiratore toscano e lo aveva anzi aiutato a pubblicare la ‘Conspiration’. […] Il De Potter non era un babuvista, era anzi assai lontano dalle idee egualitarie, sebbene al suo clamoroso processo del 1830 il Procuratore del re, nella sua severa requisitoria, gli avesse attribuito le idee sovversive contenute nel libro di cui egli stesso aveva favorito la pubblicazione” [51]. Il De Potter entrò a Bruxelles il 28 settembre dopo la cacciata degli olandesi, il 29 formò il governo provvisorio con Rogier, Van der Weyer e Felix de Merode. Ma già in ottobre a voler la repubblica era rimasto solo il De Potter. Il 30 settembre una prima lettera del Buonarroti fu recapitata a Rogier tramite Teste, il messaggio era che la rivoluzione di luglio era stata popolare ma era stata tradita mentre in Belgio aveva intrapreso la strada giusta. Henry Bonnais da Bruxelles chiedeva l’invio di truppe da Parigi per aiutare la proclamazione della repubblica, truppe che partirono l’8 ottobre. Così la colonna degli Amis du Peuple partì alla volta di Bruxelles. Ma allo stesso tempo il governo provvisorio stava passando sotto il controllo di Gendebien, di De Merode e di Van der Weyer, mentre il Rogier si era recato fuori Bruxelles in missione militare. In novembre vi furono le elezioni per il Congresso e De Potter fu sconfitto a favore dei monarchici e dei moderati, così il 13 novembre rassegnò le dimissioni [52]. Il 3 novembre 1830 il Buonarroti pubblica l’articolo sul giornale La Révolution intitolato “Sur la forme républicaine à donner au Gouvernement belge”, sollecitando la missione di Teste a Bruxelles il 18 novembre 1830 [53].
L’atteggiamento del Teste e di Voyer d’Argenson si differenziarono da quello di alcuni capi sansimoniani, come Bazard, i quali “avevano cercato d’indurre il Lafayette a misure energiche, addirittura dittatoriali”. Vi fu una protesta popolare “contro l’assunzione dell’Orleans alla luogotenenza generale” ed […] “È lecito supporre che il Teste non fosse estraneo a queste sporadiche iniziative, […]. Ancor più probabile è l’impronta del Teste nei primi numeri allora apparsi della «Révolution», […] alla cui redazione, com’è noto, non furono estranei i più risoluti membri degli ‘Amis du Peuple’, e a cui collaborarono anche altri amici del Buonarroti”[54]. “Quando il Buonarroti giunse a Parigi, nell’agosto del 1830, la società allora più diffusa […] sebbene priva di base popolare […] era la “Aide-toi, le Ciel t’aidera”. Si era formata […] dalla disgregazione […] della organizzazione carbonara, con scopi essenzialmente di propaganda […] ma ora, nel mutato clima, aveva assunto un atteggiamento più aperto e pugnace. […] il Teste […] faceva parte del comitato direttivo […]. Ma […] nel volgere di poche settimane, nell’opera a favore dei Belgi si era sovrapposta alla “Aide-toi”, […] la società degli “Amis du Peuple”. […]. Per tutto il 1831, circolano negli “Amis du Peuple”, con notevole frequenza, le idee sansimoniane. […]. Ma è un’ondata, quella del sansimonismo, che altrettanto rapidamente decresce e si ritira, senza lasciare tracce profonde” [55].
A Parigi, il Buonarroti, convertì il suo Monde nella Carboneria Democratica Universale [56]. È del 1831 una sua lettera a Terenzio Mamiani, dove scrive di “Robespierre, ponga a mente, signor Mamiani, non sapeva che farsi della libertà qualora fosse scompagnata dalla eguaglianza di lavoro e di ricompensa, da onde poi emerge quella comune e pari felicità cui tutti aspiriamo con diritto certissimamente non diverso dall’uno all’altro” [57]. Il Buonarroti considera la sua missione politica e quella delle sue società la conservazione della purezza della lezione rivoluzionaria di un nuovo ordine sociale basato sui principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità. Nel credo del Buonarroti c’è una forte componente religiosa, che anche se rigetta le religioni classiche, Cristiana, Ebraica, Brahminica e Mussulmana, si rifà all’Essere Supremo ovvero la Divinità del legislatore supremo basata sull’intelletto umano, la quale rifiuta ogni tipo di superstizione nonché tutte le pratiche e credenze create dall’uomo. Anche in questo riprende l’Essere Supremo di Robespierre, ovvero il bisogno di una Divinità che avrebbe premiato e punito nell’aldilà.
“Sembra che una ‘Società dei Patrioti italiani’ fosse stata fondata a Parigi, il 13 agosto [1830], dal Fossati. […]. Questa società, di cui quasi nulla sappiamo, ebbe una vita grama […]. Il Fossati e molti altri erano allora entrati in una ‘Società della Libertà italiana’ […]. L’Elemento di disaccordo era costituito semplicemente dalla presenza di molti nobili piemontesi, esuli del 1821. La società […] sarebbe poi confluita, nel 1831, nella ‘Giunta liberatrice’ […]. Negli ultimi mesi del 1830, un gruppo, o Comitato, sembra darsi più da fare degli altri: è quello degli amici di Misley, Celeste Menotti, Linati, Fossati. […] grazie alle relazioni che da tempo il Misley aveva annodato con il ‘Comitato cosmopolita’, e disponeva in Italia di un’attiva rete settaria, che faceva capo all’infaticabile Ciro Menotti. [Il Buonarroti] dovette cercare, fin dagli ultimi mesi del 1830, di crearsi un proprio strumento organizzativo: un centro direttivo o un comitato che fosse disposto a seguirne le idee repubblicane, unitarie, democratiche. Pochi erano gli italiani a Parigi su cui poteva sicuramente contare: il faentino Pietro Mirri, uno dei più vecchi emigrati a lui devotissimo, il Conte Carlo Bianco di Saint-Jorioz giuntovi da Marsiglia, autore della ‘Guerra per bande applicata all’Italia’ e capo degli ‘Apofasimeni’, […]. Il Misley e il Menotti miravano a una monarchia costituzionale, il Buonarroti a una Repubblica; i primi poggiavano sul Lafayette, sul Mauguin, sul Dupont de’L’Eure, su uomini, cioè, che avevano accettato la soluzione orleanista, pur senza entusiasmo; il secondo sugli ‘Amis di Peuple’, francamente repubblicani”[58]. “Così, verso la fine del 1830, vediamo profilarsi a Parigi la concorrenza e il conflitto fra il gruppo di Misley e quello di Buonarroti. […] verso il 15 o il 20 gennaio [vi fu] la creazione in Parigi, per concorde deliberazione dei vari comitati e società patriottiche, della ‘Giunta liberatrice italiana’. […] veniva […] nominato un Direttorio esecutivo […] di tre membri […]. Sappiamo che questo […] era composto dal Buonarroti, dal Mirri e dal Salfi. [la Giunta produsse] due manifesti agli italiani […] dovuti all’iniziativa del Direttorio esecutivo (in seno al quale il Buonarroti disponeva […] della maggioranza); ma la Giunta, composta di forze così eterogenee […] era divisa […]. Che la Giunta […] preparass[e] qualche spedizione in Italia […] è anche molto probabile […]. Ma il Buonarroti (cioè il Direttorio) voleva anche in questo caso, far le cose con serie probabilità di successo. […] Il Bellerio […] che aveva più volte visto il Misley e godeva della fiducia di Ciro Menotti, era di quelli più smaniosi di azione immediata. Di qui la sua decisione di rompere gli indugi, senza dar retta al Buonarroti […]. Si giunse così, verso la fine di febbraio, a quell’infelice tentativo di spedizione contro la Savoia, stroncato sul nascere […]. Il Buonarroti si indignò di questa impresa decisa a sua insaputa […]. Fu proprio questo uno dei motivi che […] lo spinsero alle dimissioni”[59].
Alla idea federativa in voga tra i patrioti italiani dopo il 1830, il Buonarroti non era favorevole, per lui quello era un retaggio degli interessi locali dettato dall’influsso aristocratico, ma in qualche modo ormai la tollerava. Fin quando non sentì l’esigenza di dichiararsi apertamente contro di essa, scrivendo i ‘Riflessi sul governo federativo applicato all’Italia’. Secondo Saitta il Buonarroti, oltre all’azione settaria, ne intraprese una legale, che si concentrava sull’opinione pubblica per la conquista del suffragio universale, e lavorava addirittura per un programma sociale minimo improntato all’applicazione dell’imposta progressiva e all’emancipazione della classe lavoratrice [60].
Laponneraye aveva cominciato, nel novembre del 1831, un corso pubblico di storia francese dal 1789 al 1830 per gli operai e citava spesso la Conspiration. Grazie al Laponneraye, il nome del Buonarroti cominciò a circolare anche tra gli operai parigini. Garrone giudica Laponneraye uno degli iniziatori del neobabuvismo. In pochi anni Laponneraye diventa popolare e diverrà redattore capo dell’Intelligence. L’incontro tra il giovane Blanqui e il Buonarroti avviene dopo la Rivoluzione di Luglio. “È probabile che già prima del discorso agli ‘Amis du Peuple’ e del famoso ‘Procès des Quinze’, l’uno e l’altro al principio del 1832, il Blanqui avesse personalmente conosciuto il Buonarroti. Se non allora, lo conobbe certo qualche tempo dopo, come ci attesta una lettera dell’11 maggio 1835 del Buonarroti […]. Del resto, è difficilmente credibile che il Blanqui, vicepresidente degli ‘Amis du Peuple’, non avesse conosciuto, tramite il Teste, il Buonarroti […]” [61]. “La riscoperta di Robespierre da parte di Babeuf è molto probabilmente ascrivibile allo stesso Buonarroti. Ma soprattutto il riconoscere la necessità di un dittatore, come Robespierre, che abbia a cuore i veri interessi del popolo. Questa era e rimane anche l’idea del Buonarroti. Questa è l’eredità di Buonarroti a Blanqui” [62]. La spedizione in Savoia “si tramutò in una semplice scaramuccia alla frontiera savoiarda provocata dall’ambiguo Pisani Dossi (25 febbraio-10 marzo 1831)”[63].
Il Buonarroti nei suoi ultimi anni di vita
Come il Buonarroti aveva influenzato Blanqui in Francia, così influenzò il coetaneo di quest’ultimo in Italia, Giuseppe Mazzini. Mazzini, che inizia il suo percorso cospirativo nella Vendita genovese della Carboneria, La Speranza, ne denota i limiti e le vecchie formule. Si riallaccia una volta uscito dal carcere di Savona con gli esuli italiani a Marsiglia. Garrone nota che il Mazzini non ripudia di punto in bianco la Carboneria e il pensiero degli esuli, ma si impegna in un “attivo ricambio” con questi mondi. Nel 1831 il Buonarroti era riconosciuto nel mondo cospirativo, come uno dei suoi capi europei, quindi, per il Mazzini era necessario farne la conoscenza, anche se poteva apparigli vecchio nelle idee e nei metodi. Di suo il Buonarroti diffidava di Mazzini, perché sprezzante delle regole cospirative, avventato, e presuntuoso. Ad ogni modo nella seconda metà del 1831 Mazzini entra in relazioni cordiali col Buonarroti. Garrone riporta che nei primi scritti di Mazzini si possono leggere influenze sansimoniane così come buonarrotiane. In questo periodo Mazzini si riferisce alle masse di lavoratori, in termini babuvistici, mentre già nel 1832, parlerà in termini sansimoniani di associazione universale. Inizialmente giustifica anche il Terrore, come rimedio doloroso, esaltando la Montagna e Robespierre. È addirittura a favore ancora nel 1832 del concetto di dittatura centrale di un Comitato di Salute Pubblica. Così come è in linea con l’opposizione al federalismo repubblicano alla stessa stregua del Buonarroti. Sembra che l’Intermediario tra Mazzini e il Buonarroti fu Carlo Bianco, capo della società degli Apofasimeni. Per Mazzini la Giovine Italia nell’estate del 1831 non si metteva in concorrenza con quella degli Apofasimeni appunto, perché più indirizzata alla “bassa gente”. Quindi, nella prima metà del 1832, gli Apofasimeni erano confluiti nella Giovine Italia. Ormai le idee di Mazzini si distinguevano da quelle del Buonarroti che aveva formato nel frattempo la Carboneria Riformata e la società dei Veri Italiani. Quest’ultima aveva come scopo l’indipendenza e la libertà dell’Italia, così come istituire una repubblica democratica. Il Buonarroti riuscì a siglare un accordo con la Giovine Italia di Mazzini nel settembre del 1832, avendo, queste due, le stesse finalità. Tra le divergenze di vedute maggiori vi erano il concetto di lotta di classe e quello di collettivismo come si intravedevano nel babuvinismo-buonarrotiano. Mazzini era su posizioni sansimoniane per quanto riguarda il conflitto di classe ovvero per la cooperazione tra le classi e sicuramente contro ogni tipo di legge agraria che intaccasse la proprietà privata. Per il Mazzini solo gli ingenui potevano sognare l’eguaglianza di Babeuf. Nel 1833 Mazzini scriveva a Melegari: “In essi è buona fede e amor patrio, se non che si perdono a certi concetti di leggi agrarie da metter paura, e sono qualche poco formalisti”. Sempre nel 1833 Mazzini si esprime apertamente contro il concetto buonarrotiano di dittatura provvisoria. Questa idea era maturata in Mazzini già sul finire del 1832 commentando lo scritto “Del governo d’un popolo in rivolta per conseguire la libertà”, che il Buonarroti aveva scritto e gli aveva mandato. Oltre al concetto di dittatura provvisoria, rigettava anche il concetto classista. In più Mazzini ormai riconosceva nel successo della società dei Veri Italiani una minaccia per la sua Giovine Italia [64].
La spedizione nella Savoia da parte dei mazziniani fu al centro di un annunciato scisma tra i due cospiratori, il vecchio e il giovane. Il Buonarroti si era premurato di emanare una circolare alla Carboneria Democratica Universale di proibire ogni tipo di partecipazione al progetto di Mazzini. Il Buonarroti aveva in mente il Governo Rivoluzionario come fase preparatoria al Governo democratico, mentre il Mazzini aveva un concetto idealizzato di “popolo” [65]. Nonostante la sua attenzione sul discorso italiano, che non fu tale nel Buonarroti, il Mazzini si collocava nello schieramento politico francese tra il National di Carrel e il Tribune di Cavaignac, ovvero nel centro-destra repubblicano, mentre il Buonarroti era ovviamente a sinistra. Nell’ottobre del 1833 la rottura tra i buonarrotiani e i mazziniani era chiara. Il Buonarroti di suo considerava Mazzini uno sconsiderato, che aveva provocato le: “dure repressioni dello Stato sardo, della sua poca conoscenza degli uomini, di quel suo affidarsi ai primi venuti, che il suo dispregio per le vecchie regole settarie, della genericità del suo repubblicanesimo, della sua ostilità a una preventiva discussione delle riforme situazionali da introdurre in Italia.” Il Buonarroti cercava di dissuadere tutti gli affiliati della Charbonnerie démocratique universelle dal prendere parte alla spedizione di Savoia. Nell’ottobre del 1833 il Buonarroti fu arrestato a Parigi e rilasciato dopo un interrogatorio di poche ore [66]. Fra il 1833 e il 1836 Buonarroti scrisse “Obsevations su Maximilen Robespierre” dove riabilitava ulteriormente la memoria di Robespierre, che divulgò presso i sansimoniani francesi e gli owenisti cartisti inglesi. È evidente l’influenza di questa apologia del Terrore su Cabet e Louis Blanc [67]. Nel gennaio del 1832 ebbe luogo il processo che smantellò la società degli Amis du Peuple, mentre nel giugno vi fu il fallimento della rivolta popolare a Parigi [68].
Con la rivoluzione di luglio si concretizzò una nuova realtà politica e sociale; irrompono sulla scena nuove società, come la Aide-toi, mentre la Carboneria francese era già entrata in crisi. Il Buonarroti tenderà quindi a compenetrarla per attuarne una trasformazione: “Questi nuclei carbonari si allacciano dapprima con gli ‘Amis di Peuple’, poi con i ‘Droit de l’Homme’, e ne costituirono, per così dire, la ‘doublure’ cospirativa. […]. Fu dopo le giornate del 5 e 6 giugno 1832 che il Buonarroti, ormai convinto che il vero piano su cui potesse condursi efficacemente la lotta era quello illegale, intraprese, sui ‘débris’ della carboneria francese, abbandonata anche dai suoi capi di un tempo, la ricostruzione di una nuova carboneria: la ‘Charbonnerie réformée ’. […] A questa organizzazione settaria ne subentrava un’altra, verso la fine del 1833, non molto dissimile: la ‘Charbonnerie démocratique universelle’ ”[69]. “Il 1833 fu […] l’anno del saldo intrecciarsi del movimento repubblicano più accentuato, rappresentato dalla società dei ‘Droits de l’Homme’, col nascente movimento operaio francese. Gli operai erano affluiti numerosissimi a quella società, attratti da una propaganda intessuta in gran parte di egualitarismo buonarrotiano; e la società aveva modificato, in relazione a questa base operaia, perfino la sua struttura, creando diverse sezioni esclusivamente composte di operai o artigiani appartenenti a una sola categoria, quasi ripristinando, ma con spirito del tutto nuovo, vecchie forme di ‘compagnonnage’ [grassetto nostro]; e aveva costruito nel suo seno un comitato, nato dalla fusione del ‘Comité d’affiliation républicaine’ con la Commission de propagande, essenzialmente destinato alla classe operaia, e del quale facevano parte, secondo Lebon, lui stesso, Vignerte e Berrier-Fontaine”[70].
Il Garrone spiega perché nel 1833 si formarono delle condizioni favorevoli all’emergere delle associazioni operaie: “il Codice penale da molti anni puniva severamente le ‘coalitions d’ouvriers’, ben più severamente di quelle padronali. Ma, nei primi anni della monarchia di luglio, le coalizioni riapparivano con un volto nuovo, che impensieriva e sconcertava non solo il governo e le classi al potere, ma anche molti repubblicani. […]. Il governo, dopo un iniziale periodo di benevolenza, non solo fece ricorso a rudi misure repressive, ma già nell’autunno del 1830, portava esso stesso la questione delle ‘coalitions’ su un più vasto terreno politico e sociale. […]. L’insurrezione lionese del novembre 1831 avrebbe rivelato a tutti la gravità paurosa del problema. […]. In un opuscolo del 1833, d’intonazione moderata, il Favre [Jules] vuol dimostrare che l’associazione è diventata ormai una urgente necessità del moderno sistema produttivo, la sola àncora di salvezza per i lavoratori che la rivoluzione industriale ha sprofondato nei dolori più atroci [grassetto nostro], un rimedio contro gli abusi della concorrenza. […] La ‘Société philanthropique des ouvriers tailleurs’, presieduta dal Grignon, aveva pertanto deciso di creare una cooperativa di produzione, come risposta al rifiuto dei padroni di aumentare i salari. […]. La minaccia fu sentita e il Grignon, arrestato, venne condannato a cinque anni di carcere. […] altro scritto molto importante […] firmato da Grignon, [fu] ‘ouvrier tailleur, membre de la Société des Droits de l’Homme’ [nel quale] dopo aver deplorato la miserrima sorte degli operai, l’autore scrive che, in attesa dei provvedimenti che prenderà un governo popolare, con un migliore sistema d’imposte e con una saggia organizzazione del lavoro, bisogna unirsi. «Noi saremo felici, solo quando saremo gli artefici del nostro destino». Dobbiamo associarci, egli dice, contro tutti gli ostacoli, anche se dovessimo gettare il grido di disperazione, come i nostri fratelli di Lione: ‘Vivre en travaillant, ou mourir en combattant’. L’associazione deve essere abbastanza forte per resistenza alle pretese degli sfruttatori […]. Bisogna arrivare progressivamente a non lavorare più di dieci ore al giorno […]” [71].
Il programma “comunista” del Buonarroti, difeso da Voyer d’Argenson “mise a soqquadro la società dei ‘Droits de l’homme et du citoyen’ ” provocandone una scissione. Nel 1833 il Buonarroti “attraverso la penna di Teste – ribadì i suoi ben noti principi rivoluzionari in un ‘Project de constitution républicaine et déclaration des principes fondamentaux de société’ ”.[72]
In merito al fallimento della spedizione in Savoia, il Mazzini si nascose dietro alla scomunica del Buonarroti e al fatto che la direzione de Il Mondo e l’Alta Vendita erano controllate dai parigini. Le ragioni dell’insuccesso della spedizione in Savoia sono però da cercare altrove. Ormai nel 1834, data anche l’età del Buonarroti, l’attività dell’Alta Vendita in Italia era ridotta ai minimi termini. Ma ancor di più dell’età del Buonarroti nel 1834 in risposta ai moti di Lione vi fu una forte repressione da parte del Governo nei confronti delle società come dei Droits de l’Homme, la Carboneria Riformata, e le altre organizzazioni. Molti associati finirono in carcere. Parallelamente alla paralisi delle società direttamente associate al Buonarroti si sviluppò in modo indipendente una corrente neo-babuvista. Società segrete come le Légions révolutionnaires, le Familles, le Saisons [73]. Il giornale di riferimento per gli operai lionesi era l’“Echo de la Fabrique” di Lione che insiste: “Non è vero, […] che le coalizioni, che si formano ormai in tutto il paese siano dovute a un’abile manovra di repubblicani intesa a sfruttare il malcontento e la credulità dei lavoratori. La verità è «che noi paghiamo assai caro, e giorno per giorno, il diritto di vivere lavorando… A questo deplorevole isolamento, a questo lungo sonno della classe lavoratrice, deve succedere un fatto sociale nuovo, l’ASSOCIATION!»”. Aggiunge Garrone: “A tutto questo orientamento il Buonarroti non è estraneo” [74]. Negli ultimi anni, il buonarrotismo ebbe particolare fortuna in Belgio dove con la rivista Radical nel 1837 uscirono articoli di chiara ispirazione al pensiero del cospiratore toscano. Già nel 1836 Jottrand aveva organizzato le prime riunioni operaie[75].
Infine: “[…] nell’agosto del 1837, proprio alla vigilia della sua morte. L’Owen aveva tenuto una conferenza a Parigi, sorvegliato dalla polizia, che aveva finito per togliergli la parola. Il «Radical» ricorda che le dottrine dell’Owen non sono nuove, e hanno avuto da molto tempo i loro rappresentanti in Germania, in Italia e, alla fine del secolo precedente, in Francia, «nella persona dello sventurato Babeuf che fu sacrificato nel maggio del 1797 al furore degli impuri del direttorio». Il «Radical» si stupisce, con una dissimulata ironia, che i giornali francesi che hanno parlato dell’Owen e che si piccano di conoscere così bene la loro storia, non abbiano fatto menzione di un episodio così notevole della loro prima rivoluzione. E aggiunge: «Uno degli amici di Babeuf, il solo sopravvissuto, forse, dei complici della cospirazione che porta il suo nome, il rispettabile Buonarroti, in un’opera che pubblicò a Bruxelles nel 1828, ha parlato della similitudine delle dottrine di R. Owen con quelle di Babeuf, rispondendo alle obiezioni principali che gli erano state mosse. Nel momento in cui sta per uscire l’opuscolo di R. Owen non sarà inutile far conoscere sullo stesso argomento l’opinione di un uomo grave che abbiamo la fortuna di annoverare fra i nostri amici». Seguiva questa presentazione il noto passo del Buonarroti sull’Owen, in una nota della ‘Conspiration’. […]. Un mese più tardi il «Radical» dava la notizia della morte del Buonarroti, e pubblicava, oltre al commosso necrologio del Trélat pubblicato dal «National», un bell’articolo redazionale del Francinetti” [76].
L’ultimo atto pubblico del Buonarroti sono due lettere mandate alla Corte dei Pari e agli avvocati difensori dei 564 repubblicani arrestati dopo la seconda rivolta di Lione nel 1834, da allora il vecchio Buonarroti fu pressoché inattivo. Il Buonarroti morì il 17 settembre 1837 nella casa di Voyer d’Argenson e 1500 persone presenziarono al suo funerale. Le sue spoglie sono custodite al cimitero di Montmartre a Parigi [77].
Considerazioni conclusive
Egalitarismo
Filippo Michele, Philippe, Buonarroti ebbe senz’altro una vita avventurosa e allo stesso tempo fu un uomo che seguì i valori settecenteschi dell’età dei Lumi, nella sua interpretazione robespierriana del pensiero di Jean-Jacques Rousseau [78]. Questo è ben esplicitato dai due storici principali del Buonarroti. Alessandro Galante Garrone concorda con Armando Saitta che “l’interpretazione buonarrotiana della rivoluzione francese si è formata in modo del tutto autonomo, senza subire alcuna influenza della contemporanea e incipiente storiografia sansimoniana, e trae la sua prima ispirazione dalle idee dei congiurati del 1796, e dagli scritti che allora circolarono fra le loro mani” [79]. Garrone continua: “La posizione storiografica (e anche politica) di Buonarroti può riassumersi in questa formula: rivalutazione del giacobinismo, di Robespierre, del Terrore, di Babeuf. Questa posizione storiografica […] era stata assunta, proprio in quegli anni […] anche da altri: […] Laurent de l’Ardèche, e […] Roche” [80]. Mentre Saitta mette in guardia sulla rilettura che il Buonarroti fa di Robespierre in chiave comunista, e sulla rilettura della fase del Terrore come una fase antiborghese di concessioni sociali che avrebbero causato quindi il 9 termidoro. Vi sono prove che le oscillazioni del Terrore ebbero una natura puramente politica e non sociale, lo stesso 9 termidoro, continua Saitta, “fu facilitato […] dall’opposizione degli operai al nuovo maximum, che quattro giorni prima era stato votato in senso deflazionista e di abbassamento dei salari reali”. Se questo non bastasse è evidente che appena gli arrabbiati e gli hebertisti “oltrepasseranno il limite che le forze democratiche del momento potevano assorbire [..] Robespierre non esiterà […] a far rotolare […] la loro testa” [81]. Quindi Saitta ritiene che “Se il suo comunismo [del Buonarroti] non rimase puro utopismo settecentesco o semplice reazione morale, se esso si inserì, nelle lotte dell’Europa del XIX secolo e, a contatto con la rivoluzione industriale ed il nascente proletariato, divenne azione concreta, costituendo una delle tante premesse del marxismo, ciò lo si deve alla lunga vita di un Buonarroti sempre sulla breccia. Ma, all’origine, esso fu soltanto un virgulto del vigoroso tronco del robespierrismo” [82]. Giustamente, ammonisce Saitta, Robespierre non fu mai il capo di una rivoluzione del Quarto Stato, tutt’altro; egli era legato alla borghesia, ma seppe intuire la forza del Quarto Stato. Robespierre, allora, tradì, o fu tradito dalla borghesia stessa, ovvero i girondini e i loro eredi termidoriani dei quali il “Buonarroti ha dato un ritratto che non lascia dubbi circa la [loro] definizione sociale: «[…] Avvocati, procuratori, medici, banchieri, ricchi mercanti, opulenti borghesi e uomini di lettere, che facevano della cultura un traffico e un mezzo per farsi strada»” [83]. Ma vi è, nel Buonarroti, la chiara nozione della contraddittorietà del sistema capitalista, proprio del mondo borghese, in nota Buonarroti al suo Conspiration già nel 1828 scrive: “Dal gran numero dei salariati e dal piccolo numero dei salarianti risulta necessariamente la miseria dei primi. L’ignoranza è, nello stesso tempo, uno stato di necessità per i lavoratori sovraccaricati e una precauzione per quelli che hanno scaricato su di loro il proprio fardello” [84].
L’Égalité è il valore che spicca nel pensiero del Buonarroti, il quale scrive: “Mably considera la comunione dei beni l’unico ordinamento conforme al vero scopo della società, che è la durevole felicità di tutti i suoi membri. […]. Dall’ineguale ripartizione dei beni e del potere nascono tutti i disordini di cui si lamentano a ragione i nove decimi degli abitanti dei paesi inciviliti. […]. Proprio a trattenere, dunque, entro giusti limiti la ricchezza e la potenza degli individui devono tendere le istituzioni di una società degna di tale nome: la potenza, sottomettendo egualmente tutti cittadini alla legge emanata da tutti; la ricchezza, ordinando le cose in modo che ciascuno abbia abbastanza e nessuno abbia nulla di troppo. Ecco in che cosa consiste la eguaglianza di cui si parla in questo libro” [85].
Ma come concretizzare il valore dell’Eguaglianza in diritto? Impressi nella mente del Buonarroti rimangono gli sforzi di quelli che lui considera i veri eroi della Rivoluzione: “La democrazia in Francia: che cos’è? Non bisogna credere che i rivoluzionari francesi abbiano attribuito alla democrazia da loro richiesta il significato che le attribuirono gli antichi. Nessuno ha mai pensato in Francia di chiamare il popolo intero a deliberare sugli atti di governo. Per loro, la democrazia è l’ordine pubblico nel quale l’eguaglianza e i buoni costumi mettono il popolo in grado di esercitare utilmente il potere legislativo. Esiguo [fu il] numero di amici sinceri dell’eguaglianza nella convenzione nazionale. […] Marat, Maximilien Robespierre, Saint-Just figurarono gloriosamente con alcuni altri nella lista onorevole dei difensori dell’eguaglianza. Marat e Robespierre attaccarono di fronte il sistema antipopolare che era prevalso nell’assemblea costituente; diressero, prima e dopo il 10 agosto, le mosse dei patrioti […]. Tuttavia la costituzione del 1793, redatta in seguito all’insurrezione del 31 maggio dalla parte della convenzione che si chiamava allora la Montagna, non rispose completamente ai voti degli amici dell’umanità. Spiace trovarci le vecchie ed esasperanti idee sul diritto di proprietà” [86].
In merito alla Costituzione, giacobina, del ‘93 il Buonarroti sottolinea che questa di per se stessa non poteva assicurare la felicità: il popolo doveva essere educato o elevato alla virtù. Il Buonarroti era dell’idea che solo con misure eccezionali e coercitive si sarebbe potuto operare un radicale cambiamento senza del quale l’ordine costituzionale delle elezioni avrebbe affidato il potere ai soliti nemici della felicità pubblica, e in nota, il Buonarroti specifica: “Finché le cose resteranno come sono, la forma politica più libera sarà vantaggiosa solo per chi può fare a meno di lavorare. Poiché la massa delle nazioni, assoggettata dal bisogno a lavori faticosi e continui, non può venire a conoscenza dei pubblici affari, né assistere alle assemblee dove essi vengono trattati, e dipende dai ricchi per la propria esistenza, costoro dispongono da soli delle deliberazioni che governi ingannatori hanno astutamente l’aria di proporre al popolo. Si deve presumere che questi dabben uomini trascurino i loro interessi? Che avverrebbe se si trattasse di proporre loro la perdita dei loro privilegi?” [87]. All’esiguo numero degli amici e difensori dell’Eguaglianza secondo il Buonarroti si oppongono i nemici della felicità pubblica, ovvero chi può far a meno di lavorare, e spiega, che il popolo lavoratore non ha i mezzi materiali o è incapacitato a far trionfare l’Eguaglianza, accreditando così l’idea di élite illuminata. Ma una élite illuminata doveva per forza di cose, secondo il Buonarroti, elevarsi al di sopra della virtù stessa dettata dall’onestà di spirito e alla generosa ricerca di libertà. Il popolo, sanculotta, aveva rappresentato proprio questo limite. Spiega il Buonarroti: “Hébert e Danton diedero il nome a due fazioni che, sebbene egualmente ostili al governo rivoluzionario che avevano aiutato a costituirsi, differivano essenzialmente tra loro, sia per il fine cui tendevano, sia per il carattere degli individui da cui erano composte. Nelle file degli hébertisti non si contavano generalmente se non uomini laboriosi, retti, sinceri, coraggiosi, poco studiosi, estranei alle teorie politiche, che amavano sentimentalmente la libertà ed erano entusiasti dell’eguaglianza e impazienti di goderne. Buoni cittadini in una Repubblica popolare già costituita, cattivi piloti nelle tempeste che ne precedono la costituzione, non fu difficile indisporli contro il prolungarsi delle istituzioni rivoluzionarie, dipingendola ai loro occhi come un delittuoso attentato alla sovranità del popolo. […] I dantonisti non hanno diritto alla stessa indulgenza, perché il carattere predominante di questa fazione era una mescolanza di vanità, di intrigo, da audacia, di falsità, di venalità e di corruzione” [88]. Questo passaggio suona più che mai preveggente, se da un lato sembra nel descrivere gli hébertisti gli operaisti degli anni ‘80 del XIX secolo o gli anarco-sindacalisti a cavallo tra i due secoli, dall’altro lato sembra premonire i posteri sulla necessità di saper navigare nelle tempeste che diventerà vero e proprio emblema del leninismo e le sue varie derivazioni.
Saitta ha quindi anche analizzato gli elementi, molti a sua detta, che avrebbero portato ad una reinterpretazione da parte del Buonarroti di Robespierre e del Terrore: “come avviamento al comunismo”. Vi è: i. la componente sociale del maximum, ii. “l’attesa messianica, di una rivoluzione sociale” e la conseguente iii. rigenerazione morale; vi è: iv. la inesorabilità matematica della legge di ridistribuzione sociale, infatti, per stabilire il maximum si dovranno stabilire dei magazzini Nazionali dove conservare l’eccedenza prodotta e quindi permettere la sua ripartizione egalitaria. Solo la Repubblica, montagnarda, sarebbe stata in grado di provvedere a questa eguaglianza e libertà. Quando il 9 termidoro si affrettò a porre fine a questa economia, questa interpretazione che associava il robespierrismo all’avvento del comunismo non poté che accreditarsi [89]. L’associazione tra Robespierre e comunismo, o meglio collettivismo, non pare azzardata, neanche a Manacorda, che analizza: “Babeuf già nell’anno II aveva considerato i provvedimenti economici a favore delle classi povere con limitazioni poste alla proprietà e alla libertà di commercio e quindi come tappe sulla via dell’eguaglianza reale; e anche quando diventò avversario politico di Robespierre, prima e dopo il Termidoro, seguitò a distinguere sempre molto nettamente le ragioni della sua avversione politica, dal consenso, mai negato, all’azione economica di Robespierre così interpretata. Persino l’opuscolo ‘Du système de dépopulation’, che paradossalmente spiegava il Terrore come un mezzo per ridurre le bocche da sfamare proporzionandole alla disponibilità di viveri, lungi dal condannare in blocco il governo rivoluzionario, lo rimproverava solo su questo punto: Robespierre, secondo Babeuf, aveva pensato che per giungere a garantire la sussistenza di tutti i cittadini fosse necessario ridurre il numero dei consumatori sopprimendoli fisicamente, ma questo suo mostruoso errore si inscriveva tuttavia in un piano che mirava ad espropriare i ricchi, a riunire tutte le proprietà nelle mani dello Stato a ridistribuirle egualmente fra tutti i cittadini con il criterio della «legge agraria». […] Babeuf insomma, per dirla col Lefebvre, aveva finito «con rappresentare l’applicazione del ‘maximum’ come un antecedente del regime che egli sognava di istituire». […] All’indomani della approvazione del primo ‘maximum’ aveva già collegato l’affermazione del diritto di sussistenza con la limitazione del diritto di proprietà, che aveva contrapposto alla definizione di questo diritto data nella nuova 'dichiarazione dei diritti dell’uomo (Il diritto «di godere disporre a proprio piacimento dei propri beni, delle proprie rendite, dei frutti del proprio lavoro e della propria operosità»). I principi sostenuti da Robespierre: che il diritto di proprietà non può recare pregiudizio all’esistenza dei nostri simili e che la società ha l’obbligo di provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri procurando il lavoro o assicurando i mezzi di esistere a coloro che non possono lavorare. In omaggio alla verità gli Eguali dovevano perciò considerarsi «i secondi Gracchi della rivoluzione francese», ma che da questa ragione ideale la necessità di affermare la loro continuità con Robespierre era dettata da una ragione politica. Presentarsi nell’anno IV come continuatore di Robespierre era cosa «utile»: risuscitare Robespierre significava, infatti, «risvegliare tutti i patrioti energici della Repubblica, e con loro il popolo, che da tempo ascoltava e seguiva solo loro», perché «il robespierrismo è la democrazia, e i due termini sono perfettamente equivalenti» e dunque, risollevando il robespierrismo, si risollevava la democrazia. […] L’obiettivo vicino (la democrazia) doveva tendere a liberare le forze capaci di raggiungere l’obiettivo lontano (la ‘communauté’). […] la classe che Babeuf e gli Eguali conoscono e combattono è la borghesia mercantile e intellettuale; alle radici dell’ineguaglianza si ritrovano, infatti, soprattutto le differenze nate dall’esercizio del commercio e dei mestieri intellettuali […]” [90].
Una domanda però rimane, quale fosse stata la posizione di Robespierre nei riguardi della proprietà privata?
Nel discorso pronunciato alla Convenzione il 24 aprile 1793 Maximilien Robespierre si era espresso chiaramente sulla proprietà: “Che questa parola non metta in allarme nessuno. Anime vili, che stimate soltanto l’oro, non intendo affatto intaccare i vostri tesori, anche se la loro fonte è impura!”. Ma allo stesso tempo riconosce: “tuttavia siamo convinti che l’uguaglianza dei beni è una chimera. […] Si tratta ben più di rendere onorevole la povertà che non di proscrivere l’opulenza.” Robespierre sostiene il concetto borghese della ridistribuzione della ricchezza. Secondo Robespierre la Costituzione è manchevole nel definire la proprietà mentre: “Nel definire la libertà il primo dei beni dell’uomo, il più sacro tra i diritti che derivano dalla natura, avete detto con ragione che essa aveva per limite i diritti degli altri. E perché mai, allora, non avete applicato questo principio alla proprietà, che è una istituzione sociale? […]. Vi propongo di correggere questi difetti con il consacrare le seguenti verità: Art. 1 - La proprietà è il diritto di ogni cittadino di godere e di disporre della porzione di beni che gli è garantita dalla legge. Art. 2 - Il diritto di proprietà è limitato, come tutti gli altri, dall’obbligo di rispettare i diritti altrui. Art. 3 - Esso non può pregiudicare né la sicurezza, né la libertà, né l’esistenza, né la proprietà dei nostri simili.” E quale miglior metodo di ridistribuzione delle ricchezze se non l’imposta progressiva? “«I cittadini, le cui rendite non eccedono ciò che è necessario alla loro sussistenza, devono essere dispensati dal contribuire alle spese pubbliche; gli altri devono sopportarle progressivamente, secondo l’entità della loro fortuna»” [91].
Se per Robespierre il collettivismo era una chimera, concedendo che ognuno ritenesse la propria proprietà per poi ridistribuire la ricchezza secondo il patrimonio accumulato, per Babeuf il collettivismo era l’unico modo di ottenere l’Eguaglianza, ovvero l’abolizione della proprietà stessa. In Babeuf la soluzione, ovvero la chimera della quale parla Robespierre, consiste nell’individuare nella proprietà privata, anche se in modo naïve, o grezzo come direbbe Marx, il male originario della società. È probabile che questo abbia influenzato anche il bagaglio politico del comunismo critico. Come si legge nel Manifesto degli Eguali: “ci si accontenta con un Sole comune e con la stessa aria per tutti; perché le stesse porzioni e quantità di cibo non possono essere sufficienti per ognuno secondo la propria volontà [?]” [92]. L’oggettivazione economica di ciò, in termini maturi, ovvero la connotazione della proprietà in quella dei mezzi di produzione e nell’espropriazione di valore da parte del padrone, utilizzando le basi della teoria del valore-lavoro di Ricardo, costeranno, a Marx, anni di analisi e perfezionamento. Marx ha ragione nello scrivere che il co-cospiratore Buonarroti aveva reintrodotto Babeuf nel discorso politico, infatti, come abbiamo visto, una volta in Belgio, il Buonarroti si ritrovò con i vecchi giacobini rivoluzionari e pubblicò la Conspiration pour l’égalité dite de Babeuf nel 1828 (e abbiamo anche visto che il libro si diffuse rapidamente in Francia, in Belgio, in Inghilterra e in Germania). Questo, assieme alle idee socialiste utopiche in voga negli anni ‘40, andò ad influenzare anche i giovani hegeliani di sinistra come Marx rifugiatosi a Parigi nel 1843. Marx allora aveva 25 anni compiuti e si dedicò ad approfonditi studi della Rivoluzione francese, ed ovviamente lesse la Conspiration, scritta ormai 15 anni prima. Come al solito tutto questo viene riassunto bene da Marx nella Sacra Famiglia:
“Ciò che risulta incontestato da questo esame è che la rivoluzione francese ha suscitato idee che hanno condotto al di là delle idee dell’intero vecchio ordine mondiale. Il movimento rivoluzionario, che cominciò nel ‘Cercle social’ nel 1789, che nel mezzo del suo cammino ebbe per rappresentanti principali Leclerc e Roux[93], e che con la congiura di Babeuf fu temporaneamente sconfitto, aveva suscitato l’idea comunistica che Buonarroti, amico di Babeuf, tornò ad introdurre in Francia, dopo la rivoluzione del 1830. Questa idea, elaborata in maniera conseguente, è l'idea del nuovo ordine mondiale” [94]. Accanto all’idea di un nuovo ordine mondiale Babuef scrive su Le Tribun du Peuple che “Nulla di grande o degno per la gente sarà mai fatto eccetto che grazie alla gente stessa” [95], anticipando così il concetto che la “emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera della classe lavoratrice stessa” [96] . Giustamente, osserva Samuel Bernstein, Marx conobbe Babeuf tramite la Conspiration di Buonarroti ricevendo quindi un’incompleta valutazione del babuvismo. Marx apprezzò i babuvisti come vigorosi paladini della causa proletaria e constatò come questi avevano “imparato dalla storia che con la rimozione della questione politica di monarchia versus repubblica, non una singola questione sociale sarebbe stata risolta per il proletariato”, ma allo stesso tempo li vedeva come “crudi, materialisti incivilizzati”. Marx valutò che dati gli inesistenti prerequisiti materiali per una lotta di classe al tempo della Grande rivoluzione, la letteratura rivoluzionaria connessa ai movimenti rivoluzionari babuvisti non poteva che essere per forza reazionaria, predicando ascetismo universale e un egalitarismo grezzo [97]. Sembra quasi che il giovane Marx potesse prefigurare qui i vari discepoli di Blanqui all’opera.
Ora, tornando al Buonarroti, il suo egualitarismo si pone tra la concezione di Robespierre e quella di Babeuf, pendendo molto più verso Robespierre. Manacorda nota che il Buonarroti ha una visione dell’egualitarismo che deriva da quella di Rousseau. Mentre la concezione di Sylvain Marechal è più per un egualitarismo livellatore e sulla stessa falsariga è Babeuf [98]. Nota Saitta che se si prescinde dalla Conspiration il Buonarroti assai raramente fa menzione di Babeuf, ma il nome che più sovente appare nei suoi scritti è quello di Robespierre[99]. La Eisenstein riprendendo un commento di P. Robiquet fa notare che la politica di Buonarroti a favore del suffragio universale, e della tassazione basata sul reddito, era così vicina a quella radical-riformista del XIX secolo da poter benissimo essere stata quella del Ministro delle Finanze del Governo di Joseph Caillaux [100]. Sull’abolizione delle imposte indirette e dei tributi progressivi Garrone spiega come il Buonarroti fosse stato testimone delle disposizioni della Convenzione nel 1792 e 1793. E come gliene fosse rimasto un buon ricordo, nonostante l’effettiva inefficacia. Il Direttorio termidoriano ovviamente condannò come disastrosa l’imposta progressiva. Per il Buonarroti rimase un punto cardine del suo programma. Aggiunge Garrone: “Ma si comprende pure il perché Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito Comunista, annoverassero l’«imposta fortemente progressiva» tra quei provvedimenti da adottarsi nei paesi più progrediti: «misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia; ma che nel corso del movimento si spingono aldilà dei propri limiti e sono in evitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione»” [101].
Sempre in uno scritto giovanile di Marx, La Questione Ebraica, egli spende diverse pagine, sui “cosiddetti diritti umani”, analizzandoli nota che il concetto di égalité “nel suo significato non politico, non è altro che l’eguaglianza della […] ‘liberté’ ”, ovvero, come scritto nella Costitution del 1795: “L’eguaglianza consiste nel fatto che la legge è uguale per tutti, sia che essa protegga, sia che essa punisca”, e che la liberté come definita nella dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1791, “consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri” e “L’applicazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata”, ovvero “di godere arbitrariamente (‘ à son gré ’), senza alcuna relazione con gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre dello stesso”, conclude Marx: “Nessuno dei cosiddetti diritti umani va dunque oltre l’uomo egoista”. Inoltre Marx appunta che la prassi rivoluzionaria è in pura contraddizione con la teoria, notando come a nome della difesa di tali diritti questi vengano allo stesso tempo annientati. Marx porta come esempio proprio Robespierre che afferma: “La libertà di stampa non deve essere consentita se compromette la libertà pubblica”. Commenta Marx: “il diritto dell’uomo alla libertà cessa di essere un diritto non appena esso entra in conflitto con la politica, mentre in teoria la vita politica è solo la garanzia dei diritti dell’uomo, dei diritti dell’uomo individuale, e deve dunque essere abbandonata, non appena essa contraddice il suo scopo, cioè questi diritti umani”. Conclude Marx, citando il Contrat Social di Rousseau, che l’emancipazione dell’uomo necessita della sua trasformazione a cittadino astratto, ovvero membro della collettività, che avrà organizzato le proprie forze come forze sociali, dicendola alla Rousseau: “occorre che egli sottragga all’uomo le sue forze proprie per dargliene altre che gli siano estranee e delle quali non possa fare uso senza l’aiuto altrui”; quindi chiude Marx: “e dunque non separerà più da sé la forza sociale nella figura della forza politica”.[102] In questo modo Marx supera la contraddizione insita tra difesa della libertà di godere della proprietà privata individuale e della eguaglianza in tale libertà. È un Marx ancora “moralista”, che non ha del tutto approfondito la natura economica di questa contraddizione, ma ha già spazzato via l’inadeguatezza della proposta più radicale di egalitarismo settecentesco, in un colpo isolando la vera essenza della futura società socialista, ovvero il necessario abbandono dell’individualismo del singolo a favore del collettivismo sociale.
Nel 1851 in merito alla violenta critica di P.-J. Proudhon nei riguardi del Contrat Social di Rousseau[103], Marx commenta in una lettera a Engels: “il libro contiene attacchi ben scritti a Rousseau, Robespierre e la Montagna”[104], quindi ad una risposta dettagliata di Engels relativa alla Idée générale de la révolution di Proudhon (soprattutto alla parte economica e con nessun riferimento agli attacchi ai due illuministi del XVIII secolo) Marx risponde in un’altra lettera ad Engels, forse per reiterare l’ironia precedente non colta: “Per quanto riguarda Louis Blanc, ecc., il pezzo è capitale, specialmente per via della sua effusione birichina su Rousseau, Robespierre, Dio, fraternité e giochetti simili” [105]. L’acuto amico quindi non può ora esimersi dal commentare e in una successiva lettera meno indulgente, sarcasticamente scrive: “Ci sono una o due cose carine negli attacchi a L. Blanc, Robespierre, e Rousseau, ma nell’insieme sarebbe difficile trovarli poco più che pretenziosamente insipidi della sua critica politica, p. es. in merito alla democrazia, nella quale, come il ‘Neue Preussische Zeitung’ e tutta la vecchia scuola storica, se ne esce con un conteggio di teste, e quindi, senza arrossire, tira fuori sistemi dal nulla, deliberazioni pratiche degne di uno scolaretto ”[106]. Quindi se da un lato Marx apprezzava la dissacrazione che Proudhon aveva fatto di Rousseau e Robespierre, Engels ne sembrava un po’ infastidito, probabilmente per la mancanza di una sostanza che andasse oltre la critica. In effetti Proudhon scrivendo dopo la delusione del 1848, era stanco del “culte des anciens révolutionnaires”, ovvero il culto dei vecchi rivoluzionari influenzati da Rousseau: “la cui autorità ci ha governato da più di un secolo, non ha capito nulla di contratto sociale”. Proudhon vede addirittura nel ‘93 una deviazione che ha portato a 57 anni di sterili sconvolgimenti, che “spiriti più ardenti che riflessivi vorrebbero farci riprendere come tradizione sacra”[107]. Frustrazione comprensibile, se si paragona all’esperimento dell’Unione Sovietica di settant’anni dopo. Ma come può far accapponare la pelle un attacco diretto a Marx per i misfatti sovietici, in qualche modo dovrebbe fare lo stesso effetto l’attribuire a Rousseau i misfatti dei giacobini durante il Terrore. In realtà Proudhon è più interessato ad attaccare il concetto, illusorio, di contratto sociale come pensato da Rousseau. Contratto che non necessariamente tutelerebbe tutti allo stesso modo, diventando addirittura una frode, perché tutelerebbe chi possiede a scapito di chi non possiede, concetto che suona un po’ come quello espresso dal Buonarroti. E, continua Proudhon, i poveri non avrebbero pari opportunità di rappresentanza. Per Proudhon le idee rousseauiane sono state addirittura deleterie, in quanto: “La moda di Rousseau è costata alla Francia più oro, più sangue, più vergogna, dell’odiato regno delle tre famose cortigiane, Cotillon I, Cotillon II, Cotillon III (la Châteauroux, la Pompadour e la du Barry)” [108]. Il lavoro retorico di Rousseau aveva quindi distratto dalle basi della negazione del Governo, ma questo stesso logorandosi, avrebbe dato vita al Socialismo[109]. Insomma, l’associazionismo “autonomo”, che è un dogma, diventa la soluzione, almeno per le grandi industrie, che diventerebbero compagnies ouvrières, dove il profitto e i costi sono divisi tra i lavoratori secondo il loro contributo. Se la critica a Rousseau e Robespierre è fondata, nel senso che la loro nuova forma di Governo non è universalmente così egalitaria come questi credono, la soluzione di Proudhon è un capitalismo riformato a favore della piccola borghesia “spogliata dalle sue tendenze maligne”. L’egalitarismo di Proudhon divine ancora una volta una ripartizione, invece che tramite le imposte, tramite i dividendi. Quello che emerge da questa critica è però la dissacrazione della componente “protocomunista” del robespierrismo-rousseauiano tanto centrale nel pensiero del Buonarroti. Nonostante questi attacchi proprio dalla sinistra più vicina alla classe lavoratrice, il giacobinismo rimase una caratteristica viva sia nei repubblicani radicali che in molti socialisti francesi. Questo giacobinismo si paleserà ancora durante la Comune di Parigi nel 1871 e nelle fila dell’Union Sacrée nel 1914. Semplicisticamente l’egalitarismo rousseauiano e il repubblicanesimo patriottardo robespierriano non appartengono a Marx. Ma appaiono “rientrare sovente dalla finestra” nel marxismo. Galvano della Volpe negli anni ‘70 del XX secolo aveva cercato di riconciliare Marx con Rousseau sul concetto di égalité. In soldoni per della Volpe Marx fa notare nella Critica al Programma di Gotha che convertendo il valore di eguaglianza in diritto diviene palese che per tener conto delle differenze naturali tra persone tale diritto deve essere ineguale, e che Rousseau aveva già notato ciò nel suo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes del 1755 con il suo concetto egualitario, non-livellatore dell’individuo. Marx risolve questo paradosso, notando che solo quando il lavoro salariato sarà abolito, ma anche la divisione del lavoro e la capacità produttiva aumentata, si potrà usare il vero baluardo socialista: “Ognuno secondo le sue capacità, ognuno secondo i suoi bisogni” [110]. Nella lettera a Schweitzer del 1865, Marx afferma: “Si è spesso paragonato Proudhon a J.-J. Rousseau. Nulla di più falso [contro il] ciarlatanismo scientifico e accomodamenti politici [del primo, spicca il] tratto morale, che per esempio preservò Rousseau da qualsiasi compromesso anche apparente con i poteri costituiti”.
La dittatura
Il babuvismo, soprattutto la componente cospirativa, influenzò molto il cospirazionismo rivoluzionario di Auguste Blanqui, il quale, a sua volta, avrà un grande ascendente su diversi rivoluzionari avanguardisti. Secondo alcuni il concetto di dittatura del proletariato di Blanqui, e quindi quello di dittatura della classe lavoratrice di Marx ed Engels, derivano dal babuvismo.
Marx sottolinea che “La storia vera della rivoluzione francese, che data dal 1789 in poi, non è neppure compiuta con l'anno 1830, in cui uno dei suoi momenti, ora arricchito dalla coscienza della sua importanza sociale, ne riportò la vittoria” [111]. Infatti si può dire che questa continuò con quella del 1848, che per dirla con Engels andò oltre “(il periodo di scadenza delle rivoluzioni europee, 1815, 1830, 1848-52, 1870 va nel nostro secolo dai 15 ai 18 anni), dovrà certamente, in un primo tempo, andar al potere in Germania per salvare la società dagli operai comunisti” [112]. Come sappiamo oggi, ci furono poi la Prima e la Seconda guerra mondiale a salvare la Germania dai comunisti. Senza addentraci ora nel discorso della rivoluzione e contro-rivoluzione tedesca del 1918-19, sta di fatto che nel XX secolo l’ultimo grande sistema ancora semi-feudale in Europa fu abbattuto dalla rivoluzione di febbraio in Russia e con il colpo di stato d’ottobre sembrò che i “giacobini di sinistra” fossero tornati in vita.
Manacorda osserva: “L’idea di «dittatura di classe del proletariato» si distacca, infatti, dall’idea della dittatura di uno solo o di pochi rivoluzionari «virtuosi», perché presuppone la teoria della lotta politica come lotta fra classi sociali antagonistiche; ed è noto che Marx, mentre ha dichiarato di non essere lui lo scopritore della «lotta di classe», ha invece rivendicato a se stesso, come elemento originale qualificante del suo pensiero, la teoria della dittatura del proletariato come conclusione necessaria della lotta di classe fra proletariato e borghesia e come «transizione alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi» [Lettera a J. Weydemyer, 5 marzo 1852]” [113]. “Il Trélat, il Raspail, Louis Blanc, molti altri esponenti del partito repubblicano non erano certo dei babuvisti, erano, più o meno, lontani dai suoi [del Buonarroti] ideali di comunismo egualitario, spesso non condividevano neppure i suoi programmi di dittatura provvisoria: eppure scrissero di lui con ammirazione commossa […]. E appunto per questo che Godefroy Cavaignac [fratello di Louis-Eugène Cavaignac, ovvero quello della rivoluzione del 1848], che impersonava meglio d’ogni altro questo culto entusiastico per la rivoluzione, aveva voluto che il nome del Buonarroti figurasse tra i collaboratori della silloge da lui preparata e diretta, ‘Paris révolutionnaire’ ” [114]. “Più delicato, storicamente, è il problema del rapporto fra la nozione buonarrotiano-blanquista della dittatura rivoluzionaria e il principio marxista della dittatura del proletariato. Non basta dire, come si è detto, che si tratta del passaggio della «dittatura in favore del proletariato» alla «dittatura del proletariato». Alla base dell’idea di Marx, c’è un concetto totalmente nuovo della storia e dell’economia.” [115].
Per il Buonarroti la dittatura rivoluzionaria, per aumentarne la possibilità di esito positivo, è da concentrarsi in un uomo solo, un uomo “dabbene”, siccome ai mali estremi occorrono estremi rimedi. Questo concetto viene preso ed elaborato da Blanqui che nella sua Société des Saisons, formula il concetto di rimedi eroici che temporaneamente deleghino il potere ad un gruppo rivoluzionario. Una vera e propria dittatura popolare per “modellare i costumi, distruggere gli ostacoli, spianare le vie che devono condurre all’applicazione dei principi” [116]. Sul concetto di dittatura rivoluzionaria, secondo Saitta, il Buonarroti “non è [per la] dittatura di classe né di partito, e resta pur sempre «racchiusa entro il mitico bozzolo razionalista e moralistico del rivoluzionamento giacobino»”[117]. “[…] Il vero erede di questa idea sarà il Blanqui. Egli probabilmente ne attinse fin dai primi anni della monarchia di luglio, leggendo la ‘Conspiration’ e conversando con il Buonarroti e con i suoi seguaci, e ne fece uno dei pochi capisaldi della sua dottrina, del suo programma d’azione […]. Anch’egli diffidava come il Buonarroti del suffragio universale all’indomani dell’insurrezione. […]. Un indirizzo della Société Républicaine Centrale che era il “club dei bianchi”, diceva fra l’altro: «Nelle città, la classe dei lavoratori, avvezza al giogo da lunghi anni di compressione e di miseria, non prenderebbe parte alcuna agli scrutini, o vi si lascerebbe condurre dei suoi padroni, come cieco bestiame. Nelle campagne, tutte le influenze sono nelle mani del clero e delle aristocrazie… Il popolo ancora non sa: bisogna che sappia. Non è l’opera di un giorno né di un mese. Dopo che la controrivoluzione ha avuto sola la parola da cinquant’anni, non è forse troppo accordarla per un anno alla libertà… Bisogna che la luce giunga fin nei più piccoli tuguri; bisogna che i lavoratori rialzino la fronte curvata dalla servitù e si riscuotano dallo stato di prostrazione e di stupefazione in cui li tengono le caste dominanti […]. L’elezione immediata dell’Assemblea nazionale sarebbe un pericolo per la Repubblica… Non dimenticate che fra le elezioni fatte domani o di qui a sei mesi c’è un abisso. Il voto oggi, sarebbe una sorpresa, è una menzogna; con la discussione, diventerà una verità, ma bisogna lasciare il campo alla discussione»”. Secondo Blanqui “Un anno di dittatura parigina nel 1848 avrebbe risparmiato alla Francia un venticinquennio di sciagure” [118].
Secondo Garrone (confermato da Lefebvre) il concetto di dittatura rivoluzionaria derivava da Marat e Hébert, senza un disegno organico, mentre per Babeuf diventava una necessità per scongiurare un contrattacco dei conservatori, ma è con Blanqui che riallacciandosi alla tradizione babuvista, grazie alla Conspiration, del Buonarroti, rilancia l’idea della dittatura di una élite rivoluzionaria ristretta. “[…] Marx ed Engels, davano un posto di rilievo al babuvismo, che giudicavano come la prima apparizione di un partito comunista che avesse fatto una reale agitazione «all’interno della rivoluzione borghese», come uno dei primi tentativi del proletariato di far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un’età di effervescenza generale, nel periodo di rovesciamento della società feudale.” [119]. Allo stesso tempo, come già citato, “nulla Marx ed Engels […] ritenevano di poter attingere da questa letteratura, che essi giudicavano «reazionaria quanto al contenuto» perché «insegna un ascetismo generale e un rozzo egualitarismo»” [120]. Manacorda riferisce che Delio Cantimori notasse che Marx “ha sempre considerato Babeuf e Buonarroti di grande importanza politica e storica, […] di scarsa importanza quanto la teoria” [121]. Blanqui è profondamente influenzato dal pensiero del Buonarroti, come specifica Garrone: “L’ardore messianico e rivoluzionario degli Amis de Peuple, che il Buonarroti aveva concorso a suscitare con la propaganda e le iniziative pratiche (si pensi al Belgio e all’Italia), si mescola nel Blanqui ad un esasperato senso della lotta di classe. […] il Blanqui riprende e porta all’estremo quello che era stato l’atteggiamento del Buonarroti di fronte al Cousin e al costituzionalismo liberale” [122]. Scrive Blanqui, riferendosi alla rivoluzione di Luglio: “«Il popolo che ha fatto tutto, è rimasto uno zero come per l’innanzi. Ma un fatto terribile è accaduto. Il popolo è entrato bruscamente, come un colpo di tuono, sulla scena politica che ha conquistata d’assalto, e sebbene scacciato quasi nello stesso istante, ha pur non di meno fatto atto di dominio…Ormai una guerra accanita sta per scatenarsi fra lui e la classe media». Il «fatto terribile» a cui Blanqui alludeva, che veramente ebbe un’importanza decisiva nella storia del movimento operaio e democratico in Francia, era l’insurrezione lionese del novembre del 1831” [123]. Nel periodo che va dal 1833 e il 1834 Blanqui esprime idee puramente buonarrotiane, e babuviane sull’eguaglianza e il declino del diritto di proprietà. Il Blanqui nota che tra la schiavitù dei neri e le condizioni dei lavoratori non vi è una sostanziale differenza. Ma come notato dal Garrone, l’elemento originale di Blanqui nello scritto del 1834, Qui fait la soupe doit la manger, porta il problema a livello di appropriazione degli strumenti di lavoro e di produzione piuttosto che a quello di distribuzione. Originalità notata da Malon e dal Garaudy, tanto da vederci l’origine del collettivismo in Europa [124].
La democrazia liberale
Il legame con il pensiero del Buonarroti rimase in vita soprattutto in Belgio ed in Inghilterra. In Belgio principalmente tramite il giornale Le Radical, del quale uno dei suoi fondatori Jottard sarà poi nel 1847 presidente dell’Associazione Democratica della quale Karl Marx fu vicepresidente. In Inghilterra grazie al lavoro dell’irlandese James Bronterre O’Brian il quale contribuiva a diversi giornali: Destructive and Poor Man’s Conservative, il Two Penny Dispatch, il London Dispatch, il National Reformer e il Poor Man’s Guardian. Il Buonarroti ebbe un buon seguito tra i cartisti emergenti in Inghilterra proprio in quel periodo. Il Buonarroti aveva fatto riferimento alle dottrine di Owen in una nota anche nella Conspiration e O’Brian, critico di Owen, se ne era avvicinato proprio tramite la lettura della Conspiration e ne fu così colpito che decise di tradurlo per il Poor Man’s Guardian, quindi come principale redattore politico del Destructive and Poor Man’s Conservative aveva adottato un motto del Buonarroti e riportava articoli di chiara ispirazione buonarrotiana. Nota Garrone “C’è più modernità negli scritti di O’Brian, un senso più schietto del mondo operaio e delle sue esigenze, una più realistica visione delle classi e delle dure lotte, un bel minore residuo di moralismo utopistico. E che il suo stile personalissimo, di un’efficacia inconfondibile. Qualcuno ha perfino notato l’influenza che certi neologismi da lui coniati, come quello di ‘shopcrats’, gli aristocratici di bottega, hanno avuto sullo stile di un Marx” [125].
Nonostante una certa popolarità tra i cartisti inglesi il Buonarroti non nascondeva la sua avversità contro il sistema di governo anglosassone. Garrone spiega che le deplorazioni di Rousseau, Mably, Linguet, così come la posizione di Levasseur contro la monarchia costituzionale inglese, non bastano a spiegare: “il sentimento anti-britannico del Buonarroti. Alla radice di questo, suo atteggiamento, che non era puramente sentimentale, ma politico, era la severa condanna, da un punto di vista sociale, dello spirito aristocratico, egoisticamente conservatore, delle caste dirigenti dell’isola” [126]. Con la Restaurazione dei Borbone vi fu anche un ritorno di interesse per il pensiero di Voltaire e Rousseau, osteggiati entrambi dai conservatori, condannati in ugual misura dai cattolici e visti con simpatia dai liberali, ma a questa comunanza il Buonarroti si opponeva, per via dello scetticismo insito nel pensiero di Voltaire. Mentre per il Buonarroti, come per altri neo-giacobini, il bisogno di un Essere Superiore era necessario, e Robespierre diventava il vero e proprio profeta di questa tendenza. Soprattutto negli anni ‘30 e ‘40 dell’Ottocento la rivalutazione della figura di Robespierre diventò importante tra i repubblicani radicali, con una comunanza frequente tra Robespierre e Gesù, per antonomasia la figura di predicatore di eguaglianza e virtù. Questo dualismo Voltaire-Rousseau rappresentava in ultima analisi il contrapporsi del modello della monarchia costituzionale inglese con quello della Repubblica giacobina. Il Buonarroti vedeva il liberalismo inglese come una illusione che mascherava interessi individuali di realtà conservatrici e aristocratiche ancora dominate da privilegi della ricchezza e dallo spirito feudale. Interessante è quindi la sua critica nei confronti del sistema americano. La democrazia degli Stati Uniti per il Buonarroti altro non era che un bluff in quanto gli Stati Uniti erano semplicemente “un regime feudale vestito in forma democratica”, ovvero una corporazione di mercanti e proprietari terrieri. Vedere gli Stati Uniti come un simbolo di democrazia sarebbe stato quindi un grande abbaglio in quanto questi erano il prodotto di una aristocrazia e dell’egoismo.
Altro esempio dell’atteggiamento del Buonarroti nei confronti del liberalismo è la sua critica a Victor Cousin. Questo professore già negli anni ‘18-‘20 (poi esiliato in Germania ma nel frattempo era tornato in cattedra) ripropone un liberalismo moderato e quindi essenzialmente cristiano-conservatore. Mentre per il Buonarroti l’eguaglianza e il principio comunitario vengono prima di tutto: “Non bisogna certo […] vedere a tutti i costi nel Buonarroti un anticipatore di più moderne e mature tendenze socialistiche […] e sembra arrischiato parlare, col Bernstein, di un suo avvicinarsi al socialismo scientifico. Ma bisogna anche vedere, sotto il velame delle posizioni settecentesche a lui care (la «virtù», l’«avarizia e l’ambizione», i «ricchi e i poveri») la concreta realtà di una polemica politica sociale. […] Egli teme inoltre che la concezione sansimoniana del progresso, di un costante e irresistibile progredire dell’umanità verso la meta già segnata, fuor delle singole volontà individuali, possa infiacchire gli animi, adagiandoli in una passiva attesa degli eventi. […]. Concludendo, non sembra esatto dire, come si è detto, che il Buonarroti negasse ogni validità al sansimonismo. Oltre i motivi di consenso che sopra si son visti, altri egli ne avrebbe rilevati, se nel 1830 avesse potuto leggere il testo completo della ‘Exposition’: le polemiche contro gli economisti inglesi e il sistema della concorrenza e del ‘laissez faire’, contro le ‘garanties del Costant’ […] e in genere il costituzionalismo, contro il liberalismo del « Globe » e gli idoleggiamenti della Carta nel Cousin, i giudizi negativi sulla Santa Alleanza e sulla politica « liberale » degli Stati Uniti, l’insofferenza dei sarcasmi voltairiani, e così via” [127].
Poco prima della sua morte il Buonarroti scrisse Observations sur Maximilen Robespierre, pubblicate postume sul giornale belga Le Radical; questa del Buonarroti è una chiara glorificazione di Robespierre, che secondo il pensatore toscano, arrivava già agli Stati Generali con le idee ispirategli da Rousseau in favore della povera gente e di disprezzo per il monarca, fino alla sua esecuzione perché incompreso data la sua purezza di spirito votata al raggiungimento della virtù. Sempre secondo il Buonarroti, Robespierre, spinto dalla sua fede per la virtù, credeva che questa andasse imposta dall’alto, la rivoluzione non doveva essere una ridistribuzione della ricchezza dall’aristocrazia parassitaria alla ricca borghesia cittadina, ma il trionfo della legge dell’eguaglianza. Gli hébertisti predicavano la violenza, l’immodestia e l’ateismo bloccando così i risultati della rivoluzione, e disgustando la gente comune per le loro atrocità. Danton, sempre secondo il Buonarroti, era troppo occupato ad arricchirsi ed interessato al potere, sicuramente non così interessato alla virtù. Robespierre si trovò costretto a combattere contro tutti, la corte, i nobili, i preti, la borghesia, i girondini, i Montagnardi immorali, gli estortori e gli ingannatori del popolo e questo segnò la sua condanna [128]. Gli ultimi anni del Buonarroti sono descritti dalle testimonianze di persone vicine a lui, Luis Blanc o Bronterre O’Brein, come di grande malinconia: nonostante l’età, si racconta, poteva scoppiare in lacrime alla sola menzione del nome di Robespierre.
È importante, e condivisibile, la posizione della Eisenstein la quale ritiene che il Buonarroti non può essere pensato come l’anello di congiunzione tra Babeuf e Marx, poiché Marx mostrava poca simpatia verso quel tipo di rivoluzionario, ma si può altresì constatare che Marx lesse Babeuf tramite la Conspiration del Buonarroti. Buonarroti fu promotore per una sorta di gradualismo. Il Buonarroti in fin dei conti è un giacobino, strettamente legato al pensiero espresso nel Contract Social da Rousseau, e il suo pensiero non ha creato nulla di davvero originale, quindi parlare di buonarrotismo è probabilmente fuorviante. La Eisenstein ritiene però che il Buonarroti sia stato il capostipite, grazie alla sua ferrea fede nei principi idealisti del Settecento e alla sua longevità, di quello che diventò la figura del rivoluzionario di mestiere alla Blanqui, Bakunin e, solo dopo, Lenin. Elizabeth Eisenstein conclude che il Buonarroti operò in un vuoto istituzionale, nella più totale segretezza, alla ricerca di una Repubblica che infine non superò mai il concetto della Nazione-Stato sul modello dell’Europa Occidentale, inseguendo lil modello della Repubblica giacobina del 1793 [129].
Il lascito del Buonarroti fu portato avanti principalmente da Charles Teste: “Notava il Bouton che i comunisti umanitari, capeggiati dal May, si erano formati alla scuola del Teste; che tutte le società segrete sorte in Francia tra il 1830 e il 1839 avevano risentito, più o meno, del suo influsso; che non pochi dei comunisti processati nel maggio del 1839 erano stati suoi discepoli […]. Il Teste pubblicò nel 1833 il ‘Projet de constitution républicaine’ che ebbe un grande contributo del Buonarroti. In questo lavoro vi sono tratti marcatamente buonarrotiani, come la concessione della cittadinanza francese agli stranieri a condizione di non condividere l’ideologia dei tiranni e degli aristocratici stranieri, il suffragio universale con limite a chi esponga apertamente idee contrarie agli interessi popolari. Il ‘Projet’ costituiva anche il programma della società dei ‘Veri Italiani’ ” [130].
In conclusione col Buonarroti si può sì parlare di proto-comunismo ma difficilmente si può andare oltre. Il socialismo scientifico marxista aveva preso in considerazione gli insegnamenti del pensiero radical-illuminista francese così come aveva rielaborato, capovolgendolo, l’idealismo tedesco, approfondendo l’analisi economica tipica del mondo anglosassone. Il debito verso il Buonarroti è probabilmente più da vedersi nel movimento operaio francese, si considerino i fatti di Lione, e forse anche nel movimento risorgimentale repubblicano italiano, con le dovute cautele del caso circa la sua effettiva influenza.
Cesco
[1] Queste poi si fusero in una singola setta (“Adelfia”), cfr. Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[2] Idem.
[3] ARTHUR LEHNING. BUONARROTI: AND HIS INTERNATIONAL SECRET SOCIETIES. International Review of Social History. Vol. 1, No. 1 (1956), pp. 112-140 (29 pagine).
[4] Claude-François de Malet (1754-1812) di origine nobile, moschettiere del re, aveva aderito alla Rivoluzione e combattuto nel suo esercito, era un ardente repubblicano e non vide di buon occhio l’ascesa di Napoleone. Nel 1805 fu nominato brigadiere generale di una brigata dell’Armata Italiana; quindi, servì nell’Armata Napoletana e divenne Governatore di Pavia e poi di Roma, ma nel 1807 fu sospeso, per appropriazioni indebite, dal viceré Eugenio, figliastro di Napoleone, e fu rimandato in Francia dove (per ordine di Napoleone) terminò la sua carriera militare. Entrò nella massoneria così come nella società dei Philadelphes che cospirava contro Napoleone. Nel giugno 1808, approfittando dell’assenza di Napoleone, che era sui Pirenei, partecipò a un tentativo di colpo di stato, per il quale aveva fatto affiggere manifesti a Parigi dove si annunciava la decadenza di Napoleone e la nascita di un nuovo governo controllato proprio da Malet e Moreau. Fu quindi arrestato e poté lasciare la prigione di Sainte-Pélagie, solo per motivi di salute mentale, ottenendo il trasferimento presso un manicomio. La notte del 22 ottobre 1812 riuscì a scappare da una seconda casa di cura, assieme all’abate Lafon, suo complice. Il giorno successivo si presentò in alta uniforme di generale. Si recò insieme a due complici, un caporale della Guardia Nazionale, vestitosi da aiutante di campo del generale, e uno studente, travestito da commissario di polizia, presso la caserma Popincourt dove stava la X coorte della Guardia Nazionale, dicendo di essere il generale Lamotte e dichiarando che Napoleone era morto sotto le mura di Mosca in Russia e che il Senato era tenuto a stabilire un nuovo governo. Dopo essere riuscito a ottenere il comando della X coorte si recò alla prigione La Force dove era stato detenuto anni prima per liberare due generali repubblicani co-cospiratori, Lahorie e Moreau. Riuscì a mandare truppe al Hôtel-de-ville (il Municipio), e quindi si recò a casa del generale Huiln, che chiese spiegazione e venne freddato da un colpo di pistola sparato da Malet. Ma subito dopo, mentre cercava di raccogliere più uomini, il Colonello Doucet e il maggiore Laborde lo riconobbero e lo arrestarono. Il 28 ottobre venne processato e il 29 giustiziato.
[5] ARTHUR LEHNING. BUONARROTI: AND HIS INTERNATIONAL SECRET SOCIETIES. International Review of Social History
Vol. 1, No. 1 (1956), pp. 112-140.
[6] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[7] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[8] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol 15. Treccani. 1972.
[9] Idem.
[10] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[11] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[12] ARTHUR LEHNING. BUONARROTI: AND HIS INTERNATIONAL SECRET SOCIETIES. International Review of Social History. Vol. 1, No. 1 (1956), pp. 112-140.
[13] Idem.
[14] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[15] ARTHUR LEHNING. BUONARROTI: AND HIS INTERNATIONAL SECRET SOCIETIES. International Review of Social History. Vol. 1, No. 1 (1956), pp. 112-140 (29 pagine).
[16] Idem.
[17] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[18] Voyer d’Argenson era nipote del marchese D’Aregenson appunto vissuto nel ‘700, che aveva pubblicato già nel 1765 le Considérations sur le gouvernement ancien et présent de la France già scritte nel 1737, attaccando, anni prima della rivoluzione, il regime feudale. Il nipote aveva incominciato la sua carriera sotto Napoleone, nominato Prefetto del Belgio nel 1809. Ma era entrato in contrasto con l’imperatore e nel 1813 aveva dato le dimissioni. Entrò quindi alla Camera dei Deputati durante la Restaurazione, schierandosi all’estrema sinistra. Nel 1824 esplicitò le sue idee egualitarie. Nel 1828 tenne un discorso alla Camera dove esponeva le sue idee in materia economica. Quindi nel 1829 diede le dimissioni da deputato. Le sue idee in materia sociale erano già formate prima che conoscesse il Buonarroti quando quest’ultimo si trasferì a Parigi nel 1830. In materia economica il D’Argenson era più preparato e agguerrito. Il D’Argenson prende parte col Teste alla società dei Droits de l’Homme. Per Saitta si venne a formare un trio inscindibile tra Buonarroti-Teste-D’Argenson. [Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972].
[19] ARTHUR LEHNING. BUONARROTI: AND HIS INTERNATIONAL SECRET SOCIETIES. International Review of Social History Vol. 1, No. 1 (1956), pp. 112-140 (29 pagine).
[20] Idem.
[21] Francese benestante al fianco di Napoleone durante la Chambre des Cent-jours nel 1815, dal Buonarroti prendeva lezioni di italiano e musica.
[22] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[23] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[24] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. 1972 Einaudi.
[25] Idem.
[26] “Un momento prima della nostra condanna, sui banchi dell’alta corte di Vendôme, mentre la scure aristocratica stava per colpirli, Babeuf e Darthé ricevettero da me una promessa di vendicare la loro memoria, pubblicando un’esposizione esatta delle nostre comuni intenzioni, che erano state così stranamente sfigurate dallo spirito di parte.” [da Filippo Buonarroti. Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf (1828). Introduzione e traduzione di Gastone Manacorda. Editore Einaudi, 1971.]
[27] Arthur Lehning. Buonarroti et la révolution belge de 1830 Annales historiques de la Révolution française. 32e Année, No. 162, BI-CENTENAIRE DE LA NAISSANCE DE BABEUF (1760-1797) (Octobre-Décembre 1960), pp. 530-536.
[28] Alessandro Galante Garrone. FILIPPO BUONARROTI E L'APOLOGIA DEL TERRORE. Belfagor. Vol. 2, No. 5, pp. 531-551 (1947).
[29] Idem.
[30] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. 1972 Einaudi.
[31] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[32] Idem.
[34] Arthur Lehning, Buonarroti’s Ideas …”. International Review of Social History (1957).
[35] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[36] Idem.
[37] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[38] Idem.
[39] Idem.
[40] Idem.
[41] Idem.
[42] Idem.
[43] Idem.
[44] Idem.
[45] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[46] Idem.
[47] Idem.
[48] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. 1972 Einaudi
[49] Idem.
[50] Idem.
[51] Idem.
[52] Idem.
[53] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[54] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972
[55] Idem.
[56] Jaap Kloosterman. AN UNPUBLISHED LETTER OF FILIPPO BUONARROTI TO CHARLES TESTE. International Review of Social History. Vol. 33, No. 2, pp. 202-211 (1988).
[57] Armando Saitta. IL ROBESPIERRISMO DI FILIPPO BUONARROTI E LE PREMESSE DELL'UNITÀ ITALIANA. Belfagor
Vol. 10, No. 3 (31 MAGGIO 1955), pp. 258-270 (13 pagine).
[58] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[59] Idem.
[60] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[61] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[62] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[63] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[64] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[65] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959.
[66] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959
[67] Alessandro Galante Garrone. FILIPPO BUONARROTI E L'APOLOGIA DEL TERRORE. Belfagor. Vol. 2, No. 5, pp. 531-551. (1947).
[68] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[69] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[70] Idem.
[71] Idem.
[72] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[73] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[74] Idem.
[75] Idem.
[76] Idem.
[77] Armando Saitta. Filippo Buonarroti. Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. 15. Treccani. 1972.
[78] Buonarroti e gli altri congiurati dovettero rispondere all’Alta Corte di Vendôme, nel 1796, attorno alle dottrine di J. J. Rousseau: “Dio di libertà, divino Jean-Jacques, tu che mi hai iniziato ai misteri della filosofia, tu che mi hai strappato dal mio paese, dalla mia famiglia, dai miei amici […] tu che mi hai infiammato con il sacro amore della virtù, raddoppiato il mio coraggio e hai accentuato la forza di distruggere i sofismi dei nemici di un paese le cui fondamenta tu hai gettato!” [da Lehning , op. cit.].
[79] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. 1972 Einaudi
[80] Idem.
[81] Armando Saitta. IL ROBESPIERRISMO DI FILIPPO BUONARROTI E LE PREMESSE DELL'UNITÀ ITALIANA. Belfagor
Vol. 10, No. 3 (31 MAGGIO 1955), pp. 258-270.
[82] Idem.
[83] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[84] Filippo Buonarroti. Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf (1828). Introduzione e traduzione di Gastone Manacorda. Editore Einaudi, 1971.
[85] Idem.
[86] Idem.
[87] Idem.
[88] Idem.
[89] Armando Saitta. IL ROBESPIERRISMO DI FILIPPO BUONARROTI E LE PREMESSE DELL'UNITÀ ITALIANA. Belfagor
Vol. 10, No. 3 (31 MAGGIO 1955), pp. 258-270.
[90] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[91] Tratto dalla traduzione fornita in [La rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 118-126].
[92] Manifesto degli Eguali di Sylvain Maréchal 1797 citato da Weatherly, U. G., Babeuf's Place in the History of Socialism. Publications of the American Economic Association 3rd Series, Vol. 8, No. 1, Papers and Proceedings of the Nineteenth Annual Meeting, Providence, R. I., December 26-28, 1906. pp. 113-124. (1907).
[93] Théophile Leclerc e Jacques Roux furono due esponenti sans culotte radicali, gli enragé, ovvero gli arrabbiati.
[94] Friedrich Engels. e Karl Marx. La Sacra famiglia, ossia Critica della critica critica contro Bruno Bauer e consorti (1844).
[95] Samuel Bernstein. Babeuf and Babouvism, II Science & Society Vol. 2, No. 2. pp. 166-194. (1938).
[96] Karl Marx. Gli Statuti provvisori della Associazione internazionale dei lavoratori (1864).
[97] Samuel Bernstein. Babeuf and Babouvism. II Science & Society Vol. 2, No. 2. pp. 166-194 (1938).
[98] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[99] Armando Saitta. IL ROBESPIERRISMO DI FILIPPO BUONARROTI E LE PREMESSE DELL'UNITÀ ITALIANA. Belfagor
Vol. 10, No. 3 (31 MAGGIO 1955), pp. 258-270.
[100] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed. Harvard University Press, 1959. Abbiamo trattato episodicamente di Joseph Caillaux nei post su Jaurès e Hervé. Fu un acerrimo nemico di Clemenceau. Alla guida del Partito Radicale fu Primo ministro del 1911 e 12 durante la seconda crisi marocchina. Fu molto vicino a coinvolgere Jaurès nel suo Governo. Fu attaccato nella sua sfera personale dal Le Figaro causando il caso Calmette. Anche arrestato nel 1917 per la sua politica filo-germanica.
[101] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Editore Einaudi 1972.
[102] Karl Marx. La questione ebraica (Zur Judenfrage) (1843). Massari editore 2003.
[103] Pierre-Joseph. Proudhon. Idée générale de la révolution au XIXe siècle, choix d'études sur la pratique révolutionnaire et industrielle. 1851. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6115074k.texteImage
[104] Lettera di Marx ad Engels 8 Agosto 1851 [da: Karl Marx and Frederick Engels. Collected Works. Volume 38. Marx and Engles 1844-185. Lawrence & Wishart, London 1982.].
[105] Lettera di Marx ad Engels 14 Agosto 1851 [da: Karl Marx and Frederick Engels. Collected Works. Volume 38. Marx and Engles 1844-185. Lawrence & Wishart, London 1982.].
[106] Lettera di Friedrich Engels a Karl Marx 21 Agosto 1851 [da: Karl Marx and Frederick Engels. Collected Works. Volume 38. Marx and Engles 1844-185. Lawrence & Wishart, London 1982.].
[107] Pierre-Joseph. Proudhon. Idée générale de la révolution au XIXe siècle, choix d'études sur la pratique révolutionnaire et industrielle. 1851. https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6115074k.texteImage
[108] Idem.
[109] Idem.
[110] Galvano della Volpe. The Marxist Critique of Rousseau. New Left Review. Vol 59. (1970): 101-109.
[111] Friedrich Engels e Karl Marx K. La Sacra famiglia, ossia Critica della critica critica contro Bruno Bauer e consorti. (1844).
[112] Friedrich Engels. Per la storia della Lega dei Comunisti, prefazione alle Rivelazioni sul processo dei Comunisti di Colonia. (1885).
[113] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[114] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Editore Einaudi 1972.
[115] Idem.
[116] Idem.
[117] Idem.
[118] Idem.
[119] Gastone Manacorda. Introduzione della Cospirazione per l’eguaglianza detta di Babeuf di Filippo Buonarroti. Editore Einaudi, 1971.
[120] Idem.
[121] Idem.
[122] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
[123] Idem.
[124] Idem.
[125] Idem.
[126] Idem.
[127] Idem.
[128] Elizabeth L. Eisenstein. The first professional revolutionist: Filippo Michele Buonarroti (1761-1837). Ed Harvard University Press, 1959.
[129] Idem.
[130] Alessandro Galante Garrone. Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837). Ed. Einaudi 1972.
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