Il patto di pacificazione: tra calcolo politico e commedia - Parte III -
Conclusioni
Nell’introduzione a questo lavoro, diviso in due parti, mi ero proposto di rispondere al quesito: “perché mai il Partito Socialista Italiano e il movimento dei Fasci Italiani di Combattimento hanno firmato un patto di pacificazione il 2 agosto del 1921?”. È evidente che questo patto fu firmato dal Gruppo Parlamentare dei Fasci per mero calcolo politico, ignorando, o volendo ignorare, la contrarietà delle Sezioni fasciste più legate allo squadrismo agrario, come, per esempio, quella di Bologna; mentre dal lato socialista il Gruppo Parlamentare del PSI, così come la sempre esitante Direzione massimalista, lo avevano, seppur scetticamente, firmato con la speranza che il Governo Bonomi, vero e proprio mediatore del patto, mettesse fine alla connivenza e, spesso, alla partecipazione attiva delle forze di pubblica sicurezza alle violenze squadriste. Lo scetticismo da parte dei socialisti e comunisti era stato, comunque, sempre presente nei confronti del Governo, così come nei confronti della stampa liberale e filofascista. Quando poi, in pochissimo tempo dopo aver firmato il patto, questo si rivelò per quello che era, ovvero un bluff, solo i riformisti continuarono sulla linea della pacificazione cercando, invano, di avvicinare a loro quella parte di classe dominante che non sembrava voler più il fascismo; mentre i massimalisti vedevano nella collaborazione democratica, comunque, il “male peggiore”; e i comunisti vedevano nei riformisti e nei massimalisti la peggior specie di “fascisti”.
Facendo della dietrologia spicciola, spesso si vede nell’immobilismo del Partito Socialista, che sia la sua maggioranza massimalista unitaria, o la minoranza riformista, una delle cause principali dell’ascesa del fascismo. Questo è tanto errato quanto credere nel mito della resistenza attuata dal PCd’I all’ascesa del fascismo[1]. Una cosa deve essere chiara: se vi è un responsabile dell’ascesa del fascismo in Italia, questo è il Governo liberale, o meglio i governi liberali che hanno portato l’Italia in guerra, vedi il patto di Londra del Governo Salandra, vedi la guerra che aveva mobilitato 5.600.000 soldati producendo 650.000 morti e 45.000 invalidi di guerra, per non contare i quasi 600.000 caduti civili, vedi la debolezza del Governo liberale nel controllare l’esercito, e allo stesso tempo la fermezza nell’azione repressiva contro i lavoratori nelle industrie e nelle campagne, vedi le Guardie Regie del Governo Nitti ecc. Quindi vedi anche il vero e proprio suicidio di Giolitti con i Blocchi Nazionali e la finta repressione dello squadrismo fascista da parte del Governo Bonomi con i suoi “due pesi e due misure”. Tutto ciò con il pretesto di sventare il terrore rosso, che si chiamasse questo bolscevismo, o “fare come in Russia”, o la tirannide plebea delle Leghe e degli uffici di Collocamento socialisti, o i presunti “orrori” dei comunisti. Questo fu un crasso pretesto, buono solo per “la gente politicamente a colore sbiadito o nullo”, e per qualche esaltato. Quindi infine è giusta la conclusione che ne trae Claudio Treves, ormai ad un anno dal patto di pacificazione e alla vigilia della marcia su Roma: “Il fascismo in tanto è, in quanto lo Stato l’ha voluto e l’ha cresciuto alla sua ombra. Tutta la forza del fascismo non esiste che per delegazione dello Stato. Il fascismo può minacciare di rovesciare violentemente un Governo, ma ciò può fare con mezzi statali.”[2].
Precisato questo, ribadendo quindi la limitata responsabilità da imputare all’azione (o non-azione) socialista e comunista nel contrastare l’ascesa del fascismo, è utile, ad ogni modo, analizzare 100 anni dopo la risposta della sinistra marxista al fascismo. Una prima cosa che salta all’occhio è come la comprensione del fenomeno fascista, ma soprattutto la conseguente reazione, rifletteva l’assetto delle varie correnti nelle quali il marxismo italiano si divideva in quel periodo. I vari Turati, Treves, Zibordi, Mondolfo, Modigliani, riformisti, minimalisti, di sinistra, erano stati, da tempo immemore ormai, contrastati dalla corrente rivoluzionaria intransigente. Questa era rappresentata dai vari Lazzari, Bombacci, Vella, Baratono, e dallo stesso Serrati, per non parlare poi di Mussolini quando era “socialista” anteguerra, e quindi dal giovane Bordiga, i quali avevano animato il massimalismo rivoluzionario, ovvero il perseguimento del solo fine massimo della rivoluzione con intransigenza, impedendo e condannando ogni tipo di partecipazione, dialogo o collaborazione con il Governo liberale borghese. La guerra e il collasso della Seconda Internazionale, però, divisero profondamente gli intransigenti. Il caso eclatante fu quello del direttore dell’Avanti! che seguendo alcuni sindacalisti rivoluzionari nella loro crociata d’union sacrée passò all’interventismo, influenzando temporaneamente anche quelli che diverranno poi gli ordinovisti torinesi. Tra i massimalisti neutralisti assoluti un’altra profonda divisione fu indotta dalla Rivoluzione d’Ottobre. Il XVI Congresso del PSI di Bologna[3], che doveva essere quello della consacrazione degli intransigenti rivoluzionari e della loro adesione alla Terza internazionale, è il Congresso dove si riscrive il programma del 1892 del PSI, è il Congresso dove si discute la possibilità dell’instaurazione dei Soviet, ma in realtà è il Congresso che divide nettamente i massimalisti in elezionisti e astensionisti.
Dagli articoli di Zibordi, Matteotti, ma anche degli stessi Treves e Turati, è chiaro che la sinistra riformista aveva una comprensione del fenomeno fascista eccezionalmente chiara e matura, mentre questo era ancora in via di definizione, e non lo liquidava come mero crispismo, o come un fenomeno inesorabile comune ad altri paesi; infine non condivideva neanche il “tanto peggio tanto meglio” caratteristico del bordighismo. Il socialismo riformista e le sue organizzazioni socialiste erano il bersaglio concreto del fascismo agrario-sindacale. Per la concentrazione socialista: “La resistenza possibile, necessaria, doverosa è nella contro-conquista, da parte del proletariato, dello Stato, con i mezzi democratici, incalzando ed alleando tutti i ceti e le classi che esso [il fascismo] minaccia nelle istituzioni rappresentative e liberali con obbliqui disegni di violenta dittatura. È la collaborazione che debellò i conati reazionari di Crispi, di Rudinì, di Pelloux e consentì 20 anni di libero sviluppo al proletariato italiano; è quella che in Francia salvò la repubblica all’epoca della crisi dreifusista contro le cospirazioni dello Stato Maggiore e dei generali da colpi di Stato; è quella che sconfiggerà, mediante il blocco democratico, il blocco nazionale di “Poincaré-la-guerre”! È quella, infine, che abbracciando tutti i partiti socialisti in Europa […] spingerà […] alla restaurazione europea ed ad una pace reale”[4].
Nel manifesto della Frazione della concentrazione socialista, lanciato appena prima del XIX Congresso del PSI, nell’ottobre 1922, dove si determinò la loro espulsione, vengono esplicitati dei punti fondamentali di analisi critica degli eventi. Per i riformisti: “vi è un errore fondamentale, nato dal falso concetto che il Socialismo, essendo per noi la verità e la giustizia, possa essere imposto senza la volontaria e consapevole adesione della maggioranza.”. Quindi il duplice errore di considerare il Partito Socialista il rappresentante di tutto il Proletariato, mentre ne rappresenta solo una parte, e di fare con la borghesia di tutta un’erba un fascio, “esaltando demagogicamente solo il lavoro manuale”, determinando l’effetto di allontanare i “ceti del lavoro intellettuale”. E ancora secondo la Frazione della concentrazione, l’infatuazione per la Russia bolscevica aveva avuto l’effetto di spaventare, irritare e provocare la borghesia, nonostante ciò, riconosce la concentrazione, sarebbe ingiusto addossare tutte la responsabilità della reazione fascista al massimalismo, in quanto la violenza dei sovversivi non era che un pretesto, e che la violenza della reazione capitalistica, ovvero fascista, non era proporzionale alla potenza effettiva della classe lavoratrice. Constata la concentrazione: “Si era costrutto un patrimonio di beni – che oggi va miseramente distrutto – senza provvedere a presidiarlo, né con la forza materiale né con una corrispondente penetrazione nello Stato”, insistendo, ovviamente, sulla seconda via, ovvero la collaborazione. Tornando sulla pacificazione, la concentrazione insiste che fino a quando vige l’equivoco che la Dittatura, nonostante questa venga chiamata “del proletariato”, sia confusa con la negazione della libertà, dei diritti, della sovranità popolare ovvero della democrazia, allora tutte le richieste di “legalitarismo e per la pacificazione degli animi” dei riformisti non potevano che suscitare diffidenza e derisione. Insomma, per i riformisti, i massimalisti dovevano uscire dal limbo e decidere tra socialismo o bolscevismo. Il Manifesto si chiude con una critica ai comunisti che invece di cercare la pace con la maggioranza della borghesia che non vuole la violenza fascista, si ostinano a voler continuare la guerra civile contro i fascisti[5].
Serrati e quindi i massimalisti elezionisti, da Livorno unitari, ormai la maggioranza dal Congresso di Bologna, avevano ben presente che per il Partito sindacati, cooperative, municipalità, erano “istituti indispensabili”. Ora i massimalisti unitari venivano biasimati dai riformisti per aver millantato l’idea della Rivoluzione “come in Russia”, sventolando la collettivizzazione delle terre, l’occupazione delle fabbriche, la dittatura del proletariato: tutte misure per il socialismo maturo. I massimalisti, secondo i riformisti, volevano fare il passo più lungo della gamba e forzare l’immaturità socio-economica dell’Italia, con la violenza rivoluzionaria, ma questo avrebbe voluto solo dire frodare la classe lavoratrice[6]. Ovviamente questa critica era rivolta anche ai massimalisti astensionisti, da Livorno, comunisti scissionisti. Ma almeno ai comunisti, i riformisti davano credito di essere stati coerenti nell’essere usciti dal PSI. I massimalisti unitari, dei quali Serrati era il principale portavoce, venivano attaccati da sinistra in modo ancora più feroce. I comunisti scissionisti non potevano tollerare dei rivoluzionari, che pretendevano di aderire alla Terza Internazionale di Mosca e che, allo stesso momento, erano rivoluzionari solo a parole ed erano filo collaborazionisti, perché si ostinavano a non liberarsi dai riformisti e a rimanere in qualche modo legati con quello che restava della Seconda Internazionale. La polemica interna tra marxisti divenne così preponderante che il fenomeno del fascismo faticava spesso ad ottenere lo spazio dovuto. Questo fu evidente al Congresso di Livorno come anche al Congresso di Milano. Ma questa polemica interna tende a falsare la presa che il socialismo aveva ancora sulla popolazione. Le elezioni del 1919 furono un clamoroso successo per i socialisti, così come quelle amministrative di fine 1920 e, nonostante le violenze fasciste non trascurabili, anche le elezioni del 1921 non possono essere ritenute una sconfitta. Ancora una volta è evidente che la salita al potere del fascismo non può essere direttamente imputata ad errori diretti del socialismo e/o del comunismo. Certo è che anche tra i comunisti il fascismo non venne letto in modo uniforme. La visione eccessivamente schematica di Bordiga avrebbe avuto senso se Mussolini avesse avuto la medesima rigidità schematica. Bordiga era convinto nella purezza del movimento rivoluzionario basato su una dottrina inamovibile. Passata l’occasione rivoluzionaria del 1920, la reazione borghese, in qualsiasi forma, sarebbe stata inevitabile e l’unica lotta concepibile doveva essere quella per un’altra spallata rivoluzionaria, senza compromessi. Per Bordiga (e i bordighisti) che furono la maggioranza del PCd’I, di fatto, anche contro la Terza Internazionale e il Comitato Centrale del PCd’I stesso, addirittura fino alla Conferenza Nazionale di Como del 1924[7], il nemico numero uno erano i riformisti e i massimalisti unitari, ovvero i socialdemocratici; questi secondo Bordiga erano tanto fascisti quanto i fascisti veri e propri. Bordiga così anticipava la definizione di social-fascismo in voga più tardi nella Terza internazionale in particolare tra i comunisti tedeschi. Bordiga già nel 1921 non ammetteva nessun tipo di fronte unito con i social-democratici, come più tardi, negli anni ‘30, sarà contro i fronti popolari. La sua analisi sul fascismo non variò di molto neanche nel 1922, quando al IV Congresso della Terza Internazionale fu incaricato di stilarne un rapporto. La comprensione che Bordiga aveva del fenomeno era la medesima di quella di Gramsci, come del resto era simile a quella dei riformisti. Ma su il che fare i tre si distinguevano. Per Bordiga, non si doveva fare della lotta contro il fascismo una questione morale, ovvero, la lotta doveva essere esclusivamente contro il capitalismo qualsiasi forma questo avesse assunto, e la priorità andava contro i social-traditori, ovvero, ai suoi occhi, contro i riformisti e i massimalisti unitari. Bordiga fu anche inamovibile nell’estraniare gli Arditi del Popolo dal PCd’I, in quanto espressione borghese e certamente non comunista.
Antonio Gramsci e gli ordinovisti però, pur facendo una guerra quotidiana e senza esclusione di colpi ai riformisti e ai massimalisti unitari, si pronunciarono sempre per una risposta veemente alle violenze fasciste. Furono quelli che diedero più spazio e più credito, eccettuati gli anarchici, agli Arditi del Popolo. Gramsci era, altresì, ben conscio che il patto di pacificazione, tanto caro a Bonomi, fosse un chiaro pretesto per focalizzare le violenze contro i soli comunisti, e non c’è da stupirsi che i comunisti, quindi, lo presero per quello che era, ovvero un giochetto politico. Ma se sia l’Avanti! che Critica Sociale non nascondevano il loro disgusto per la doppiezza della tanto acclamata pacificazione degli animi, perché allora stettero al gioco? Perché Bonomi, come prima di lui Giolitti, aveva espresso la volontà di riportare la legalità nelle province colpite, e il duce con i suoi camerati, ogni due per tre, invocava il diritto di legittima difesa contro le famigerate violenze rosse. Questo giochetto sarebbe probabilmente continuato più a lungo se non fosse che, in risposta alla milizia fascista, o meglio alle squadracce fasciste, si erano andate formando milizie popolari; una tra tutte, gli Arditi del Popolo. In pochissimo tempo la reazione popolare mise in serissima difficoltà il modello squadrista, perché mise in difficoltà il connubio forze dell’ordine-squadre fasciste che così bene aveva operato fino a quel punto. La reazione popolare e gli Arditi del Popolo avevano forzato in un paio di casi le forze dell’ordine a fermare, avvisare e addirittura arrestare gli squadristi fascisti. I fatti di Viterbo e di Sarzana convinsero Mussolini, già innervosito dalla brutta piega presa dallo squadrismo agrario, a chiudere al più presto un accordo legalitario per salvare il salvabile. Mussolini, infatti, era meravigliato lui stesso dalla completa impunità che le violenze fasciste avevano sortito fino ad allora. La posizione di Gramsci, comunque, rimane probabilmente tra le più lucide. Certo era influenzato fortemente dal mito della rivoluzione, che lo aveva visto protagonista nel 1920 a Torino, e che come tutti i comunisti pensava fosse stata tradita dall’immobilismo socialista e dall’azione mitigatrice della CGdL; era altresì influenzato dall’intransigenza di Bordiga, che non ammetteva nessun tipo di compromesso di fronte unito con quei socialisti. Ma, al contrario di Bordiga e al contrario del resto dei socialisti, massimalisti unitari e riformisti, era ben disposto nei riguardi degli Arditi del Popolo. Ancora però nel 1922, sempre durante il IV Congresso dell’Internazionale e pochi giorni dopo la avvenuta Marcia su Roma, Gramsci si era espresso in modo scettico sulla permanenza di Mussolini al potere, in quanto prevedeva una reazione della borghesia contro la tirannide agraria che il fascismo indubbiamente ancora rappresentava. Gramsci notava, inoltre, che il PCd’I aveva un vantaggio nel combattere il fascismo nei confronti del PSI, ovvero l’esperienza ad operare nell’illegalità. Infine nel ‘22 Gramsci chiude scrivendo che: “[…] il proletariato rioccuperà, abbastanza presto, la sua posizione storica, persa dopo il fallimento delle occupazioni delle fabbriche nel settembre del 1920.”[8]
Mentre al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista tra giugno e luglio del 1921, il tema del fascismo era stato accennato, ma non approfondito, e la discussione verteva perlopiù sull’ostinazione del PSI di Serrati a non espellere i riformisti di Turati, e sull’aver fatto fallire la rivoluzione, nel 1922 il tema del fascismo non poteva più essere ignorato. La tattica del fronte unito era già stata introdotta del 1921, ma nel contesto della teoria dell’offensiva[9], mentre ormai nel 1922 il fronte unito assume un carattere più difensivo, ovvero per unire le masse. Sempre nel 1922 la relazione di Bordiga, ma più che altro la posizione di Bordiga, viene attaccata per la sua inconcludenza: Nikolaj Bucharin fa presente a Bordiga che questi non solo ha sbagliato sulla questione agraria, ma ha anche sbagliato nell’estraniarsi dagli Arditi del Popolo[10]. Ad ogni modo è evidente che la Terza Internazionale era molto occupata a fare il processo ai riformisti, in quanto social-traditori, nonché ai kautskyani, quindi ai massimalisti unitari, in quanto opportunisti e traditori della rivoluzione e a certi comunisti “di sinistra” (Gorter, Pannekoek, Bordiga ecc.) in quanto troppo settari e poco duttili. Passa quindi l’idea che l’ascesa del fascismo si debba, anche se non principalmente, alla sinistra marxista italiana che non era riuscita a fare la rivoluzione. Nel 1923 vi sarà la relazione della Zetkin, come a Milano nel 1921. Anche nel 1923 Clara Zetkin interpreta il fascismo come una punizione arrivata perché i socialisti non sono stati in grado di fare la rivoluzione e aggiunge che il fascismo è una espressione del declino e della disintegrazione dell’economia capitalista. Quindi ci si doveva riavvicinare alle masse mantenendo l’ideologia comunista[11].
Il patto di pacificazione fu un passaggio chiave nella formazione del PNF, che avvenne infatti alla fine del famigerato 1921. Da un lato Mussolini, con i “suoi” Fasci urbani, si rese rilevante agli occhi del Governo liberale nel processo di inquadramento degli ex-combattenti nelle file antisocialiste e nell’eventualità di una repressione armata dei lavoratori; quindi si rese disponibile a frenare i Fasci favorevoli ad estendere l’insubordinazione fiumana all’intera penisola; infine, cosa che non gli riuscì, si prodigò per il contenimento del dilagare degli squadristi agrari favorendo il patto di pacificazione. In tutte queste tre fasi i Fasci erano di fatto delle bande armate illegali e non è un caso che Mussolini venisse arrestato nel novembre del 1919, come mandate della bomba gettata dal fascista Albino Volpi su un corteo socialista in via San Damiano. Come non è un caso dell’arresto di Pasella all’indomani delle elezioni del maggio del 1921; e allo stesso modo gli arresti a Viterbo, a Sarzana, nel luglio, e i fatti di Modena, nel settembre, non sono un caso. Questi stavano a significare che qualcuno, fosse questo Nitti o il Prefetto Lusignoli per conto di Giolitti o Bonomi, doveva ribadire l’accordo tra Stato e quasi-Stato nei rari casi in cui le istituzioni non avessero chiuso un occhio o due difronte alle illegalità fasciste. Il patto di pacificazione potrebbe apparire un evento negativo per Mussolini che di fatto, forzandolo, aveva sovrastimato il suo peso e sottovalutato quello dell’emergente fascismo agrario-sindacalista, ma, che in realtà, in pochi giorni, torna ad essere indispensabile anche agli occhi dei fascisti agrario-sindacalisti, che avevano invano cercato un nuovo capo nel poeta guerriero. Mussolini, il quale aveva saputo attendere, trasforma la crisi interna scaturita dal patto in un progetto di normalizzazione dei Fasci in partito.
Se il patto di pacificazione infine rilancia Mussolini all’interno del movimento fascista, ormai vero e proprio partito di governo, nonostante conservasse la propria milizia, lo stesso patto obbliga nero su bianco a ripudiare l’unico vero anticorpo che si era andato formando, ovvero gli Arditi del Popolo. I socialisti dovettero infatti ripudiare ufficialmente gli Arditi del Popolo e, per aggiungere insulto ad ingiuria, la nefasta presenza del “dis-” onorevole Mingrino fece il resto. Nel giro di pochi mesi, gli Arditi del Popolo saranno privati della loro testa, ovvero Argo Secondari, e Mingrino darà il pretesto, come se ce ne fosse stato bisogno, ai fascisti di non rispettare il patto, in quanto deputato socialista in una milizia ripudiata dal PSI proprio col patto. Per non parlare poi del suo doppiogiochismo.
È lecito quindi porsi la domanda: se avessero effettivamente creato un fronte unito, socialisti di ogni tipo, comunisti, anarchici e Arditi del Popolo, più ovviamente i Comitati, spontanei, di difesa popolare, il fascismo sarebbe riuscito a prendere il potere? Rispondere è ovviamente solo un passatempo. Ma Viterbo, Sarzana, Modena (e quindi Parma nel 1922) mostrano quanto lo squadrismo agrario fosse contrastabile. Quindi la responsabilità ricade sul governo liberale, che anche nel 1922 consegna il paese ai fascisti che sicuramente mostravano e propagandavano più garanzie per la classe padronale che per quella operaia e contadina. Avevano ragione i riformisti a cercare la collaborazione con quella classe liberale? Forse anche loro avrebbero fatto meglio a mettere da parte l’orgoglio di chi probabilmente tutti i torti non ce li aveva e fare quadrato attorno al popolo lavoratore, quello vero, non quello millantato dai giovani fascisti.
Sabato 9 ottobre 2021: con il pretesto di dimostrare contro l’obbligo del lasciapassare certificante la vaccinazione per virus pandemico COVID-19, gruppi neofascisti capitanati da Forza Nuova hanno pensato bene di celebrale i 100 anni dalle violenze squadriste assaltando, tra le altre cose, la sede della CGIL e occupandone brevemente gli uffici. Le forze dell’ordine hanno però, al contrario di 100 anni fa, opposto una certa resistenza, dispiegando blindati e sparando lacrimogeni[12]. Si era addirittura ventilata l’ipotesi di rendere illegale Forza Nuova per apologia di fascismo, allarme ovviamente subito rientrato. È palese che questa situazione non è per nulla paragonabile a quello che succedeva nel 1921, ma fa riflettere comunque quanto sarebbe ancora più inadeguata, e ahinoi, risibile, la risposta che la sinistra marxista nel caso in cui una minaccia fascista dovesse di nuovo incombere. Nel 1921 il marxismo era diviso irreparabilmente, ma almeno era riconoscibile; oggi non possiamo fare altro che sperare nella sanità di mente del Governo borghese che ci salvi dagli zotici. Credo che questo debba fare riflettere ancora di più rispetto a cercare di valutare come si sarebbe potuto evitare il disastro fascista di 100 anni fa. Oggi il socialismo deve tornare alle masse, come dicevano nel ‘22, ma ci può tornare solo mettendo da parte le sue secolari divisioni, incomprensioni, deviazioni; si deve riconcentrare su ciò che conta, ovvero, non essere il depositario della verità sul futuro socialista, ma riprendere a fare il lavoro di lotta nel quotidiano, promuovendo le grandi lotte, sociale, ecologica ed economica, lasciato ai capitalisti “eco-sostenibili” che girano in Tesla, sussidiati da fondi statali. Probabilmente oggi diremmo: “Ben vengano gli Arditi del Popolo, facciamo quadrato”, ma la vera domanda è chi? La sinistra marxista è troppo divisa, disgregata in mille movimenti, sette, partitini, correnti. Mentre noi, lavoratori di tutto il mondo, dobbiamo unirci.
[1] “No party resisted the Fascist threat more than the Communists” [da: David Broder, How the Italian Communists Fought the Rise of Fascism, Jacobin, gennaio 2021, https://jacobinmag.com/2021/01/italian-communist-party-anti-fascism].
[2] Claudio Treves, Fascismo, democrazia e socialismo, Critica Sociale, n. 17, 1-15 settembre 1922.
[3] Tenutosi nell’ottobre del 1919.
[4] Claudio Treves, Fascismo, democrazia e socialismo, Critica Sociale, n. 17, 1-15 settembre1922.
[5] Il Comitato Nazionale della Concentrazione Socialista, Ai Socialisti rimasti fedeli al Socialismo, Critica Sociale, n. 17, 1-15 settembre 1922.
[6] Sul mito della rivoluzione mancata si riporta l’attenzione al post di Dan Kolog, “1920 – 2020, L’Occupazione delle Fabbriche e il mito della mancata rivoluzione socialista in Italia” Movimento Socialista Mondiale, gennaio 2020, http://socialismo-mondiale.blogspot.com/2020/01/1920-2020-loccupazione-delle-fabbriche.html.
[7] Questo aspetto è stato trattato in modo più approfondito in: Cesco, La Frazione della sinistra comunista italiana, Movimento Socialista Mondiale, maggio 2017, https://socialismo-mondiale.blogspot.com/2017/05/la-frazione-della-sinistra-comunista.html.
[8] Antonio Gramsci, Pravda, martedì 7 novembre 1922 [da: Natalya Terekhova and Guido Liguori, A Newly Rediscovered Article by Antonio Gramsci on the Fascists’ March on Rome, Jacobin, June 2021. https://www.jacobinmag.com/2021/06/antonio-gramsci-pravada-italian-communist-party-history.
[9] Third Congress of the Communist International, On Tactics. https://www.marxists.org/history/international/comintern/3rd-congress/tactics.htm, 12 luglio 1921.
[10] Nikolai Bukharin, Speech in Discussion of Executive Committee Report. Fourth Congress of the Communist International, 11 novembre 1922. https://www.marxists.org/archive/bukharin/works/1922/bukharin01.htm.
[11] Cesco, Misreading fascism: ‘Fighting Fascism’ by Clara Zetkin, Socialist Standard, n. 1364, April 2018. https://www.worldsocialism.org/spgb/socialist-standard/2010s/2018/no-1364-april-2018/book-reviews-fighting-fascism-poverty-safari-unders/.
[12] Rinaldo Frignani, No green pass a Roma, scontri vicino a Palazzo Chigi. Assalto alla Cgil. Quattro fermati, agenti feriti, Corriere della Sera, domenica 10 ottobre 2021.
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