Teoria del valore-lavoro e marginalismo economico: davvero due concezioni inconciliabili? -- La proposta di Klaus Hagendorf --

 

Prefazione “volgarizzata”

 

È fuori discussione l’influenza preponderante e permanente che il libro di Adam Smith, An Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, abbia avuto sul pensiero economico successivo. Lì si trovano concetti che, tralasciando la discussione sulla loro pura e semplice paternità, hanno stimolato molti fini pensatori futuri a elaborare, rielaborare e per alcuni versi rivoluzionare, il pensiero economico moderno. Quali sono quindi questi concetti chiave?

Il concetto d’interesse individuale, ovvero di guadagno personale, che quando lasciato libero (appunto il laisser-faire) di operare porterebbe il sistema economico allo stato di equilibrio. Smith però non si limita a ciò e suggerisce che proprio perché un individuo è mosso dal suo own gain, ovvero dal guadagno personale promuoverà involontariamente un fine più alto. Ovvero, “Perseguendo il suo interesse individuale egli spesso promuove l’interesse della società meglio di quanto non farebbe quando intendesse promuoverlo”. Quindi quando la lotta tra vari interessi individuali di chi è coinvolto nella produzione e nel consumo dei beni è lasciata libera da restrizioni il sistema economico tenderà all’equilibrio e all’uso ottimo delle risorse. E ciò significherà dunque un elevato benessere per la società. Questo perché la produzione capitalista si basa sulla divisione del lavoro che permette di produrre i beni in modo più efficiente e di conseguenza può vendere il bene a un prezzo accessibile a più persone.

Smith però non si ferma qui, chiaramente suppone che “il lavoro è la vera misura del valore di scambio”, schierandosi dalla parte della teoria del valore-lavoro. Per Smith il prezzo naturale di una merce, che corrisponde al suo valore, è quello che ripaga il costo della sua produzione di modo che il proprietario, che è al contempo venditore della merce, potrà continuare la sua attività produttiva, e quindi Smith include nel prezzo il profitto. Il prezzo naturale equivale al lavoro contenuto nel prodotto, cioè le ore di lavoro necessarie a produrlo più il profitto e l’eventuale pagamento della rendita. Nel testo viene spiegato con chiarezza come Ricardo superi la complicazione additiva di Smith eliminando dal valore di scambio la rendita fondiaria, rimanendo con il lavoro contenuto e il profitto, non ragionando più in termini di lavoro comandato. Infatti, per Smith il lavoro comandato era la quantità di lavoro che si poteva acquistare con la vendita di una merce. Smith aveva intuito che il lavoro contenuto e quello comandato dovevano essere equivalenti. Con dieci euro compro un’ora di lavoro e in quell’ora produco una merce che costa dieci euro. Evidentemente questa equivalenza era difficile da ottenere in un sistema produttivo con altri costi oltre quelli del lavoro. Per Ricardo il valore di scambio, e quindi il prezzo naturale, di una merce è equivalente al lavoro contenuto e al tempo di produzione. Ma se così fosse, da dove verrebbe il profitto?  Marx supera la difficoltà di Ricardo nell’identificare il valore-lavoro, introducendo il concetto di plus-lavoro e di plus-valore (osservando che il profitto è in fondo lavoro non pagato) e di composizione organica del capitale, che è il rapporto tra capitale costante e salario, cioè una sorta di rendimento. Con Marx la produzione capitalista passa ad essere da involontariamente a fin di bene per la società, ad intrinsecamente sfruttatrice dei molti a beneficio dei pochi. Ma anche la teoria del valore-lavoro di Marx sembrava soffrire di una complicazione quando si volevano far ricondurre, cioè trasformare, i valori, ovvero risorse produttive, salario e profitto, nei prezzi. In un sistema a più settori produttivi con diverse composizioni organiche questa equivalenza non sembrava più possibile. Ricondurre i prezzi al lavoro ed evidenziare che il profitto era parte di questo lavoro non pagato non avrebbe avuto più senso se in fin dei conti i valori di scambio delle merci non fossero stati equivalenti ai prezzi. E questo solo considerando i prezzi naturali (o di produzione): nel caso in cui si prendessero in considerazione i prezzi di mercato allora Smith, Ricardo e Marx concordavano sul fatto che il prezzo di mercato sarebbe stato quello naturale perturbato però dall’effetto della domanda e dell’offerta. Nonostante questi autori non ignorassero l’influenza che la domanda aveva sui prezzi e che la domanda e scarsità avevano sull’offerta e quindi ancora sui prezzi di mercato, per loro era chiaro che i prezzi erano generati essenzialmente dal processo produttivo.  Tale idea sarà ripresa più di un secolo dopo da Sraffa e dalla sua scuola, detta appunto “neoricardiana”.

La teoria del valore-lavoro viene vista da molti economisti marginalisti come un depistaggio di Smith. Se Smith era, secondo loro, sulla “diritta via”, quando pensava che il guadagno personale, ovvero il muoversi sulla curva dello scambio equo, avrebbe automaticamente portato all’equilibrio e al benessere, Smith sbagliava a non intendere l’origine dei prezzi come l’estensione di questo concetto di utilità razionale unito a quello di scarsità. Nel marginalismo l’utilità e l’abbondanza-scarsità spiegano tutto. Se per Smith, Ricardo e Marx è sufficiente indicare che, per essere scambiato, un bene, deve avere un valore d’uso, quindi un’utilità, ed è addirittura scontato dire che uno scambio libero è di per se equo; per i marginalisti è necessario argomentare sul valore d’uso dello scambio equo. Per i marginalisti non basta dire che un bene è tale in quanto ha valore d’uso, ma è necessario puntualizzare che il valore d’uso è variabile e soggettivo, e che valore d’uso percepito cambia con la sua abbondanza o la sua scarsità (per esempio, il diamante vale più dell’acqua). Ma ancora più importante è che il prezzo di una merce è determinato dalla domanda, cioè da cosa ha valore per la gente, e dall’offerta, quanta ce n’è di questa merce, e non dall’intensità di lavoro necessaria nel produrla. Il prezzo di mercato, in concorrenza perfetta, è quindi imposto al produttore, e non generato direttamente dai costi di produzione e dal saggio di profitto. Il marginalismo, quindi, risolve l’origine dei prezzi, risolve il problema dello sfruttamento, che in effetti non c’è in caso di concorrenza perfetta, e può tornare alla “natura benefattrice” del capitalismo liberista.

Nel testo viene illustrato molto chiaramente come la teoria del valore-lavoro e quella marginalista non si escludano l’un l'altra. Il marginalismo è sicuramente utile per trovare i livelli di efficienza produttiva di un’azienda nel piccolo, e anche nell’economia su grande scala, mediante il principio abbastanza intuitivo de “il troppo storpia”. Ma non per questo può rivendicare che i prezzi siano spiegabili con la sola intersezione delle curve di domanda e di offerta. Il lavoro umano in ultima analisi ha trasformato le risorse offerte dal Pianeta, a poco a poco, in merci sempre più dipendenti da altre merci. Ma senza quel lavoro e quelle merci non ci sarebbero che risorse naturali liberamente accessibili e in abbondante quantità. È quindi nel lavoro umano, sia attuale e che condensato in forma di capitale, che bisogna cercare le basi economiche più profonde della società umana.

Cesco e Dan Kolog 

 

1. Introduzione

 

Qualsiasi manuale di storia del pensiero economico [1] non può non dilungarsi su due cambi di paradigma accaduti nel corso dell’evoluzione teorica dell’economia politica: la rivoluzione marginalista e la rivoluzione keynesiana. La prima, sviluppatasi approssimativamente a partire dal 1870, è ancora alla base di larga parte di quella disciplina che viene a tutt’oggi insegnata nelle università con il nome di “microeconomia neoclassica”; mentre la seconda, iniziata intorno al 1930, ha dato origine alla cosiddetta “macroeconomia keynesiana” contemporanea.

Questo breve articolo divulgativo tratterà esclusivamente del marginalismo economico e dei suoi rapporti con il paradigma largamente dominante prima di esso: la teoria del valore-lavoro. Sarà quindi necessario introdurre rapidamente quest’ultima teoria e poi discutere dei principi base del marginalismo, per quanto riguarda sia il consumo che la produzione. Si tratta infatti di due episodi ben distinti del medesimo cambio di paradigma. Il primo si basò sul concetto di utilità e venne portato avanti principalmente da William Stanley Jevons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921) e Léon Walras (1834-1910), basandosi essenzialmente sull’analisi della domanda. Mancava però di una coerente teoria del valore economico una volta rimossa l’ipotesi di comodo di un’offerta data. E ciò avvenne perché la prima generazione di marginalisti non era riuscita ancora a fornire la spiegazione di ciò che determina l’offerta di beni e di servizi da parte delle imprese. In aggiunta, mancava anche una teoria della distribuzione del reddito nella società, che fosse coerente con i principi di base del marginalismo stesso.

Tali lacune, che avevano in realtà già portato alcuni pensatori isolati come Samuel Mountifort Longfield e Johan von Thünen a interrogarsi, furono però definitivamente colmate solo dalla seconda generazione marginalista, principalmente da Friedrich von Wieser (1851-1926), Eugen von Böhm Bawerk (1851-1914), Knut Wicksell (1851-1926), John Bates Clark (1847-1938), Philip H. Wicksteed (1844-1927) e Francis Y. Edgeworth (1845-1926).

Naturalmente, soprattutto per ciò che riguarda le teorie di Bates Clark sulla distribuzione “naturale” dei redditi in una società capitalista (esposte nella sua opera “The Philosophy of Wealth: Economic Principles Newly Formulated” del 1886), l’intento antiradicale (contro Henry George) e antisocialista (contro Karl Marx) era del tutto palese {A}. L’autore, campione del marginalismo statunitense, si ergeva a vero difensore dello status quo: nel sistema capitalistico, almeno in un regime di concorrenza perfetta, non vi è sfruttamento dei lavoratori, ma si genera spontaneamente, senza la necessità di un intervento pubblico, una distribuzione del reddito eticamente corretta. Infatti, ogni fattore produttivo riceve un reddito proporzionale al suo contributo non solo alla produzione di beni, ma anche al benessere della società stessa. Profitto e rendita non sono quindi il risultato dello sfruttamento capitalista, ma della produttività, rispettivamente, del capitale e della terra. Tuttavia, non solo in ambienti radicali e socialisti, ma persino in quelli liberal-progressisti, vari critiche vennero immediatamente rivolte alle tesi di Bates Clark. In particolare, si fece notare come queste fossero in flagrante contraddizione con il noto principio di Hume facendo derivare proposizioni di tipo etico (“dover essere”) da analisi di natura puramente fattuale (“essere”) {B}. Inoltre, si rimproverò alle stesse di sottovalutare alquanto gli effetti dei monopoli e delle limitazioni alla concorrenza esistenti nei mercati reali, cosa su cui, in effetti, Bates Clark concentrò gran parte della sua analisi economica successiva, specie in “The Distribution of Wealth: A Theory of Wages, Interest and Profits” (1899) e “Social Justice without Socialism” (1914). Qui l’autore si fa apertamente paladino della lotta dello Stato contro lo strapotere dei monopoli e per la salvaguardia della concorrenza nei mercati.

Ma vi erano anche altre motivazioni, più tecniche, per criticare le idee conservatrici del primo Bates Clark: (a) il disinteresse per la discrepanza fra il reddito ottenuto dai vari fattori produttivi e il reddito che spetterebbe agli individui, dato che il primo riflette solo il prezzo dei fattori produttivi, non il contributo dei singoli individui alla produzione, (b) l’impossibilità pratica di misurare il prodotto marginale {C} di un fattore produttivo in modo distinto dagli altri e, infine, (c) il cosiddetto “problema dell’esaurimento del prodotto”. Memorabile a questo proposito fu l’ironia del socialista riformista fabiano, il drammaturgo George Bernard Shaw, nel suo celebre trattato “The Intelligent Woman's Guide to Socialism and Capitalism” (1928), dove scrive: “Quando un agricoltore e i suoi contadini seminano e raccolgono un campo di grano nessuno al mondo può dire quanto grano ha raccolto ciascuno di loro”. In maniera più scientifica, l’economista americano Frank W. Taussig (1859-1940), autore interessante a cavallo tra la tradizione ricardiana e quella marginalista, scrive in “Principles of Economics” (1911) che in un processo produttivo che impieghi capitale e lavoro “non vi è prodotto separato degli strumenti, da un lato, e del lavoro che li ha impiegati, dall’altro (…) quindi non possiamo distinguere un prodotto concretamente separabile del lavoro e del capitale”.  A tale tipo di critiche risposero però sia John Bates Clark stesso che il celeberrimo economista britannico Alfred Marshall (1842-1824): per misurare il prodotto marginale del lavoro Marshall propose di stimare il prodotto del lavoro e del capitale addizionali e di sottrarre poi il costo del capitale addizionale; mentre per Bates Clark il capitale rimane sì invariato nella sostanza (disponibilità monetaria equivalente), ma può agevolmente variare forma (macchine, utensili ecc.). Tale variazione richiederebbe tuttavia il passare del tempo e da ciò potrebbero emergere nuovi problemi teorici.

Per quello che concerne invece il punto (c), va ricordato che nella teoria classica di David Ricardo della distribuzione, uno dei fattori produttivi, il capitale, è remunerato secondo la sua produttività marginale, mentre il lavoro riceve una remunerazione fissa e, infine, la rendita è ricavata per differenza dal prodotto totale. Tale procedimento assicura che il valore complessivo dei redditi ricevuti dai tre fattori di produzione sia necessariamente uguale al valore del prodotto. Se ora, seguendo Bates Clark, si calcolano tutti i singoli redditi come corrispondenti al valore del loro prodotto marginale, non sappiamo cosa garantisca che la loro somma sia esattamente corrispondente al valore del prodotto totale, ovvero che il prodotto totale si esaurisca completamente nella remunerazione dei vari fattori produttivi. In effetti Bates Clark affermava che pagando ciascun fattore produttivo esattamente il suo prodotto marginale, il prodotto totale si esaurisce, ma non lo dimostrava. A questo punto anche altri grandi nomi del marginalismo internazionale, come Philip H. Wicksteed, Knut Wicksell, Enrico Barone, Vilfredo Pareto, Francis Y. Edgeworth e Léon Walras, intervennero nel dibattito, ma ovviamente, dato il carattere introduttivo e divulgativo di questo scritto, non potremo addentrarci molto nell’interessantissima discussione. Diremo solo che Philip H. Wicksteed, nel suo lavoro, “An Essay on the Co-ordination of the Laws of Distribution” (1894) e Alfred W. Flux fornirono una soluzione rigorosa al problema, notando come la teoria classica ricorra a spiegazioni differenti per i diversi fattori produttivi, mentre quella marginalista al solo principio della produttività marginale. Essi dimostrarono che in mercati perfettamente concorrenziali ogni fattore produttivo riceve esattamente il suo prodotto marginale, ma pure che, affinché vi sia l’esaurimento del prodotto, occorre che le funzioni di produzione {D} godano di alcune proprietà matematiche, per esempio esse devono soddisfare alle condizioni poste dal noto teorema di Eulero, ovvero essere omogenee di primo grado. In altre parole, con rendimenti costanti e mercati concorrenziali la remunerazione dei fattori produttivi è pari al loro prodotto marginale che coincide, ma solo in questo caso, con il prodotto medio {E}. Questo fa sì che la somma delle remunerazioni risulti identica al valore del prodotto totale e che, conseguenza apparentemente alquanto bizzarra, l’impresa produca senza profitti né perdite. In realtà quest’ultima tesi, se correttamente intesa, significa soltanto che i ricavi totali dell’impresa saranno pari ai costi totali e che l’impresa non riceverà alcun extraprofitto (rispetto al normale “salario di direzione” dell’imprenditore). Va infatti ricordato al lettore che nell’economia neoclassica “capitalisti” (ossia detentori di capitali e quindi percettori di profitti tramite l’interesse) e “imprenditori” (ovvero individui che combinano capitale e lavoro in vista della produzione di merci) sono considerati come figure sociali del tutto separate. Diversamente, con rendimenti decrescenti e mercati concorrenziali, la remunerazione dei fattori produttivi sarà pari al prodotto marginale, che però in questo caso resterà sempre inferiore al prodotto medio. Ciò fa sì che la somma delle remunerazioni risulti inferiore al valore del prodotto totale e che l’impresa produca sempre in profitto, a tutto vantaggio dell’imprenditore. All’opposto, con rendimenti crescenti e mercati concorrenziali, la remunerazione di terra e lavoro sarà pari al loro prodotto marginale che però rimarrà sempre superiore al prodotto medio. Questo farà sì che la somma delle remunerazioni risulti superiore al valore del prodotto totale e che l’impresa produca in perdita.

Wicksell cercherà poi d’inquadrare il problema dal punto di vista del ciclo di crescita delle imprese, ma alla fine affermerà anche lui che è la concorrenza stessa a spingere le imprese a scegliere quella scala di produzione che permetta loro di produrre al costo medio di produzione più basso possibile, data una certa tecnologia disponibile, ovvero nel punto di minimo della curva dei costi medi {F}. In queste condizioni il valore del prodotto è uguale al costo dei fattori produttivi impiegati e quindi il prodotto è perfettamente esaurito e non vi sono extraprofitti.

 

Sembrava quindi che la supposta demolizione neoclassica del concetto marxista di sfruttamento, compiuta tra il 1886 (lavoro iniziale di Bates Clark sull’argomento) e il 1901 (primo volume delle lezioni di Wicksell sull’economia politica, “Föreläsningar i nationalekonomi”), avesse posto una pietra tombale sulla teoria del socialismo scientifico, lasciando spazio soltanto a un certo socialismo etico, gradualista e di matrice liberale, condiviso anche da taluni esponenti progressisti dell’economia marginalista, quali, tra gli altri, gli stessi Walras e Wicksell, e in ambito italiano Eugenio Rignano, Attilio Cabiati e, soprattutto, il celebre amico di Turati ed assessore socialista Giovanni Montemartini [2]. Si trattò comunque di una esigua minoranza in quanto la gran parte degli economisti marginalisti accademici del periodo compreso tra il 1871 e la grande crisi del 1929 optarono per posizioni liberali oppure liberal-conservatrici, se non addirittura in qualche caso autoritarie e semi-fasciste, come per Maffeo Pantaleoni e di Vilfredo Pareto in Italia.

Tuttavia le tesi marginaliste del primo Bates Clark sulla distribuzione sociale della ricchezza dal carattere altamente conservatore erano solo la punta dell’iceberg della lotta senza quartiere ai residui teorici della scuola classica dell’economia politica, Ricardo in primis, basati sul concetto di valore-lavoro, benché alcuni importanti studiosi cercarono effettivamente di combinare i nuovi metodi marginalisti con i risultati più rilevanti della tradizione classica di David Ricardo e, soprattutto, di John Stuart Mill, come Alfred Marshall in Gran Bretagna, Frank H. Taussig negli Stati Uniti, Ladislaus von Bortkiewicz in Germania e, si parva componere magnis licet, l’ex-marxista Michail I. Tugan-Baranovskij in Russia e lo stravagante Achille Loria in Italia.

In questo breve articolo dovremo però necessariamente limitarci, soprattutto per ragioni di spazio, a citare le critiche esplicitamente rivolte alla scuola economica marxista, ben compendiate nell’articolo inedito di Henryk Grossman del 1930 “Per la conclusione della controversia sul calcolo dei valori e dei prezzi nel sistema marxiano (una correzione degli errori fondamentali di von Bortkiewicz, Rosa Luxemburg e Otto Bauer)” da noi tradotto e pubblicato on-line [3]. Tra i vari autori marginalisti critici del marxismo vanno sicuramente menzionati per la profondità delle argomentazioni e, soprattutto, per la buona familiarità con i risultati di Marx almeno due nomi: von Böhm Bawerk per la cosiddetta Scuola austriaca e Pareto per quella franco-svizzera. Per motivi di brevità ci limiteremo al lavoro del primo dei due, “Zum Abschluss des Marxschen Systems(“Alla conclusione del sistema di Marx”), che apparve nel 1896, solo due anni dopo la pubblicazione postuma da parte di Engels del III libro de “Il Capitale”. Il marginalista austriaco suppone l’esistenza di un’enorme contraddizione, relativa alla teoria del valore espressa da Marx, tra il III libro de “Il Capitale” che tratta di profitti e di formazione dei prezzi di produzione, e il I libro che tratta esclusivamente della teoria del valore-lavoro. Importante sarà la risposta dell’economista marxista socialdemocratico Rudolf Hilferding che rivendicherà invece la coerenza del programma di ricerca marxiano, sottolineando come i risultati del I libro siano in qualche modo “provvisori”, in quanto incentrati su una singola unità produttiva, mentre quelli del III libro si situino a un livello superiore, oggi definibile come “macroeconomico”, e perfezionino i precedenti senza cancellarli. Naturalmente von Böhm Bawerk non perse l’occasione nel suo lavoro del 1896 di criticare Marx anche per la sua sottovalutazione del processo di domanda e di offerta nella formazione dei prezzi. In realtà, già nel 1884, in un volume intitolato “Geschichte und Kritik der Kapitalzinstheorien (cioè “Storia e critica delle teorie sull'interesse del capitale”), il nostro studioso austriaco si era cimentato con l’economia marxista presentando una critica alla teoria del plusvalore di Karl Marx, affine ma meno elaborata di quella di Bates Clark, in cui si sosteneva che i capitalisti non sfruttano i lavoratori, ma anzi aiutano i propri dipendenti fornendo loro un reddito in anticipo rispetto ai guadagni ottenuti dai beni che producono, affermando quindi che: "Il lavoro non può aumentare la sua quota a scapito del capitale" {G}. È curioso notare come in molti ambienti ultraliberisti anche attuali, nonostante l’articolata risposta di Hilferding {H}, il lavoro di von Böhm Bawerk del 1896 venga considerato la completa e definitiva confutazione del pensiero economico marxiano. All’opposto, le critiche più interessanti e insidiose al marxismo economico sarebbero venute proprio da quell’ambiente piuttosto disincantato, se non addirittura ostile, verso il marginalismo teorico che si configurò nel XX secolo con il nome di “scuola neoricardiana”, riannodando i moderni contributi di Piero Sraffa, Michio Morishima, Wassily W. Leontief e John von Neumann a quelli, quasi dimenticati, dei loro lontani precursori: Vladimir K. Dmitriev, Georg von Charasoff,  Ladislaus von Bortkiewicz, Michail I. Tugan-Baranovskij e Antonio Graziadei {I}. In altre parole, la scuola economica neoclassica, di cui il marginalismo (1870-1930) rappresenta il primo filone e la cosiddetta Nuova Macroeconomia Classica di Robert Lucas ed Edward Prescott quello più recente, non si è mai veramente esercitata nella critica teorica all’economia marxista, ma l’ha quasi ignorata considerandola come obsoleta e irrilevante e proponendo una visione economica non opposta, ma del tutto alternativa, basata in ultima analisi su raffinate rielaborazioni matematiche del vecchio concetto di equilibrio economico generale walrasiano {J}, risalente al lontano 1874. Per gli esponenti di questa scuola, eccettuato il geniale Joseph Schumpeter (di cui sarà utile parlare diffusamente in un’altra occasione) in ultima analisi Karl Marx era soltanto un “post-ricardiano minore”, come William Thompson e Johann Karl Rodbertus, che aveva talora frainteso il suo “maestro” [4]. A riprova di ciò sta il fatto che quando un celebre studioso Paul Samuelson, uno degli autori del più accreditato tentativo di sintesi tra economie keynesiana e neoclassica, si è voluto seriamente cimentare con il marxismo sull’onda della cosiddetta contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, non è riuscito a far di meglio che utilizzare gli argomenti del suo noto e irriducibile avversario Sraffa [5], citandolo addirittura in modo esplicito.

Da parte marxista “ufficiale”, vale a dire quella comunista sovietica, tale sdegnoso disprezzo venne presto ricambiato con gli interessi: al posto dell’interessante dialogo critico proposto dai socialisti austriaci Rudolf Hilferding e Hans Zeisl (“Marxismus und subjektive Theorie”, 1931), si preferì dapprima la critica sarcastica di Nikolaj Bucharin (“L’economia politica del rentier”, 1927) e poi la vera e propria “scomunica ufficiale” nell’epoca staliniana e post-staliniana, come dimostra il lungo lavoro di Izrail’ G. Bljumin (“Critica dell’economia politica borghese” in tre volumi, 1962).

 

Eppure, data la situazione appena descritta circa i rapporti tra economia marginalista, principalmente accademica, ed economia marxista, essenzialmente “militante”, dobbiamo riscontrare un curioso fenomeno di mimetismo culturale: un certo numero di economisti del secondo dopoguerra, principalmente operanti in Europa Orientale, pur professando un formale rifiuto del marginalismo in quanto espressione del “soggettivismo borghese”, divennero in realtà sempre più familiari con i suoi metodi e i suoi concetti fino a diventare, come nel caso dei polacchi Oskar Lange e Michał Kalecki, veri esperti di equilibrio economico generale {J}. Situazione analoga si poté riscontrare in Russia con Leonid V. Kantorovič, e Viktor V. Novožilov, entrambi rinomati conoscitori delle tecniche più avanzate di programmazione lineare, e in Italia con Antonio Pesenti, l’economista ufficiale del PCI di Palmiro Togliatti e l’autore di un fortunato trattato marxista di economia politica [6]. Ebbene, dopo una dettagliata disamina delle categorie economiche marxiane e della teoria del valore-lavoro (capitoli I e III), nonché una condanna dei metodi economici “soggettivisti” del marginalismo (capitolo V), Pesenti dedica il resto dei due volumi del suo manuale a una dettagliata presentazione dei risultati essenziali della microeconomia neoclassica e della macroeconomia keynesiana, intervallati, o meglio impreziositi, da considerazioni estratte da Marx, Lenin, Lange e Kalecki che sembrano completare e non stroncare le due discipline economiche “borghesi” citate. Addirittura, la ponderosa appendice del suo allievo Gianfranco La Grassa è interamente dedicata ai metodi dell’economia marginalista.

È quindi esistito un vero e proprio “marxismo marginalista”, almeno fino a quando, negli anni ’70 del secolo scorso la gran parte degli economisti marxisti ha finito per abbracciare l’approccio neoricardiano, ugualmente ostile verso la teoria del valore-lavoro e la microeconomia neoclassica? Oppure si è trattato di eclettismo sincretico senza un vero e proprio metodo? Non saremo noi a rispondere a queste due domande, specie in questa sede anzi, le lasceremo volentieri agli storici del pensiero economico. Ci piace solo segnalare il contributo di un economista marxista indipendente, Klaus Hagendorf, vicino a quel che resta del Partito Comunista Francese, che si riallaccia idealmente al pensiero di Novožilov e propone una lettura rigorosamente marginalista della teoria del valore-lavoro [6], eliminando così alla radice il problema della trasformazione dei valori in prezzi. Per presentare la sua proposta (sez. 4) e concludere commentandola brevemente (sez. 5), avremo però prima bisogno di ricapitolare in modo rapido la teoria del valore-lavoro nei classici (sez. 2) e d’illustrare i capisaldi della teoria marginalista del consumo e della produzione (sez. 3).

 

 

2. La teoria del valore-lavoro in David Ricardo e in Karl Marx

 

            Spesso s’intende dire che la teoria economica del valore-lavoro è storicamente legata alla cosiddetta scuola “classica” (o di Manchester) dell’economia politica, ovvero quella sviluppatasi a partire dalla pubblicazione della celebre “Wealth of Nations” (1776) dello scozzese Adam Smith e terminata approssimativamente con l’ultimo importante lavoro economico di John Stuart Mill, “The Principles of Political Economy: with some of their applications to social philosophy” del 1848, mentre l’appartenenza di Karl Marx agli “economisti classici” è ancora materia di dibattito tra gli specialisti. In caso positivo potremmo spostare la fine di questa scuola fino al 1867, data di pubblicazione del I libro de “Il Capitale”. In realtà si tratta di un’utile semplificazione che, come tutte le semplificazioni, va presa cum grano salis. La teoria del valore economico è in effetti vecchia quanto l’economia stessa, dato che, come sottolinea correttamente Benedetto Croce, non si dà una disciplina economica senza la categoria del valore, così come non si dà una disciplina morale senza la categoria del bene. E non potrebbe essere altrimenti dato che il primo atto dello “homo oeconomicus” fu probabilmente quello dello scambio equo di merci, ossia del baratto tra beni (o servizi) diversi ma che entrambi i contraenti convennero esser dotati di uguale valore. Orbene, tutte le dottrine del valore economico [1] oscillano tra due poli opposti, sebbene con un’infinità di gamme e sfumature diverse: il valore-lavoro e il valore-utilità. Il primo dei due approcci riconduce il valore economico di una qualunque merce all’intensità di lavoro umano necessaria per produrre tale merce insieme a tutti i componenti usati per fabbricarla. Il secondo invece si propone di legare il valore economico alla capacità di una merce, di per sé rara o comunque non sufficientemente abbondante, di soddisfare taluni bisogni umani, o meglio, di provocare piacere (consumo della merce), ma anche pena (fatica per il lavoro necessario a potersi procurare tale merce). In nuce nel noto dibattito settecentesco tra Adam Smith, difensore della teoria del valore-lavoro, e Jeremy Bentham, propugnatore della dottrina dell’utilitarismo, vi è tutta la storia della successiva economia politica almeno fino alla rivoluzione marginalista del 1871. Ma questo fatto, anche se importante, non deve farci dimenticare che la teoria del valore-lavoro è molto più antica dell’età illuminista: già Tommaso d’Aquino, filosofo scolastico del XIII secolo, discutendo Aristotele e la teoria del “prezzo giusto” arriva su questo argomento a concezioni notevolmente simili a quelle di Ricardo e Marx, con sommo sbigottimento dei pensatori cattolico-conservatori successivi. Parallelamente alcuni autori gesuiti spagnoli dell’età della Controriforma preannunciarono in modo molto chiaro la centralità del concetto di “merce rara” nell’ambito di un embrione della teoria del valore-utilità.

D’altro canto, contro la banale equazione tra teoria del valore-lavoro e “scuola classica” dell’economia politica vi è anche una constatazione di tutt’altra natura: non tutti i pensatori “classici” britannici o francesi difesero apertamente il concetto di valore-lavoro. Per esempio Marx, che ha scritto di argomenti economici appena prima della “rivoluzione marginalista”, polemizza contro i cosiddetti “economisti volgari” suoi predecessori: Jean-Baptiste Say, Frédéric Bastiat ecc., rei a suo dire di aver sostituito la teoria economica del valore di scambio con quella del prezzo, ed è inoltre particolarmente astioso nei confronti di John Stuart Mill per il suo parziale scivolamento dalla dottrina di Ricardo a quella dei costi di produzione che sembrerebbe già preannunciare le tesi economiche neoclassiche di Marshall. In somma, dato il panorama piuttosto complesso dell’elaborazione da parte della “scuola classica” di una dottrina del valore, non potremo soffermarci su tutti gli esponenti di spicco di questa scuola (ossia Smith, Malthus, Ricardo, Mill e Marx), ma, all’opposto, saremo costretti ad operare una dura quanto arbitraria selezione, soffermandoci in quel che segue solo sulle idee di Ricardo e di Marx.

 

Ricardo elabora la sua teoria del valore economico prendendo in considerazione esclusivamente i prezzi naturali delle varie merci, ossia quelli che (almeno secondo la teoria additiva del valore) consentono di pagare il costo dei tre fattori produttivi necessari a fabbricarle: il salario dei lavoratori, il profitto dei capitalisti e le rendite dei proprietari terrieri, tutti ai loro normali saggi di retribuzione. Naturalmente la complessità del discorso economico, dopo questa definizione, potrebbe essersi solo spostata dall’aggettivo “naturale” all’aggettivo “normale”, ma per ora soprassediamo. I prezzi naturali si contrappongono comunque ai cosiddetti prezzi di mercato (o prezzi effettivi) delle merci, che sono influenzati dalle forze della domanda e dell’offerta: le fluttuazioni dei prezzi di mercato dipendono infatti dalla scarsità delle merci rispetto alla loro domanda. In effetti Ricardo si distacca dalla teoria additiva dei prezzi naturali proposta da Adam Smith e recepita dal celebre Thomas Robert Malthus (di cui Ricardo è uno dei principali critici), in cui si postula la differenza, almeno per le economie capitaliste moderne, tra valore-lavoro comandato e valore-lavoro contenuto [1]. Il primo è semplicemente il rapporto tra il prezzo di una merce e il costo medio giornaliero del lavoro (non qualificato), ovvero rappresenta il numero di giorni di lavoro che si possono acquistare (ossia “comandare”) una volta incassato il corrispettivo della vendita di una determinata merce. Il secondo invece è la quantità media di lavoro (non-qualificato) che è necessaria per produrre una certa merce (incluse tutte le componenti di capitale che vengono consumate in questo processo di fabbricazione). Va da sé che tali definizioni possono offrire il fianco a critiche dovute al cosiddetto problema dell’ ”aggregazione del lavoro”, ossia il fatto che non tutte le produzioni agricole e industriali si avvalgono solo di “proletari”: lavoratori non qualificati e facilmente rimpiazzabili, ma comunque retribuiti in modo abbastanza simile tra loro. Anche su questa difficoltà sarà bene glissare per il momento.

Ricardo inizia sfrondando il primo addendo dalla teoria additiva del valore di Smith: la rendita fondiaria. Essa non entrerebbe nel calcolo dei valori delle merci, in quanto il prezzo di una merce, supponiamo per semplicità una forma di pane, verrebbe determinato, insieme beninteso al lavoro e ai fattori produttivi “industriali” (trebbiatrici, mulini, forni ecc.), solo dal cosiddetto grano “marginale”, ossia da quello proveniente dalla terra “marginale” coltivata: la meno fertile. Il ragionamento potrebbe suonare oscuro a un lettore moderno non più aduso a ragionare sui problemi del mondo rurale, ancora così pressanti nell’Europa del XIX secolo, ma in realtà il discorso di Ricardo è semplice: nell’agricoltura sono coltivate le terre disponibili in ragione della loro fertilità e della domanda del prodotto agricolo da esse ricavato. Concentriamoci per esempio sul grano: data una domanda complessiva di grano, dovrà esser messa a coltura una certa serie di terreni per soddisfarla, iniziando dal più fertile fino al peggiore in termini di fertilità. Maggiore è la domanda più scarsa è la fertilità dell’ultimo appezzamento coltivato, detto appunto “terra marginale”. Orbene, il proprietario terriero domanderà all’imprenditore agricolo una rendita tanto maggiore quanto migliore è la qualità del terreno che quest’ultimo fa coltivare, a scendere fino al possessore della terra ‘marginale’ che si dovrà accontentare di pochi trascurabili spiccioli (piuttosto che nulla). In questo senso Ricardo dice che sulla terra marginale la rendita fondiaria praticamente si annulla. Questo meccanismo economico spontaneo, detto della “rendita differenziale”, fa sì che sul mercato si formi un prezzo unico per il grano, poiché chi ne produce di più (a parità di lavoro utilizzato e di capitale investito) è anche soggetto al pagamento di una rendita maggiore. Da ciò è facile capire che è proprio la terra marginale, quella virtualmente priva di rendita, a fissare il prezzo del grano. Naturalmente diversi autori, Marx incluso, criticarono Ricardo per il suo disinteresse in una teoria della rendita assoluta. Ossia il fatto che, comunque, nella realtà anche sui terreni meno fertili sussiste una certa rendita, sicuramente piccola ma non trascurabile. Nei terreni non-marginali le due rendite, differenziale e assoluta, si sommano dando luogo alla cosiddetta rendita totale.

 

Quindi per Ricardo, esclusa la rendita, sarebbero soltanto gli altri costi di produzione a formare il valore di una merce. Ma poi anche il secondo addendo, il profitto dei capitalisti, viene cancellato non lasciando alcuno spazio al calcolo additivo dei redditi ipotizzato da Smith. Secondo Ricardo, infatti, il profitto è solo una grandezza economica residuale.

Il suo punto di partenza di questo ragionamento, apparentemente paradossale, è l’ipotesi ricardiana fondamentale dell’esistenza di una relazione inversa tra salari e profitti, che può esser rappresentata da una semplice relazione tra valori-lavoro:

 

C ( 1 + r ) = W – ( v / p0 ) L,                                         (1)

 

dove W è il valore della merce prodotta, p0 sono i prezzi medi delle derrate usate per sfamare giornalmente i lavoratori e le loro famiglie, L sono le giornate di lavoro utilizzate nel processo produttivo, v il salario medio giornaliero dei lavoratori, r il saggio di profitto netto e C il valore del capitale investito nello stesso processo produttivo. Il quoziente v / p0, detto salario reale giornaliero, gode di particolare importanza in quanto determina l’effettivo soddisfacimento dei bisogni primari dei lavoratori. È quasi superfluo ricordare che ai tempi in cui scriveva Ricardo (1810-1823) il grosso di tali bisogni consistesse in cibi frugali e poco più. Di norma però si preferisce ridurre l’Eq. (1) alla singola unità valoriale (e non fisica) di merce, dividendo tutto per W:

 

                                                                          c ( 1 + r ) = 1 ( v / p0 ) l,                                         (2)

 

dove c e l sono, rispettivamente, i cosiddetti coefficienti di capitale e di lavoro, ossia il valore del capitale e le giornate di lavoro che entrano in una quantità di merce dal valore unitario. Ora l’Eq. (2) si può scrivere anche come:

 

                                                                  ( 1 + r ) = 1 / c – ( v / p0 ) l/ c,                                        (3)

 

Ma, essendo il profitto per Ricardo una grandezza residuale, se aumenta il salario reale dei lavoratori, v / p0, oppure diminuisce la produttività del lavoro, ovvero cresce la quantità di lavoro, l, necessaria per fabbricare un’unità valoriale di merce, il saggio di profitto lordo, 1 + r, si riduce. E così ovviamente anche quello netto, r. Questa relazione è per il nostro autore, guadagnandosi così i successivi elogi di Marx, l’equazione fondamentale dell’economia capitalista: il saggio di profitto netto r, diverso da zero e positivo, è solo un residuo del fatto che:

 

 0 < c < 1 - ( v / p0 ) l.                                               (4)

 

Infatti per ( v / p0 ) l = 1 – c il saggio di profitto netto si annulla. Questo spiega la necessità di comprimere il salario reale giornaliero ( v / p0 ) quanto più possibile (fino a scontrarsi con i limiti fisiologici della sopravvivenza stessa dei lavoratori come nella Gran Bretagna del XIX secolo), ma apre anche un discorso molto interessante sul legame tra il coefficiente di capitale c e il saggio di profitto r, che tuttavia esulerebbe dalle tematiche del nostro lavoro.

Abbiamo detto che per spiegare il valore economico Ricardo evita di usare il concetto smithiano di lavoro comandato perché esso dipende troppo dalla distribuzione dei redditi (la quale è proprio ciò che l’economia politica ambisce spiegare). Quindi il valore comandato non può rappresentare il prius logico da cui far iniziare l’analisi economica. Ricardo osserva infatti che sussistono almeno due problemi in una teoria del valore basata sul lavoro comandato: (i) se aumenta il salario reale ( v / p0 ) a causa di una forte decrescita limitata a p0, il prezzo dei mezzi di consumo frugali, potrebbe anche diminuire leggermente v, il salario nominale. Ciò comporterebbe un aumento dei valori-lavoro comandati di tutte le altre merci e, quindi, dei loro prezzi. In tale circostanza sarebbe difficile provare che un aumento del salario reale riduca il profitto secondo l’Eq. (2). (ii) Quando cambia il prezzo di tutte le merci, varia anche il lavoro comandato da tali merci, a meno che il salario nominale non vari anch’esso della stessa misura.

In altri termini, Ricardo riteneva che il ragionamento di Smith fosse errato in quanto circolare: con il lavoro comandato, questi cercava infatti di spiegare il valore di una merce attraverso un’unità di misura, il salario nominale giornaliero, v, che è anch’esso una merce (il costo di un giorno di forza-lavoro) e che ha quindi un valore assolutamente variabile e non può essere usato come misura invariabile del valore di tutti gli altri beni. Vale forse la pena avvertire il lettore che Ricardo non troverà mai tale misura invariabile e che il suo ragionamento fu svolto fino alla fine in modo analiticamente rigoroso solo un secolo e mezzo dopo da Piero Sraffa nel 1960 [8].

Per eliminare i problemi che abbiamo appena visto di una teoria del valore basata sul lavoro comandato, Ricardo limita la sua analisi al lavoro contenuto nelle merci, che è determinato soltanto dalle tecniche di produzione usate e quindi, diversamente dal lavoro comandato, dovrebbe essere indipendente dalla distribuzione dei prodotti e della ricchezza nella società. Data una certa quantità di merce qualsiasi A, Ricardo scrive che il rapporto tra il suo prezzo totale pA e il salario medio giornaliero v è dato semplicemente da:

pA / v = LA ( 1 + r ),                                                    (5)

 

dove LA è il numero di giorni di lavoro di tutti gli operai utilizzati nella produzione di A. È però ovvio che si tratta del caso più semplice (e irrealistico) in cui le merci sono prodotte soltanto con il lavoro umano e senza l’aggiunta di macchinari e materie prime. Ma persino in questo caso elementare Ricardo scopre che il lavoro contenuto presenta anch’esso seri problemi: nella realtà economica i valori di scambio relativi delle merci variano con la distribuzione del reddito; eppure, non dovrebbero farlo se fossero determinati solo dal rapporto dei lavori contenuti nelle stesse. Infatti, considerando due quantità date di merci qualsiasi A e B (dove materie prime e macchinari siano sempre trascurabili), allora il prezzo relativo di A rispetto a B, pA / pB, dovrebbe equivalere, usando due volte l’Eq. (5), semplicemente a LA / LB. Quindi se i prezzi relativi cambiano a causa di una diversa distribuzione dei redditi, allora questi non possono esser determinati soltanto dal rapporto del lavoro contenuto nelle due quantità di merci distinte. Per risolvere questo problema, che rischiava d’inficiare la relazione tra lavoro contenuto e valore di scambio delle merci, Ricardo ricorre una a soluzione molto tecnica ma anche un po’ artificiosa, basata sulla legge di composizione del tasso d’interesse, nota in matematica finanziaria come “capitalizzazione” {K}. Il valore dipenderebbe sì dal lavoro contenuto nella merce, ma anche dal tempo in cui questo lavoro è impiegato nella produzione, t(A):

 

pA / v = LA ( 1 + r0 ) t(A) / t(0),                                                (6)

 

dove r0 è il saggio di profitto netto relativo a un certo periodo t0 preso convenzionalmente come riferimento (per esempio, un mese ecc.). In questo modo avremo che:

 

pA / pB = LA / LB ( 1 + r0 ) [ t(A) - t(B) ] / t(0),                                     (7)

 

Ma l’Eq. (7) non sembrerebbe spiegare completamente l'indipendenza del valore-lavoro dalla distribuzione dei redditi. Inoltre, Ricardo non si accorge che nelle formule [ossia le Eqq. (5), (6) e (7)] che usa, il valore di scambio è sostanzialmente un rapporto tra valori espressi proprio nelle unità di lavoro comandato ( pA / v ) che aveva cercato di eliminare dalla sua teoria, cioè prezzo diviso salario.

In conclusione, nella sua teoria del valore economico Ricardo cerca di individuare una misura invariabile e assoluta del valore, determinato soltanto dalle tecniche di produzione delle merci e indipendente dalla distribuzione dei redditi. Ma in realtà, il valore assoluto delle merci gli sfugge e potrebbe, almeno secondo i teorici marginalisti, addirittura non esistere. L'economista britannico sembra consapevole della difficoltà del suo problema e impiega tutta la sua vita per cercare questa unità di misura invariante senza però mai trovarla. Come abbiamo già detto, Sraffa riuscirà alla fine a formalizzare il concetto di “merce invariante”, ma a patto di rinunciare alla teoria del valore-lavoro contenuto e a tornare in qualche modo, mutatis mutandis, alla vecchia idea smithiano-malthusiana di lavoro comandato.

 

Passando a Marx, di cui abbiamo già scritto diffusamente altrove circa i concetti di valore d’uso e di prezzo di produzione, cercheremo qui di vedere come la sua teoria del valore si situi nel solco del progetto ricardiano, criticandolo in alcuni punti (assenza del concetto di “plusvalore”) e sforzandosi di completarlo in altri (introduzione rigorosa del ruolo dei beni di capitale). Naturalmente l’esposizione, come nel caso precedente, verrà svolta in modo semplice e divulgativo.

Marx costruisce la propria teoria del valore ispirandosi direttamente al concetto di valore-lavoro contenuto di Ricardo: il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro (astratto e socialmente necessario, per la precisione {L}) impiegato direttamente e indirettamente per produrla. Tuttavia, a differenza di Ricardo, secondo Marx le merci non sono scambiate sul mercato al loro valore-lavoro, w. Nella teoria del valore di Marx l’effettivo “valore di scambio” delle merci è il loro prezzo di produzione, p. Ma cosa s’intende per “prezzo di produzione”? Secondo Marx il prezzo di produzione di ogni merce è il prezzo di vendita che rende uniforme il saggio di profitto r goduto da tutti i produttori delle merci. Ma perché il saggio di profitto dovrebbe esser uguale in tutti i settori merceologici? Se il saggio di profitto r fosse maggiore in un settore, i capitalisti disinvestirebbero dagli altri settori economici per rinvestire lì dove r è maggiore. Quando i saggi di profitto sono uguali, invece, si giunge a un equilibrio economico stabile. Pertanto, il rapporto tra il valore-lavoro, w, di due merci, A e B, non eguaglia necessariamente il rapporto tra i prezzi di produzione delle due merci:

 

pA / pB ​≠ wA / wB.                                                      (8)

 

Da questo punto di vista Marx sembra accogliere l'intuizione di Adam Smith che, pochi decenni prima, distingueva tra lavoro contenuto e lavoro comandato. Ricordiamo nuovamente a beneficio del lettore quale sia la differenza tra lavoro contenuto e lavoro comandato: il lavoro contenuto è la quantità di lavoro impiegata direttamente e indirettamente per produrre una certa merce. Il lavoro comandato è la quantità di lavoro che la merce può acquistare con scambio sul mercato.

Per dimostrare la teoria del valore di Marx si può utilizzare un modello semplificato con due soli settori produttivi, dedicati rispettivamente alla fabbricazione di beni di consumo C e di mezzi di produzione, o beni di capitale, K. La quantità di valore-lavoro dei rispettivi beni ( wC e wK ) è determinata dalle quantità di “lavoro vivo” ( L ) e di “lavoro morto” ( q wK ) impiegate nelle produzioni secondo le due semplici equazioni contabili:

 

                                                                   wC = LC + qC wK;                                                             (9)

wK = LK + qK wK,   

 

dove le variabili qC e qK indicano le percentuali di capitale impiegate nelle due diverse produzioni ( qC + qK = 1 = 100%). Con un po’ di algebra è facile ricavare dalle due Eqq. (9) l’espressione per il valore-lavoro relativo delle due merci, wC / wK:

 

wC / wK = ( 1 - qK ) LC / LK + qC.                                       (10)

 

Ora, abbiamo visto che secondo Marx le merci non sono scambiate al loro valore-lavoro, bensì al loro prezzo di produzione, che è determinato dal costo del lavoro ( v L, dove v è il salario monetario dei lavoratori), dal costo del capitale ( q pK ) e dal saggio netto di profitto ( r ):

 

pC = v LC + qC pK ( 1 + r ),                                              (11)

                                                                    pK = v LK + qK pK ( 1 + r ).                                                  

 

Si noti come nelle Eqq. (11) abbiamo supposto, differentemente dal caso ricardiano, che il salario sia corrisposto alla fine, non all’inizio, del processo produttivo, dato che non è attualizzato da ( 1 + r ) {L}. Sempre con un po’ di algebra possiamo ricavare il rapporto tra i prezzi di produzione dei beni di consumo C e dei beni di capitale K (detto “prezzo relativo” tra i due), che è il seguente:

 

pC / pK = [ 1 - qK ( 1 + r ) ] LC / LK + qC ( 1 + r ).                           (12)

 

Un confronto tra l’Eq. (10) e l’Eq. (12) può essere estremamente istruttivo, ma prima è necessaria una breve digressione per esplicitare il concetto di plusvalore, ossia di valore-lavoro estratto dai lavoratori ma a loro non pagato. Se sommiamo membro a membro le due Eqq. (9) abbiamo che wC = LC + LK, ossia il valore-lavoro dei beni di consumo è pari al lavoro degli operai dei due settori a cui quindi spetterebbe l’intera produzione dei beni di consumo. Ma questo ovviamente non avviene: una porzione del valore-lavoro da essi prodotto, detto plusvalore, è requisito dai capitalisti per soddisfare i loro consumi. A quanto equivale questa quota? Nel nostro modello è relativamente semplice stimarla tenendo a mente che i lavoratori dei due settori spendono il loro intero salario, v ( LC + LK ), per acquistare beni di consumo, il cui prezzo totale è pC. Se sommiamo membro a membro le due Eqq. (11) abbiamo che: pC = v ( LC + LK ) + r pK. Quindi possiamo stimare agevolmente la percentuale di beni di consumo che va ai capitalisti: r pK / [ v ( LC + LK ) + r pK ] = r pK / pC, e quindi anche il plusvalore totale requisito nei due settori: r wC pK / pC. Il profitto totale dei capitalisti sarà invece semplicemente r pK, che di norma non coinciderà col plusvalore, pure essendo ad esso strettamente legato. In generale nell’economia marxista la percentuale di beni di consumo destinati ai capitalisti è indicata con la formula m / ( 1 + m ), dove m è detto saggio di sfruttamento e non va confuso con il saggio netto di profitto, r. Nel nostro semplice modello a due settori m = r pK / [ v ( LC + LK ) ].

Si potrebbe anche sostenere, almeno secondo un punto di vista “borghese” e “legalista”, che in realtà i capitalisti, in quanto legittimi proprietari del valore-lavoro wK, anche se “morto” comunque necessario per il mantenimento dell’attività produttiva del sistema, non sfruttino i lavoratori. Infatti, sebbene wC = LC + LK provenga interamente dal lavoro, le due componenti dei beni di capitali, (qC + qK) wK = wK, appartengono completamente ai capitalisti. Eppure, persino questa ipotesi “borghese” di mancanza di sfruttamento della forza lavoro sarebbe ammissibile solo sotto particolari condizioni: pC / pK = wC / wK, ossia quando il prezzo relativo dei beni di consumo rispetto ai beni capitali fosse uguale al loro valore-lavoro relativo. Osservando le Eqq. (10) e (12) tale condizione è soddisfatta solo: (a) con saggio netto di profitto nullo r = 0, ipotesi assai irrealistica nel quadro di un’economia capitalista, oppure (b) con LC / LK = qC / qK, che può essere anche riscritta come: qC wK / LC = qK wK / LK, nota come uguaglianza delle composizioni tecniche del capitale dei due settori, ossia il lavoro “morto” diviso per il lavoro “vivo”.

Pertanto, nell’ottica “borghese” lo sfruttamento del lavoro sarebbe nullo solo quando i due settori produttivi avessero lo stesso rapporto tra intensità di lavoro e intensità di capitale. Tuttavia, due diversi settori produttivi usano in genere tecniche differenti, per cui è che raro che abbiano lo stesso rapporto tra capitale e lavoro utilizzati. La composizione tecnica del capitale sarà quindi differente nei vari settori produttivi. Per questa ragione, nel capitalismo i prezzi di produzione divergono sempre dal lavoro contenuto nelle merci a cui si riferiscono:

 

qC wK / LC ​≠ qK wK / LK  pC / pK wC / wK.                                  (13)

 

Questo causa la redistribuzione del plusvalore da un settore produttivo a un altro. In conclusione, secondo Marx, lo sfruttamento del lavoro, persino nella sua versione “borghese”, è davvero insito nel capitalismo. Si noti che anche se i prezzi redistribuiscono il reddito tra i vari settori dell'economia, il prezzo della produzione totale aggregata resta per Marx comunque uguale al valore-lavoro contenuto nella somma delle merci prodotte. Per questo motivo l'analisi macroeconomica di Marx viene svolta sempre in termini di lavoro-contenuto che è indipendente dalla distribuzione dei redditi. In altre parole, secondo Marx l'uguaglianza tra valori-lavoro e prezzi si presenta comunque in ambito macroeconomico, quando i dati del sistema economico sono aggregati, però, in pratica, il valore-lavoro non riflette il valore di scambio effettivo (ossia il prezzo di produzione) di una merce nel singolo settore economico. Si noti inoltre come i prezzi spostino il plusvalore da un settore all'altro ma non ne modifichino la grandezza totale aggregata, che è sempre pari alla somma di tutti i profitti. Quindi la grandezza dei profitti aggregati di un sistema economico non cambia e non viene influenzata dalla distribuzione del plusvalore. Per questo motivo Marx non utilizza nemmeno i profitti nell'analisi aggregata del sistema, ma soltanto i plusvalori. In conclusione, anche per calcolare i valori medi, uguali per tutti i settori, del saggio di profitto, r, e del saggio di sfruttamento, m, è sufficiente nel modello marxiano conoscere la tecnica produttiva e il salario reale dei lavoratori. Ciò condusse l’economista di Treviri a considerare finalmente concluso il programma di ricerca dell’intera economia classica che, né Smith né Ricardo, erano riusciti a condurre a termine.

 

In realtà, almeno secondo gli autori della scuola neoricardiana [9], la distribuzione del plusvalore e dei redditi modificherebbe il valore del prodotto lordo aggregato e le altre grandezze aggregate del sistema economico. Pertanto, le uguaglianze tra prezzi e lavoro contenuto e tra profitti e plusvalore non si presenterebbero esatte nemmeno in ambito aggregato, ma tuttalpiù sarebbero solo delle prime rozze approssimazioni. La sola conoscenza del salario reale e delle tecniche non sarebbe sufficiente per calcolare il saggio di profitto medio e il saggio di sfruttamento medio. È quasi superfluo aggiungere che l’argomento è ancora piuttosto controverso e oppone ormai da mezzo secolo la scuola economica marxista a quella neoricardiana.

 

 

3. Una duplice rivoluzione: utilità marginale e produttività marginale

 

Come si è già visto nell’introduzione, la scuola neoclassica (o marginalista) veicola un approccio del tutto nuovo all’economia politica piuttosto che correggere sistematicamente i risultati non pienamente soddisfacenti della precedente scuola classica. Secondo alcuni autori si tratterebbe di un cambiamento di paradigma in qualche modo analogo a quello compiuto in ambito filosofico nel XVII secolo dalla nota “rivoluzione cartesiana” (ossia razionalista ed empirista), quando la filosofia prima passò da essere una metafisica obiettiva dell’Essere a una gnoseologia soggettiva dell’individuo. Anche nel caso economico il ruolo obiettivo del valore-lavoro lascia spazio nell’ultimo quarto del XIX secolo a una visione essenzialmente “soggettivista” del momento economico che però, si badi bene, non ha nulla di vago o di arbitrario. Infatti, come la gnoseologia moderna è il prius filosofico che poi permette di ricostruire un’ontologia su basi assai più rigorose del passato, così la descrizione razionale del comportamento del singolo agente economico deve lasciar inferire i grandi movimenti economici a livello aggregato e addirittura sociale. Naturalmente, volendo proseguire l’interessante paragone tra la filosofia occidentale e l’economia politica, non si potrà non notare come il progetto di ricostruzione di una metafisica “scientifica” verrà frustrato ampiamente da autori critici come Hume e Kant, così come il progetto di una rigorosa macroeconomia marginalista dovrà passare il vaglio critico di Veblen, Keynes e Sraffa che ne metteranno in risalto diverse debolezze, sia pratiche che metodologiche. Ma questa questione dovremo lasciarla a un futuro articolo sulla grandezza e i limiti della macroeconomia neoclassica (1870-1936) per concentrarci ora sul cuore della microeconomia marginalista: il comportamento del singolo agente economico operante in un mercato, ovvero in un luogo (anche solo virtuale) dove s’incontrano la domanda e l’offerta di merci. Ma cosa s’intende con il termine di “agente economico”? Benché alla base del marginalismo teorico vi è sempre l’individuo inteso come homo oeconomicus, ossia un razionale calcolatore in azione per massimizzare i propri piaceri, dati dal consumo di merci a lui utili, e minimizzare i propri dispiaceri, come la fatica del lavoro, l’esborso di denaro ecc., il marginalismo distingue per comodità diversi tipi di agenti economici a seconda del contesto studiato. Limitandoci in questa brevissima sezione a cenni alla teoria del consumo e a quella della produzione (tralasciando, per esempio, tutto il complesso mondo del mercato dei capitali e delle valute) i nostri agenti economici tipici saranno le singole famiglie per la prima e le singole imprese per la seconda.

 

Come si è già detto, il marginalismo sviluppa la sua teoria del consumatore imperniandola sul concetto soggettivo di utilità (o valore d’uso) di un qualsiasi insieme di quantità (dette “dosi”) delle N merci presenti sul mercato. Ogni famiglia, infatti, è in grado di esprimere il proprio particolare gradimento riguardo a un tale insieme, detto “paniere” e indicato con un vettore q a N componenti, tutte positive o nulle, q1, q2, …, qN, rappresentanti le dosi delle merci. Si richiede solo che la funzione di utilità, indicata con U e applicata a un qualsivoglia paniere q, goda di alcune semplici proprietà matematiche, piuttosto ragionevoli ma talora anche sottili. Però, a differenza dell’opinione dei primi economisti marginalisti e seguendo l’importante intuizione di Pareto, non vi è bisogno che U(q) fornisca necessariamente un numero cardinale, ossia che l’utilità soggettiva espressa da un determinato consumatore nei riguardi di un dato paniere sia quantificabile con un numero: sarebbe una richiesta eccessiva e anche molto arbitraria. Pareto dimostrò come fosse necessario solo il carattere ordinale della funzione di utilità. Ovvero, dati due panieri qA e qB, dobbiamo poter sempre dire se preferiamo qA a qB: U(qA) > U(qB), oppure qB a qA: U(qA) < U(qB), oppure se sono per noi indifferenti: U(qA) = U(qB). Fatta questa premessa teorica molto importante, detta (1) completezza, possiamo elencare brevemente le altre tre proprietà necessarie e sufficienti, dette postulati dell’utilità, affinché una certa funzione U possa essere considerata una legittima utilità economica di un possibile consumatore:

2) riflessività. Per ogni paniere qA, se un altro paniere qB coincide componente per componente con qA, allora si ha sempre che U(qA) = U(qB).

3) transitività. Per ogni terna qA, qB e qC, si ha sempre che se U(qA) > U(qB) e se U(qB) > U(qC), allora U(qA) > U(qC). Ciò garantisce la razionalità delle scelte del consumatore.

4) non sazietà. Per ogni paniere qA se si costruisce un paniere qB identico a qA tranne che per una sola componente qualsiasi che è presa maggiore (per esempio, la componente ima per cui qi,B > qi,A) allora si ha che U(qA) < U(qB).

La non sazietà è certamente la proprietà più interessante delle quattro citate e forse anche quella più criticabile. Da essa, infatti, deriva necessariamente la tesi che ciascun consumatore ambirebbe avere, se fosse possibile, quantità illimitate di merci di ogni sorta in modo da avere utilità via via crescenti. Ciò fa sorridere anche se questo paradosso potrebbe esser formalmente risolto introducendo come disutilità i costi d’immagazzinamento parallelamente crescenti. Ma non è questo il punto. La microeconomia marginalista si basa sull’assunto implicito dell’intrinseca scarsità delle merci e sul fatto che la funzione di utilità spinge il consumatore a desiderare sempre di più, soggetto però al vincolo del suo bilancio familiare, ossia delle sue entrate periodiche M, oltre le quali non può spendere per ricevere utilità via via maggiori. A questo punto entrano in gioco i prezzi unitari p1, p2, …, pN delle merci quantificate dalle dosi q1, q2, …, qN presenti nel paniere q. La spesa sostenuta per assicurarsi tale paniere (e quindi l’utilità U(q)) sarà data dalla somma di p1 q1 + p2 q2 + … + pN qN. Essa si esprime simbolicamente con il cosiddetto “prodotto scalare”: p×q. Il problema economico del consumatore sarà quindi la ricerca del paniere q* che renda massima la sua utilità soggettiva U(q*) compatibilmente al suo vincolo di bilancio M = p×q*. Tutta la teoria marginalista della domanda [10] si basa su questi concetti che però non potremo approfondire in questa sede in quanto non centrali nella proposta di Hagendorf, che invece si fonda sulla teoria marginalista dell’impresa.

Tuttavia, prima di cambiare argomento vogliamo mostrare almeno la soluzione di un caso semplicissimo con due sole merci (per esempio, i giorni di vacanza v e i biglietti per concerti c) in modo da introdurre l’importante concetto di utilità marginale. Per una soluzione matematica quantitativa è però necessaria una versione cardinale dell’utilità, che prenderemo coerentemente con i 4 postulati appena visti, per esempio del tipo Cobb-Douglas {M}: U(v,c) =  A v 0.5 c 0.5, con A fisso e positivo. Quindi per un certo livello stabilito di utilità U1, scriveremo una curva d’indifferenza di v1 in funzione di c1:

 

v1 = v1 (c1, U1) = U1 2 / ( A2 c1 ),                                          (14)

 

il cui senso economico è molto semplice (vedasi anche Fig. 1): le coppie (c1, v1), ossia giorni di vacanza e biglietti di concerti, situati sulla curva in questione sono tutti caratterizzati dalla medesima utilità U1. Uscendo invece dalla curva e prendendo una coppia (c2, v2) si hanno utilità U2 maggiori o minori di U1, a seconda di quale nuova curva, simile ma non identica all’Eq. (14), passi per il punto (c2, v2). Ma qual è la ragione della palese convessità della curva v1 (c1, U1) nella Fig. 1. Anche in questo caso il senso economico è abbastanza intuitivo: molti beni economici posti in contrapposizione, come nel nostro caso le vacanze e i concerti, hanno un carattere di questo tipo: una combinazione ben bilanciata dei due risulta preferibile a una molto sbilanciata, a meno che non vi sia una quantità particolarmente grande di una delle due merci. In parole povere, sarebbe meglio avere sia vacanze (per esempio, 9 giorni) sia concerti (per esempio, 9 concerti l’anno), ma se dovessimo rinunciare quasi del tutto ai concerti (per esempio, 1 solo concerto l’anno), allora accetteremmo la situazione a patto che le nostre vacanze fossero davvero molto lunghe (più di 81 giorni)… Dal punto di vista formale si dice che le curve di indifferenza hanno una forma convessa per effetto dell'utilità marginale, UM, decrescente del consumo di ogni singolo bene: quanto più si consuma un bene, tanto più l'utilità marginale (non l’utilità totale U, che aumenta sempre per via del quarto postulato!) ottenibile dal consumo addizionale si riduce. È però opportuno rinfrescare il concetto di “marginalità” già incontrato nel caso della teoria della produzione e della distribuzione. Nel contesto della teoria del consumatore si tratta dell’aumento di utilità dato dal consumo di una dose aggiuntiva di una certa merce, mantenendo fisse tutte le altre dosi. Ossia, per rimanere al nostro esempio, se si sta godendo di un’utilità U1 con v1 giorni di vacanza e c1 biglietti di concerti, la UM del bene “giorni di vacanza” sarà semplicemente la variazione di utilità nel caso di (v1 + 1) giorni di vacanza e c1 biglietti di concerti: UM(vacanze) = A (v1 + 1) 0.5 c1 0.5 - A v1 0.5 c1 0.5. Specie nel caso di merci con dosi continue, ma, in modo approssimato anche per quelle con dosi discrete (come i giorni di vacanza), è d’uopo scrivere UM come una derivata prima dell’utilità calcolata proprio nel punto rappresentato dal paniere in questione:

 

 UM(vacanze) = UMv ( U / v )( v1, c1 ) = 0.5 A v1-0.5 c10.5.                       (15)

 

Analogamente per UM(concerti) avremo:

 

 UM(concerti) = UMc ( U / c )( v1, c1 ) = 0.5 A v10.5 c1 -0.5.                        (16)

 

Come si può facilmente constatare sia l’utilità marginale del bene “giorni di vacanza” che quella del bene “concerti” sono sempre positive ma decrescono all’aumentare del consumo del bene considerato.

 

 

FIG. 1. Curva d’indifferenza e vincolo di bilancio nel caso di un semplice paniere di consumo a due beni: “giorni di vacanza” e “biglietti di concerti”. La combinazione ottimale q* dei due corrisponde al punto di tangenza tra la curva d’indifferenza migliore e la retta di bilancio.

 

 

Poniamoci ora finalmente il problema di come scegliere la combinazione ottimale, ossia dotata della massima utilità, di v e c che sia compatibile con il nostro bilancio familiare M. Per far ciò abbiamo bisogno di conoscere i prezzi di un giorno di vacanze pv e di un biglietto di concerto pc. La spesa per questi due svaghi sarà quindi data da pv v + pc c e potrà al massimo eguagliare le entrate M. In formule: M = pv v + pc c. Con un po’ d’algebra si dimostra che ciò equivale alla retta v = ( M - pc c ) / pv che ha una pendenza negativa data da  - pc / pv. In Fig. 1 si tratta della linea rossa, detta appunto retta (o vincolo) di bilancio, sulla quale ci sono tutte le combinazioni di v e c che corrispondono proprio a un esborso pari ad M. Ma non tutte queste combinazioni sono caratterizzate dalla stessa utilità; anzi ce n’è solo una, q* = (c*, v*), che è davvero ottimale. È quella rappresentata dal punto in cui una delle infinite curve d’indifferenza, la U0, diventa tangente alla retta di bilancio. Ciò significa che l’utilità massima compatibile con le nostre entrate M è proprio U0. Ossia, utilità maggiori di U0 non sono alla nostra portata, mentre utilità minori di U0 lo sono ma non ci convengono. Cosa caratterizza l’unico punto (c*, v*), comune sia al vincolo di bilancio che alla curva d’indifferenza U0? La geometria analitica viene in nostro soccorso ricordandoci che la condizione di tangenza implica che la derivata della funzione v [cfr. Eq. (14)] rispetto a c, calcolata sulla curva U0 nell’ascissa c*, deve essere uguale alla pendenza della retta tangente - pc / pv. In formule ciò si scrive come:

 

 ( d v / d c )( c*) = - pc / pv.                                      (17)

 

Ma siccome tale derivata può scriversi {N} come il rapporto col segno cambiato delle utilità marginali di v e di c calcolate in (c*, v*):

  

( d v / d c ) ( c*)  =  - ( U / c )(v*, c*) / ( U / v )(v*, c*)  =  - UMc(v*, c*) / UMv(v*, c*),        (18)

 

si arriva a una legge economica fondamentale: il punto ottimale q* è sempre e solo quello in cui le utilità marginali ponderate dai prezzi si equivalgono:

 

UMc / pc = UMv / pv.                                                 (19)

 

Nel nostro esempio numerico ciò implica che:

 

0.5 A v10.5 c1-0.5 / pc = 0.5 A v1-0.5 c10.5 / pv    v1 pv = c1 pc,                      (20)

 

che, insieme al vincolo di bilancio M = pv v1 + pc c1, permette di determinare il punto ottimale q* = (c*, v*) = ( M / ( 2 pc ), M / ( 2 pv ) ) e l’utilità ottimale U0 = A M / [ 2 (pc pv)0.5 ]. Ossia, la massima soddisfazione della nostra unità di consumo, le cui disponibilità siano date da M e le cui preferenze siano espresse da U(v,c) =  A v 0.5 c 0.5, è data dalla seguente combinazione tra giorni di vacanza v e biglietti di concerti c: v = M / ( 2 pv ) e c = M / ( 2 pc ), dove pv è il costo di un giorno di vacanza e pc è il costo di un biglietto di concerto. Il fatto che i nostri valori ottimali non siano in genere numeri interi, come si sarebbe preferito, ma numeri decimali, deriva dall’utilizzo della geometria analitica e delle derivate come utilità marginali, cosa che necessariamente implica dosi continue. Vanno quindi considerate come ragionevoli approssimazioni del caso discreto.

 

Per quello che riguarda la teoria marginalista della produzione, come si è detto, il punto di vista microeconomico identifica la singola impresa come l’agente della produzione. Dato che ci limiteremo in quel che segue a un caso introduttivo piuttosto semplice, assumeremo che si tratti di una piccola ditta che produce una merce caratterizzata invece da un mercato di grandi dimensioni dove non vi siano barriere d’ingresso ad alcuna impresa. Questa ipotesi, detta di concorrenza perfetta, è utile (anche se non sempre realistica) per due importanti ragioni: (1) in primo luogo perché se l’impresa in questione ha dimensioni trascurabili rispetto all’insieme della domanda e dell’offerta del tipo di merce che produce, essa non è assolutamente in grado di influenzarne il prezzo mediante il volume della sua stessa produzione: il prezzo finale della merce fabbricata dal nostro agente economico, P, è quindi dato dall’esterno, più precisamente, secondo la teoria marginalista, è fissato dal mercato; (2) per la medesima ragione del punto precedente la merce prodotta verrà sempre venduta a prescindere dalla quantità immessa sul mercato, Y, dalla nostra piccola impresa: il suo volume produttivo è sempre trascurabile rispetto alla dimensione del mercato.

Fatte queste premesse formuliamo il nostro problema economico della produzione. L’impresa deve decidere quanta merce Y fabbricare in un determinato periodo in modo da massimizzare i suoi profitti, π.  Questi saranno dati semplicemente dalla differenza tra i ricavi: P Y e i costi C:

 

π = P Y – C ,                                                        (21)

 

dove, quindi, Y dovrà esser massimizzata mentre C dovrà esser resa minore possibile.

Per procedere dobbiamo introdurre il concetto di fattore produttivo. Ogni bene o servizio che concorre al processo di fabbricazione e di vendita della merce prodotta dalla nostra impresa è un fattore produttivo: forza-lavoro, materie prime, macchinari, affitti immobiliari, spese pubblicitarie ecc. Le quantità degli N fattori produttivi utilizzati verranno indicate in quel che segue con il vettore x = ( x1, x2, …, xN ). Ciascun fattore avrà un prezzo unitario fisso e determinato dal mercato: p = ( p1, p2, …, pN ) in analogia con la teoria della domanda, per cui i costi di produzione e di vendita saranno dati semplicemente da: C = p1 x1 + p2 x2 + … + pN xN. Più complesso è invece il ruolo dei fattori produttivi nella determinazione di Y. Esso avviene mediante la cosiddetta funzione di produzione: Y = F ( x1, x2, …, xN ). La funzione F determina la quantità di prodotto Y date le quantità dei fattori di produzione x. Essa non ha nulla di economico, in quanto non contiene prezzi, ma dipende solo dall’aspetto tecnico e ingegneristico. In questo senso, F mima le differenti scelte tecnologiche di produzione e le loro rispettive efficienze. Per esempio, se x1 rappresenta la forza-lavoro, x2 le materie prime e x3 i macchinari, risulta evidente come nessuno di questi tre fattori possa esser nullo pena l’annullamento anche di Y; mentre la migliore proporzione tra loro tre non è una cosa per nulla ovvia e dipende dalla situazione contingente. Come la funzione di utilità U anche la funzione di produzione F gode di importanti proprietà formali, ma non ci potremo dilungare su di esse. Quel che ci preme vedere è, nell’ipotesi di concorrenza perfetta, come venga massimizzato il profitto dell’Eq. (21). Essendo tutti i prezzi fissati dal mercato, P e p, il massimo di π, se esiste, si trova matematicamente imponendo che tutte le sue N derivate parziali rispetto ai vari fattori produttivi x1, x2, …, xN si annullino. Vi sarebbe in realtà anche la necessità dello studio della cosiddetta matrice hessiana, ma non è il caso di soffermarci adesso su questo punto pure importante. Ossia per ogni fattore produttivo 1 £ j £ N dobbiamo avere che:

 

π / xj = P (F / xj ) – pj = 0.                                           (21 bis)

 

Se definiamo, ancora in analogia con la teoria della domanda, ( F / xj ) come la cosiddetta produttività marginale del fattore j mo, PMj, otteniamo l’importante legge economica a cui si faceva riferimento nell’introduzione: la massimizzazione del profitto di lungo periodo (cioè quando l’impresa può rivoluzionare tutte le sue tecniche di produzione) nell’ambito della concorrenza perfetta implica che per ogni fattore produttivo il valore del prodotto marginale sia uguale al prezzo. In formule, per ogni 1 j N:

 

P ( F / xj ) = P PMj = pj.                                             (21 tris)

 

È appena il caso di ricordare al lettore che, anche per la produzione, il concetto di marginalità sarebbe più rigorosamente quello definito da dosi discrete del fattore produttivo j mo (per esempio, ore di lavoro, sacchi di cotone, numero di telai ecc.). Ovvero, dato un certo insieme di quantità di N fattori produttivi x, PMj sarebbe data rigorosamente da: F ( x1, … , xj + 1, …, xN ) – F ( x1, … , xj, …, xN ), ossia la differenza di produzione aumentando di una unità il fattore produttivo j mo e lasciando inalterati gli altri fattori. La definizione differenziale, strettamente necessaria solo nel caso continuo, rappresenta in genere una buona approssimazione della precedente ed è quindi usata dappertutto nella vasta teoria marginalista della produzione che il lettore volenteroso potrebbe approfondire nella sconfinata letteratura sull’argomento [10].

Naturalmente non abbiamo nessuna garanzia che tale massimo del profitto esista e sia finito e positivo. In effetti, a seconda della natura di F, esso potrebbe esser finito (caso normale), infinito (l’azienda dovrebbe, irrealisticamente, aumentare senza limiti i suoi profitti espandendo la produzione), nullo (l’azienda non ha nessun utile a fabbricare la minima quantità di prodotto), negativo (l’azienda è in perdita e viene immediatamente chiusa). Si tratta del famoso problema microeconomico dei rendimenti di scala di cui è assolutamente necessario trattare anche se, dato il carattere divulgativo del presente lavoro, ci limiteremo al caso semplice di una funzione di produzione a due soli fattori: il lavoro, L, e i beni capitali, K: Y = f(L, K). Facciamo pure un’ulteriore semplificazione, ancorché piuttosto comune, assumendo per la f(L, K) la nota forma di Cobb-Douglas {M}: Y = c L a K b. In questo caso le produttività marginali dei due fattori produttivi sono immediate e l’Eq. (21 tris) si scrive mediante la coppia:

 

P ( f / L ) = P PML  = P c a f(L, K) / L = a P Y / L  = pL;                     (22)

P ( f / K ) = P PMK  = P c b f(L, K) / K = b P Y / K = pK.

 

Purtroppo, come abbiamo accennato prima a proposito della matrice hessiana, ciò è necessario ma non basta. È cruciale analizzare anche le tre derivate seconde di π rispetto ai due fattori produttivi L e K {O}. Questo implica delle precise condizioni sui nostri esponenti positivi a e b: a + b < 1 (e ovviamente anche a < 1 e b < 1). Nella teoria delle funzioni di Cobb-Douglas ciò corrisponde ai cosiddetti rendimenti di scala decrescenti {M}. Se invece a + b = 1, ovvero nel caso di rendimenti di scala costanti, è possibile dimostrare che il profitto ottimale sarà nullo, come visto nell’introduzione, o indeterminato oppure illimitato.

Dividendo tra loro le due equazioni appena ottenute abbiamo che l’ottimizzazione del profitto implica in primo luogo l’ottimizzazione dell’importante rapporto K / L (detto intensità di capitale, q) che dovrà valere q* = b pL / (a pK). Questo permette di riscrivere una funzione di produzione “ottimizzata”, f*, dipendente da una sola variabile, per esempio il lavoro L, della forma: f* (L) = c La+b ( q* )b. Utilizzando poi l’Eq. (21 bis) e ricordando che ora K = q* L, si avrà che:

 

P (d f* / d L ) = P c ( a + b )( L* ) a+b-1 ( q* ) b = pL + pK q*                          (23)

 P (d 2 f* / d L 2 ) = P c ( a + b ) ( a + b – 1 )( L* ) a+b-2 ( q* ) b < 0

   L* = { ( pL + pK q* ) / [ P c ( a + b ) ( q* ) b ] } 1/ (a+b-1)

          K* = L* q*

 

Diversamente, nel caso in cui l’impresa avrà i costi C bloccati (per esempio, per via di investimenti predeterminati) la situazione sarà del tutto analoga a quella della teoria del consumatore, dove la retta dei costi (detta anche isocosto) C = pL L + pK K prenderà il posto del vincolo di bilancio, mentre la curva f(L, K) = Y = cost. verrà detta isoquanto, in corrispondenza con la curva d’indifferenza U. La massimizzazione del profitto, dati costi fissi, coinciderà quindi con la massimizzazione della quantità di prodotto Y* mediante la scelta del punto ( L*, K* ) dove l’isocosto è tangente all’isoquanto ottimale. Sempre in analogia con il diagramma in Fig. 1, ciò corrisponde alla seguente legge economica: in caso di costi fissi, il punto ottimale ( L*, K* ) è sempre e solo quello in cui i valori dei due prodotti marginali ponderati dai prezzi dei rispettivi fattori si equivalgono:

 

P PML / pL = P PMK / pK.                                           (24)

 

Nel nostro caso, dove secondo Cobb-Douglas si può scrivere:

 

                                                               P PML  =  P c a f(L, K) / L = P a Y / L;                            (25)

P PMK  =  P c b f(L, K) / K = P b Y / K,   

 

avremo quindi: P a Y* / ( L* pL ) = P b Y* / ( K* pK )  e dunque con un po’ d’algebra:  L* / K* = q* = b pL / (a pK ), identicamente a quanto visto nella prima fase del caso di produzione con costi di lungo periodo variabili. In ultimo, nota q*, utilizzando la retta di costo e l’espressione di Cobb-Douglas per Y, risolveremo rapidamente il problema della produzione a costi fissi trovando i valori ottimi L*, K* e Y*.

 

 

4. Tra marxismo e marginalismo: la proposta di Klaus Hagendorf

 

Essendoci familiarizzati, anche se in modo molto superficiale, con i concetti e i metodi del marginalismo, possiamo ora introdurre la proposta di Hagendorf per creare un ponte tra la teoria del valore-lavoro classica e la microeconomia neoclassica, o meglio, come sostiene l’autore, per fornire “un approccio marginale alla teoria del valore-lavoro” [7].

Il punto di partenza di Hagendorf è la teoria marginalista dei costi, che può esser intesa come un aspetto diverso della stessa teoria marginalista della produzione incontrata nella sezione precedente. La sorgente prima di tutti i costi è il lavoro, in quanto questo rappresenta lo sforzo umano per produrre ogni merce dotata di una qualche utilità (o valore d’uso) al fine di permettere la sopravvivenza e la riproduzione del genere umano. Questa premessa è ovviamente del tutto in linea con il punto d’inizio della concezione marxista dell’economia. I costi economici totali si dividono in costo del lavoro, costo del capitale e rendita, ma in realtà il primo è un costo diretto del lavoro (noto pure come costo del “lavoro vivo”), mentre il secondo è un costo indiretto, ma sempre del lavoro, detto anche costo del “lavoro morto”, dovuto al deprezzamento degli investimenti e al tasso d’interesse. Naturalmente vi sono anche altri modi di suddividere i costi; per esempio, la scuola marxista insiste molto nel separare il costo del lavoro socialmente necessario, anche al livello di singola giornata di lavoro, in pagato (capitale variabile) e non-pagato (plusvalore). Il costo del lavoro pagato sarebbe dunque la porzione dell’orario di lavoro sufficiente a produrre, al livello medio, le merci che compongono il salario reale di un lavoratore e a permettere quindi la riproduzione della forza-lavoro. Il marginalismo invece annette molta importanza al prodotto in uscita differenziando tra costi fissi, FC, ossia indipendenti dalle unità q di merce prodotte, e costi variabili, VC, strettamente dipendenti dal numero di tali unità. La loro somma dà luogo ai costi totali, C, espressi dalla cosiddetta “funzione di costo”: C = C(q). Da essa hanno luogo i cosiddetti costi medi (ossia i costi totali per unità di prodotto) AC = C / q, ma anche i costi marginali, MC, ossia i costi totali aggiuntivi per l’aumento di un’unità di merce prodotta: MC = C(q + 1) – C(q) » dC / dq. Si tratta di concetti molto importanti; per esempio, per determinare il costo minimo per unità di prodotto dobbiamo studiare la curva dei costi medi e ricercarvi il minimo tempo di lavoro socialmente necessario, una quantità che potrebbe essere importante anche in un’economia socialista, almeno nella sua fase iniziale. Al contrario, Hagendorf osserva come la scuola marxista ragioni spesso utilizzando l’ipotesi alquanto irrealistica di costi medi costanti (ossia indipendenti da q), tagliandosi così fuori dal dibattito microeconomico sul ruolo della domanda e dell’offerta in relazione al lavoro.

Tornando al costo, è evidente che i costi fissi, FC, se presi per unità di prodotto, FC / q, danno luogo ai costi medi fissi, AFC, che sono una funzione decrescente all’aumentare della produzione q. Al contrario, dopo un certo valore di q, è comune che MC cominci a crescere all’aumentare della produzione q. Una cosa simile la faranno i costi variabili medi AVC = CV / q, che all’inizio saranno costanti e poi inizieranno a crescere anche loro all’aumentare delle unità prodotte. Questo è un effetto ben noto [10] del fatto che le tecniche usate dalla nostra impresa, oltre una certa capacità produttiva, cominceranno a perdere di efficienza.  Sommando costi variabili e fissi e prendendo la media sulle unità prodotte, avremo che AC = C / q mostrerà la classica forma ad U, come pure MC, entrambe rappresentate in Fig. 2.


 

FIG. 2. Curve dei costi medi per unità di prodotto in funzione della quantità di prodotto q. La linea rossa rappresenta il costo marginale MC, quella verde il costo fisso medio AFC, e quella azzurra il costo variabile medio AVC. La somma di AFC e AVC, ossia il costo totale medio AC, è rappresentata in blu. Si noti come sia AC che MC mostrino il tipico andamento ad U con un minimo ben pronunciato. Il minimo di AC coincide con il punto di ottimo (a) in cui AC interseca MC.

 

A questo punto Hagendorf nota che se assumiamo il capitale come fissato allora il valore del capitale e il costo del suo uso ci appaiono come costi fissi. Quindi se al posto del termine “costo”, C, si sostituisce quello di “lavoro” L, nulla della Fig. 2 cambia: i costi fissi per unità di prodotto FC / q divengono i costi dei mezzi di produzione e del loro uso LF / q; i costi variabili per unità di prodotto ci appaiono qui esclusivamente come quelli dovuti all’utilizzo diretto della forza-lavoro LV / q; il lavoro totale per unità di prodotto è la somma dei due precedenti, LT / q; mentre il lavoro marginale è rappresentato semplicemente da dLT / dq, che naturalmente sarà uguale a dLV / dq, dato che dLF / dq = 0 per definizione di costo fisso. Un fatto molto importante è la nota proprietà delle curve dei costi medi per cui nel punto di ottimo (ossia dove i costi totali per unità di prodotto, LT / q, sono minimi) lì s’intersecano anche le curve di LT / q e di dLT / dq, poiché ciò permette di misurare tutto mediante il lavoro marginale, che, come si è visto, è anche pari semplicemente a dLV / dq, ovvero al lavoro “vivo” marginale {Q}. Questo punto, rappresentato da (a) in Fig. 2, è il minimo del valore-lavoro socialmente necessario ed è il ponte tra economia marxista (che ragiona con le ore di lavoro astratto, LT) ed economia marginalista che invece preferisce i costi totali C espressi in termini monetari, una volta che si sia introdotto un opportuno costo orario del lavoro w.

 

Proseguiamo approfondendo quanto appena visto circa il lavoro e scrivendo una retta dei costi (isocosto) un po’ più generale di quanto visto nella sez. 3, ossia includendo anche il tasso d’interesse r sui beni capitali K presi in prestito: C = w L + ( 1 + r ) K. Avremo bisogno anche di una funzione di produzione q = f (L, K) che determini l’isoquanto q. Ora la domanda di Hagendorf è la seguente: qual è il costo minimo sostenuto dalla nostra azienda campione per produrre una quantità q di merce in uscita? Si tratta di minimizzare C rispetto alle due variabili L e K sotto il vincolo che f (L, K) = cost. = q, cosa che si realizza con la tecnica del moltiplicatore di Lagrange (𝜆), ossia scrivendo una funzione di Lagrange L contenente la variabile ausiliaria 𝜆:

 

 L = w L + ( 1 + r ) K + 𝜆 [ q   f (L, K) ]                                  (26)

 

ed imponendo che le tre (non più due!) derivate parziali di L rispetto a L, K e 𝜆 s’annullino simultaneamente: (L / L) = (L / K) = (L / 𝜆) = 0. Con un po’ d’algebra ciò darà luogo a:

 

                                                                      w = 𝜆 (f / L);                                                            (27)

            ( 1 + r ) = 𝜆 (f / K); 

 q = f(L, K).

 

Invertendo la prima formula delle Eqq. (27) e sfruttando anche la terza abbiamo che  𝜆 = w (L / q). Ma qual è il senso economico di 𝜆? È facile dimostrare che 𝜆 = dC / dq = MC(q), ossia che 𝜆 sia proprio il costo marginale. Infatti se i costi sono dati dalla nuova funzione g(L, K) definita come: C = g(L, K) = w L + ( 1 + r ) K, allora se ne deriva che d C = (g / L) dL + (g / K) dK = w dL + ( 1 + r ) dK. Ma nel punto di ottimo (ossia di costi minimi) valgono le Eqq. (27) e dC = 𝜆 (q / L) dL + 𝜆 (q / K) dK. Ora (q / L) dL + (q / K) dK = d q per definizione, dunque dC = 𝜆 dq come volevasi dimostrare. Quindi abbiamo verificato che in un sistema economico ottimale il costo marginale, dC / dq, è semplicemente l’espressione monetaria del lavoro marginale w (L / q).

Il passaggio successivo si basa su un notissimo risultato della microeconomia neoclassica [10]: in regime di concorrenza perfetta il costo marginale di una certa merce j eguaglia il suo prezzo: pj = dC / dqj. Questo significa semplicemente che l’imprenditore aumenterà la produzione della merce qj accollandosi costi aggiuntivi, fino a quell’ultima dose (detta appunto “marginale”) per cui il suo costo aggiuntivo diventerà pari al suo prezzo. Ossia fino a quando il profitto non sarà nullo. Tradotto nel linguaggio di Hagendorf del lavoro marginale, avremo semplicemente che pj = w (L / qi). Ma anche questa formula, a ben vedere, risulta nota al marginalismo se riscritta come: w = pj (qi / L), ovvero il salario, in regime di concorrenza perfetta, equivale al prodotto marginale del lavoro inteso come fattore produttivo. Siamo ora in grado di stimare i prezzi relativi di due merci qualsiasi i e j mediante i loro rispettivi lavori marginali:

 

pi / pj = (L / qi) / (L / qj),                                          (28)

 

ricorrendo quindi al solo lavoro, nello spirito, anche se non nella lettera, della teoria del valore-lavoro di Ricardo e di Marx. Pe completare il nostro discorso possiamo facilmente dimostrare quanto appena supposto circa la massimizzazione del profitto, π,  immaginando sempre una situazione di prezzi fissati (o dalle forze di mercato nel capitalismo privato, o da un’autorità pianificatrice nel capitalismo di stato). Torniamo alla funzione di profitto della sez. 3: π = p qC, ossia il profitto è dato dalla quantità di merce prodotta moltiplicata per il suo prezzo unitario, meno i costi di produzione. Derivando rispetto a q per cercare il massimo di π (e trascurando ancora una volta il problema della matrice hessiana) abbiamo semplicemente che il profitto è massimo, ossia il profitto marginale dπ / dq = 0, per una quantità di merce prodotta tale che dC / dq = p.

 

La formula p = w (L / q) ottenuta per una merce generica è veramente l’architrave della nuova teoria del valore-lavoro proposta da Hagendorf, ovvero la teoria del lavoro marginale. Infatti, se moltiplichiamo entrambi i membri dell’equazione per la quantità di merce q e li dividiamo poi per il salario orario w, otteniamo proprio quello che Adam Smith cercava, ovvero l’espressione del lavoro comandato {P}, p q / w:

 

 p q / w = (L / q) q.                                               (29)

 

Esso eguaglierà il lavoro totale contenuto nella merce, LT, inteso come tempo di lavoro socialmente necessario e dato, come abbiamo appena mostrato, da (L / q) q.

È inoltre possibile a questo punto dimostrare rigorosamente per il lavoro quanto visto in Fig. 2 per i costi, ossia che la curva del lavoro marginale interseca quella del lavoro totale medio nel punto di minimo di quest’ultimo. Infatti se interpretiamo il costo diviso per il salario orario, C / w, come “lavoro totale” LT (ossia “vivo” LV, più “morto” LF) allora la nostra funzione di costo apparirà come LT = LV + LF = LV + ( 1 + r ) K / w, dove K / w è il lavoro “morto” cristallizzato nei mezzi di produzione e r K / w è il lavoro equivalente per l’uso del capitale e rappresenta il plusvalore. Dato che nel nostro modello il solo tipo di lavoro che varia con la quantità di prodotto fabbricata è il lavoro “vivo” LV (poiché il capitale K è fissato al valore K’), abbiamo che dati q e K’, LV è univocamente determinato dall’inversa, h(…), della funzione di produzione f(…): LV = h(q, K’). D’altro canto LF è determinato da: LF = ( 1+ r ) K’ / w, quindi potremo scrivere la funzione lavoro totale LT(q) = LV(q) + LF = h(q, K’) + ( 1+ r ) K’ / w, ossia i costi in termini di ore di lavoro in funzione della quantità q di merce prodotta.

Se ora deriviamo LT(q) rispetto a q, sparisce il lavoro “morto” in quanto non dipende da q e si ha che: dLT / dq = (LV / q) = 1 / (q / LV), ossia la derivata della funzione lavoro totale è pari all’inverso della produttività marginale del lavoro (q / LV). Cerchiamo ora il minimo della funzione lavoro totale media, ossia quella divisa per q: LT(q) / q = LV(q) / q + LF / q. In analogia con la nota {Q} riguardante i costi, dobbiamo derivarla rispetto a q ed eguagliarla a zero:

 

d ( LT(q) / q ) / d q = (q LV(q) / q - LV(q) - LF ) / q2 = (q LV(q) / q – LT ) / q2 = 0.    (30)

 

Relazione che è soddisfatta in q* solo per q* LV(q*) / q = LT ossia LV(q*) / q = LT / q*, cioè il punto q* in cui la merce è prodotta con il minimo lavoro totale medio è lo stesso in cui tale valore totale medio eguaglia il lavoro marginale. Questo punto q* è ovviamente la quantità ottima di merce in uscita, prodotta o in caso di concorrenza perfetta o per un’economia accuratamente pianificata. Ricordando l’Eq. (29) e notando che il simbolo “neoclassico” L è ora rimpiazzato da quello “classico” LV, abbiamo l’espressione dei prezzi unitari di equilibrio p, nonché del prezzo totale della produzione p q*:

 

p  = w LT / q*  = w (LV / q)          p q*  = w LT = w q* (LV / q).          (31)

 

La proposta di Hagendorf si conclude quindi scrivendo esplicitamente anche la definizione di LT:

 

p q*  = w LT = w q* (LV / q) = w LV + ( 1 + r ) K’,                           (32)

 

ossia il prezzo totale della merce in uscita è pari ai salari più il profitto lordo, che in termini marxiani, se come vedremo nelle conclusioni rinunciamo alla differenza tra prezzi di produzione e valori-lavoro, è pari alla notissima formula v + c + s. Abbiamo quindi che il capitale variabile v è pari a w LV, il capitale costante c a K’ e il plusvalore s a r K’. Accettando questo assunto scopriamo subito quella che per Hagendorf è la prima pecca dell’economia marxista “ortodossa”: il saggio di plusvalore m = s / v non è una costante unica nel sistema economico, ma, essendo nel nostro modello dato da r K’ / (w LV), dipende sia dal livello salariale sia dal rapporto K’ / L che varia nei diversi rami industriali.

Naturalmente il modello qui illustrato e proposto da Hagendorf è solo un primo passo, in quanto si basa sull’ottimizzazione a breve termine, ossia trattando il capitale come esogeno, cioè dato dall’esterno, e il salario reale come imposto dai rapporti tra le classi, ma essenzialmente anch’ esso esogeno. Mancherebbero ancora da spiegare i valori del costo del capitale r e, ovviamente, del saggio di plusvalore m.

 

 

5. Conclusioni

 

Dopo aver terminato il nostro lungo excursus storico dal celebrato Adam Smith fino al semisconosciuto Klaus Hagendorf, passando per figure colossali del pensiero economico quali David Ricardo, Karl Marx, Léon Walras, Carl Menger, Alfred Marshal ecc., è senz’altro il momento di trarre un paio di utili conclusioni, dato anche il carattere fortemente divulgativo del presente lavoro. La prima di esse che, sebbene apparentemente banale, è in realtà importantissima, risulta essere la totale confutazione dell’idea (invero molto diffusa) che con l’abbandono delle teorie economiche classiche, il lavoro dell’uomo, inteso in modo marxiano come lavoro socialmente necessario, non sia più al centro del palcoscenico economico. Questo gigantesco equivoco nasce spesso dalla confusione tra l’idea che il valore di scambio di una merce sia la somma dei tempi di lavoro medio usati per produrla più quelli usati per fabbricare tutte le sue componenti via via fino ai prodotti forniti direttamente dalla natura (teoria del valore-lavoro contenuto di Ricardo), e quella secondo cui tale valore sia una funzione omogenea di detti numerosissimi tempi di lavoro. In entrambi i casi senza lavoro non si avrebbe valore, ma la pura somma di addendi è solo la più semplice e primitiva delle funzioni omogenee. Ebbene sia il marxismo che il marginalismo rigettano la teoria pura del valore-lavoro di Ricardo, beninteso ognuno a modo suo, approntando elaborazioni più complesse dei rapporti tra le quattro quantità economiche chiave: capitale, lavoro, profitto e salario. Entrambe le teorie verranno però aspramente criticate dall’acuta analisi di Sraffa, almeno nelle loro forme più ortodosse e semplicistiche. Le uniche versioni microeconomiche che sopravviveranno a tale severo scrutinio saranno da un lato i sistemi neoricardiani più avanzati, veri eredi degli schemi di riproduzione marxiani, e dall’altro i modelli di equilibrio economico generale, successori delle prime teorizzazioni di Walras e Pareto. A uscirne sconfitto non sarà quindi il solo concetto di valore-lavoro classico quanto, molto più in generale, quello di “aggregazione”, ovvero di amalgama di elementi economici eterogenei assemblati in un piccolo numero di aggregati in modo da esser matematicamente maneggevoli. Il lavoro contenuto della sez. 2 o la funzione di produzione f(L, K) delle sezz. 3 e 4 ne rappresentano plasticamente l’essenza. Un tale tipo di approccio, considerato per qualche tempo come una possibile fondazione rigorosa del più empirico metodo macroeconomico, non sarà più seriamente sostenibile dopo la critica sraffiana: i modelli fondamentali dovranno necessariamente basarsi su una moltitudine di agenti in rapporto tra loro che dovranno esser studiati mediante lunghi calcoli operati da supporti informatici, senza possibili comode scorciatoie.

Come seconda conclusione, che questa volta riguarda solo gli economisti marxisti, ci piace ripetere quanto dice Hagendorf relativamente al problema, per lui inesistente, della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione:

“In questo modello i valori-lavoro sono proporzionali ai prezzi e non c'è la trasformazione dei valori in prezzi; i prezzi sono semplicemente le espressioni monetarie dei valori-lavoro. L’unico salario è il prezzo di un’unità di lavoro. In questo contesto tutto il pluslavoro è tempo di lavoro dedicato all'accumulazione del capitale per assicurare la produttività ottimale del lavoro nella dinamica di un’economia in crescita. Tutto il pluslavoro fa parte del tempo di lavoro socialmente necessario.” [7] (traduzione di D K {R}).

 

In formule, abbiamo visto nella sezione precedente per il semplicissimo modellino a capitale fisso di Hagendorf come il lavoro “vivo” LV compaia direttamente nei prezzi in forma differenziale, gettando così un ponte tra le note grandezze marxiste, c ed s, e quelle marginaliste w e q: w [ LV / q - LV / q ] = ( c + s ) / q.

Ma dire questo non significa tessere le lodi del capitalismo così com’è, confondendolo magari con il sistema economico idealizzato e ottimale descritto dal marginalismo, anzi, all’opposto, Hagendorf prosegue lucidamente:

“Abbiamo messo a confronto questo sistema economico ottimale con il sistema capitalista realmente esistente e abbiamo ragionato sul fatto che i capitalisti si sforzano di ottenere profitti (pluslavoro) per consumarli, nonostante questo sia in flagrante contraddizione con i requisiti di un sistema economico ottimale. Ma questo aspetto del modo di produzione capitalistico non è l’unica caratteristica che distingua il sistema capitalistico da un sistema economico ottimale. Un'altra questione centrale, derivante dalla lotta privata per i profitti, è la divergenza dei prezzi dal costo effettivo od ottimale (socialmente necessario). Nel nostro modello abbiamo assunto che i prezzi siano parametri e che le imprese non possano esercitare alcun controllo su di essi. In pratica ciò accade solo raramente e i prezzi sono soggetti a deliberate manipolazioni. La regola generale della massimizzazione del profitto è che il ricavo marginale deve essere uguale al costo marginale, ma se i prezzi dipendono e cambiano in funzione della quantità di merce prodotta dall'impresa, i prezzi non sono più uguali ai costi marginali. Ciò porta a un rialzo del prezzo al di sopra del costo marginale e al fallimento della teoria del valore-lavoro e, con essa, dell'uso ottimale del lavoro e delle altre risorse economiche” [7] (traduzione di D K {S}).

 

E infine conclude:

"Il capitalista non sa nulla del tasso di profitto r o del percorso aureo per lo sviluppo economico e si preoccupa solo della differenza tra reddito e costo, vendendo al maggior prezzo possibile e pagando il salario minimo per una giornata lavorativa che sia la più lunga ed efficiente possibile. Il punto essenziale è che quella parte di valore che si crea nel processo di produzione, ma di cui i lavoratori - i produttori di quel valore - non si appropriano, è lavoro sfruttato. Ma quando ci rendiamo conto che quel pluslavoro è socialmente necessario per l'accumulazione del capitale, il lavoratore può rivendicarla solo se la usa per questo scopo e soltanto per questo scopo! La soluzione è l'introduzione di un contributo per l’investimento come parte del salario nonché del controllo democratico collettivo dell'accumulazione del capitale. [7] (traduzione di D K {T}).

 

In poche parole, e soprattutto in barba a Bates Clark, Pareto e Böhm-Bawerk, ma nel solco di Lange, Kantorovič e Novožilov, il nostro autore si professa chiaramente socialista proprio perché è convintamente marginalista!

 

 Dan Kolog

 

Note

 

{A} L’utilizzo del marginalismo come strumento di lotta politica e ideologica, indipendentemente dai suoi pur validi contenuti scientifici, è palese nella vicenda di Bates-Clark, ma anche di Böhm-Bawerk, di Pareto e di Pantaleoni, ossia di tutti quegli economisti neoclassici che presero parte al dibattito pubblico antiradicale e antisocialista nel periodo compreso tra la fondazione della Seconda Internazionale (1889) e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (1914). Ai radicali americani “georgisti”, che portando alle estreme conseguenze le idee di Ricardo sulla rendita, chiedevano l’esproprio di tutti i proprietari fondiari e l’affitto dei terreni fertili alle imprese coltivatrici da parte dello Stato mediante il pagamento di una tassa unica, i marginalisti ricordavano che, almeno in un sistema capitalistico perfettamente concorrenziale, la rendita fondiaria è pari alla produttività marginale della terra in questione e dunque non è corretto parlare di parassitismo del rentier. Questi, al contrario, è remunerato in base a quanto rendono i fattori produttivi di sua proprietà che egli mette a disposizione dei processi economici. Ai socialisti europei “marxisti”, che traendo ispirazione dalla dottrina del plusvalore, chiedevano la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di distribuzione, i marginalisti ricordavano che, sempre in un sistema capitalistico perfettamente concorrenziale, il profitto è pari alla produttività marginale del capitale investito e dunque non è corretto parlare di sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti. Entrambi sono, al contrario, remunerati in base a quanto rendono i fattori produttivi di loro proprietà che essi mettono a disposizione dei processi economici: il lavoro nel caso dei primi, i capitali nel caso dei secondi. Il plusvalore sarebbe dunque un’illusione. Ma già il vecchio anarchico Proudhon (vedasi “Qu’est ce que la propriété?” del 1840) sarebbe stato in grado di smascherare un tale penoso sofisma, in quanto incapace di rispondere seriamente alla domanda elementare relativa a chi stabilisca i diritti di proprietà di terre e capitali, per esempio, nell’ambito delle successioni ereditarie o addirittura nelle fasi turbolente della cosiddetta “accumulazione capitalista originaria”. Saranno solo i successivi studiosi marginalisti della cosiddetta “economics of welfare”, specie Arthur Cecil Pigou nel 1920, a disconnettere i teoremi relativi all’uso efficiente delle risorse nel caso di concorrenza perfetta, dal problema della distribuzione iniziale delle stesse (“dotazione iniziale”).

 

{B} Nel corso dello sviluppo della filosofia occidentale moderna, in corrispondenza dell’Illuminismo maturo della metà del XVIII secolo, alcuni pensatori (specie David Hume in Scozia e Immanuel Kant in Prussia) maturarono l’idea di una netta e radicale separazione tra teoria della conoscenza (epistemologia) e filosofia morale (etica). Tale decisione ebbe un’importanza fondamentale perché permise un secolo dopo la nascita delle cosiddette scienze umane obiettive (psicologia, sociologia, etnologia, antropologia ecc.) distinte dalle preesistenti scienze morali (diritto, etica ecc.). Infatti, secondo il noto sociologo Max Weber il requisito essenziale di una scienza umana è proprio quello di essere wertfrei (libera da giudizi di valore), quindi slegata dall’etica. Il caposaldo di tale divorzio sta appunto nel principio di Hume, ovvero nell’impossibilità di ricavare norme etiche (vale a dire, ciò che andrebbe fatto e ciò che andrebbe evitato in una data circostanza) da constatazioni di tipo fattuale (come determinate cose sono o non sono effettivamente nella realtà). Questo concetto, per noi oggi tutto sommato abbastanza ovvio, non lo era affatto nell’antichità e nel medioevo, dove vari filosofi, anche di alto livello come Platone, Aristotele e Tommaso d’Aquino, si erano sforzati di derivare l’etica dalle loro concezioni metafisiche e ontologiche. Nel caso dell’accusa a Bates-Clark d’ignorare il principio di Hume ci si riferisce a come l’economista americano tenti in effetti di dipingere come eticamente accettabile il capitalismo soprattutto per la ragione che esso nella pratica funziona in un certo determinato modo.     

 

{C} Con il termine di produttività marginale o prodotto marginale, pm(…), di un fattore produttivo xn (per esempio, il lavoro, un certo tipo di macchinario, l’appezzamento di terreno usato ecc.) s’intende in microeconomia neoclassica l'incremento del prodotto Q che risulta dall’utilizzo di una dose aggiuntiva di xn rispetto alla quantità precedente usata di tale fattore, mantenendo constanti tutti gli altri fattori produttivi: pm(xn)=[Q(x1, …, xn+1, …)-Q(x1, …, xn, …)]. Se poi il fattore produttivo è continuo (per esempio, le ore lavorate), allora si fa volentieri uso della nozione di derivata parziale e si indica la produttività marginale del fattore nmo come: pm(xn)=Q(x1, …, xn, …)/ xn. È un concetto-chiave della teoria marginalista della produzione.

 

{D} Le funzioni di produzione esprimono relazioni tra le quantità dei singoli fattori produttivi usati, x1, x2, …, xN, e la quantità di prodotto ottenuta: Q=F(x1, x2, …, xN), dove F è la tecnologia adoperata, ovvero la funzione di produzione stessa. Una funzione di produzione elementare alla base di molti modelli economici è quella definita come la produzione annuale, Y, in base a due soli fattori produttivi, il capitale iniziale investito K e il lavoro utilizzato L: Y=F(K,L). In generale, una funzione di produzione F è detta avere “rendimenti di scala costanti” se, per ogni parametro A maggiore di zero, si ha che: F(Ax1, Ax2, …, AxN)=AQ, ovvero se un’espansione (contrazione) di tutti i fattori produttivi comporta sempre una proporzionale espansione (contrazione) del prodotto Q. In questo caso vale il citato teorema di Eulero sulla derivata delle funzioni omogenee di primo grado, che serve a dimostrare l’esaurimento del prodotto e di cui riportiamo in formule l’enunciato: Q=x1(F/x1)+x2(F/x2)+…+ xN(F/xN)=x1pm1+x2pm2+…+xNpmN. Ossia, la somma delle produttività marginali (cfr. nota {C}), moltiplicate per le corrispondenti quantità di fattore produttivo usate, è rigorosamente pari al prodotto totale.

 

{E} Il prodotto medio, detto anche prodotto unitario, pu(…), di un certo fattore produttivo è un altro concetto-chiave della teoria marginalista della produzione ed è definito come il rapporto tra il prodotto totale Q e la quantità di fattore produttivo xn utilizzata per fabbricare Q: pu(xn)= Q(x1, …, xn, …)/xn. Non va assolutamente confuso con il prodotto marginale descritto nella nota {C}.

 

{F} Analogamente al prodotto medio della nota {E}, possiamo definire in una certa attività produttiva, i costi per unità di prodotto o costi medi (cu), come il rapporto tra i costi totali C sostenuti dall’impresa in un determinato periodo, per esempio un anno, e la quantità di prodotto fabbricata nello stesso periodo Y: cu=C/Y.

 

{G} Abbiamo visto, sia nel testo principale che nella nota {A}, il tono degli argomenti dei teorici del marginalismo nei confronti di tutti quei socialisti che, portando alle estreme conseguenze logiche le dottrine della scuola classica (soprattutto di Ricardo), erano arrivati a identificare l’origine del profitto capitalista con il cosiddetto plusvalore, ossia la frazione di valore-lavoro prodotto dai lavoratori ma di cui i capitalisti si appropriano gratuitamente. Ovviamente stiamo parlando di Marx ed Engels, benché anche altri autori, detti appunto “socialisti ricardiani” (William Thompson, Thomas Hodgskin, Johann Karl Rodbertus ecc.), erano giunti a conclusioni simili. Naturalmente una possibile strada per confutare queste dottrine ad opera degli economisti accademici poteva essere quella battuta da Bates-Clark, che abbiamo descritto, in cui viene difesa l’idea della giusta remunerazione dei fattori produttivi, terra, capitale e lavoro, in base alle rispettive produttività marginali. Tuttavia, abbiamo anche descritto le difficoltà tecniche di una tale difesa, così legata alle sottigliezze matematiche della concorrenza perfetta e dei rendimenti di scala costanti. Per questo motivo la strategia anti-ricardiana e antimarxista della maggior parte degli altri economisti marginalisti interessati alla teoria della distribuzione si concentrò su un compito apparentemente più facile: la semplice demolizione della teoria del valore-lavoro senza la quale il concetto stesso di plusvalore appariva non adeguatamente fondato. A tale compito si dedicheranno con gran lena sia Böhm-Bawerk che Pareto, il primo attaccando “Il Capitale” di Marx per la sua presunta incoerenza tra gli approcci del libro I e del libro III, il secondo riesumando invece nel suo opuscolo critico contro il libro I, i più triti argomenti opposti alla teoria del valore-lavoro noti almeno dai tempi di Smith.

 

{H} Nell’ambito marxista la vera fucina delle contro-critiche al marginalismo furono l’Austria e la Germania Meridionale, date anche l’importanza e la popolarità della scuola marginalista viennese (Menger, Böhm-Bawerk, von Wieser, von Hayek, von Mises ecc.). In questo contesto Hilferding non fu il solo a rispondere ai neoclassici, in quanto sia Karl Renner, che Otto Bauer e sua moglie Helene fornirono diversi contributi a dibattito anche se in modo forse un po’ rigido e dogmatico. Al livello accademico però fu senz’altro Emil Lederer, professore di economia politica a Heidelber e Berlino, nonché convinto socialista, il più accurato e preciso nella sua difesa della teoria del valore-lavoro. Il lavoro di Hilferding è forse il più noto in quanto tra i primi (1904) e per questo considerato da molti come la “difesa ufficiale” del programma di ricerca marxiano dalle aspre critiche di Böhm-Bawerk. In realtà, come scrive correttamente Emil Kauder a Ludwig von Mises nel 1969, ossia a più di mezzo secolo dai fatti, il dibattito tra Böhm-Bawerk e Hilferding è essenzialmente un “dialogo tra sordi”, in quanto nessuno dei due sembra seriamente disposto a mettere in discussione le basi della sua concezione economica e si limita quindi ad attaccare Marx oppure a difenderlo d’ufficio. Ben diverso sarà l’atteggiamento di Hans Zeisl ed Emil Lederer, che tra gli anni ’20 e ’30 s’interrogheranno seriamente sulle ragioni, vere o presunte, dell’incompatibilità tra marxismo economico e marginalismo.

 

{I} Antonio Graziadei (Imola 1873 – Nervi 1953) fu un economista accademico, un giornalista e un parlamentare italiano, prima socialista e poi comunista (fu tra i fondatori del PCd’I nel 1921). Espulso dal partito per “deviazionismo di destra” nel 1928, lasciò la politica attiva per dedicarsi a profondi studi di economia politica e di economia agraria, dove fu un indiscusso maestro. La sua produzione di letteratura economica fu vastissima. Privato della cattedra dal fascismo nel 1926, venne reintegrato sia nel Partito Comunista che nell’Università soltanto dopo la II Guerra Mondiale. Qui non abbiamo tempo di descrivere, se non in modo sommario, la biografia politica del Graziadei, che da posizione ultra-revisioniste e sostanzialmente “bissolatiane”, divenne prima massimalista nel 1915 e poi addirittura terzointernazionalista nel 1917, rimanendo però sostanzialmente estraneo sia alla cultura iper-bolscevica di Bordiga che a quella “ordinovista” di Gramsci e Togliatti. Va tuttavia ricordato che se la sua traiettoria politica fu caratterizzata da diverse svolte, quella economica fu estremamente lineare: rifiuto totale della teoria marxiana del valore-lavoro e profonda ostilità a ogni forma di marginalismo, sia nella sfera del consumo sia in quella della produzione. Sulle orme della teoria del sovrappiù di Mill, cercò di eliminare il concetto stesso di plusvalore, fondando una sua visione dello sfruttamento basata sul concetto più flessibile di plus-prodotto. In questo si avvicinò alquanto, con più di trent’anni d’anticipo, agli intenti della scuola neoricardiana di Sraffa, benché non ne precorresse anche il rigore matematico e la precisione metodologica.    

 

{J} Per “equilibrio economico generale” (walrasiano) s’intende una teoria macroeconomica che si propone di spiegare come la domanda, l’offerta e i prezzi delle diverse merci (beni o servizi) siano tutti collegati tra loro e determinati simultaneamente in uno scenario denominato, non a caso, di "equilibrio generale" per effetto delle sole forze del mercato. Ciò lo distingue da un altro approccio economico, la cosiddetta analisi degli equilibri parziali, che invece analizza indipendentemente la domanda, l’offerta e i prezzi nei mercati delle singole merci. La teoria dell'equilibrio economico generale viene fatta risalire al lavoro di Léon Walras che nel 1874 ipotizzò l'esistenza di un insieme di prezzi per il quale la domanda e l'offerta di ciascuna merce potessero divenire uguali. Però solo nel 1952-1954 tre economisti teorici, Lionel McKenzie, Kenneth Arrow e Gérard Debreu, dimostrarono matematicamente l'esistenza di un tale equilibrio sotto condizioni abbastanza generali. La questione di quanto realistico sia un modello del genere nel descrivere la concreta economia capitalista è tuttavia ancora soggetta a numerose e inconciliabili interpretazioni.

 

{K} Il ragionamento di Ricardo, che suppone il pagamento anticipato dei salari dei lavoratori, è il seguente: se un capitalista anticipa una somma di denaro K a un imprenditore affinché quest’ultimo paghi salari, affitti, forniture ecc., il primo la rivorrà indietro, K’, dopo un periodo convenzionale t0 (un mese, un anno ecc.), maggiorata dall’interesse: K’ = K ( 1 + r0 ) > K, dove r0 è il tasso d’interesse netto per il periodo t0 in questione. Se invece l’imprenditore la restituirà dopo un periodo t, multiplo nmo di t0 (cioè con t = n t0 ), allora dovrà corrispondere al capitalista K’’ = K ( 1 + r0 )n, secondo la nota regola dell’interesse composto, ben nota anche a chi pratica l’usura. Passando al caso generale in cui t non è necessariamente multiplo di t0 e sostituendo al tasso d’interesse il tasso di profitto, com’è comune nell’economia politica, si ha proprio la relazione scritta da Ricardo.

 

{L} Marx è ben conscio del problema dell’“aggregazione del lavoro” che abbiamo citato. Per cercare di sfuggire a possibili critiche di questo segno parla infatti di lavoro “medio”, “astratto”, “socialmente necessario”. Ma cosa intende? Il concetto marxiano è assai semplice se espresso con un esempio. Prendiamo un paio di scarpe di un certo modello, provenienti dal lotto n. 15 prodotto il 25-02-1980 nello stabilimento Barbagrigia di Ascoli in Italia. Una teoria “ingenua” del valore-lavoro direbbe che il valore di queste scarpe è dato dal tempo di lavoro effettivamente usato dagli operai che hanno confezionato il paio in questione, sommato a quello degli operai che, in un altro stabilimento, hanno conciato la pelle usata per cucire proprio quelle scarpe, sommato al tempo di lavoro degli operai che, in un terzo stabilimento, hanno vulcanizzato la gomma delle suole proprio di quelle scarpe, e così via, fino ai prodotti naturali: il bestiame, il petrolio, l’acqua ecc. Una tale teoria del valore sarebbe totalmente plausibile e coerente, ma avrebbe moltissimi punti deboli: un paio di scarpe prodotte da un operaio lesto e veloce varrebbero meno di un paio di scarpe, assolutamente identiche, ma prodotte da un operaio lento e tardo. Un paio di scarpe fabbricate velocemente con una macchina da cucire moderna varrebbero molto meno, per esempio, di un paio identico ma cucito a mano in un tempo molto più lungo. Soprattutto nei processi industriali moderni questo problema dell’aggregazione del lavoro è molto serio in quanto possono concorrere diversissime figure professionali con salari e turni di lavoro molto differenti tra loro: operai comuni, operai specializzati, tecnici, ingegneri ecc. Per questo motivo, già dai tempi di Marx, si è reputato necessario parlare del lavoro contenuto come di un fatto sociale e non legato alla singola realizzazione della merce: il valore-lavoro di una certa merce è il numero di ore di lavoro medie (dove la media è effettuata sia sui singoli lavoratori sia, soprattutto, sulle figure professionali coinvolte nei processi produttivi presi in considerazione) che in una determinata società occorrono di norma per produrre tale merce nonché le sue componenti con processi produttivi standard.

 

{M} Una funzione (di utilità, o di produzione ecc.) di due variabili, g ( x, y ), è detta di Cobb-Douglas se può esser scritta come: g ( x, y ) = c x a y b, con a, b, c costanti non negative. Sono importanti nel caso delle funzioni di produzione del tipo Cobb-Douglas le proprietà dei rendimenti di scala, che definiscono la convenienza a espandere la produzione aumentando in maniera proporzionale x e y mediante un’opportuna costante k: gk = g( kx, ky ). Nel caso in cui a + b > 1, si dice che vi è un rendimento di scala crescente, ossia gk > k g ( x, y ). Per a + b = 1 abbiamo un rendimento di scala costante gk = k g ( x, y ). Se a + b < 1, invece abbiamo un rendimento di scala decrescente gk < k g ( x, y ).

 

{N} L’Eq. (18) si ottiene sfruttando il fatto che rimanendo sempre sulla curva d’indifferenza non si varia l’utilità U0 e quindi il differenziale dell’utilità deve esser nullo ( d U = 0 ). Ma in una funzione di due variabili il differenziale di tale funzione è esprimibile mediante le due derivate parziali: d U = ( U / c ) d c + ( U / v) d v = 0. Da questa relazione è immediato ottenere l’Eq. (18): d v / d c = - ( U / c ) / ( U / v).

 

{O} Si tratta del cosiddetto criterio di Sylvester applicato alla matrice hessiana H (quadrata, 2´2 e simmetrica) contenente tre elementi distinti: h11 = 2 π / L2, h22 = 2 π / K 2 e h21 = h12 = 2 π / ( L K ). Nel nostro caso di ricerca di un massimo di una funzione a due variabili è opportuno che l’opposta della matrice hessiana, - H, sia una matrice cosiddetta “definita positiva” (cioè con due autovalori positivi). Il criterio di Sylvester in questo caso ci assicura che ciò è vero se e solo se - h11 > 0 e [h11 h22 - (h21) 2] > 0. Invece, se quest’ultima quantità fosse nulla l’esistenza di un massimo del profitto andrebbe studiata caso per caso.

 

{P} Potrebbe essere interessante confrontare il risultato dell’Eq. (29) per il lavoro comandato: p q / w = (L / vq) q, con la soluzione sraffiana per la stessa quantità. Purtroppo, dovremo rimandare la questione al prossimo articolo divulgativo, tutto dedicato alla scuola neoricardiana. Per il momento ci limitiamo a dire che il lavoro comandato da una merce jma pj qj / w è nel modello di Sraffa una funzione di tutti gli N2 coefficienti tecnici aij, di tutte le ore di lavoro li associate agli N processi produttivi del sistema in questione (e fin qui nulla di strano), ma anche al tasso di profitto netto r che il sistema si dà e di cui l’equazione di Steedman fornisce solo l’estremo superiore.                                             

 

{Q} La dimostrazione che il minimo della curva di AC(q) corrisponde all’intersezione di questa con la curva MC(q) è molto semplice se ricordiamo la definizione di AC(q) come C(q) / q insieme a quella di MC(q) come dC(q) / dq. Infatti, il minimo di AC(q) si avrà nel punto q* dove dAC(q*) / dq = 0, ovvero dove ( dC(q*) / dq – C (q*) / q ) / q* = 0. Moltiplicando semplicemente per q* abbiamo proprio che dC(q*) / dq = C (q*) / q come volevamo dimostrare.

 

{R} “In this model, labor values are proportional to prices and there is no transformation of values into prices; prices are simply the monetary expressions of labor values. The unique wage rate is the price of a unit of labor. In this context, all surplus labor is labor time devoted to the accumulation of capital to assure the optimal productivity of labor in the dynamics of a growing economy. All surplus labor is part of the socially necessary labor time.” [7]

 

{S} “We have contrasted this optimal economic system with the real existing capitalist system and elaborated on the fact that capitalists strive for profits (surplus labor) in order to consume them, this being in fundamental contradiction to the requirements of an optimal economic system. But this aspect of the capitalist mode of production is not the only feature which distinguishes the capitalistic system from an optimal economic system. Another central issue, arising from the private strive for profits, is the divergence of prices from actual or optimal (socially necessary) cost. In our model, we have assumed that prices are parameters and the firms being unable to exercise any control over them. In practice, this is rarely the case and prices are subject to deliberate manipulations. The general rule of profit maximization is marginal revenue equal marginal cost, and if prices depend on and change with the quantity of the firm’s output produced, prices do not equal marginal costs anymore. This leads to a mark-up of price above marginal cost and the breakdown of the labor theory of value and with it the optimal use of labor and other economic resources.” [7]

 

{T} “The capitalist does not know about the profit rate r or the golden rule path of economic development, and he cares only about the difference between revenue and cost, selling at the highest price possible and paying the lowest wages for a working day as long and efficient as possible. The essential point is that that part of value which is created in the production process but not appropriated by the laborers — the producers of that value — is exploited labor. But when we realize that that surplus labor is socially necessary for capital accumulation, the laborer can claim it only if he uses it for this purpose, and for this only! The solution is the introduction of an investment contribution as part of the wage or salary and the collective democratic control of the accumulation of capital.” [7]

 

 

Bibliografia minima

 

[1] Un classico intramontabile è senz’altro la celebre opera di Eric Roll, Storia del Pensiero Economico, ed. ampliata in 2 voll. (Boringhieri, Torino, 1971).

[2] Sui complessi rapporti tra marginalismo economico e movimento socialista, un testo di riferimento è certamente quello curato da Ian Steedman, Socialism and Marginalism in Economics 1870-1930 (Routledge, London and New York, 1995), con ben 70 pagine dedicate all’Italia.

 

[3] Henryk Grossman, “Per la conclusione della controversia sul calcolo dei valori e dei prezzi nel sistema marxiano (una correzione degli errori fondamentali di von Bortkiewicz, Rosa Luxemburg e Otto Bauer)” (incompleto e inedito, 1930).

http://socialismo-mondiale.blogspot.com/2019/07/per-la-conclusione-della-controversia_3.html

[4] Alfred Marshall, Principi di Economia (UTET, Torino, 1972).

[5] Paul A. Samuelson, Understanding the Marxian Notion of Exploitation: A Summary of the So-Called Transformation Problem Between Marxian Values and Competitive Prices, Journal of Economic Literature, Vol. 9, No. 2 (Jun., 1971), pp. 399-431.

 

[6] Antonio Pesenti, Manuale di economia politica, con appendici di Gianfranco La Grassa e Carlo Casarosa, 2 voll. (Editori Riuniti, Roma, 1970).

 

[7] Klaus Hagendorf, World Review of Political Economy, Vol. 5, No. 2 (Summer 2014), pp. 231-257. 

 

[8] Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci (Einaudi, Torino, 1961).

 

[9] Massimo Finoia, Guida a "Produzione di merci a mezzo merci" di Piero Sraffa (Universale Cappelli, Bologna, 1979).

 

[10] Tantissimi sono i testi introduttivi alla teoria microeconomica del consumatore. Uno dei più accessibili al vasto pubblico è sicuramente il famoso “Prezzi e mercati” di Robert Dorfman (Il Mulino, Bologna, 1980).

 

 

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