La Rivoluzione Francese e il socialismo

 

 

 

Il capitalismo mercantile e i tre ordini sociali

 

Il capitalismo manifatturiero mercantile ha origine nell’Italia dei comuni centrosettentrionali, per esempio, a Firenze, Milano, Genova e Venezia, già a partire dal XII secolo. Quindi nelle città delle Fiandre, dei Paesi Bassi, della Germania renana e dell’Inghilterra, soprattutto con l’allargamento del commercio fuori dal mediterraneo a partire dal XV secolo. Lo sviluppo capitalistico manifatturiero mercantile fu reso possibile principalmente grazie al progresso tecnologico avvenuto durante il Medioevo[1]. Questo comprese l’uso di mulini ad acqua, mulini a vento, filatoi meccanici, arcolai (ovvero dipanatori di matasse), incluse ancora il progresso in campo navale, l’invenzione degli occhiali e dell’orologio, l’introduzione della polvere da sparo e conseguentemente degli schioppi e degli archibugi[2].

 

Gli industriali manifatturieri producevano le mercanzie da commerciare, i mercanti, che spesso erano gli stessi manifatturieri, si arricchivano con il loro commercio, poi giudici, notai, banchieri, assicuratori si occupavano della gestione legale e amministrativa di tale ricchezza, arricchendosi a loro volta. A Firenze, tra il XII e il XIII secolo, queste professioni erano riunite in categorie chiamate corporazioni delle Arti Maggiori. La loro ricchezza riusciva ad acquistare a volte lo status della vera classe dominante dell’epoca, ovvero della nobiltà. Nobilitas sola est atque unica virtus[3], ovvero, la virtù è la sola e unica nobiltà. Il poeta latino Giovenale intende che se non si è nobili nel comportamento il titolo non conta. Ma agli arricchiti interessa la nobiltà di rango, se non acquisita per nascita, acquistata in virtù dell’essersi arricchiti. Nobiltà come strumento di potere politico e amministrativo. La nobiltà intesa come virtù era un problema da intellettuali e, talvolta, da nobili di nascita. La nobiltà era costituita da uomini d’arme, cavalieri, i quali avevano il diritto di proteggere i loro sudditi e il diritto di riscuotere le tasse e, quando necessario, governarli. Il lavoro, per loro, era pur sempre una cosa da comuni, da volgo. Il volgo solitamente però si organizzava ed era ascoltato dai nobili che lo governavano. In fin dei conti i nobili erano coscienti degli equilibri vigenti nella società feudale o almeno, a quanto scriveva Machiavelli, lo sarebbero dovuti essere. Quando questi equilibri venivano meno ecco che nascevano rivolte, guerre, sommosse ecc.

 

Le corporazioni delle Arti Maggiori vivevano nel borgo, proprio perché era lì che facevano affari e si arricchivano. L’uso però del termine borghesia per identificare la classe dei proprietari verrà più tardi, come vedremo, si incuneerà per mezzo della Rivoluzione francese, vedi la Milice Bourgeoise, che si mette alla testa della Presa della Bastiglia[4]. Prima della Rivoluzione francese con il termine borghese si indicava meramente la comunità che abitava il borgo. È importante notare che quelli che contavano nel borgo erano quelli che possedevano qualcosa, quindi le Arti Maggiori e talvolta gli appartenenti alle Arti Minori più floride. Questo concetto di proprietà sarà fondamentale nello sviluppo dell’identità borghese nell’accezione moderna del termine. La loro virtù diventa la proprietà privata che si sono guadagnati con il lavoro, anche dei loro subalterni s’intende, al contrario dei nobili e il clero che la ottengono passivamente. 

 

La tensione tra i nobili, al comando per diritto ereditario perché presumibilmente capaci di fare la guerra quando necessario (previa riscossione tasse), il clero autorizzato riscuotere le decime o comunque in una posizione privilegiata per grazia “divina” ricevuta nel tempo, e i ricchi borghesi in grado ricoprire una posizione di rilievo per la loro ricchezza accumulata, ma troppo spesso limitati nel loro accesso al potere dalle prime due classi, la tensione quindi era alta e sfociava spesso in riaggiustamenti di potere, che con l’andare del tempo mostravano sempre di più il ruolo parassitario delle prime due classi, o Ordini, o Stati sociali. In Inghilterra già dalla fine del XVII secolo la nobiltà liberale a cui dopo si associarono anche i ricchi mercanti, in contrasto alla piccola nobiltà rurale, ovvero i conservatori, si era conquistata tale legittimità al potere con due rivoluzioni che infine portarono al Bill of Rights nel 1689, ovvero alla monarchia costituzionale. Mentre la carta, Bill, dei diritti di successione estrometteva Giacomo II dal trono inglese, questi si era rifugiato non a caso dal cugino Luigi XIV, il Re Sole, in Francia, il monarca assoluto per antonomasia. Ci volle un secolo, ma anche in Francia la situazione precipitò. Precipitò per diversi motivi: i debiti della corona, le guerre spesso perse e molto costose, la supremazia francese in Europa messa in discussione più volte e pian piano persa già a partire dal XVI secolo fino al XVIII, le conseguenti crisi economiche, la carestia e la povertà generalizzata della popolazione, la frustrazione degli aristocratici estromessi da ogni tipo di ruolo consultivo già dal 1615, la frustrazione dei borghesi impoveriti e delegittimati e dei contadini vessati dai diritti feudali e sui quali gravava il peso del resto della società francese. La Rivoluzione francese si impegnò a scrollare via un sistema antico, quello feudale, che però, tutt’altro che moribondo, a più riprese era pronto a riproporsi come il sistema socioeconomico dominante.

 

La Grande Rivoluzione e il Quarto Stato

 

La Grande Rivoluzione, ovvero la Rivoluzione francese, non iniziò come un cieco attacco alla monarchia, questo fu piuttosto la conseguenza alla cecità della monarchia stessa la quale non vide l’irreversibilità del processo di modernizzazione dello Stato innescato proprio con la convocazione degli Stati Generali nel maggio del 1789. Proprio sulla questione dei Tre Stati o Tre Ordini, ovvero quello clericale, quello nobiliare e quello della gente comune, il discorso incomincia ad avere una rilevanza socialista. Infatti, su richiesta del re, Luigi XVI, i sudditi convocati erano tenuti “tant pour Nous conseiller et Nous assister … que pour Nous faire connaître les souhaits et doléances de nos peuples”, a consigliare, assistere e far conoscere le loro lamentele. «Non fare la domanda se non vuoi sentire la risposta», verrebbe da dire a noi oggi. Ma il re sapeva che non avrebbe potuto fare altrimenti, la corda era stata tirata anche troppo. Il fatto è che i rappresentanti dei Tre Ordini, se si escludono i più filomonarchici conservatori, non avevano più la mentalità del 1615.  Insomma, avevano imparato dalle rivoluzioni inglesi e avevano letto Montesquieu, Voltaire, Rousseau, e alcuni avevano addirittura letto Gabriel Bonnot de Mably e Étienne-Gabriel Morelly, dove eguaglianza, fraternità e libertà dei popoli diventavano le virtù a cui aspirare.

    

I rappresentanti dei Tre Stati rispondono alla richiesta del re, ma alcuni mettono in discussione il concetto stesso dei Tre Stati, come l’abate Emmanuel Joseph Sieyès. Va addirittura oltre Louis Pierre Dufourny De Villiers, appartenente al Terzo Stato, il quale, ancora più appropriatamente, denuncia l’assenza da questi Tre Stati di una grossa fetta della popolazione; ovvero, dei lavoratori giornalieri, i braccianti, gli operai a cottimo, gli uomini di fatica, e poi degli infermi e degli indigenti. Dufourny De Villiers chiama questo il Quarto Stato. Ora, il parallelismo con il Quarto Stato degli inizi del ‘900 è legittimo ma forse impreciso, ma questa critica di Dufourny De Villiers va oltre la polemica per la quale il Terzo Stato sfida la monarchia per ottenere più legittimazione e quindi potere decisionale. Dufourny De Villiers mette in discussione il fatto che il Terzo Stato rappresenti il resto della popolazione in toto, e quindi che vi sia una larga fetta della popolazione francese, la più povera e bisognosa, a non essere rappresentata nemmeno in modo minoritario dal Terzo Stato. Sarebbe stata un’ipocrisia pensare altrimenti.

 

La polemica di Dufourny De Villiers inquadra bene il problema. Chi è il Terzo Stato? Il Terzo Stato veste di nero, il classico colore della borghesia, ed è diviso in due, quelli con le culottes (pantaloni a mezza gamba alla cavallerizza) e quelli sans culottes (ovvero con i pantaloni ordinari da lavoro); ma, secondo Dufourny De Villiers, mancano quelli vestiti di haillons (stracci). Questi sono in parte il popolino straccione, cioè il lumpenproletariat, il prolétariat en haillons, che, come noteranno Marx ed Engels nel Manifesto, avrà una funzione controrivoluzionaria; ma in parte sono anche gli operai non specializzati, i braccianti[5]. Ci viene già il sospetto che la vera maggioranza della popolazione, ovvero i contadini e i lavoratori a giornata, i vecchi e i poveri non farà parte della riorganizzazione del potere francese. Dufourny De Villiers non ha per nulla torto. Vedremo più in là come queste idee di disuguaglianza sociale, chiamiamola anche “ingiustizia sociale”, nel contesto del riassetto politico ed economico effettuato dal Terzo Stato, saranno ben presenti prima, durante, e ovviamente, dopo la Rivoluzione francese, sfociando nel pensiero socialista.

 

La Milice Bourgeoise

 

Come notato da Dufourny De Villiers, il Terzo Stato è diviso in due macro-gruppi. Ma quale era l’estrazione sociale dei sans-culottes? Questi sono mastri artigiani, operai specializzati, bottegai, garzoni di bottega, ovvero la piccola borghesia cittadina e, in alcuni casi, accolgono personalità appartenenti alla media borghesia[6]. Tornando alla Milice Bourgeoise, questa in passato connotava la milizia cittadina che fungeva da forza dell’ordine in caso di agitazioni, evitando spesso l’intervento dell’esercito reale[7]. Questa non aveva alcuna connotazione di classe. Però nell’estate del 1789 accadde qualcosa di atipico. Alla luce dei disordini della Sommossa Reveillon, Nicolas de Bonneville, giornalista rappresentate del Terzo Stato, chiese il ripristino della Milice Bourgeoise, anche chiamata Garde Bourgeoise, all’Assemblea degli Elettori. Si noti che erano anni che questa non si costituiva. Per smuovere le cose, lo stesso fece qualche giorno più tardi il celeberrimo Conte di Mirabeau, che aggiunse la richiesta del ritiro delle truppe regie, che intanto si stavano radunando attorno a Parigi. Bonneville fece un secondo appello il 10 di luglio. Ora, era ovvio che le truppe regie non si stavano radunando per caso attorno a Parigi, e che il re non sarebbe stato così stupido da dare il permesso di organizzare militarmente la propria opposizione. L’Assemblea degli Elettori, però, approvò la proposta l’11 luglio, permettendo la costituzione della Milice Bourgeoise che fu dettagliatamente regolata. Questa doveva essere costituita esclusivamente dai votanti del Terzo Stato, “in possesso di almeno 6 lire necessarie per partecipare alle elezioni degli Stati Generali”, mandando “il borghese o figlio del borghese più raccomandabile per le sue abilità e modi ad infoltire i regimenti”. Come osserva Micah Alpaugh “LeMilices Bourgeoises’, nonostante in apparenza organizzazioni sempre più arcaiche nella prima metà del diciottesimo secolo, divennero nuovamente pertinenti nel 1789”. Queste milizie escludevano accuratamente la nobiltà, diversamente da quanto era successo in precedenza, ma, come dettagliatamente ricostruito da Micah Alpaugh, non a tutti i parigini era permesso farne parte. La milizia doveva essere composta di borghesi, ed erano borghesi quelli che avevano proprietà da difendere. Ciò non toglie che i borghesi della Milice erano consapevoli di dover utilizzare l’aiuto degli strati più poveri e della polizia di Parigi, il Guet Royal. Micah Alpaugh conclude che l’esclusività sociale della Milice Bourgeoise prima, e della Garde nationale poi, riservate ai cittadini proprietari, fu un punto di forza nella presa del potere nel luglio del 1789 [8].

 

Non si può però certo pensare che questa fosse una partita giocata esclusivamente tra Versailles e Parigi. Il sistema feudale doveva essere abbattuto anche nelle campagne. Il ruolo che i contadini ebbero è però più controverso. Come nota Pasquale Villani, la Rivoluzione francese nelle campagne era stata antifeudale, contro un regime feudale non pronto a cadere automaticamente come mera facciata minata alla base dallo sviluppo capitalista. Ciò non toglie che si può discutere se la rivoluzione nelle campagne abbia poi favorito i grandi proprietari terrieri o lo sviluppo di aziende agricole industriali [9]. Ad ogni modo, la Grande Rivoluzione determinò delle riforme strutturali del sistema socioeconomico e l’affermarsi (o il consolidarsi) di fatti e idee che saranno la matrice del movimento socialista.

 

Eziologia del Socialismo

 

In Storia del socialismo 1789-1848, Gian Mario Bravo ha esaustivamente illustrato il percorso compiuto dalla Grande Rivoluzione Francese alla Primavera dei Popoli che ha forgiato man mano il pensiero socialista moderno. Una delle cose più utili che Bravo fa è quella di andare ad indagare il concetto e la parola socialismo nel passato notando che se il concetto può essere ricondotto all’antichità, la parola socialismo ha invece una connotazione molto più recente. La parola “socialismo”, nel significato di società che gestisce i capitali in comune, arriva dall’Inghilterra, all’interno del circolo degli oweniti ortodossi a partire dal 1826. Negli anni ‘30 il termine “socialista” viene usato frequentemente sempre nel circolo degli oweniti [10]. Il termine viene quindi introdotto in Francia dai sansimoniani, e precisamente da un articolo di H. X. Joncières su Le Globe, nel 1832, in una recensione di Les Feuilles d’automne di Victor Hugo, Joncières lo usa in opposizione alla parola personnalité (personalità) intesa come individualismo [11].  Lorenz von Stein da Parigi esporta il termine in Germania nel 1842 [12]. È interessante come Gian Mario Bravo metta in serie a quella di “socialista” anche l’etiologia della parola “comunismo”, impedendo a monte molte polemiche sterili, frutto principalmente dell’analisi post-leniniana. La parola “comunismo” ha origine in Francia negli anni ’30 del XIX secolo.  Molto probabilmente si deve al libro e ai pensieri di Filippo Buonarroti, come vedremo in seguito. Sempre von Stein la portò in Germania. Ben presto i due termini si confusero tra loro. Ad ogni modo nella prefazione all’edizione tedesca del 1890 del Manifesto, Engels precisa “non l’avremmo potuto chiamare Manifesto socialista. Nel 1847 con la parola ‘socialisti’ si intendevano […] i seguaci dei vari sistemi utopistici […]. Invece, quella parte degli operai che, convinta dell’insufficienza d’una rivoluzione puramente politica, esigeva una trasformazione a fondo della società, quella parte di operai si dava allora il nome comunista[13].

 

Il fatto che le parole “socialismo” e “comunismo” siano emerse negli anni ‘30 del XIX secolo non è un caso. Come abbiamo appena visto la bourgeoisie parigina come classe politica ed economica diventa cosciente di sé all’interno del Terzo Stato, proprio durante lo scontro, anche fisico, con la monarchia e con tutto l’apparato feudale. Questa borghesia militante si organizza proprio come si organizzava all’interno degli Stati Generali. Dal punto di vista ideologico il re riceve una risposta alla sua domanda di aiuto nell’aggiustare i guai del regno con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, approvata il 26 agosto del 1789 dall’Assemblea costituente a Versailles, poco più di un mese dalla Presa della Bastiglia. Il re deve accettarla forzatamente in ottobre. Nella Dichiarazione si sottolinea che “quella ignoranza, dimenticanza, e non curanza dei diritti umani sono le uniche cause delle sfortune pubbliche e della corruzione dei governi”. La Dichiarazione è un esplicito documento illuminista e basato sulla Legge Naturale, ma la cosa che più ci interessa in questo ambito è che il Comitato dell’Assemblea che stilò la Dichiarazioneincludeva voci che confrontavano le ingiustizie economiche del Vecchio Ordine e anticipavano la teoria socialista[14]. Vero è che Marx, nel suo Sulla Questione Ebraica, criticherà la distinzione tra uomo e cittadino, “i così detti diritti del uomo […] altro non sono che i diritti del membro della società civile, e quindi, i diritti dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’altro uomo e dalla comunità”. In particolare, nella versione giacobina della Dichiarazione dei diritti del 1793, Marx vede la dichiarazione dei diritti del borghese che si considera “essenziale” e il “vero uomo” [15]. Come scrive Stephen Marks “l’idea di emancipazione umana prese una direzione patologica nel Regno del Terrore durante la rivoluzione francese”, ma a prescindere da questo vi sono dei concetti salienti nella Dichiarazione robespierriana che saranno centrali nei vari movimenti rivoluzionari socialisti o comunisti dell’800. Uno fu il tema della proprietà e l’altro quello della fratellanza universale [16]. Weatherly osserva che le guerre estere e le insurrezioni domestiche avevano impedito ai leader giacobini di lavorare sulla dottrina sociale, ma è consentito credere, sempre secondo Weatherly, che se lasciati al comando Robespierre e Saint-Just avrebbero promosso le loro dottrine del controllo sociale della proprietà [17].  I reazionari termidoriani, eliminati i giacobini, quindi mettono un vincolo sulla proprietà privata: “Questa è sacra e protetta dalla autorità della legge come ogni altro diritto del cittadino!” [18]. 

 

 

François-Noël Babeuf

 

François-Noël Babeuf, soprannominato Gracco, è una figura di transizione fondamentale. È un uomo della Grande Rivoluzione, ma è anche uno degli ispiratori del movimento comunista rivoluzionario della prima metà del XIX secolo. Babeuf partecipa attivamente alla Grande Rivoluzione: ha 29 anni quando scoppia. Nonostante che il suo lavoro di feudiste, ovvero contabile del catasto che si occupa del sistema di riscossione ai contadini per conto dei signori, venga spazzato via dalla rivoluzione egli è per la rivoluzione. Babeuf non è povero ma neanche benestante e la sua famiglia deve vivere del minimo indispensabile. Babeuf anche prima dello scoppio della rivoluzione è per una società equa. Le idee di Babeuf si erano formate come molti a quell’epoca sui grandi illuministi, tra i quali anche Mably e Morelly, ma furono pure frutto della pratica quotidiana di espropriazione che vedeva con il suo lavoro di gabelliere. Già nel 1787 parla di “eguaglianza perfetta tra gli individui, e la terra posseduta da nessuno, ma da tutti in comune” [19]. C’è da dire che in quel periodo il suo pensiero rimase piuttosto confinato. Durante i primi anni della Grande Rivoluzione lavorò attivamente nelle istituzioni rivoluzionarie e le sue idee divennero pubbliche. Pubblicò nel 1789 il Cadastre perpétuel (Catasto perpetuo) assieme a M. Audiffred, atto a semplificare il lavoro di catalogazione dei fondi, iniziato invero due anni prima della rivoluzione. Nel Discours préliminaire del Cadastre, aggiunto nell’estate del 1789, Babeuf scrive di indicare i mezzi capaci di superare le “disuguaglianze di distribuzione che le forme note fino ad allora non avevano potuto evitare”. Babeuf scrive anche chiaramente che “Dans l’état naturel, tous les hommes sont égaux”, ovvero, allo stato naturale, tutti sono uguali. Questo è inopinabile, scrive. Parole molto vicine alla Dichiarazione del 1789, dove “gli uomini nascono e rimangono liberi e eguali nei diritti”, ma anche molto lontane quando la Dichiarazione aggiunge che “le distinzioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune”. L’idea di Babeuf è molto più vicina alla Dichiarazione robespierriana del 1793, che al contrario di quella del 1789 è puramente repubblicana, e non deve giustificare le differenze dettate da una monarchia seppur costituzionale. Babeuf quindi specifica che a coloro i quali, per giustificare l’estrema disuguaglianza, dicono che allo stato selvaggio non tutti godono in egual modo dei frutti della natura perché son diversi in grado di intelligenza, creatività, industriosità, e forza, sarebbe opportuno chiedere “se il patto sociale fosse veritieramente basato sulla ragione”, non dovrebbe questo “far svanire quello che le leggi naturali hanno di difettoso e d’ingiusto?”  Babeuf fu il primo a sollevare apertamente la questione della legge agraria. Per lui la soluzione era chiara: dare i 66 milioni di arpents (arpenti, ovvero 22.5 milioni di ettari) ai 6 milioni di famiglie equamente, risultando così 11 arpents (ovvero 3.8 ettari pari a 38 mila m2) in media per famiglia, che sarebbe stato più che adeguato a una vita decente sebbene frugale [20]. 

 

La tematica riportata da Babeuf pubblicamente all’inizio della rivoluzione sulla eguaglianza nella distribuzione delle terre non era un tema nuovo. I concetti di proprietà e di legge agraria i francesi acculturati della generazione della Grande Rivoluzione, come quelli della generazione prima, ovvero i philosophes, li acquisivano sui testi di storia dell’antica Grecia e dell’antica Roma di Tito Livio e Plutarco. Qui vi erano due esempi dove la terra veniva distribuita in modo equo e con un tetto al possesso: quello di Tiberio Gracco e quello di Sparta. Ora è semplice capire perché Babeuf fu soprannominato Gracco. Montesquieu guardò a questi due esempi in modo molto positivo e si espresse contro la difesa della proprietà privata da parte di Cicerone. Rousseau andò oltre e abbozzò il “Projet de constitution pour la Corse”, stabilendo l’equità della proprietà e fissando un limite massimo alla proprietà, proprio come nei testi antichi, ma quest’opera rimase sconosciuta. Lo spirito di questo progetto fu catturato però nel suo “Du contrat social”. L’abate Malby dedicò molte opere al tema: egli collegava il declino dell’eguaglianza alla rovina della Repubblica romana, spingendo quindi per una riforma agraria in Francia.  Richard Rose mostra come i rivoluzionari francesi conoscessero bene questo tema [21].  Con lo scoppio della rivoluzione il problema della legge agraria divenne quindi centrale. Nelle campagne, infatti, una volta rimossi i vincoli feudali i contadini non vedevano ragione di conservare le grandi disparità. Diversi progetti di legge agraria furono presentati agli Stati Generali, ma la legge agraria non fu mai dibattuta dall’Assemblea costituente [22]. 

 

Le divergenze tra le idee egalitarie di Babeuf e l’Assemblea Nazionale gli costarono però l’arresto, rimase in carcere per due mesi ma fu liberato grazie alle vive proteste di Jean-Paul Marat. Questo già denota come Babeuf anche nel 1789 non fosse una voce così isolata, o troppo secondaria. Uscito dal carcere iniziò a pubblicare Le Correspondant picard, dal quale cercava di aizzare i poveri contro la loro esclusione dalle funzioni politiche e quindi li invitava a boicottare il servizio militare. Fu arrestato nuovamente e rilasciato poco dopo. Intanto l’abate Claude Fauchet riportò alla ribalta il tema della legge agraria, commentando il “Du contrat social” al Cercle Social. Nel gennaio del 1791 Jean Jacques Rutledge propose di affrontare il tema della legge agraria in virtù del fatto che erano state sequestrate le terre alla Chiesa e propose di ridistribuirle equamente, ma il club dei giacobini lo zittì perentoriamente. Nel febbraio del 1791 Sylvain Maréchal, futuro babuvista, pubblicò un articolo anonimo che pretendeva la proclamazione della legge agraria. A questo segui “De la propriété, ou La cause du pauvre” dell’abate Antonie de Cournand, dove si proponeva l’abolizione dell’eredità lasciando la proprietà di fatto allo Stato. Il massacro del Campo di Marte[23] del 17 luglio 1791 pose fine ai sogni di legge agraria [24]. 

 

Babeuf non soddisfatto del taglio borghese della Costituzione del 1791, suggerì modifiche più sociali: per lui la rivoluzione doveva portare a “eguaglianza senza illusioni”. Nel settembre 1792 Babeuf fu eletto nell’amministrazione locale della Somme. Nelle sue funzioni di amministratore fu accusato da grandi proprietari locali di frode, per negligenza aveva scambiato due nomi in un documento, fu sospeso e scappò a Parigi, ma fu poi condannato a due anni di carcere. Il suo caso fu portato davanti alla Corte Suprema che gli accreditò il diritto al riesame e fu quindi prosciolto dalle accuse di frode. Nel novembre del 1792 l’Assembla elettiva del dipartimento di Seine-et-Oise sottopose una petizione secondo cui nessuno avrebbe dovuto essere legittimato a possedere più di 102 arpents. Nel gennaio del 1793 tocca al pastore protestante Rabaut Saint-Etienne, girondino, a domandare una legge agraria. Bertrand Barère il 13 marzo 1793 alla Convenzione nazionale francese fa votare la pena di morte per chi dovesse predicare la legge agraria, ma allo stesso tempo fa passare la legge di tassazione progressiva.  Questo sembrava il compromesso ideale per i giacobini in modo da non seguire la chimera della legge agraria ma colpire i ricchi [25].

 

Un mese dopo il 9 termidoro dell’anno II, ovvero il 27 luglio 1794, quando Maximilien Robespierre e Louis Antoine Saint-Just furono arrestati e decapitati, Babeuf tornò a Parigi e si mise in contatto con quello che era rimasto degli hébertisti, ovvero la frangia estrema dei sans-culottes, detti anche gli esagerati, e gli enragés, ovvero gli arrabbiati. Qui fondò il “Journal de la Liberté de la presse”, incominciò a difendere la causa della libertà di stampa. Da un lato Babeuf si espresse contro il Terrore di Robespierre ma dall’altro espresse sempre la sua più grande ammirazione per la Dichiarazione dei Diritti del 1793. Il “Journal de la Liberté de la presse” cambiò nome in “Le Tribun du Peuple”, dove il motto era “Il fine della società è la felicità comune”. Il Club Elettorale del quale si trovò alla guida incominciò a fare pressioni sulla Convenzione termidoriana accusata di non fare gli interessi del popolo. Quindi già nel novembre del 1794 fu arrestato per pochi giorni.  A questo punto Babeuf capì che l’aver favorito la cacciata di Robespierre aveva aperto la porta al regno dei signori. Babeuf propose quindi un’insurrezione pacifica per mezzo di una petizione dei francesi ai loro rappresentanti. La Convenzione quindi lo arrestò nuovamente il 10 febbraio del 1795. Intanto il 20 maggio vi fu un’ultima insurrezione popolare a Parigi. Il giorno prima venne pubblicato l’opuscolo “Insurrezione del Popolo, per ottenere il pane e la riconquista dei suoi Diritti”. Vennero organizzati dei Comitati rivoluzionari e la massa si mosse così repentinamente che gli ufficiali delle forze armate non ebbero il tempo di organizzarsi. I disordini andarono avanti tutta la notte e il giorno dopo il Comitato di Sicurezza Generale si rilassò pensando fossero finiti. Alle 8 del mattino i Comitati rivoluzionari si organizzarono per un’azione più seria. Verso le 10 del mattino suonò l’allarme generale, quindi alle 5 una folla immensa si riunì ne sobborghi di Saint-Antoine e Saint-Marcel: era chiaro che questa era una cospirazione organizzata da tempo dai giacobini e dai montagnardi usando il pretesto della penuria. Questa probabilmente era la risposta alla persecuzione ai giacobini avvenuta dopo la caduta di Robespierre. La folla con in testa le donne riuscì ad entrare nella Convenzione, al grido di “Pane! Pane!”. Intimoriti dal brutale assassinio di Jean-Bertrand Féraud, linciato dalla folla, “i deputati di destra inondarono i manifestanti di promesse e decisioni vuote”, pur di chetare i rivoltosi. Senza un leader gli insorti però non riuscirono a capitalizzare la vittoria dando tempo alle truppe ancora lige alla Convenzione termidoriana di organizzarsi e, al grido di “Abbasso i giacobini!”, di espellere gli insorti dalla stanza della Convenzione [26].

Alcuni attribuiscono delle responsabilità alla propaganda di Babeuf per questa insurrezione, il quale però era in carcere, dove riesce a riunire attorno a sé un numero di prigionieri politici, come Charles Germain. Tre giorni prima che i monarchici provassero a fare il colpo di Stato, Babeuf e Germain furono trasferiti a Parigi dove incontrarono Filippo Buonarroti. Nella speranza di raccogliere quante più forze potevano contro i monarchici, i termidoriani amnistiarono prigionieri politici repubblicani come Babeuf a fine ottobre 1795. Charles Germain incominciò a frequentare il club du Panthéon, dove spesso Babeuf parlava e dove si andava formando una enorme affluenza, e un gruppo chiamato la Société Politique pour le Triomphe de l’Égalité. Babeuf riprese subito a stampare la “Le Tribun du Peuple” dal quale iniziò a chiedere alle masse di continuare quello che la rivoluzione aveva iniziato, ovvero, la lotta dei poveri contro i ricchi. Sempre su “Le Tribun du Peuple” pubblica in novembre “Il Manifesto dei plebei” [27]. Babeuf scrive esplicitamente contro la proprietà privata come la principale calamità che affligge la società, ma anche per la restaurazione della Costituzione del 1793 [28]. In questo periodo Babeuf viene visto da molti come il continuatore del discorso iniziato da Marat, Robespierre e Hébert, ovvero un discorso repubblicano di sinistra. Tra gli iscritti a “Le Tribun du Peuple”, secondo Raymonde Monnier, se ne contano 110 nelle 48 sezioni parigine, di questi 39 erano ex-commissari rivoluzionari, 12 erano ex-commissari civili. Un commissario rivoluzionario su 20 era iscritto a “Le Tribun du Peuple” [29]. Secondo la Société des Études Robespierristes gli abbonati a “Le Tribun du Peuple” erano invece 590, cifra considerevole se si pensa al costo del giornale e al livello di alfabetizzazione dell’epoca, il 60% dei quali residenti a Parigi, ossia più di 350 e quindi più della stima di Monnier, i rimanenti sparsi per il resto della Francia. Sempre la Société des Études Robespierristes fa notare che l’elemento proletario tra i lettori de “Le Tribun du Peuple” era assente, la maggior parte degli abbonati erano “la spina dorsale della ‘sans-culotterie’ parigina”, ovvero artigiani e bottegai [30].

 

Fra gli iscritti e i militanti vi sono tre ex-giudici di pace, Mathurin Bouin, Charles Louis Mathias Hû e Jean-Jacques Pierron, otto ex-ufficiali della Guardia Nazionale, come Jean-Baptiste-Antoine Lefranc, Pierre Fontaine e Jean Etienne Reaume, ex-ufficiali dell‘esercito rivoluzionario come Berton e Julien Buard, vecchi leader delle societes populaires come Guillaume Auberger, Jean Baptiste Baudrais, A. Edmé Massé e C. Joseph Camelin [31]. Vi erano poi Maurice Duplay, ebanista, amico di Robespierre, e ancora membri degli enragés come Bertrand e Fillon e membri degli hébertisti come Jean Antoine Rossignol e Bodson, orafo [32]. Al centro di quella che poi diventò la Cospirazione degli Eguali, oltre a Babuef vi erano giacobini di prestigio come Félix Lepeletier de Saint-Fargeau, l’ex presidente del club dei giacobini Pierre-Antoine Antonelle e Augustin Alexandre Darthé robespierriano; poi vi erano i più egalitari Sylvain Maréchal, il quale scriverà nel 1797 il Manifesto degli Eguali, Robert-François Debon, il quale attaccava la proprietà privata e faceva parte del cosiddetto Comité Amar (Comitato di Amar), e il pisano Filippo Buonarroti, ormai naturalizzato Philippe, il quare era un buon connubio tra idee giacobine e egalitarie. Il vertice della Cospirazione si sviluppò in due momenti: il primo avviene tra il novembre 1795 e l’aprile 1796, brumaie-germinal an IV, e comprendeva Babeuf, Antonelle, Lepeletier e Maréchal. Il secondo composto da Darthé, Buonarroti e Debon, presenti nelle conferenze di novembre 1795 e agli incontri in casa Bouin (da dove emergerà il primo germe della Società del Pantheon), verrà costituito solo dopo la dissoluzione del Comité Amar [33]. La Cospirazione degli Eguali fu organizzata nella primavera del 1796 nei quartieri parigini. Gli undici ufficiali distrettuali conosciuti erano tutti ex-attivisti delle sezioni che avevano giocato un ruolo importante nell’anno II, quindi durante il predominio giacobino di Robespierre, ovvero tra 1793 e 1794. In tutto la congiura poteva contare su poco più di un centinaio di persone [34].

 

Ovviamente il Direttorio emanò l’ennesimo mandato di cattura nei suoi confronti e i complottisti furono arrestati il 10 maggio 1796 [35]. Il Direttorio dichiarò di aver scoperto un complotto atto a ristabilire il Terrore giacobino. Scrive James Harkins: “la storia della Cospirazione appartiene più che al processo pubblico dell’anno seguente al forum pubblico che questo ha prodotto. Questo forum, con i suoi giornali, i rapporti pubblici, la documentazione del processo, assieme alla storia della Cospirazione, pubblicata anni dopo nel 1830 da Philippe Buonarroti, elevò Babeuf e il suo programma rivoluzionario irrealistico del 1796-1797 da un episodio minore della Rivoluzione francese, a principale precursore del socialismo europeo così come si è sviluppato nel diciannovesimo secolo[36]. Harkins ha probabilmente ragione sulla strumentalizzazione fatta a posteriori del ruolo giocato dal programma rivoluzionario per lo sviluppo del socialismo europeo, ma è evidente che il gruppo che si era formato attorno a “Le Tribun du Peuple” e il club Amar e la club du Panthéon, quest’ultimo fatto dissolvere dal Direttorio nel febbraio del 1796 manu militari dal Generale Bonaparte, e se si tiene conto anche dell’Affaire du camp de Grenelle, ovvero il tentativo del 9 e 10 settembre del 1796 da parte di giacobini e babuvisti di sollevare la guarnigione di Grenelle contro il Direttorio  (che invece, già informato da una spia, li massacra e fucila senza processo), è chiaro che il rischio per il Direttorio fu concreto e non minimo.  

 

Dopo Babeuf

 

Con o senza rivoluzione le idee socialiste cominciarono a circolare in Inghilterra, Germania, oltre che in Francia, ed è chiaro che non furono legate solo all’egalitarismo agrario rivoluzionario di Babeuf. Come abbiamo visto, i suoi simpatizzanti e co-cospiratori furono principalmente della media borghesia, artigiani e bottegai e giacobini interessati a ristabilire la Costituzione del 1793. Ad ogni modo è innegabile che il babuvismo ebbe una grande influenza sul comunismo critico (o socialismo scientifico) che Marx ed Engels andarono a sviluppare e a chiarire negli anni immediatamente precedenti il 1848. Come al solito tutto questo viene riassunto bene da Marx nella “Sacra Famiglia”:

 

“Ciò che risulta incontestato da questo esame è che la Rivoluzione francese ha suscitato idee che hanno condotto al di là delle idee dell’intero vecchio ordine mondiale. Il movimento rivoluzionario, che cominciò nel ‘Cercle social’ nel 1789, che nel mezzo del suo cammino ebbe per rappresentanti principali Leclerc e Roux[37], e che con la congiura di Babeuf fu temporaneamente sconfitto, aveva suscitato l’idea comunistica che Buonarroti, amico di Babeuf, tornò ad introdurre in Francia, dopo la rivoluzione del 1830. Questa idea, elaborata in maniera conseguente, è l'idea del nuovo ordine mondiale.” [38]

 

Accanto all’idea di un nuovo ordine mondiale Babuef scrive sulla Le Tribun du Peuple che “nulla di grande o degno per la gente sarà mai fatto eccetto che grazie alla gente stessa[39], anticipando così il concetto che la “emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera della classe lavoratrice stessa” [40]. E ancora, l’individuare nella proprietà privata, anche se in modo naïve o “rozzo” come direbbe Marx, il male originario della società, fa parte del bagaglio di influenza consegnato da Babeuf anche al comunismo critico. Come si legge nel “Manifesto degli Eguali”:ci si accontenta con un Sole comune e con la stessa aria per tutti; perché le stesse porzioni e quantità di cibo non possono essere sufficienti per ognuno secondo la propria volontà [?]” [41]. L’oggettivazione economica di ciò in termini maturi, ovvero la connotazione della proprietà in quella dei mezzi di produzione e nell’espropriazione di valore da parte del padrone, utilizzando le basi della teoria del valore-lavoro di Ricardo, costeranno a Marx anni di analisi e perfezionamento.   

 

Marx ha ragione nel dire che il co-cospiratore Buonarroti aveva reintrodotto Babeuf nel discorso politico, infatti dopo essere tornato dall’esilio, Buonarroti si attorniò di rivoluzionari e pubblicò la “Conspiration pour l’égalité dite de Babeuf” nel 1828. Questo libro si diffuse rapidamente in Francia, in Germania e in Inghilterra. Giustamente osserva Samuel Bernstein, Marx conobbe Babeuf tramite la Conspiration di Buonarroti ricevendo quindi un’incompleta valutazione del babuvismo. Marx apprezzò i babuvisti come “vigorosi paladini della causa proletaria” e constatò come questi avevano “imparato dalla storia che con la rimozione della questione sociale di ‘monarchia contro repubblica’, non una singola questione sociale sarebbe stata risolta per il proletariato”, ma allo stesso tempo li vedeva come “rozzi materialisti incivili”. Marx valutò che dati gli inesistenti prerequisiti materiali per una lotta di classe al tempo della Grande Rivoluzione, la letteratura rivoluzionaria connessa ai movimenti rivoluzionarie babuvisti non poteva che essere “per forza reazionaria”, predicando un “ascetismo universale” e un “rozzo egalitarismo”[42]. Il babuvismo, soprattutto la sua componente cospirativa, influenzò molto anche il cospirazionismo rivoluzionario di Auguste Blanqui, il quale, a sua volta, avrà un grande ascendente su diversi rivoluzionari avanguardisti.  Secondo alcuni il concetto di dittatura del proletariato di Blanqui, e quindi quello di dittatura della classe lavoratrice di Marx ed Engels, derivano dal babuvismo.  

 

Marx sottolinea che “La storia vera della rivoluzione francese, che data dal 1789 in poi, non è neppure compiuta con l'anno 1830, in cui uno dei suoi momenti, ora arricchito dalla coscienza della sua importanza sociale, ne riportò la vittoria.”[43] Infatti si può sostenere che questa continuò con quella del 1848, che per dirla con Engels andò oltre: “L'indirizzo, redatto da Marx e da me, presenta ancor oggi un interesse, perché la democrazia piccolo-borghese è tuttora il partito che nel prossimo sconvolgimento europeo che dovrà prodursi fra poco (il periodo di scadenza delle rivoluzioni europee, 1815, 1830, 1848-52, 1870 va nel nostro secolo dai 15 ai 18 anni), dovrà certamente, in un primo tempo, andar al potere in Germania per salvare la società dagli operai comunisti. Perciò, parecchie delle cose ivi dette valgono ancor oggi”[44]. Come sappiamo ci furono la Prima e la Seconda Guerra Mondiale a salvare la Germania dai comunisti. Senza addentraci ora nel discorso della rivoluzione e contro-rivoluzione tedesca del 1918-19, sta di fatto che nel XX secolo l’ultimo grande sistema feudale fu abbattuto dalla rivoluzione di febbraio in Russia e con il colpo di stato di ottobre sembrò che i giacobini di sinistra fossero tornati in vita.





 

 

 

 

 

 

 



[1] Ricossa, S. e Cavalli A., Capitalismo, Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani (1991).

[2] Cipolla, C. M., Saggi di storia economica e sociale (1988).

[3] Giovenale, D. G., Satire: Satira VIII, versetto 20o (100-127 dC circa).

[4] Alpaugh, M., A Self-Defining "Bourgeoisie" in the Early French Revolution: The "Milice Bourgeoise", the Bastille Days of 1789, and Their Aftermath, Journal of Social History, Vol. 47, No. 3, pp. 696-720 (2014).

[5] Grenot, M., Chapitre III, «L’ordre sacré des infortunés» in: Le souci des plus pauvres: Dufourny, la Révolution française et la démocratie [online]. Rennes: Presses universitaires de Rennes (2014).

[6] Colin, J., The Overthrow of Maximilien Robespierre and the “Indifference” of the People, The American Historical Review, Vol. 119, No. 3, pp. xxiv, 689-713 (2014).

[7] Alpaugh, M., op. cit.

[8] Alpaugh, M., op. cit.

[9] Villani, P., Signoria rurale, feudalità, capitalismo nelle campagne, Quaderni storici, Vol. 7, No. 19, pp. 5-26 (1972).

[10] Bravo, G. M., Storia del socialismo 1789-1848, Editori Riuniti (2014).

[11] Grünberg, C., L'origine des mots ‘socialisme’ et ‘socialiste’, Revue d'histoire des doctrines économiques et sociales, Vol. 2, pp. 289-308 (1909).

[12] Bravo, G. M., op. cit.

[13] Ibidem.

[14] Marks, S. P., From the "Single Confused Page" to the "Decalogue for Six Billion Persons": The Roots of the Universal Declaration of Human Rights in the French Revolution, Human Rights Quarterly, Vol. 20, No. 3, pp. 459-514 (1998).

[15] Marx K., Sulla Questione Ebraica. Dagli Annali franco-tedeschi (1844).

[16] Bravo, G. M., op. cit.

[17] Weatherly, U. G., Babeuf's Place in the History of Socialism, Publications of the American Economic Association 3rd Series, Vol. 8, No. 1, Papers and Proceedings of the Nineteenth Annual Meeting, Providence, R. I., December 26-28, 1906; pp. 113-124 (1907).

[18] Buchez et Roux, XXXVI, 128, Ottobre, 1794, citato in Weatherly, U. G. op. cit.

[19] Lettera di Babeuf a Ferdinand Dubois de Fosseux, 8 giugno (1787).

[20] Rose, R. B., The "Red Scare" of the 1790s: The French Revolution and the "Agrarian Law". Past & Present No. 103, pp. 113-130 (1984).

[21] Rose, R. B., op cit.

[22] Ibidem.

[23] Il 20 giugno del 1791 il re scappa con la famiglia verso i Paesi Bassi Austriaci, oggi Belgio, per rifugiarsi presso la monarchia asburgica, la casata originaria di Maria Antonietta, ma vengono intercettati a tre chilometri dalla frontiera e riportati a Parigi. La Fayette responsabile della loro custodia assume un atteggiamento ambiguo. Quando il mese dopo viene deciso che Luigi XVI sarebbe rimasto re di Francia sotto una monarchia costituzionale, iniziarono i disordini che furono repressi nel sangue proprio dalla Guardia Nazionale comandata da La Fayette. Tramontarono le speranze di una monarchia costituzionale e si aprirono le porte ai giacobini repubblicani.    

[24] Rose, R. B., op. cit.

[25] Ibidem.

[26] Slavin, M., L'épuration de prairial an III dans la section des Droits de l'homme, Annales historiques de la Révolution française 50e Année, No. 232, pp. 283-304 (1978).

[27] Bernstein, S., Babeuf and Babouvism, Science & Society, Vol. 2, No. 1, pp. 29-57 (1937).

[28] Weatherly, U. G., op. cit.

[29] Monnier, R., De l'an III à l'an IX, les derniers sans-culottes : Résistance et répression à Paris sous le Directoire et au début du Consulat. Annales historiques de la Révolution française, 56e Année, No. 257, pp. 386-406 (1984).

[30] Babeuf (1760-1797) & Buonarroti (1761-1837). Pour le deuxième centenaire de leur naissance, Société des Études Robespierristes (1961).

[31] Monnier, R., op. cit.

[32] Bernstein, S., op. cit.

[33] Saitta, A., Autour de la Conjuration de Babeuf. Discussion sur le communisme (1796), Annales historiques de la Révolution française, 32e Année, No. 162, bicentenaire de la naissance de Babeuf (1760-1797), pp. 426-435 (1960).

[34] Monnier, R., op. cit.

[35] Bernstein, S., Babeuf and Babouvism. Science & Society. Vol. 2, No. 1 pp. 29-57. (1937).

[36] Harkins, J., The Socialism of Gracchus Babeuf on the Eve of the French Revolution. Science & Society Vol. 54, No. 4. pp. 427-441. (1991).

[37] Théophile Leclerc e Jacques Roux furono due esponenti dei sans-culottes radicali, gli enragés (ovvero gli “arrabbiati”).

[38] Engels, F. e Marx, K., La Sacra famiglia, ossia Critica della critica critica contro Bruno Bauer e consorti (1844).

[39] Bernstein, op. cit.

[40]  Marx, K., Gli Statuti provvisori della Associazione internazionale dei lavoratori (1864). 

[41] Manifesto degli Eguali di Sylvain Maréchal 1797 citato da Weatherly, U. G., op. cit.

[42] Bernstein, S., op. cit.

[43] Engels, F. e Marx, K., op. cit.

[44] Engels, F. Per la storia della Lega dei Comunisti, prefazione alle Rivelazioni sul processo dei Comunisti di Colonia (1885).

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